La Kalsa – Sulle strade di Falcone e Borsellino

 

1992 sulle strade di Falcone e Borsellino”, di Alex Corlazzoli, è un viaggio nella Palermo di oggi, del 2017, a 25 anni da due episodi che ne hanno cambiato la storia, gli omicidi dei giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Un viaggio narrato attraverso quei luoghi che hanno segnato il percorso di vita dei due magistrati palermitani, a partire dalla Kalsa, dove nacquero e vissero da adolescenti. “Anche Paolo e Giovanni Falcone giocavano qui con una palla fatta di stracci. Era quello che avevano. Erano cresciuti insieme anche se frequentavano scuole diverse, facevano i chierichetti nella stessa chiesa. Un’infanzia trascorsa con chi un giorno avrebbe preso un’altra strada, con compagni diventati “uomini d’onore”

 

La Kalsa 

Cristina aveva tredici anni quando per la prima volta ha messo piede a Palermo. Era il 1993. Era arrivata in Sicilia dal Veneto un anno dopo le stragi con il bisogno di dare un contributo, di fare la sua parte, di esserci. A quell’età non sapeva certo che cosa avrebbe fatto da grande ma cinque anni più tardi, quando si è trovata a decidere la facoltà universitaria, non ha avuto dubbi: giurisprudenza. 

La stessa scelta di Paolo Borsellino. E di Maria, che da grande vuol fare la poliziotta o diventare come loro, come i giudici, “per levare quelli che fanno del male agli altri”. 

Maria la incontro al quartiere della Kalsa a pochi passi dal mare, uno di quei luoghi che racconta Palermo tra chiese romaniche, barocche, palazzi antichi in stile gotico, edifici decadenti con finestre murate, ristoranti all’ultima moda e stigghiulari che friggono in piazza budella d’agnello avvolti da una nube di fumo che si alza nel cielo. 

Sembra di essere in un mondo a parte dove puoi passeggiare tra vicoli dai nomi inconsueti: della Salvezza, della Rosa, Zagarellai, delle Travi. Ogni strada è un libro aperto che svela storie inedite, persino inimmaginabili: in vicolo della Neve si dice che si trovasse un’antica bottega che vendeva neve nelle calde giornate estive. 

Oggi le stesse vie narrano altre storie, quelle della borghesia palermitana che è tornata a riconquistare quella zona e quelle delle famiglie che abitano ancora le stesse case, di generazione in generazione. 

Maria con suo fratello Salvo vende babbaluci all’angolo tra via Vetriera e la strada che porta al complesso dello Spasimo. 

La scusa per attaccare bottone c’è: comprare un cartoccio di queste chioccioline marinate con olio, prezzemolo, aglio e pepe. Vengono tenute in un grosso pentolone di rame dove giorni prima sono state lasciate a spurgare e lavate in continuazione. 

Babbaluci, babbaluciii a un euro”, urla il giovane babbaluciaru che a sedici, diciassette anni probabilmente ha già abbandonato la scuola per procurare qualche soldo in più alla famiglia. 

“Un sacchetto, grazie”. 

U canusci? Sugnu le lumache del festino”, mi spiega Maria mostrandomi una fotografia del carro di Santa Rosalia travolto dalla folla sul “Cassaro”, il corso principale che collega la cattedrale a Porta Nuova. Da quasi quattrocento anni la festa si ripete ogni 14 luglio in memoria della liberazione della città dalla peste. 

Fingo che sia la prima volta che le assaggio: “Come si mangiano?” 

La piccola palermitana ne prende una in mano, la avvicina al dente canino, procura un piccolo foro al guscio e inizia a succhiare. 

Ziti a vasàri e babbalùci a sucàri nun pònnu mai saziàri”, mi spiega il fratello affrettandosi a tradurre per il continentale di turno: “I fidanzati che baciano e i babbaluci che si succhiano non possono mai saziare. Comunque li puoi mangiare con uno stuzzicadenti”, precisa il giovane. 

