Di Lionello Mancini
di Lionello Mancini
Il ministro dell’Interno non rinuncia al vezzo dell’esternazione e delle decisioni a effetto. Trattando di sicurezza e legalità, mafie e corruzione, conviene tornarci su. Il 13 gennaio, non appena annunciato l’«Expo mafia free», Alfano ha dovuto aggiungere che «lo Stato è più forte dell’antistato» e «noi siamo una squadra forte e unita che si chiama Italia, si chiama Stato, si chiama Milano».
Il 9 marzo, durante un’intervista su Sky, ha invece commentato a caldo l’uccisione di tre bambine a Lecco, scandendo: «Inseguiremo l’assassino fino a che non l’avremo preso. L’Italia gli deve dare la caccia e lo deve trovare. Noi ci riusciremo!». Purtroppo a uccidere era stata una madre impazzita di dolore. E una settimana fa, dopo l’agguato sanguinoso a Taranto costato la vita anche a un bimbo di tre anni, Angelino Alfano ha inviato 60 tra poliziotti e carabinieri e convocato sul tamburo in prefettura il Comitato nazionale per l’ordine e la sicurezza, con i vertici delle forze dell’ordine, i procuratori di Taranto e Lecce, il Procuratore distrettuale Antimafia. Tutto al volo, tutto declamato a microfoni e telecamere.
Va detto che il titolare del Viminale difende il solco tracciato dal premier, che voleva per ministro della Giustizia un pm sentito una volta in tv, che ha affidato a un quotidiano il programma antimafia del Governo e ha nominato direttamente con Fabio Fazio il commissario Anticorruzione.
Esempi negativi, derivanti dalla tradizionale caccia al consenso che di volta in volta si modella a un corpo elettorale eccitato, spaventato, inferocito oppure plaudente ed estatico. Peccato che le frasi e le mosse a effetto coprono la cruda realtà del taglio degli organici civili che trattengono in uffici burocratici il personale di polizia; di carceri strapiene e da tempo senza agenti di custodia a sufficienza; di Procure-Fort Apache che si svuotano di toghe e cancellieri; di organismi come la Dia ormai senza più un soldo; di beni sequestrati ai boss e abbandonati dallo Stato; di sottosegretari costretti a dimettersi perché aggrediscono la libertà di stampa e parlamentari di cui viene chiesto l’arresto per truffa, fino agli insegnanti esausti e depressi che operano in scuole cadenti. Certo, Rai e Mediaset non fanno (meritoriamente) mancare al pubblico fiction istruttive sulla ‘ndrangheta al Nord o su eroi come don Peppe Diana. Ma è sufficiente? Perché, ci si chiede, invece di precipitose convocazioni di pletorici vertici a ridosso dei tg, non si scelgono piccoli gesti silenziosi e utili, come quello di vigilare perché esca finalmente in Gazzetta Ufficiale il decreto che determina il premio per le aziende con il rating di legalità? O non si fanno decollare le notifiche penali telematiche?
Le persone, associazioni ed enti seriamente impegnati nel silenzio e a volte nell’isolamento per far prevalere la legalità, ridurre la corruzione e smarcarsi dai criminali, non hanno tempo per i proclami che nutrono il consenso e non ne colgono alcuna utilità. Ai loro occhi è, anzi, sconsolante che a lanciarli siano proprio coloro che dovrebbero soprattutto ascoltare, sostenere, governare milioni di cittadini.
Il Sole 24 Ore 24.3.2014