La STRUTTURA di COSA NOSTRA

 

Struttura e regole

STRUTTURA DI COSA NOSTRA CONSENSO E COLLEGIALITA’

I VERTICI: premessa

Le regole di funzionamento e l’organigramma di Cosa Nostra possono ormai considerarsi patrimonio conoscitivo consolidato, grazie ad una serie di pronunce giurisprudenziali, resesi irrevocabili e ritualmente acquisite in atti, prima fra tutte la sentenza n.80/92.

Tali pronunce hanno approfondito e vagliato scrupolosamente a far tempo dalle dichiarazioni iniziali dei primi collaboranti, l’evoluzione, l’organizzazione, le modalità operative e gli organismi di vertice di uno dei fenomeni criminosi di maggior pericolosità e rilevanza sul territorio nazionale e con ampie ramificazioni internazionali.

E’ tuttavia opinione della Corte, che a tali pur preziosi contributi debba aggiungersi un’ulteriore analisi, che si rende indispensabile, alla luce delle alterazioni all’interno del proprio assetto e delle variazioni operative, alle quali Cosa Nostra ha saputo sottoporsi con camaleontica abilità, secondo le contingenti necessità del momento.

In particolare la creazione e lo sfaldamento di varie alleanze avevano essenzialmente visto contrapposte, fino agli anni Ottanta, le sanguinarie e poi prevalenti cosche corleonesi facenti capo a LEGGIO, RIINA e PROVENZANO da una parte, e la mafia “storica” dei potentati palermitani dall’altra, capeggiata da BONTATE ed INZERILLO (la cd mafia dei perdenti) secondo uno spaccato di rivalità caratterizzate da manifestazioni di inusitata ferocia, culminate nella più volte citata II° guerra di mafia del 1981/82.

Tale quadro ricostruttivo, frutto della lettura organica delle convergenti dichiarazioni, di tutti i collaboranti ed in primo luogo di Tommaso BUSCETTA, è descritto con circostanziata puntualità nella sentenza di primo grado ed in assenza di specifiche doglianze nei motivi di appello, può intendersi richiamata con le integrazioni di cui al Cap. I° del Libro III°.

Sarà quindi sufficiente in questa sede, arricchirne le conclusioni con quanto emerso nel dibattimento di secondo grado.

Gli approfondimenti motivazionali che si rendono indispensabili a giudizio della Corte, concernono innanzi tutto gli organi di vertice di Cosa Nostra anche in considerazione delle qualità soggettive di molti tra gli odierni appellanti, imputati per la determinazione volitiva del crimine oltre che per la loro partecipazione alla fase esecutiva della strage.

La formale contestazione del fatto testualmente fa carico ai capi mandamento titolari o supplenti, di aver svolto il ruolo di concorrenti morali quali mandanti, secondo le diverse qualifiche, in ragione della loro appartenenza alcuni soltanto:

“all’organo di governo (“commissione”) del sodalizio criminale denominato “Cosa Nostra”,

altri:

“all’organismo di vertice del sodalizio criminale predetto (“Commissione” Interprovinciale o “Regionale”) avente competenza estesa a tutti gli aspetti decisionali più significativi riguardanti l’organizzazione criminale in questione,

tutti comunque,

per aver deliberato e dato il proprio assenso, su proposta di RIINA Salvatore e PROVENZANO Bernardo, all’eliminazione fisica del Dott. Paolo Borsellino, Procuratore della Repubblica Aggiunto presso il Tribunale di Palermo”.

Proprio allo scopo di assicurare il rigoroso rispetto del principio di correlazione esistente tra contestazione e fatto ritenuto in sentenza ne deriva che – diversamente dall’assunto dei primi giudici (sent. f. 444) secondo cui sussisterebbe un principio di pressoché automatica riferibilità  in termini di equivalenza tra la “qualità di capo mandamento o di sostituto del capo mandamento detenuto all’epoca della deliberazione” e “la responsabilità a titolo di concorso morale della strage” – la verifica probatoria non dovrà riguardare la mera ed astratta vigenza della regola che imponeva per i ‘delitti eccellenti’ la deliberazione collegiale.

Essa dovrà invece estendersi al rigoroso accertamento del fatto storico della sottoposizione concreta, e non solo presuntiva e virtuale, in via preventiva, del piano deliberativo omicidiario ai componenti la commissione, avvenuta con correlativa assunzione di responsabilità personale da parte di ciascuno di essi, attraverso la delibera e l’espressione del consenso confluite nella volontà collegiale.

Del pari dovranno essere rigorosamente verificati gli ambiti delle rispettive competenze dei due distinti vertici decisionali.

Infatti RIINA e PROVENZANO, alla stregua della contestazione, erano chiamati contemporaneamente afar parte sia della commissione “provinciale di Palermo” che di quella “regionale o interprovinciale”, le cui sfere di rispettiva operatività non è dato ricavare con certezza dal tenore della rubrica.

L’accertamento si rende pertanto necessario per valutare se risulti processualmente fondato l’assunto dei primi giudici secondo cui, sinteticamente, (sent. f. 650) “l’attentato al dott. Borsellino non costituì un’iniziativa adottata isolatamente dalla provincia mafiosa di Palermo ma fu sottoposta al vaglio dei rappresentanti delle altre province sin dal momento in cui viene adottata nelle sue linee più generali”.

Tale tesi peraltro, risulta smentita – ad avviso della Corte -sia dal fatto che, diversamente da quanto avvenuto per la strage Capaci, in quella di via d’Amelio, non furono utilizzate risorse umane e materiali di altre province, sia perché non vi è prova che le circostanze operative abbiano consentito la sottoposizione effettiva e concomitante ad entrambi gli organismi.