“Ma tu fai questo mestiere?”, gli chiedo. 

“Mio padre è u posteggiaturi ma a me mi piace vendere babbaluci come mio nonno”. 

“Io, invece, voglio fare la poliziotta, così metto in carcere quelli che uccidono, che vendono la droga e gli do bastonate, ma se fanno i bravi poi li faccio uscire. Nessuno nasce cattivo, forse cresce così: può essere anche che suo padre che è con la mafia gli dice di diventare come lui”. 

Maria non lo sa ma anche i due giudici la pensavano così. 

“Anche Paolo Borsellino e Giovanni Falcone spesso si chiedevano come potesse essere accaduto che quei ragazzi che giocavano a pallone con loro da bambini li avessero incontrati in carcere anni dopo”. 

Appena faccio il nome dei due magistrati gli occhi della giovane palermitana si illuminano: 

“Loro sono nati qui, alla Kalsa. Vuoi vedere le loro case?” 

Quale miglior guida. Non è la prima volta che torno in questi luoghi ma mai mi è accaduto di essere accompagnato da una bambina, palermitana doc. 

La strada che Maria prende è costellata nel primo tratto da case che rischiano di diventare ruderi. Prima dei bombardamenti del 1943 erano palazzi nobiliari abitati da professori e commercianti che condividevano il quartiere con il popolino: pescatori, muratori, falegnami, operai che vivevano nei “bassi”. 

All’imbocco di via Vetriera, le porte e le finestre degli edifici sono murate ma fino ai primi anni del nuovo secolo dietro quei mattoni, a ogni ora del giorno e della notte, si potevano ascoltare le sciarre di Salvatore e di sua moglie Ciccina, le grida di un neonato che si mescolavano alla voce del neomelodico catanese Gianni Celeste. 

Erano case occupate, tuguri che a fatica si potevano definire abitazioni: avevano dato un tetto a chi non ce l’aveva. 

Quella gente era entrata da abusiva dopo che la nobiltà aveva abbandonato quei palazzi, ma faceva ormai parte della storia di quel quartiere. 

Sono i muri a narrare da sempre le vicende della Kalsa, “l’Eletta”. 

Maria non lo sa ma qui durante la dominazione islamica della città aveva sede la cittadella fortificata dell’emiro, costruita per separare la popolazione autoctona da quella musulmana. 

La storia parla tutti i giorni a questa ragazzina e la Kalsa non ha ancora finito di stupire: oggi sta rinascendo, continua a non essere abbandonata dai palermitani. Lo comprendo dalle ristrutturazioni in corso, che si intervallano ai vecchi portoni di legno che lasciano intravedere i cortili di un tempo, gli atri, gli ingressi, le scale che portano agli antichi saloni. 

“La casa del giudice Borsellino è laggiù, di fronte a quel ristorante”, mi spiega Maria trascinandomi in fondo alla strada fino al civico 57. C’è ancora quel cartello giallo che mi accolse quando venni la prima volta e l’ex farmacia della famiglia del giudice era solo un palazzo in decadenza: “Qui dove è nato Paolo Borsellino i cittadini palermitani iniziano il risanamento del centro storico”. In fondo una data stampata in nero: 19 luglio 1993. 

Le cicatrici della guerra sarebbero state rimarginate. Del raid aereo anglo-americano sarebbe rimasto solo il ricordo nei libri e non più una ferita sanguinante nel tessuto urbano. 

Vent’anni dopo qualcosa è stato fatto. 

Maria, oggi, può raccontarmi un’altra Palermo: “Ecco la casa di Paolo. Dentro ci sono i computer per i bambini”. 

La giovane guida me lo spiega così il sogno realizzato da Salvatore Borsellino, il fratello di Paolo, che l’ha ricomprata e data ai ragazzi del quartiere. 

Qui il 19 gennaio del 1940 è nato il giudice. Due anni dopo sarebbe arrivato il fratello e tre anni più tardi dalla nascita di Salvatore, il 2 giugno 1945, la sorella Rita che Paolo amava chiamare “Repubblichina”, vista la coincidenza con la festa nazionale. 

