Di Lionello Mancini
E’ di buona regola tastare di tanto in tanto il polso al versante dell’antimafia, riprendendo “a freddo” i fatti e le analisi che con grande facilità scivolano via dalle cronache nazionali, relegate – e non sempre – in quelle locali. Le ultime fiammate informative sul tema risalgono alle processioni con inchino ai boss, avvenute in Calabria e in Sicilia. Dovizia di foto e filmati, interviste e analisi, poi via, a parlar d’altro.
Questa ondivaga capacità di concentrazione del Paese sul potere criminale, viene analizzata da Nando dalla Chiesa, in un piccolo libro intitolato “Manifesto dell’Antimafia” (Einaudi, 10 euro), una sistematizzazione di concetti intorno ai quali possono riflettere, organizzarsi e agire tutti coloro che ritengono maturo il tempo di superare l’indignazione e le veementi richieste di pulizia, solitamente nella scia di inchieste e arresti eclatanti.
Nando dalla Chiesa indica i grandi passi avanti compiuti dagli anni 70 (quelli che «la mafia non esiste»), ma anche i gravi ritardi accumulati dopo le stragi del ’92-93. «La vera forza della mafia sta fuori dalla mafia», scrive l’autore, analizzando la vastissima gamma di comportamenti più sfuggenti e meno afferrabili, che porgono da sempre enormi regali all’espansione del crimine.
Ai “professionisti” che popolano le fila mafiose, lo Stato ha spesso opposto strumenti e metodi dilettantistici, in genere basati su vecchi e devianti pregiudizi. Ed è per questo che il professore propone il suo “Manifesto”. A partire dalla inderogabile necessità di conoscere a fondo il nemico per avere qualche probabilità di vittoria e nella convinzione che la lotta alla mafia: a) non sia solo o soprattutto questione di magistrati e forze dell’ordine; b) non sia fenomeno che interessi direttamente solo tre o quattro regioni d’Italia; c) non possa consistere solo in un pacifico e indolore processo di educazione alla legalità delle future generazioni; d) nemmeno possa esaurirsi nella denuncia di malefatte e collusioni.
Nel capitolo “Passaggi obbligati”, dalla Chiesa indica i compiti propri delle «tre grandi aree di confronto (ed eventualmente di scontro) con la mafia: la politica, l’imprenditoria, la magistratura». Compiti non più delegabili né dilazionabili, cui solo la magistratura ha finora risposto con una certa continuità, anche se non sempre e non ovunque.
Eppure – scrive dalla Chiesa – ciò che emerge con chiarezza è «il ruolo formidabile svolto dalla corruzione» nel rafforzamento delle mafie. Come ben spiegava, già a metà degli anni 90, il pentito calabrese Saverio Morabito, nel «suo affresco da brividi sull’ascesa dei clan fino a fare di Buccinasco “la Platì del Nord”. Un racconto popolato di figure di corrotti. Comprati senza problemi con i soldi dell’eroina. Avvocati, marescialli dei carabinieri, commissari di polizia, politici. E magistrati». Fino a concludere, sulla scorta degli studi condotti all’università di Milano: «La combinazione micidiale che genera il salto di qualità è quella che nasce dall’incontro tra il potere del boss al confino e la corruzione dell’amministrazione pubblica». Gli esiti di questa combinazione sono sotto i nostri occhi.
Sole 24 Ore 18.8.2014