I VERTICI: la commissione provinciale di Palermo

Per accertare le modalità con cui in concreto, alla luce delle regole vigenti in Cosa Nostra, la deliberazione fu assunta, è opportuno prendere dunque le mosse, proprio dalle dichiarazioni del BUSCETTA e dalla lettura interpretativa di esse fornita prima dai giudici di merito del maxi processo palermitano, poi dalla Suprema Corte che (f. 66 Cass n.80/92) nel definire la struttura verticistica di Cosa Nostra ha così, incisivamente chiosato:

”una più vasta aggregazione sorretta da principi comuni e governata per le questioni di collettivo interesse o comunque trascendenti l’ambito locale, da apposito organismo denominato Cupola o Commissione, sedente in Palermo e composta dai rappresentanti delle famiglie mafiose più importanti i cui nomi egli indicava, loro attribuendo in sostanza la responsabilità degli omicidi intervenuti nel corso della guerra di mafia a danno di funzionari dello Stato”.

L’esistenza e le attribuzioni di quell’organo, (la cui limitazione geografica alla sola provincia di Palermo è stata poi chiaramente delineata dalle precisazioni di successivi collaboranti) sono state rimarcate più volte e, in tale contesto, hanno assunto particolare valore le dichiarazioni di coloro che, già considerati attendibili sul piano personale ed intrinseco, vi avevano partecipato per avere ricoperto la carica di capo (o di “sostituto”) del mandamento di appartenenza (BRUSCA, CANCEMI), oppure avevano legami di sangue con chi vi sedeva (GANCI Calogero).

In particolare il BRUSCA (p.83 23-1-99) che ha partecipato a lungo all’attività della commissione in sostituzione del padre Bernardo e le cui dichiarazioni sono di coerenza ed attendibilità più volte rimarcata, ha puntualizzato con riferimento espresso alle competenze della commissione che:

Gli affari della competenza di commissione sono: gli omicidi di un certo interessi, fatti del territorio che interessano, comportamenti degli uomini d’onore, lamentele, problemi di… di altri mandamenti; dove ci sono dei problemi si devono risolvere. Cioe’, tutto quello che riguarda l’interesse di “Cosa Nostra” viene discusso… ad un certo livello viene discusso all’interno di… di “Cosa Nostra”, cioe’ dei capimandamento.

Il collaborante di S. Giuseppe Jato, ha aggiunto poi che gli omicidi e le questioni “di un certo livello” erano quelle attinenti diversi mandamenti che rischiavano di porre quindi in crisi i rapporti tra vari territori rendendo indispensabile un intervento super partes, spesso di natura impositiva, raramente di carattere mediatorio, talvolta sanzionatorio.

Con riferimento alla strage per cui è processo, il BRUSCA ha chiarito espressamente che la condanna a morte del dott. BORSELLINO già poteva farsi risalire ad una deliberazione collocabile intorno agli anni Ottanta, pur senza citare contesto e partecipanti degli incontri di vertice (16-6-01 f.141 142) in cui era stata assunta.

Ha precisato ancora che le comunicazioni delle deliberazioni collegiali ai componenti della commissione impediti a parteciparvi, avvenivano per il tramite di parenti che fungevano da nuncius veicolando all’interno del carcere (o nei territori di latitanza) le suddette deliberazioni.

A tal proposito il GALLIANO ha riferito che, il cugino GANCI Domenico, che il RIINA stesso aveva voluto sedesse talvolta in commissione accanto al padre Raffaele, gli aveva più volte confidenzialmente raccontato (f.43 1/7/98), vicende e decisioni adottate in commissione alla sua presenza, riferendosi espressamente all’omicidio Insalaco ed all’incontro del 1987 – citato da numerosi altri collaboranti – nel quale si era deliberato l’appoggio politico al partito socialista.

GANCI Calogero ha più volte chiarito (30-9-98 f.108) ricostruendo anche in dettaglio la geografia dei mandamenti e della commissione, che egli era venuto a conoscenza della partecipazione alla fase esecutiva della strage da parte del padre e del fratello con le modalità già ricordate al Capitolo II°.

Ha aggiunto che non si poteva dubitare in alcun modo che la deliberazione fosse frutto della commissione, della quale il padre era componente, essendo la vittima un magistrato (30/9/98 f.51).

Secondo il GANCI Calogero, con riferimento alle modalità di svolgimento delle riunioni, era mutata la prassi invalsa fino agli anni Ottanta quando tutti i capi mandamento si incontravano alla Favarella, la tenuta di GRECO Michele rappresentante di tutte le famiglie palermitane e capo mandamento di Ciaculli.

Successivamente per volontà del RIINA, si era addivenuti, ad incontri parcellizzati cui questi dava corso con tre o quattro personaggi per volta tra i titolari delle cariche formali o effettive, per ragioni essenzialmente di cautela specie quando vi era, nella colorita espressione di CANCEMI “rrivugghiu di sbirri” (f. 86 del 17/6/86).

Proprio il CANCEMI si è diffuso nel narrare quando tali esigenze si erano fatte pressanti e le relative variazioni nelle modalità di convocazione imposte dal RIINA di cui ha sottolineato il ruolo paritetico rispetto al PROVENZANO, peraltro mai intervenuto di persona negli incontri immediatamente precedenti la strage (f.18, 19, 20 ss. del 17-6-99).