Per un attimo m’immagino quel bambino esile con il naso leggermente pronunciato, i capelli scuri e quegli occhi svegli, giocare tra i recipienti di ceramica e gli antichi arredi della farmacia che papà Diego aveva ereditato dal padre Paolo, un agrigentino dai folti baffi all’insù che aveva avviato l’attività alla fine dell’Ottocento. 

Una farmacia “storica” perché persino dopo la guerra restò come presidio in un quartiere diventato povero. 

A guardare le fotografie in bianco e nero della prima comunione, Paolo aveva l’aria di un bambino studioso. Amava stare sui libri ma anche dare una mano a chi non ce la faceva: alla scuola elementare la casa dei Borsellino, il pomeriggio, si riempiva di ragazzini ai quali lui dava una mano a fare i compiti. 

Al liceo, come tanti di noi, come quei ragazzi che ogni 19 luglio arrivano da tutt’Italia in via Mariano D’Amelio per fare memoria, era diventato direttore del giornale degli studenti, “Agorà”. 

A diciott’anni non aveva avuto dubbi: giurisprudenza. E ancora una volta non era rimasto a guardare la storia passare sotto i suoi occhi: a diciannove anni si era iscritto al Fronte Universitario d’Azione Nazionale, organizzazione di Destra dell’Università. In quegli anni, per una rissa tra studenti simpatizzanti di Destra e di Sinistra, era persino finito davanti al giudice Cesare Terranova, ucciso dalla mafia il 25 settembre del 1979. 

Una scelta, quella di militare in un movimento politico, che gli costò l’etichetta di “giudice di Destra” per tutta la vita. 

Guardo Maria mentre sbircia in “Casa Borsellino”: che ne sa lei, che ne sanno i figli delle stragi di questa decisione del giudice. 

Destra, Sinistra, missini, democristiani, comunisti. Etichette che non appartengono più a nessuno. Giorgio Almirante, Alcide De Gasperi, Enrico Berlinguer fanno oramai parte dei libri di storia. Quell’addio del segretario del partito comunista il 7 giugno del 1984, sul palco di piazza della Frutta a Padova, emozionò i nostri padri, le nostre madri, i nostri insegnanti colpevoli, anni dopo, di averci portato nella città di Sant’An-tonio senza raccontarci cos’era accaduto quel giorno. 

Una storia tramandata poco persino nelle sedi di partito. La prima volta che ho messo piede in sezione ho visto su un camino il busto di Berlinguer accanto alla più nota immagine di Che Guevara, ma non un libro su di lui: “La sezione non è la biblioteca. Qui si lavora, non c’è tempo per leggere”, mi ammonì un dirigente seduto dietro la sua scrivania a riflettere sulle percentuali di voti prese alle ultime elezioni. 

Nessuno ci aveva passato il testimone. Non la scuola. Non i nostri genitori. Non il partito. 

E come può interessare a Maria questa storia della Destra e della Sinistra? A lei è meglio che racconti di quando Borsellino si trovò a mandare avanti la famiglia dopo la morte del papà. 

“Sai che questa farmacia ha rischiato di chiudere? L’ha salvata Paolo che già da giovane mostrò un grande coraggio. A pochi mesi dalla sua laurea, il 27 giugno del 1962, il padre muore dopo una malattia terribile che lo stronca a soli cinquantadue anni. Il giovane Borsellino diventa il capofamiglia. Capisce da subito che la vita dietro un bancone non è la sua strada e lotta contro il tempo per diventare giudice, iniziare a lavorare e permettere alla famiglia di non vendere la ‘bottega’. Intanto la sorella Rita, che avrebbe anche lei voluto fare giurisprudenza, rinuncia a quel sogno e si iscrive a farmacia. E sai come va a finire?” 

