Pagamenti inferiori alla busta paga: per la Cassazione è reato di estorsione e autoriciclaggio

 

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La sentenza n. 25979/2018 della seconda sezione penale della Cassazione stabilisce che i datori di lavoro che costringono i dipendenti ad accettare retribuzioni più basse del dovuto, dissimulando l’origine dei fondi, rispondono sia del reato di estorsione che di autoriciclaggio

 

Risponde del reato di autoriciclaggio, e non solo di estorsione, il datore di lavoro che costringe i dipendenti ad accettare retribuzioni inferiori rispetto a quelle previste dalla buste paga e a lavorare per un orario superiore a quanto dovuto da contratto.

La seconda sezione penale della Corte di Cassazione con la sentenza 25979/2018, stabilisce che qualora l’impresa utilizzi le retribuzioni estorte al dipendente per autofinanziare l’attività imprenditoriale, in modo da ostacolare la corretta identificazione della provenienza delle somme, commette reato di autoriciclaggio.

La pronuncia conferma la misura cautelare del sequestro finalizzato alla confisca a carico dei vertici di una S.r.l.: l’innovativa soluzione della Suprema Corte segna un ulteriore punto a favore per i dipendenti e rappresenta un campanello d’allarme per gli imprenditori che pensano di approfittare del rapporto di fiducia instaurato con i lavoratori.

Retribuzione inferiore alla busta paga è autoriciclaggio: il caso

Nel caso in esame il tribunale ha considerato alcune dichiarazioni dei dipendenti che hanno accettato condizioni retributive inferiori a causa delle intimidazioni poste in essere dagli amministratori della società, paventando la perdita del posto di lavoro oppure trasferimenti in sedi disagiate, di fatto costringendo i lavoratori a rinunciare a parte dello stipendio.

Di seguito, i fondi illecitamente estorti, frutto del mancato pagamento di quattordicesime, degli anticipi versati solo formalmente e permessi non goduti, venivano reimmessi nel circuito aziendale per pagare le provvigioni o altri benefits aziendali in nero a favore dei venditori della società.

Questa condotta per la Suprema Corte, oltre ad integrare il delitto di estorsione, già acclarato dalla recente sentenza della Cassazione n. 11107/2017, configura per i giudici il reato di autoriciclaggio: il comportamento degli amministratori è finalizzato ad un’azione elusiva dell’identificazione della provenienza illegale del denaro.

Il reato di autoriciclaggio si basa sul presupposto che esista una condotta che intenzionalmente ostacoli concretamente l’identificazione della provenienza delittuosa, diversamente da quanto accade nel reato di riciclaggio dove l’avverbio concretamente non è presente.

La dottrina ha precisato quindi che, il semplice trasferimento delle somme non configura il reato di autoriciclaggio, così come anche il caso in cui il denaro, i beni o le altre utilità vengono destinate alla mera utilizzazione o al godimento personale (648-ter.1 codice penale).

Ciò che conta, secondo l’interpretazione dei giudici, è che:

“le somme vengano utilizzate in maniera non lineare, mettendo in atto tutti i possibili artifici finalizzati a identificare con estrema difficoltà la provenienza del delitto… è necessario, dunque, che si siano perseguite delle vie tortuose, delle strade inusuali, delle condotte difficili da interpretare, e così via, anziché la via maestra del semplice impiego od utilizzo che si sarebbero adottati se non ci fosse stato nulla da nascondere

Le obiezioni mosse dalla difesa sono state infruttuose: essa aveva contestato la configurabilità del reato di autoriciclaggio, rinvenendola solo in quei comportamenti che hanno come conseguenza un cambiamento della formale titolarità del bene attraverso cioè un trasferimento fittizio a un terzo dei proventi del reato presupposto, (è il caso questo del prestanome).

I giudici hanno respinto le obiezioni, riscontrando il reato di autoriciclaggio nella condotta di dissimulazione tenuta dall’azienda: rastrellamenti di liquidità, mancato versamento delle quattordicesime, anticipi non versati venivano redistribuiti in nero ai venditori della società, così da assicurare loro dei benefits extra e riammettere nel sistema dei fondi illeciti, eludendone l’origine.