Sulla stessa falsariga il CANCEMI si è mantenuto, anche di fronte alla Corte in sede di confronto ex art. 211 cpp con il BRUSCA relativo proprio alle circostanze di partecipazione a tale consesso dell’appellante LA BARBERA.

Lo stesso BRUSCA Giovanni, su tale aspetto, ha affrontato (f.141 del 16/6/01) il tema delle modalità di convocazione e di svolgimento degli incontri “a gruppetti” confermando la versione di GANCI Calogero.

Tali circostanze sono state riscontrato per altro verso, anche dalle dichiarazioni di altri collaboranti, richiamate nella parte espositiva, i quali però hanno quale unica fonte di conoscenza, dichiarazioni de relato di componenti l’organismo, cui erano particolarmente legati o che accompagnavano proprio in occasione dei citati consessi.

Significative in particolare, le affermazioni dal BRUSCA sul carattere di occasionalità degli incontri: essi infatti nei primi anni dopo la II° guerra di mafia venivano fissati con scadenze più o meno fisse a seconda delle esigenze, in seguito invece, ed in  particolare all’epoca dei fatti per cui si procede, l’originaria prassi delle riunioni plenarie era stata definitivamente abbandonata.

Si trattava, in sostanza, di continui appuntamenti e colloqui tra il RIINA, in palese accordo con il PROVENZANO, ed i diversi capi mandamento, ricevuti su loro specifica richiesta, singolarmente o a piccoli gruppi, presso l’abitazione di GUDDO Girolamo.

Altri luoghi utilizzati, secondo quanto emerso nel dibattimento per tali riunioni, anche in altri momenti, risultavano peraltro essere, l’abitazione di PRIOLO Vito presso la Casa del Sole (poi teatro del sinistro brindisi il pomeriggio del 19 luglio), un locale nella disponibilità di LA BARBERA Michelangelo denominato “il pollaio”, e l’abitazione della nonna del GALLIANO (nipote di GANCI Raffaele) sita in via Mariano Accardi, nel centro di Palermo.

Delle conoscenze dirette del BRUSCA su tale circostanza non è dato dubitare, avendo egli personalmente vissuto quei momenti ed incontrato il RIINA più di una volta, come confermato anche da CANCEMI, nel periodo a cavallo tra le stragi.

I VERTICI: la commissione regionale

Più sfumato e riconducibile essenzialmente al ricordo di pochi collaboranti è il ruolo della “commissione regionale o interprovinciale”.

La funzione essenziale di tale organismo, secondo i dichiaranti che hanno riferito fatti più remoti nel tempo e caratterizzati da sensibili differenze rispetto al periodo precedente la strage, doveva essere originariamente quella di prevenire o di comporre i contrasti insorti tra le diverse aggregazioni territoriali mafiose siciliane ed assicurare la continuità della comune conduzione criminosa.

Va al riguardo sottolineato che il ruolo specifico della commissione regionale nella deliberazione degli omicidi intervenuti nella guerra di mafia e di quelli consumati in danno di esponenti delle istituzioni, non è esplicitamente ricavabile sulla base delle dichiarazioni di BUSCETTA Tommaso.

Infatti nella sentenza n.80/92 si dà atto che tale primo collaborante, nelle dichiarazioni rese proprio al dott. Falcone, a partire dal luglio 1984, aveva precisato che Cosa Nostra era

“governata per le questioni di collettivo interesse o comunque trascendenti l’ambito locale, da un apposito organismo denominato Cupola o commissione, sedente in Palermo e composto dalle famiglie mafiose più importanti” (f.66 Cass. N.80/92).

Sullo specifico tema, DI CARLO Francesco nel corso dell’intero esame reso in primo grado il 19/6/98 ed in quello reiterato innanzi la Corte il 11/7/01 ha affrontato l’argomento relativo al “governo regionale” dell’associazione criminosa, giustificando le proprie conoscenze pur non facendo parte dell’organismo, con la qualità di fiduciario di taluni personaggi di vertice (tra i quali lo stesso RIINA) che a lui avevano affidato la materiale organizzazione di tali incontri.

DI CARLO Francesco ha riferito che le competenze della commissione regionale, relativamente agli anni settanta e ottanta e quindi prima della guerra di mafia, attenevano alle “questioni” che si riverberavano su tutta Cosa Nostra.

Egli ha indicato le modalità, i luoghi, i partecipanti e le regole comportamentali che disciplinavano gli incontri, nonché le occasioni che li avevano originati (es. omicidio CALDERONE G. risalente al 1978) aggiungendo che la maggior parte di essi si erano svolti, per le sue conoscenze, alla Favarella di Greco Michele, definito dal collaborante “coordinatore regionale” di Cosa Nostra fino al 1982 anno in cui il DI CARLO era stato poi allontanato dall’associazione a seguito dei contrasti insorti e delle contestazioni che gli erano state mosse.

MESSINA Leonardo ha riferito, nell’ambito del procedimento per la strage di Capaci (24-2-96 successivamente acquisito) con successiva conferma nel presente procedimento nel corso dell’udienza del 29/4/99, di aver appreso de relato da Micciche’ Liborio (detto “Borino”, consigliere della provincia mafiosa di Enna, poi a sua volta ucciso nell’aprile del 1992) di un incontro tra i capi di Cosa Nostra a carattere regionale, tenutosi in Valguarnera il 1-2-92, ovvero il giorno seguente la pubblicazione della sentenza n.80/92.