“Sono certa che ce la fanno”, mi risponde la piccola venditrice di babbaluci

È proprio così. Paolo il 14 settembre del 1965 inizia la vita da magistrato al tribunale di Enna e Rita a ventidue anni si laurea. Dopo poco tempo arriva il trasferimento a Mazara del Vallo, dove ottiene l’incarico di pretore ma non molla mai questo luogo in via Vetriera. Ogni sera torna a casa fino al 23 dicembre del 1968, quando si sposa con Agnese, una ragazza conosciuta nello studio di un notaio palermitano. 

Un “addio” a quell’atmosfera che Paolo non ha mai dimenticato: “Ricordo con nostalgia il retrobottega della farmacia, l’odore così intenso di medicinali, di erbe aromatiche, che non riuscirò mai a cancellare dalla memoria. Il mio mondo a quel tempo ruotava attorno a via Vetriera… aver avuto un’infanzia difficile mi ha plasmato, reso più forte, pronto alle battaglie. Ho cercato di superare da solo tutte le difficoltà che ho incontrato perché mai niente mi è stato regalato e spesso mi è mancato anche l’indispensabile. Ma ho sempre avuto mia madre come punto di riferimento”. 

“E la farmacia?”, chiede la mia accompagnatrice con quello sguardo curioso e scaltro tipico dei bambini che vivono tra la strada e la scuola. 

“Va avanti. Fino al 1968 la si poteva trovare qui. Quell’anno a stravolgere la vita dei siciliani è un terribile terremoto nella zona del Belice, che ha conseguenze anche in città”. 

Maria non sa nemmeno dove sia il Belice. Nemmeno io da studente l’avevo mai visto sulla cartina geografica e sono altrettanto certo che neanche i miei alunni abbiano mai parlato in classe di questa terra che si è sbriciolata come le case di carta del presepe. 

Come il Vajont, come Ustica, come il terremoto del Friuli: restano solo i ricordi di chi c’era, di chi ha sentito tremare le pareti di casa, o di chi ha intuito la sofferenza di un popolo stando incollato davanti alla tv. 

Sono nato sette anni dopo quel terremoto ma solo a diciannove anni l’ho scoperto mettendo piede nel labirinto di cemento costruito dall’artista Alberto Burri sulle macerie di Gibellina, la città rasa al suolo dal sisma. Eppure quella tragedia aveva cambiato l’esistenza di molti siciliani, anche quella della famiglia Borsellino che, a causa del crollo del soffitto della farmacia, fu costretta a trasferire la bottega in via Carlo Rao, su piazza Magione, dove è rimasta fino alla fine degli anni Novanta. 

Quella piazza è ancora lì, ha solo cambiato faccia. Da via Vetriera basta voltare nella prima strada a sinistra per ritrovarsi di fronte a uno spiazzo incorniciato da edifici rimessi a nuovo accanto a palazzi che si lasciano divorare dal tempo. 

Mutano com’è mutata la storia di questa città raccontata dalle scritte sul muretto che delimita il campo da calcio dei ragazzi: “Orlando è con noi”, “Più case, meno chiese”. 

Guardo i ragazzi mentre rincorrono il pallone: che faranno da grandi? 

“Anche Paolo e Giovanni Falcone giocavano qui con una palla fatta di stracci. Era quello che avevano. Erano cresciuti insieme anche se frequentavano scuole diverse, facevano i chierichetti nella stessa chiesa. Un’infanzia trascorsa con chi un giorno avrebbe preso un’altra strada, con compagni diventati “uomini d’onore”. 

Passeggiando spiego a Maria la vita dei due magistrati, con lo sguardo rivolto a un fabbricato su quattro piani, abbandonato, vuoto, con gli ingressi sprangati. 

“Lì – mi anticipa la piccola – c’erano le suore. Aiutavano tutti, sai?” 