La Suprema Corte quindi, non ha riconosciuto come presupposto dell’ autoriciclaggio, l’obbligatorio trasferimento a terzi dei fondi illeciti:

in quanto l’eventuale coinvolgimento di un soggetto “prestanome” impedisce di ricomprendere tale ulteriore condotta in quelle operazioni idonee a ostacolare l’identificazione della provenienza delittuosa dei beni indicate nel predetto articolo 648-ter1 e riferibili al solo soggetto agente del reato di autoriciclaggio

Retribuzione inferiore in busta paga: i presupposti per difendersi

Lo squilibrio tra domanda e offerta sul mercato del lavoro permette ai datori di lavoro di approfittare della posizione dominante, ma la Corte di Cassazione non si è fatta attendere e si è già espressa in casi analoghi a quello illustrato.

È stato confermando dai giudici supremi che il datore di lavoro che costringe i lavoratori, minacciandoli di licenziamento, ad accettare trattamenti retributivi non adeguati alle prestazioni effettuate e a sottoscrivere buste paga attestanti il pagamento di somme maggiori rispetto a quelle effettivamente versate, compie un delitto di estorsione (Cass. 11107/2017)

Ulteriore conferma dalla Sentenza di Cassazione n. 18727/2016:

È reato di estorsione la condotta del datore di lavoro che, approfittando della situazione di debolezza dei dipendenti a causa del difficile contesto occupazionale, anteriormente alla conclusione del contratto e durante lo svolgimento del rapporto di lavoro, impone al lavoratore di accettare condizioni di lavoro deteriori a fronte della minaccia di mancata assunzione o di licenziamento

Altro importante passo in avanti a favore dei dipendenti è stato segnato dalla Legge di Bilancio 2018 che al comma 912 dispone che la firma della busta paga non costituirà più l’unico mezzo di prova dell’avvenuto pagamento della retribuzione, ma che essa dovrà essere obbligatoriamente pagata con strumenti tracciabili, quale il bonifico, dal 1° Luglio 2018.

Anche quest’ultima novità conferma la possibilità per il dipendente di denunciare o di ricorrere al giudice dimostrando di aver ricevuto di meno di quanto dovuto, anche se ha accettato di firmare la busta paga.

 InfortmazioneFiscale

Retribuzioni inferiori a quelle risultanti in busta paga, estorsione e reato di autoriciclaggio

a cura Ufficio Studi Cisl dei Laghi

 

LCorte di Cassazione, con la Sentenza n. 25979 del 7 giugno 2018, ha affermato che il pagamento di retribuzioni inferiori a ciò che è riportato in busta paga ed il mancato pagamento di prestazioni straordinarie svolte oltre il normale orario di lavoro configura il reato di estorsione e quello di autoriciclaggio ai sensi dell’art. 648-ter 1 c.p., in vigore dal 1 gennaio 20     La Suprema Corte con questa interessante pronuncia , respingendo il ricorso dell’amministratore di una società, ha stabilito che rischia la condanna per i reati di estorsione e autoriciclaggio il datore di lavoro che reimmette nel circuito economico il denaro non corrisposto, destinato ai dipendenti sotto forma di quattordicesime e permessi non goduti e utilizzato, invece, per pagare in nero i venditori della società. La Corte, pertanto, ritiene legittimo il sequestro preventivo sul denaro e le altre utilità costituenti profitto dei reati.

Il fatto

Il caso nasce dall’impugnazione dell’ordinanza con cui il tribunale del riesame rigettava l’istanza ex art. 324 cod.proc.pen. proposta avverso il decreto del Gip del locale tribunale che aveva disposto nei confronti di un’azienda, il sequestro preventivo finalizzato alla confisca, diretta o per equivalente, di denaro, beni o altre utilità costituenti profitto di reato. I titolari della società erano accusati di estorsione in concorso, per avere costretto una molteplicità di lavoratori dipendenti ad accettare retribuzioni inferiori a quelle risultanti dalle buste paga e a sopportare orari superiori a quelli contrattualmente stabiliti, con ingiusto profitto degli imputati e della società dagli stessi gestita in danno degli stessi nonché del delitto di autoriciclaggio continuato per aver destinato il denaro proveniente dal delitto di estorsione alla retribuzione in nero di dipendenti legati loro da particolare rapporto di fiducia.

Nel particolare, alla ditta si contestava l’illecito amministrativo dipendente dal delitto di autoriciclaggio sulla base del decreto 231 del 2001, per l’avvenuto impiego nell’attività imprenditoriale del denaro proveniente dall’ estorsione continuata, in modo da ostacolare concretamente l’identificazione della provenienza delle somme.