Di tale incontro il MESSINA aveva detto di aver già fatto cenno al dott. BORSELLINO nei suoi interrogatori successivi alla strage di Capaci, a suo dire “lanciando un segnale” al magistrato sui movimenti straordinari che avvenivano in Cosa Nostra in quel periodo, ma senza fornire ulteriori dettagli dato che la di lui collaborazione stava muovendo allora i primi passi.

Lo svolgimento di tale riunione, indetta per la deliberazione dell’omicidio del dott. Falcone e la progettazione di cruente vendette contro lo Stato da parte di Cosa Nostra, secondo il racconto del collaborante, non è stato ritenuto provato con sufficiente grado di certezza dalla Corte di primo grado che, non ha ravvisato riscontri oggettivi e convincenti alle dichiarazioni del MESSINA.

E’ opinione della Corte che tale assunto, peraltro incontestato dagli appellanti PM e PG, debba essere in toto condiviso essendo pacifico che, la natura de relato e neppure astrattamente verificabile per la morte del Micciche’ delle dichiarazioni del MESSINA, avrebbe dovuto essere supportata da circostanze di ben altra consistenza.

Il racconto pur dettagliato del collaborante infatti, ed i numerosi particolari forniti (primo tra tutti il controllo da parte di una pattuglia delle forze dell’ordine nei pressi della discoteca Premier di Enna quando il MESSINA si trovava in compagnia di Piazza Isabella, effettivamente verificatosi quella sera) possono indurre a ritenere che egli si sia trovato quella sera in loco e possa aver avuto in tal senso notizie, dal defunto Miccichè.

Tuttavia, secondo le indicazioni dello stesso MESSINA, la reale portata dell’incontro e la partecipazione effettiva di SANTAPAOLA, RIINA, PROVENZANO, Piddu MADONIA, Saitta, e di tale Barbero Angelo (che sarebbe arduo, per ragioni di mera analogia, individuare in LA BARBERA Michelangelo) così come l’argomento in discussione, non sono diversamente verificabili, e devono confinarsi, al più, nell’ambito della verosimiglianza, chiaramente insufficiente per essere posto a fondamento di un’affermazione di penale responsabilità per ciascuno degli asseriti partecipanti.

Peraltro, singolarmente, nell’ambito di tale riunione, non risulterebbe in alcun modo rappresentata la provincia di Trapani, considerata anche la costituzione spontanea di AGATE Mariano, avvenuta proprio quel giorno, e resasi irrevocabile, in esecuzione della condanna riportata nel maxi processo palermitano, resasi irrevocabile per effetto della sentenza n.80-92 che ne aveva rigettato il ricorso.

Conclusivamente sul punto, deve ritenersi mancante, ad avviso della Corte, la prova certa sia in ordine al dato oggettivo della ritenuta riunione a livello regionale, (tra l’altro dai contorni operativi assai incerti considerata l’estrema vicinanza alla notizia della pubblicazione della sentenza 80/92), che alle persone dei partecipanti aventi titolo formale per intervenire, che infine agli argomenti effettivamente discussi ed alle deliberazioni adottate.

Numerosi altri collaboranti hanno altresì fornito un contributo di conoscenza sull’argomento “commissione regionale”.

Tuttavia, come già sottolineato in premessa, le indicazioni fornite se possono far supporre l’esistenza concreta ed attuale di un organismo trasversale che riuniva gli interessi di Cosa Nostra sull’intero territorio isolano, aggiungono poco di più in termini di prova essendo frutto di generiche conoscenze, mai di acquisizione diretta e talvolta minate dal sospetto di non essere estranee a fenomeni di reciproco condizionamento se non di circolarità delle informazioni.

Così CUCUZZA Salvatore (f.119 del 22-10-98) ha parlato di “struttura super segreta cui partecipavano anche le famiglie napoletane”.

ANZELMO Francesco Paolo (f. 166 del 26-6-98) ne ha indicato le competenze di indirizzo sulle strategie, quali, ad esempio, quelle che avevano condotto a sostenere il Partito socialista nelle elezioni politiche del 1987, aggiungendo (f.336) che il RIINA ed il PROVENZANO erano soliti alternarsi anche in tale sede.

ONORATO Francesco (f.11, 113 del 16-7-98) ha distinto tra gli “omicidi eccellenti” di competenza della commissione provinciale e quelli “eccellentissimi” deliberati dalla commissione regionale, mentre GANCI Calogero (f.160 del 30-9-98), ammettendo di averne sentito parlare per la prima volta durante un’udienza del processo per la strage di Capaci, ha precisato di aver saputo nell’occasione dal padre Raffaele, che si trattava di una “commissione siciliana” sulle questioni di interesse comune alle diverse province.

BARBAGALLO Salvatore infine, (f.290 del 16-10-98) ha riferito per averne avuto notizia da Giuseppe Panzeca, uomo d’onore di Caccamo, come di un “collettore di tutti i soldi di Cosa Nostra e di tutti gli ordini” espressamente riferendosi a quegli omicidi di portata tale da non poter essere deliberati e gestiti dal singolo responsabile del mandamento o della famiglia.

I VERTICI: il direttorio ristretto

L’istruzione rinnovata nel dibattimento di secondo grado, ha messo ulteriormente in luce un elemento già profilatosi nel primo grado di giudizio, che costituisce una significativa conferma delle precedenti affermazioni relative alla cd “accelerazione” del movente ed ai tempi concisi di deliberazione ed esecuzione della strage di via d’Amelio.

E’ emerso in sostanza che, nel periodo di tempo in cui ebbero a verificarsi i fatti per cui si procede, si era creata intorno al RIINA ed al PROVENZANO una sorta di ‘comitato di fedelissimi’.