È un ex convento occupato in seguito dalle sorelle di madre Teresa di Calcutta: per tanti anni hanno abitato il quartiere, hanno aperto le porte della loro casa alle donne con problemi psichiatrici e a chi aveva bisogno di un piatto di pasta. Gli occhi di quelle suore, velati di uno sguardo amorevole, li avevo già incontrati nelle polverose strade di Calcutta. 

Da qualche anno hanno lasciato piazza Magione consegnando alla cronaca un atto di vandalismo fatto dalle sorelle stesse contro un’opera d’arte realizzata sui muri della loro casa dall’artista David LaChapelle: quella ragazza bionda con indosso solo un paio di jeans e il seno coperto dalle braccia aveva indispettito le donne di fede che, abbandonato il rosario, avevano preso in mano i pennelli per imbrattare quella foto. 

Non infastidisce nessuno, invece, la gigantesca statua di padre Pio all’angolo della piazza. Quella volta fu il Comune a lottare invano con i residenti per togliere quel marmo abusivo. Nulla da fare. 

Di guerre non ne hanno fatte invece per il cippo al centro della piazza che ricorda il luogo natio di Falcone. Quasi non t’accorgi di passargli accanto. Un tempo era via Castrofilippo. 

“A riccordo de Giovanni Falcone che in questo luogo naccque il 20 maggio 1,9,3,9. Con grat… gratittudine e ammi- razione. 23. 5. 1,9,9,5”. 

Maria legge la targa affissa al cemento scandendo i numeri uno a uno come fanno i bambini e accentuando le doppie alla palermitana e poi aggiunge: “U viristi unni ti purtai?” 

Provo a ricambiare la cortesia incuriosendola: “Lo sai come si chiamava Falcone?” 

Fare questa domanda a una bambina palermitana è come chiedere di che colore è il cavallo bianco di Napoleone. 

“Giovanni”, mi risponde con certezza.

“Giovanni Salvatore Augusto”, replico.

“Il secondo nome gli era stato dato in memoria dello zio materno, morto colpito da una granata durante la prima guerra mondiale, mentre il terzo nome era per la passione di suo padre per la storia romana. Suo papà Arturo era il direttore di un laboratorio chimico mentre la mamma, Luisa, era figlia di un noto ginecologo di Palermo. Una vita, quella del magistrato, singolare fin dalla nascita: uscì dalla pancia della mamma con i pugni chiusi e senza urlare; in quel momento entrò una colomba dalla finestra aperta. Un anno dopo la sua nascita la famiglia abbandonò la Kalsa a causa dei bombardamenti ma tutti, dopo essere sfollati a Sferracavallo e a Corleone, tornarono nel quartiere ospiti nell’appartamento delle zie”. 

“E con Paolo quando si sono conosciuti?” 

“Durante una partita di calcio all’oratorio di San Francesco. Giovanni aveva tredici anni e Paolo era più giovane di soli otto mesi. Al primo piaceva tanto il ping-pong ma con il pallone ci sapeva pure fare. Sul campo da calcio ha conosciuto il suo amico magistrato; giocando sul tavolo da ping-pong un mafioso, Tommaso Spadaro, finito all’ergastolo”. 

Poteva andare diversamente la vita di Falcone. 

Forse a convincerlo che la via da seguire era quella dello studio, dell’impegno, dell’amicizia con Paolo anziché con Tommaso era stato il suo libro preferito, I tre moschettieri, che amava farsi leggere dalla madre per il suo significato: il bene che vince sul male. 

A volte basta una parola a cambiarti la vita. Alla mia generazione bastarono quelle affisse alle finestre di Palermo dopo le stragi che uccisero i due magistrati. Su dei lenzuoli bianchi che un gruppo di donne aveva strappato dalla biancheria del corredo avevano scritto: “Non li avete uccisi: le loro idee camminano sulle nostre gambe”. Quella frase uscita dalle bocche di una città che gemeva ci aveva investito di responsabilità. 

Non potevamo chiuderci nelle nostre scuole, nelle nostre stanze, scegliere un lavoro o un corso universitario senza farci tormentare da quell’implicito appello che arrivava dal capoluogo siciliano. E tanti seguirono l’esempio di Falcone, scelsero giurisprudenza. 