L’azienda presentava quindi ricorso per la cassazione della sentenza lamentando, tra l’altro, l’inesistenza delle condizioni per la contestazione dell’autoriciclaggio, valorizzando la concretezza dell’ostacolo che deve essere realizzato. Secondo la difesa dei ricorrenti la fattispecie contestata impone di interpretare il termine “ostacolare” nella pienezza del suo valore semantico come interposizione di un mezzo di qualunque genere allo svolgimento di un’azione o all’esplicazione di una facoltà così che devono considerarsi tipiche esclusivamente le attività di reimmissione nell’economia legale di beni di provenienza delittuosa costituenti ostacolo idoneo e preordinato alla loro identificazione. La corretta interpretazione della norma avrebbe, dovuto condurre a escludere l’illecito in quanto le somme versate in nero ai venditori a titolo di incentivo non erano mai uscite dalla cassa per essere reimpiegate altrove.

La decisione

La Cassazione respingeva il ricorso. Nelle motivazioni, i Giudici di legittimità ricordavano innanzitutto che l’articolo 648ter.1 del Codice penale punisce le attività d’impiego, sostituzione e trasferimento di beni o altre utilità poste in essere dallo stesso autore del delitto presupposto che ostacolano la ricostruzione della matrice illegale. È cioè necessario che la condotta abbia un elevato grado di dissimulazione: per questo vengono ad assumere rilevanza penale “tutte le condotte di sostituzione che avvengano attraverso la reimmissione nel circuito economico-finanziario ovvero imprenditoriale del denaro o dei beni di provenienza illecita finalizzate a conseguire un concreto effetto dissimulatorio che sostanzia ciò che differenzia la condotta di godimento personale, insuscettibile di sanzione, dall’occultamento del profitto illecito penalmente rilevante”.

La Cassazione osservava quindi, nel caso concreto, che il rastrellamento di liquidità attraverso l’attività di estorsione ai danni dei lavoratori, concretizzata tra l’altro nel mancato versamento delle quattordicesime, degli anticipi versati solo formalmente e del corrispettivo dei permessi non goduti, era poi servito a pagare provvigioni o altri benefit aziendali in nero a favore dei venditori della società. In questo modo, fondi illeciti venivano reimmessi nel circuito aziendale, con un’azione elusiva dell’identificazione della provenienza illegale della provvista.

Per questi motivi non veniva accolto il ricorso della difesa per cui, ai fini dell’autoriciclaggio, hanno rilevanza solo quei comportamenti che hanno come conseguenza un cambiamento della formale titolarità del bene. Infatti, proseguiva la Corte, la condotta di autoriciclaggio non presuppone un trasferimento fittizio a un terzo dei proventi del reato presupposto, “in quanto l’eventuale coinvolgimento di un soggetto ‘prestanome’ impedisce di ricomprendere tale ulteriore condotta in quelle operazioni idonee a ostacolare l’identificazione della provenienza delittuosa dei beni indicate nel predetto articolo 648-ter1 e riferibili al solo soggetto agente del reato di autoriciclaggio”. In aggiunta, non era accettabile neppure il riferimento fatto dalla difesa a un precedente della stessa Corte, che aveva escluso l’autoriciclaggio nel caso del versamento dei proventi di un furto su una carta di credito prepagata intestata allo stesso autore del reato presupposto, in quanto si trattava di una condotta priva di quella capacità dissimulatoria che invece è richiesta dal Codice penale.

Per tutto quanto espresso, la Cassazione respingeva il ricorso.

In definitiva

La Suprema Corte ha emesso una pronuncia innovativa, con la quale è stabilito che non si tratta solamente del reato di estorsione ma anche di quello di autoriciclaggio quando un imprenditore: nella prima fattispecie delittuosa costringe, sotto minaccia di licenziamento, i dipendenti ad accettare buste paga inferiori a quelle formalmente concordate e a lavorare per un orario superiore a quello contrattualmente previsto, nella seconda, la società impiega nell’attività imprenditoriale il denaro frutto dell’estorsione continuata, in maniera tale da ostacolare concretamente l’identificazione della provenienza delle somme. 