Costoro, non soltanto incontravano abitualmente il primo, ma avevano intrecciato un legame più solido con entrambi, avente origine nella cd “II° guerra di mafia” e finalizzato a concentrare nelle mani di pochi il potere sostanziale, in particolare quello economico, alimentato dal lucroso settore degli appalti e favorito dalle connivenze politico – istituzionali.

Già in primo grado BRUSCA Giovanni,  (f.211 23-1-99) aveva accennato ad un progetto del RIINA mirato a costituire un “gruppo ristretto che doveva diventare l’anello di congiunzione con i politici” attraverso il canale privilegiato dell’Impresa Reale – chiave di volta spesso richiamata nelle dichiarazioni del collaborante – che, andando a sostituire l’Impresem dell’imprenditore agrigentino Filippo Salamone, doveva costituire proprio quel ponte di collegamento per i nuovi canali di approvvigionamento che Cosa Nostra intendeva sfruttare, come peraltro confermato dalle parole del SIINO.

Analoghe deduzioni era possibile scorgere peraltro già nelle dichiarazioni del medesimo collaborante rese nel procedimento per la strage di Capaci, ed acquisite al presente procedimento (f.104 del 3-7-99), dove BRUSCA si era espressamente riferito ad un ristretto gruppo, parlando addirittura di “minicommissione” sia pure con riferimento al periodo successivo all’arresto del RIINA.

Con colorita espressione, MUTOLO Gaspare (f. 43 del 15-4-99) aveva affermato che “RIINA insieme a quattro – cinque amici suoi, aveva la mentalità distorta” precisando che i progetti del capo corleonese e la fama di sanguinario, a lui già noti da tanto tempo, avevano rovinato “la mafia di Palermo”.

Il dibattimento di secondo grado ha aggiunto sul punto, sempre grazie al decisivo contributo di elevato spessore fornito dal BRUSCA (f.96 del 18-6-01), alcune precisazioni dai contenuti ancora più evidenti che, secondo il giudizio della Corte, hanno fatto sul punto, definitiva chiarezza.

Espressamente esaminato dalla Corte sull’argomento, il BRUSCA ha affermato categoricamente che, al tempo delle stragi, le competenze erano separate in Cosa Nostra rimanendo estranei agli incontri di commissione, taluni soggetti, pur di preminenza assoluta quali il Cinà Antonino, professionista palermitano poi effettivamente tratto in arresto nel 1995 per il reato di associazione a delinquere di tipo mafioso.

Il collaborante ha poi proseguito chiarendo ancora che i personaggi più vicini al RIINA, sei o sette in tutto, erano quelli che “sapevano dove lui abitava e gli spostamenti”: tra questi c’erano sicuramente GANCI Raffaele ed il figlio Domenico.

Secondo il BRUSCA infine, agli incontri della commissione provinciale tenutisi tra la primavera e l’autunno del 1992, all’interno dei quali era stato affrontato il tema della eliminazione dei personaggi istituzionali ostili a Cosa Nostra, erano regolarmente presenti soltanto alcuni capi mandamento individuati in CANCEMI, BIONDINO, GANCI Raffaele e talvolta LABARBERA Michelangelo.

Si trattava in sostanza, del ristretto direttorio che ruotava sempre intorno al RIINA condividendone in toto le scelte, (del resto preventivamente concertate con il PROVENZANO) anche le più rischiose ed azzardate per la stessa associazione, senza spesso chiedere giustificazione alcuna, lungi anzi dall’abbozzare qualsiasi proposito dissociativo.

Anche CANCEMI, che ha fatto stabilmente parte di quel gruppetto di fedelissimi, ha espressamente sottolineato (pur nel modo a volte tortuoso e sibillino che spesso caratterizza le sue parole), con riferimento all’effettivo esercizio del potere interno alla commissione, che PROVENZANO e RIINA si erano sostanzialmente accordati sulla partecipazione agli incontri (f. 182 del 16/6/01).

Il PROVENZANO era solito presenziare prima della cd. guerra di mafia per essere poi sostituito dal RIINA solo in seguito a quegli eventi, sempre peraltro su un piano di condivisione degli obiettivi e delle strategie comuni.

Tali affermazioni dei citati collaboranti peraltro, appaiono ad avviso della Corte con la ricostruzione in precedenza operata sulla commissione provinciale e sugli equilibri interni.

Incisive e del tutto coincidenti con le affermazioni del CANCEMI stesso, a proposito dei ruoli di vertice interni alla commissione, le indicazioni dell’ordinanza di custodia cautelare resa nel presente procedimento il 11-11-96 dal GIP di Caltanissetta ove ci si riferisce ad un “duopolio” in atto tra i due esponenti di vertice del mandamento di Corleone, confermando tra l’altro la sostanza della precedente ed efficace immagine raffigurata nella sentenza 80/92 che individuava la gestione verticistica della commissione quale frutto del “l’alternanza delle presenze”.

E’ in sostanza utilizzabile ancora una volta per chiosare sul punto, l’attuale ed inequivocabile strumento cui ha fatto ricorso la stessa sentenza quando, riferendosi all’organo decisionale di Cosa Nostra ed ai suoi componenti, venivano individuati questi ultimi quali autorevoli ed influenti membri di un ristretto direttorio(f. 372).