A dire il vero lui, dopo essersi diplomato con il massimo dei voti, si era trasferito a Livorno per frequentare l’Accademia navale ma una volta assegnato allo Stato Maggiore si accorse che la vita militare non faceva per lui e tornò a Palermo per diventare magistrato. 

Una scelta che è coincisa con il trasferimento della famiglia in una nuova casa, in via Notarbartolo, nel 1959. 

Sessant’anni dopo, piazza Magione ogni sera è abitata dai giovani palermitani che fanno compagnia ai tanti cani che in questo luogo bivaccano sotto il sole l’intera giornata. 

Continua ad avere l’affascinante atmosfera araba con improvvisate bancarelle che spuntano al calar del sole dalle case vicine, proprio come i carretti che riempiono Djemaa el Fna, il cuore pulsante di Marrakech. 

Negli ultimi anni è diventata la “casa” di un gruppo di giovani che in una notte ha cambiato la storia di Palermo affiggendo in ogni angolo della città un adesivo con scritto: “Un intero popolo che paga il pizzo è un popolo senza dignità”. 

Da un po’ di tempo arrivano anche i turisti, richiamati nella ex cittadella da un luogo magico, da uno spazio che incanta e lascia senza parole. Lo raggiungo da solo dopo aver salutato e trovato una buona scusa per congedarmi dalla mia piccola guida. 

Allo “Spasimo” ci devi andare in solitudine. 

Basta lasciarsi l’ex convento delle suore di madre Teresa alle spalle e prendere la strada a sinistra che va oltre via Vetriera. 

Non ci sono cartelli ma è sufficiente guardare in alto e tener d’occhio l’unico edificio senza il tetto: è una chiesa dedicata a Santa Maria dello Spasimo, costruita nei primi anni del 1500 e mai terminata. I monaci olivetani furono costretti a interrompere i lavori, espropriati dal Senato che vi costruì protezioni militari. 

Da allora quello spazio è stato teatro, lazzaretto durante la peste del 1624, magazzino, ospizio per i senza tetto, “sifilicomio”, e dopo la seconda guerra mondiale luogo di raccolta delle opere provenienti da altre chiese. 

Metto piede allo “Spasimo” pensando che anche l’architettura alla Kalsa, come le vite dei due magistrati, è stata spezzata ma è rinata. Non hanno vinto le macerie e la distruzione, ma la bellezza. 

Entro chiudendo gli occhi, come se qualcuno mi mettesse le mani davanti al viso. 

Lo faccio ogni volta che vado in quel luogo. 

Quando li riapro è sempre il “solito” spettacolo: sopra di me il cielo raggiunto dai rami di due alberi che si sono fatti spazio nel centro della navata. Due, guarda caso.

Da Filo Diretto Monreale

 

I picciotti della Kalsa 

Giovanni e Paolo erano nati nello stesso quartiere: la Kalsa di Palermo.

