A seguire le cronache su malcostume e corruzione che a ritmo serrato coinvolgono politici, amministratori e imprenditori, sale quel senso di vertigine e di malessere che precede la paralisi dell’ottimismo.
In meno di un anno abbiamo assistito agli arresti milanesi di Greganti, Frigerio & Co. (maggio 2014), quelli per il Mose a Venezia (giugno), alla retata di “Mafia Capitale” e all’epidemia dei vigili di Roma (dicembre), al caso Incalza (Firenze, marzo 2015), per finire all’inchiesta su Ischia, tuttora scoppiettante di novità, confessioni e scenari inediti.
Mentre – come ogni altra volta – il tema centrale pare essere la pubblicizzazione degli atti giudiziari depositati, i media danno voce a personaggi pubblici indignati e offesi, sospinti a dimettersi se titolari di una carica, mentre altri si difendono ricordando di essere pensionati e dunque non capiscono “lo sputtanamento” orchestrato nei loro confronti.
Se è comprensibile la reattività delle persone non indagate, lo sono molto meno gli argomenti utilizzati per convincere l’opinione pubblica di essere soltanto vittime di inquirenti spregiudicati, di avversari che manovrano inquirenti spregiudicati, di giornalisti deontologicamente scadenti.
In frangenti simili, nulla va escluso a priori: la gogna mediatica esiste e spesso la realtà dei fatti ha annichilito le fantasie più fervide.
Ma la stessa prudenza andrebbe posta nell’esporre scusanti e narrazioni taroccate, persino offensive dell’intelligenza degli italiani.
Prendiamo le intercettazioni. Si invoca una legge che faccia cessare lo scandalo. Ma quale scandalo? Quello dell’utilizzo da parte dei pubblici ministeri?
Conviene ignorare per brevità la tiritera sull’abuso, i costi, la privacy violata eccetera eccetera, sempre – e solo – intonata quando le inchieste coinvolgono colletti bianchi di medio-alto livello.
Riguardo, invece, alla diffusione delle notizie, i giornalisti sanno benissimo quali intercettazioni, informative o verbali, è doveroso rendere noti e quali no perché sfregiano gratuitamente l’immagine e l’onore di qualcuno. Non servono altre leggi: basta seguire la deontologia professionale – come peraltro dovrebbero fare pubblici ministeri, politici, amministratori, burocrati, imprenditori, consulenti, professionisti eccetera – rinunciando allo specioso paravento del “dovere di cronaca”, dato che il giornalista non “deve” pubblicare, bensì “scegliere” cosa pubblicare.
Forse sarà dispiaciuta a Giulio Tremonti la notizia della richiesta di autorizzazione a procedere per corruzione, ma il suo disagio deve fermarsi un gradino prima di quello spettante al diritto di sapere che una Procura indaga su una parcella di 2,4 milioni incassata dal suo studio proprio mentre lui era un potente ministro. Lo stesso gradino dovrebbero occupare l’indignazione di D’Alema per l’accostamento fra i traffici degli indagati e i loro interessi enologici ed editoriali e quella di Maurizio Lupi, ormai ex ministro per il sostegno dato ai propri parenti.
Dice D’Alema che lui non indice gare, che il vino di famiglia è super e che ha tutti i diritti di coltivare allo stesso tempo vigneti e passione politica; inoltre, aggiunge, i sostenitori ischitani di Italianieuropei non sono che tre «delle migliaia di persone» che incontra battendo il Paese in lungo e in largo. Appunto: dato che continua a contare migliaia di followers in carne, ossa e voti, qualche dettaglio etico andrebbe curato meglio per schivare ogni malignità. Ma da politici esperti e navigati (e dopo le sberle subìte dal Pd) ci si aspetterebbe qualcosa di più del solito “zeru reati”.
Sgomenta notare come dopo anni di mea culpa e promesse di rettitudine, possa resistere tanta autoreferenzialità. Forse molti uomini pubblici si sentono rassicurati dalla sperimentata certezza che – dove un normale cittadino rischia galera, beni e reputazione – essi non corrono il pericolo di vedersi emarginati dai network relazionali costruiti in anni di potere, né di perdere il diritto ai loro possenti vitalizi.
Sole 24 Ore 13.4.15