CONCLUSIONI IN TEMA DI CONSENSO E

COLLEGIALITÀ DELLA DECISONE

Pacificamente dunque, il fenomeno mafioso da cui ha tratto origine Cosa Nostra, quale organismo criminale di elevatissimo profilo, alimentatosi sul terreno dell’illegalità e del contrasto con le istituzioni dello Stato, rispetto al quale intendeva porsi come alternativa nel controllo del territorio, ha dovuto assoggettare i propri adepti a regole ferree la cui violazione è spesso equivalsa con la morte.

La presenza di veri e propri codici non scritti non può seriamente porsi in discussione proprio alla luce di una logica stringente di sopravvivenza dell’organismo, descritte dalle concordi dichiarazioni di pressocchè tutti i collaboranti escussi.

Le relative espressioni di costoro, anche con riferimento alla solennità della cerimonia “d’iniziazione” hanno fatto più volte riferimento non solo alle “regole”, ma anche alla mancata necessità che le stesse venissero discusse e citate espressamente, dandosene per scontata l’applicazione e comprendendosene la portata con un solo cenno d’intesa tra “uomini d’onore”.

La prima e fondamentale tra le regole interne, alla luce delle concordi dichiarazioni dei collaboranti rese in primo grado e nella presente sede è, senza alcun dubbio, quella relativa alla competenze dell’organismo di vertice interno a Cosa Nostra, da tutti sostanzialmente indicato come in “commissione provinciale” o “cupola”.

La commissione ha dunque esercitato il proprio potere all’interno dell’associazione ed al suo esterno, ha deliberato omicidi ed altri crimini per le contingenti ragioni legate ai comuni interessi dei componenti e delle zone geografiche dell’area palermitana che ciascuno di essi rappresentava, ed ha, quantomeno dalla fine della cd “guerra di mafia” dei primi anni Ottanta, imposto un controllo del territorio pressocchè totale.

Di tale commissione facevano parte i singoli capi mandamento, eletti a tale carica dagli stessi affiliati su espressa indicazione e con l’obbligatorio “gradimento” di RIINA.

Il potere di costui derivava non solo e non tanto dalla qualità di capo del mandamento di Corleone (carica condivisa con il PROVENZANO per espresso volere del LEGGIO) ma, dall’essere rappresentante di spicco della fazione vincente dopo la citata sanguinosa faida interna conclusosi nel 1982, che aveva condotto, allo sterminio di numerosi affiliati alle cosche palermitane.

In sostituzione di coloro i quali erano stati designati a capo del mandamento poteva sedere chi, parimenti delegato alla sostituzione, rappresentava temporaneamente, durante la detenzione (o l’impedimento) del titolare, interessi e volontà del proprio mandamento di appartenenza, impegnandosi a trasmettere da e per il carcere, per una sorta di osmosi, ogni questione che esorbitasse “l’ordinaria amministrazione”.

Accanto alle questioni interne a Cosa Nostra di natura ’amministrativa’, la commissione possedeva un titolo deliberativo assoluto e non sottraibile alle proprie attribuzioni, che concerneva la uccisione di tutti quei soggetti la cui scomparsa poteva in qualsiasi modo ripercuotersi non solo su uno dei mandamenti o su una famiglia ma su diverse tra tali aggregazioni e quindi su interessi di ordine generale.

La incidenza della deliberazione omicidiaria sugli assetti di Cosa Nostra poteva discendere, sia dalla qualifica di ‘uomo d’onore’ della vittima, come dall’accertata violazioni delle regole.

A maggior ragione, si appelesava la necessità di un intervento collegiale, qualora l’obiettivo da eliminare fosse stato un appartenente alle istituzioni, da cui discendeva intuitivamente, una più intensa attività repressiva da parte dello Stato.

Il cd “delitto eccellente” non poteva dunque, di regola, per nessun motivo sfuggire alla deliberazione unitaria della commissione che, in tal modo, ne assumeva, anche collegialmente, la responsabilità per le conseguenze.

La Corte ritiene pertanto accertato, al di là di ogni ragionevole dubbio sulla base delle precedenti considerazioni, che la strage per cui è processo, una volta scaturitane la urgente necessità in capo ai “proponenti” RIINA di concerto con il proprio alter ego PROVENZANO, era stata sottoposta al vaglio della commissione provinciale, del resto direttamente coinvolta in forza del principio di territorialità e della personalità della vittima, avversario storico di Cosa Nostra che viveva ed operava in Palermo quale Procuratore Aggiunto della Repubblica.

Non vi è prova certa invece di una ulteriore sottoposizione preventiva del progetto all’organismo di vertice regionale di Cosa Nostra, del quale hanno essenzialmente tratteggiato i contorni i pochi collaboranti di cui si è detto.

E’ assai verosimile a rigor di logica che le decisioni di maggior importanza, necessitasse di un concerto, quantomeno volitivo tra i rappresentanti delle diverse province mafiose, che risparmiasse quantomeno da rischi successivi di contestazioni trasversali con indebolimento di tutta la struttura.

Il presente procedimento, però non ha consentito di pervenire all’accertamento del verificarsi di un avvenuto vertice regionale che abbia preceduto la esecuzione dell’omicidio BORSELLINO.

In concreto peraltro, il quadro scaturito dalle dichiarazioni dei collaboranti, dai riscontri oggettivi alle medesime e da quei parametri di riferimento individuati nella territorialità e nei colloqui carcerari, rende evidente che le vicende interne ed esterne a Cosa Nostra avevano imposto un adeguamento contingente alle necessità del momento, di regole astratte la cui applicazione tout court si è resa impossibile.