Al Halisa, l’Eletta, la bella che si rivolge al mare. Così gli arabi chiamavano il quartiere-residenza dell’emiro. Oggi è uno dei rioni più degradati della città, anche se appare qualche segno di rinascita, con un paesaggio urbano segnato da cantieri in frenetica attività e, in estate soprattutto, dal trasmigrare notturno dei palermitani da un locale all’altro, sorti nella borgata come funghi. Sulla piazza della Magione si affacciano la parrocchia, la splendida chiesa arabo-normanna di Santa Maria, nel Medioevo una delle tappe del pellegrinaggio dei crociati verso la Gerusalemme terrena, preludio a quella celeste; e le suore di Madre Teresa, il cui abito indiano è divenuto ormai una presenza abituale tra i poveri che abitano i miserabili vicoli della Kalsa. Poco distante è lo Spasimo, una monumentale chiesa dal tetto scoperchiato, che ha come volta il cielo stellato, recuperata da pochi anni per manifestazioni culturali. Al centro dello slargo un monumento, alquanto malinconico, ricorda la nascita dei due giudici in quelle strade. I Borsellino, in particolare, erano i farmacisti del quartiere. Di padre in figlio si trasmettevano quella farmacia che si trovava all’ingresso della borgata. Paolo aveva intrapreso un’altra strada ed era toccato alla sorella minore, Rita, portare avanti la tradizione di famiglia. Rita, la più piccola, avrebbe fatto da testimone a quel fratello maggiore assassinato; Rita, la più timida, avrebbe detto le parole che il fratello non poteva più dire. La prima volta che incontrai Rita Borsellino fu con alcuni amici, nel retro della sua farmacia, nel 1993 o nel 1994, nei giorni prossimi all’anniversario della strage. Come tanti altri, allora, avevamo il desiderio di portare il segno di una vicinanza. Non pensavamo di ritrovare, anni dopo, quella donna minuta e gentile in competizione per la presidenza della Regione Siciliana, contro la poderosa macchina elettorale di Salvatore Cuffaro. Dalle sue parole, ma si può dire dalla sua stessa persona, abbiamo conosciuto la radice della forza morale che animava Paolo Borsellino: «Paolo amava il libro dei salmi. Leggeva un salmo la sera, alla fine della giornata, per trovare conforto e riposo; e uno la mattina, all’inizio della giornata, perché la giornata ne fosse illuminata» (conversazione con l’autore). La preghiera per iniziare, la preghiera per finire. Paolo era un cristiano che combatteva per lo Stato, con un senso della testimonianza simile a quella dei primi martiri; nel senso in cui ne parlava il suo fraterno amico, il laico Giovanni Falcone, per il quale il servitore dello Stato, in Sicilia, è come un credente in terra infidelium. La fede, lo Stato e, accanto a questo, la famiglia. Si è scritto (e si è ironizzato) tanto sul senso della famiglia in Sicilia e, più in generale, nel Meridione d’Italia. Qualcuno ha coniato categorie sociologiche,