Sul punto, da ricordare è che dal 1° gennaio 2015 è in vigore la nuova fattispecie dell’autoriciclaggio che punisce la condotta posta in essere dallo stesso soggetto che ha commesso o concorso a commettere il reato  che è il presupposto da cui derivano i proventi illeciti.

Nella fattispecie, la Corte, alla luce di quanto poco sopra descritto, confermava quanto stabilito dai giudici del riesame circa la misura cautelare del sequestro finalizzato alla confisca a carico dei soggetti amministratori di una società Srl e definiva, che i rastrellamenti di liquidità concretizzatosi attraverso il mancato pagamento delle quattordicesime mensilità, di anticipi versati soltanto formalmente e del corrispettivo di permessi non goduti, avevano uno scopo ben preciso, ovvero quello di costituire una riserva economica per pagare provvigioni o altri benefit in “nero” in favore dei venditori della società: nella sostanza, fondi di provenienza illecita venivano reinseriti all’interno del circuito dell’azienda. Pertanto, il provvedimento di sequestro preventivo era stato motivato sia sulla base della ormai “tradizionale” classificazione a titolo di estorsione della condotta dei vertici aziendali ma anche, e questa è la portata innovativa della sentenza, a titolo di autoriciclaggio. In buona sostanza, la sentenza ha stabilito che il datore di lavoro che costringe i dipendenti ad accettare una busta paga inferiore a quella concordata e per più ore rispetto a quelle contrattualmente previste rischia di dover rispondere anche del reato di autoriciclaggio.

 

Dal 1° Luglio scatta lʼobbligo di tracciabilità dello stipendio. Le retribuzioni andranno corrisposte via bonifico, con pagamento elettronico, allo sportello o con assegni

Addio alle busta pagain contanti. Dal primo luglio scatta l’obbligo della tracciabilità dello stipendio previsto dalla legge di Bilancio. Fanno eccezione solo i rapporti di lavoro con la Pubblica amministrazione e i lavoratori domestici come colf, baby sitter o badanti. Le retribuzioni andranno corrisposte viabonifico, strumenti dipagamento elettronico, pagamenti in contanti allosportellooassegni. La pena sono sanzioni da1.000 a 5.000 euro. La misura, pensata per prevenire gli abusi, vale anche per i co.co.co. e tutte le forme di contratto delle cooperative con i propri soci. . È accaduto in passato infatti che alcuni lavoratori, magari sotto il ricatto del licenziamento, firmassero una busta paga con un importo maggiore a quanto effettivamente percepito. La nuova norma, con il flusso di retribuzioni sarà tracciato, prova a ostacolare proprio queste pratiche, per tutelare i lavoratori ma anche leimprese corretteche si trovano a combattere contro la concorrenza sleale di chi, evidenzia la legge, “scaricandofalsi costiper il personale, accumulautili extra bilancio”.

Dal 1° luglio 2018 in vigore il divieto delle retribuzioni in contanti 

a cura Ufficio Studi Cisl dei Laghi

 

Dal 1° luglio 2018 i datori di lavoro ed i committenti non potranno più corrispondere ai lavoratori/collaboratori la retribuzione/compenso, nonché ogni anticipo di essa, per mezzo di denaro contante, indipendentemente dalla tipologia del rapporto di lavoro instaurato.

La previsione è contenuta nell’art. 1, comma 910  e ss. della L. n. 205/2017 (legge di bilancio per il 2018). Qui di seguito, Vi proponiamo schematicamente le previsioni della norma.

Previsione Dal 1° luglio 2018 i datori di lavoro o committenti devono corrispondere ai lavoratori la retribuzione, nonché ogni anticipo di essa, attraverso gli strumenti di pagamento individuati dalla stessa norma (e più sotto descritti), non essendo più consentito, da tale data, effettuare pagamenti in contanti della retribuzione e di suoi acconti, pena l’applicazione di una sanzione amministrativa pecuniaria.

 

Campo di applicazione – Tale obbligo ai applica ai rapporti di lavoro subordinato di cui all’art. 2094 c.c., indipendentemente dalla durata e dalle modalità di svolgimento della prestazione lavorativa (quindi anche per esempio ai contratti a tempo determinato o intermittenti), ai contratti di collaborazione coordinata e continuativa ed infine ai contratti di lavoro stipulati in qualsiasi forma dalle cooperative con i propri soci.