Ne deriva che, ad avviso della Corte la deliberazione della strage e la formazione del consenso ad essa, fu riservata, come già precedentemente anticipato, solo ai capi mandamento di cui fu possibile la preventiva consultazione e che offrivano la massima garanzia di fedeltà e di disponibilità alla partecipazione diretta.

Al quadro sopra delineato deve peraltro aggiungersi una significativa circostanza, indicativa di un’applicazione non senza eccezioni del principio della rigorosa e globale collegialità nella deliberazione degli “omicidi eccellenti”.

Infatti, pur con riferimento ad un’epoca di qualche anno anteriore rispetto ai fatti di causa ma sempre in condizioni di chiara supremazia corleonese, il principio aveva subito  una significativa eccezione nell’episodio del fallito attentato all’Addaura del 21-6-89 in danno del dott. Falcone, tipico esempio di “delitto eccellente”. Relativamente a tale attentato infatti – alla stregua della formale contestazione – il ruolo di mandante risulta ascritto al solo Salvatore RIINA in “ragione della carica ricoperta all’interno del sodalizio criminale denominato Cosa Nostra (rappresentante della commissione provinciale di Palermo, in seno alla commissione interprovinciale o regionale e capo mandamento di Corleone)” senza alcun accenno agli altri soggetti aventi titolo per sedere nell’organismo di vertice.

Tali considerazioni devono necessariamente porsi in correlazione diretta – come più volte rimarcato – con i principi di personalità della penale responsabilità, costituzionalmente fissata nei termini di cui all’art. 27 e quindi di suitas della condotta, che non possono essere dilatati ed estesi indipendentemente dal ruolo rivestito, a chi non abbia dato un contributo volontario e cosciente alla consumazione del fatto contestato.

La diversa applicazione contingente delle pur astrattamente individuate regole interne a Cosa Nostra, emerge in primo luogo e con chiarezza evidente, dal contrasto che sussiste tra quanto verificatosi per le fasi deliberative ed esecutive delle due terribili stragi di Capaci e via d’Amelio, ancorchè intervallate da soli 56 giorni.

Dalle risultanze di quel procedimento per i fatti del 23 maggio 1992, a carico di Aglieri Pietro + 38, sono emerse talune significative divergenze tali, da far ritenere sostanzialmente diverse le due drammatiche stragi, apparentemente simili.

Alcuni elementi di particolare rilievo non sfuggono ad un’attenta analisi comparata dei due crimini:

A) Innanzi tutto il fondamentale compito espletato dal Biondino Salvatore – con gli evidenti riflessi sui principi di responsabilità personale già citati – prima della strage di Capaci, in occasione della quale, il responsabile del mandamento di San Lorenzo aveva provveduto personalmente a contattare la grande maggioranza se non la totalità dei suoi pari grado, su incarico del RIINA per consultarli in ordine alla deliberazione da parte della commissione.

A fronte di questo emerge invece nell’attuale procedimento la perentoria e urgente proposta del RIINA ai pochi fedelissimi incontrati singolarmente o a gruppetti a casa del Guddo e coinvolti in un progetto esecutivo che appariva improvvisamente non più rinviabile, né diversamente discutibile sotto il profilo dell’an.

B) L’utilizzazione di una carica micidiale per avere contenuto circa 500 kg di esplosivo ed il suo occultamento nel cunicolo autostradale per il deflusso delle acque piovane, situato in prossimità dello svincolo di Capaci, rendeva quell’attentato – in caso di ritrovamento casuale dell’esplosivo stesso – non riconducibile ad un obiettivo certo e singolo ma, potenzialmente estendibile a più bersagli e, di conseguenza, proveniente da anonimi operatori “protetti” dalle stesse modalità dell’attentato.

Diversamente, la riconducibilità a Cosa Nostra dell’attentato di via d’Amelio doveva essere pressoché automatica, come in effetti fu, non essendovi in dubbio che la stessa via d’Amelio era ricollegabile al solo dott. BORSELLINO, risiedendovi parte della di lui famiglia d’origine e nessun altra potenziale vittima.

C) Il pur controverso incontro verticistico a carattere regionale, tenutosi in Valguarnera il 1-2-92 secondo le dichiarazioni del MESSINA, doveva riferirsi alla eliminazione del dott. Falcone per le ansie ritorsive di Cosa Nostra dopo l’esito del maxi – processo, essendo invece escluso da tale presunta e non provata concertazione, il dott. BORSELLINO. A tale omicidio infatti, pur genericamente progettato sin dagli anni Ottanta, ancora nella primavera del 1992 si era appena accennato sotto il profilo esecutivo ed alternativamente rispetto ad altri personaggi (On. Mannino, Sen. Purpura, dott. La Barbera ecc.) In tal senso militano le dichiarazioni del BRUSCA (f.140 16-6-01), “non dobbiamo dimenticarci di questo” che quelle del CANCEMI (17-6-99 ff.18).

D) Decisivo poi sotto il profilo probatorio di riconducibilità al concerto interprovinciale di Cosa Nostra, l’elemento oggettivo dato dall’appartenenza alle cosche catanesi, di RAMPULLA Pietro, riconosciuto artificiere ed esperto di esplosivi impiegato nella preparazione dell’attentato del 23 maggio proprio per tali sue conoscenze.

Per converso non vi è traccia nel presente procedimento di soggetti appartenenti ad altri nuclei provinciali che abbiano, in qualsiasi modo, fornito un loro contributo all’esecuzione materiale della strage.