ormai sulla bocca di tutti, come quella di “familismo amorale”, per spiegare anche eventuali nessi tra una concezione quasi tribale della società, lo scarso senso dello Stato e il prosperare della mafia. Vi è più di un fondamento in questo genere di analisi, se si considera come, per lungo tempo nell’isola, un individuo immerso in una società violenta e senza legami solidi che non fossero quelli di sangue non trovava altro rifugio al di fuori del proprio circuito familiareErano spazi esistenziali concreti che richiedevano una dedizione, un impegno, quasi una disciplina quotidiana. La famiglia era certo un valore per Paolo, come si ama ripetere ma più ancora era una sorgente, un luogo in cui ritrovarsi. Troppe poche volte ci si interroga su quali siano le risorse che consentano ai grandi uomini di affrontare le prove che il destino assegna loro. A quali fonti attingano la propria forza e la propria tenacia. Quando lo si fa, si indugia a chiedersi se si debba guardare alla fede, o alla formazione culturale, o all’etica imparata dentro una qualche antica tradizione. Quasi mai si pensa che il fattore decisivo possa stare in qualche recinto, o serbatoio, affettivo. Semplice, nascosto. Che possa esserci un retroterra nutrito di sentimenti, perfino di sentimenti impauriti, a dare forza, a infondere coraggio. Che al di là delle organizzazioni, delle tecnologie, delle leggi, possa stare lì, soprattutto lì, il segreto della grandezza di quegli uomini (N. Dalla Chiesa, Le ribelli, cit., p. 133). L’altra grande coordinata nella vita di Paolo Borsellino è stata l’amicizia con Giovanni Falcone. Un’amicizia che lo ha accompagnato fino alla morte. Anche Falcone era cresciuto in una famiglia della buona borghesia palermitana. Era nato il 18 maggio 1939, in via Castrofilippo 1, in casa, con l’aiuto di una levatrice. Allora la Kalsa non era un quartiere popolare. No, né la Magione col gioiello arabo-normanno al centro dell’enorme slargo, né la Kalsa con le sue chiese barocche, palazzo Butera e l’ultima residenza palermitana del Gattopardo, venivano considerati quartieri a rischio. Certo, il “popolino” c’era anche allora ma non dava manifestazioni di turbolenze. Anche la mafia esisteva già, pur se non si faceva vedere. Presenza discreta e immanente per garantire una tranquilla convivenza tra classi sociali che avevano poche affinità, se non il “comune sentire” e la vocazione a “farsi i fatti propri”. Ciò assicurava alla mafia, ancora primitiva e scarsamente industrializzata, il controllo del territorio, agli abitanti –anche a quelli non mafiosi –di poter rincasare col buio senza essere derubati o infastiditi (F. La Licata, Storia di Giovanni Falcone, Feltrinelli, Milano 2002, p. 23). Poi vennero le bombe, quelle degli americani, che posero fine alla guerra in Sicilia prima del tempo ma devastarono gran parte del centro storico di Palermo, lasciando ferite ancora non del tutto rimarginate. La famiglia Falcone dovette lasciare per un certo periodo la casa alla Kalsa. L’oratorio della parrocchia della Magione era una metafora della società palermitana. Si mescolavano figli di mafiosi e non mafiosi. Seguivano il catechismo e giocavano a ping pong insieme. Anni dopo Falcone si ritrovò a interrogare un suo compagno di giochi. Ho giocato a ping pong con uno che è stato condannato a trent’anni di reclusione per traffico di stupefacenti dal tribunale di Firenze, Tommaso Spadaro. L’avevo conosciuto in un’associazione cattolica di quartiere che i miei genitori mi facevano frequentare. Ho rivisto Spadaro dopo l’arresto nel 1983. L’ho fissato e ho notato un impercettibile movimento degli occhi. Mi aveva riconosciuto. Procedo all’interrogatorio e, al termine, gli dico: «Abbiamo giocato a ping pong insieme». Il viso gli si illumina: «Le legnate che le ho dato» (G. Falcone, op. cit., p. 90). La contiguità tra mafia e non mafia, la vicinanza fisica prima ancora che ideologica tra mafiosi e “normali”, è in parte conseguenza della natura stessa dell’associazione criminale, che è come conficcata nella società civile, perfettamente mimetizzata e inserita in essa. Falcone e Borsellino avevano ben chiaro tutto questo e avevano saputo rivolgere questa forza della mafia contro di lei: «Sono nato nello stesso quartiere di molti di loro. Conosco a fondo l’anima siciliana. Da una inflessione di voce, da una strizzatina d’occhi capisco molto di più che da lunghi discorsi» (ivi, p. 68). Sapevano come trattare con gli uomini d’onore, come interpretare i loro messaggi e come leggere i loro silenzi. Sapevano rispettarli come uomini ma sapevano anche imporre le regole dello Stato che rappresentavano, senza assecondarli né blandirli. Avevano imparato a distinguere l’uomo dalla cosa a cui apparteneva con un ordinamento e regole proprie. Perseguire penalmente Cosa nostra non impediva loro di vedere nel mafioso anche un uomo come tutti gli altri, con tratti caratteriali ben determinati. Un criminale, certo, ma che, in un altro contesto, avrebbe potuto essere un uomo migliore. In termini religiosi, si potrebbe dire che distinguevano l’errore dall’errante. Gli uomini d’onore sono in Sicilia probabilmente più di cinquemila. Scelti dopo durissima selezione, obbedienti a regole severe, dei veri professionisti del crimine. Anche quando si definiscono “soldati”, sono in realtà dei generali. O meglio cardinali di una chiesa molto meno indulgente di quella cattolica. Le loro scelte di vita sono intransigenti. Cosa nostra costituisce un mondo a sé che va compreso nella sua globalità (ivi, p. 60). 

Da UOMINI CONTRO LA MAFIA