Esclusioni – I rapporti di lavoro esclusi dalla previsione sono:

  • i rapporti di lavoro instaurati con le Pubbliche Amministrazioni (di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165)
  • i rapporti di lavoro domestico (di cui alla legge 2 aprile 1958, n. 339 e a quelli comunque rientranti nell’ambito di applicazione dei CCNL per gli addetti a servizi familiari e domestici, stipulati dalle associazioni sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale).
 

Resta comunque inteso che qualora la retribuzione sia superiore ai 2.999,99 euro, si dovrà fare riferimento, anche per questi rapporti di lavoro, alla normativa generale (articolo 49, comma 1, del decreto legislativo n. 231 del 21 novembre 2007) che prevede il divieto al trasferimento di denaro contante qualora sia di importo pari o superiore a 3.000 euro. Il trasferimento superiore al predetto limite, quale che ne sia la causa o il titolo, è vietato anche quando è effettuato con più pagamenti, inferiori alla soglia, che appaiono artificiosamente frazionati.

 
  • devono altresì ritenersi esclusi, in quanto non richiamati espressamente, i compensi derivanti da borse di studio, tirocini, rapporti autonomi di natura occasionale.
 

Modalità di pagamentoGli strumenti di pagamento possibili individuati dalla norma sono i seguenti:

  • bonifico (bancario o postale) sul conto – identificato dal codice IBAN – indicato dal lavoratore
  • strumenti di pagamento elettronico
  • pagamento in contanti presso lo sportello bancario o postale dove il datore di lavoro abbia aperto un conto corrente di tesoreria con mandato di pagamento
  • emissione di un assegno consegnato direttamente al lavoratore o, in caso di suo comprovato impedimento, a un suo delegato. Viene considerato comprovato l’impedimento qualora il delegato sia: il coniuge, il convivente o un familiare, in linea retta o collaterale, del lavoratore, purché di età non inferiore a 16 anni.

Violazione della normaLa norma di legge risulta violata quando:

  • Quando la corresponsione delle somme avviene con modalità diverse da quelle indicate dal legislatore
  • nel caso in cui, nonostante l’utilizzo dei predetti sistemi di pagamento, il versamento delle somme dovute non sia realmente effettuato, ad esempio, nel caso in cui il bonifico bancario in favore del lavoratore venga successivamente revocato ovvero l’assegno emesso venga annullato prima dell’incasso, circostanze che evidenziano uno scopo elusivo del datore di lavoro che mina la stessa ratio della disposizione.

 

Ne consegue che, ai fini della contestazione si ritiene sia necessario verificare non soltanto che il datore di lavoro abbia disposto il pagamento utilizzando gli strumenti previsti dalla legge, ma che lo stesso sia andato a buon fine.

 

Sanzioni – Il pagamento della retribuzione effettuato con l’utilizzo di denaro contante comporterà violazione alla disposizione in oggetto e l’emissione, da parte degli organi di vigilanza, di una sanzione amministrativa pecuniaria consistente nel pagamento di una somma da 1.000 a 5.000 euro.

Valore della firma del lavoratore sulla busta paga – La previsione di legge dispone una precisazione circa il valore della quietanza, fornita dal lavoratore con la sottoscrizione della busta paga: la firma apposta dal lavoratore sulla busta paga non costituisce prova dell’avvenuto pagamento della retribuzione. La suddetta prescrizione è un chiarimento conseguente a quanto più volte dettato dalla giurisprudenza di Cassazione. I giudici di legittimità hanno infatti  più volte affermato che la sottoscrizione “per quietanza” o “per ricevuta”, apposta dal lavoratore alla busta paga, non implica, di per sé, in maniera univoca, l’effettivo pagamento della somma indicata nel medesimo documento, e pertanto non è da ritenersi prova di tale pagamento.

 

Nota La norma ha  previsto ha previsto la stipula di una convenzione con le associazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro maggiormente rappresentative a livello nazionale, con l’Associazione bancaria italiana e con la società Poste italiane Spa, con la quale saranno individuati gli strumenti di comunicazione idonei a promuovere la conoscenza e la corretta attuazione delle disposizione sopra descritte. Ad oggi, però, l’accordo non è ancora stato stipulato, malgrado il legislatore abbia disposto che lo stesso doveva essere sottoscritto entro il 30 marzo 2018.