Dunque, nei fatti per cui è processo non è dato rinvenire quegli elementi che invece hanno diversamente connotato la strage di Capaci sotto il profilo della collegialità globale della delibera di morte e sono apparsi significativi di una condotta di matrice mafiosa, coinvolgente senza eccezione i più alti vertici provinciali e regionali di Cosa Nostra.

Diversamente, la strage del 19 luglio è scaturita, da presupposti del tutto diversi e si è sviluppata, tra la fibrillazione del RIINA (Brusca f. 16/6/01: l’ho visto eccitatissimo) spinto addirittura ad accollarsi l’onere esclusivo della rottura degli indugi di concerto con la “sua ombra” PROVENZANO (CANCEMI f.36 17/6/99: Faluzzo la responsabilità è mia), ed una frettolosa organizzazione che si è affidata all’impiego di una vettura rubata solo 9 giorni prima della strage e ad un gruppo di pattugliatori la cui composizione è stata definita concretamente solo poco prima di quella fatale domenica.

E’ insomma risultanza diretta degli atti processuali, che il PROVENZANO ‘dietro le quinte’ ed  il RIINA, nelle ormai note vesti di proponenti, abbiano supposto, in quel particolare contesto, di detenere un potere ormai centralizzato e di godere, per altro verso, di un consenso generale e presunto all’interno di Cosa Nostra la cui esplicita formulazione da parte dei capi mandamento interessati, doveva relegarsi al rango di una formalità o poco più.

Infatti la materiale raccolta di tutte le materiali adesioni al progetto, avrebbe potuto da un lato rallentare i tempi di esecuzione che si presentavano invece tambureggianti, (con il rischio di far fallire l’attentato) dall’altro addirittura provocare l’insorgere di qualche ostacolo da parte di taluno dei soggetti meno propensi a proseguire nella strategia sanguinaria.

Le perplessità sull’esecuzione del crimine non erano infatti di scarso rilievo tra i capi mandamento e gli uomini d’onore, come è emerso solo in seguito, anche grazie, alle dichiarazioni dei collaboranti all’epoca ristretti che avevano raccolto le pur tardive lamentele di numerosi codetenuti, consapevoli delle conseguenze negative che si sarebbero riversate, come in effetti avvenne, su di loro e su tutta Cosa Nostra.

Il direttorio strettosi intorno ai corleonesi ed in particolare ai “proponenti” RIINA e PROVENZANO, (GANCI, CANCEMI, Biondino, LA BARBERA, GRAVIANO) fù invece contattato e consultato a più riprese con le modalità narrate chiaramente da BRUSCA e CANCEMI in primo luogo, nella consapevolezza che, da quegli uomini, non poteva che derivare un pieno appoggio anche a dispetto di eventuali dubbi mai neppure esternati in sede di commissione.

Pochissimi altri soggetti (MADONIA F. MONTALTO G. CALO’), dovevano necessariamente sapere della decisione omicidiaria e quindi ne furono messi a parte, perché il loro ruolo territoriale o decisionale era imprescindibile ed il contatto con gli stessi, quantunque detenuti o latitanti, effettivo e continuo.

Un ruolo particolare tra i detenuti è toccato a Pippo CALO’, all’informazione del quale era verosimilmente rivolta l’affermazione del RIINA, riferita da CANCEMI, “per u’ zu’ Pippu, ci penso io”. L’esistenza di un canale informativo con il suddetto CALO’ ha trovato concreta conferma nei provati rapporti di singolare frequenza e continuità, (anche nell’imminenza della strage) del capo mandamento di Porta Nuova con il cognato Mattaliano Gregorio, di cui è pacificamente emersa, nonostante la smentita del CALO’, la qualità di uomo d’onore.

Per tutti costoro sussiste, ad avviso della Corte, l’atteggiamento preventivo richiesto dalla Cassazione con l’efficace espressione ”cognita re” (Cass n. 80/92 f.345) perché possa essere affermata la penale responsabilità, in forza dell’acquisita conoscenza e del contributo deliberativo alla strage.

Essi in sostanza seppero in anticipo, condivisero la proposta del RIINA e del PROVENZANO, deliberarono pur separatamente e dettero il proprio decisivo assenso all’eliminazione del dott. BORSELLINO.

Ciò premesso sotto il profilo generale, gli elementi specifici attinenti alle posizioni individuali, saranno oggetto di analitica trattazione da parte della Corte nei capitoli a ciò riservati alla luce del chiaro principio fissato dal giudice di legittimità, in contrasto con il rigido criterio di automatismo applicato dai primi giudici, secondo cui:

“la mera appartenenza in ragione della qualità di capo mandamento di Cosa Nostra alla commissione, è di per sé insufficiente a comportare la responsabilità del singolo per i reati che si assumono frutto di deliberazione collegiale” (Cass 27/4/2001 n.793).

Gli stessi principi, sono altresì desumibili dall’ulteriore massima, del medesimo tenore, di seguito citata:

“la motivazione (…) si sofferma sulla conoscenza che in generale si può ritenere che abbiano i capi – mandamento, anche nella loro qualità di componenti della “commissione provinciale” in ordine ai cd delitti eccellenti: ma non ha adeguatamente motivato in ordine all’effettiva partecipazione dell’imputato alla deliberazione della strage di Capaci o quanto meno all’accettazione di tale deliberazione, soprattutto con riferimento ai tempi in cui la detta strage è stata deliberata ed eseguita ed ai tempi in cui l’imputato, ha ricoperto il ruolo di capo mandamento e conseguentemente di componente della commissione provinciale” (Cass Sez. I° 6/10/94 N.4347)

Fonte  Corte D’Assise d’Appello di Caltanissetta