Gli ultimi giorni di Paolo Borsellino (2)

 

.1 GIUGNO 1992– Alla sera qualcuno suona al campanello della casa di Paolo Borsellino in via Cilea a Palermo. È una processione di carabinieri e poliziotti che vogliono chiedere al giudice una “raccomandazione” per essere annessi alla sua scorta. Ad aprire la porta di casa è Lucia, mentre Borsellino è ancora al lavoro in ufficio. Lucia fa accomodare tutti in salotto. Quando il giudice torna a casa ha però una reazione inaspettata: vede questi estranei in casa, chiama i familiari nella stanza più lontana e comincia a gridare contro di loro perché colpevoli di aver fatto entrare queste persone, non sopporta di vedere gente in casa, è stanchissimo. Solo dopo qualche minuto i familiari riescono a spiegargli il perché di quella inconsueta visita. Borsellino fa in tempo a bloccare il gruppo che, capita l’antifona, sta per andarsene. Il giudice chiede scusa e dà appuntamento per l’indomani in procura: “Parliamone lì ragazzi”, acconsente. «Si parlava di Falcone, delle indagini su Capaci, dei nuovi equilibri dentro Cosa Nostra. Terminiamo di cenare, ed il proprietario del locale si avvicina a Paolo, gli sussurra in un orecchio che il cuoco vorrebbe conoscerlo, nulla di più. Paolo mi sembra imbarazzato dalla insolita richiesta, ma dice di sì. Si alza, va incontro al cuoco, un uomo anziano, dal viso buono. Appena gli stringe la mano, questi si mette a piangere come un bambino. Paolo resta pietrificato per pochi secondi. Poi, commosso, lo abbraccia. I due escono dal ristorante, cominciano a passeggiare parlando fitto fitto, come vecchi amici, in palermitano stretto. “Sai Antonio”, mi racconta in auto mentre rientriamo a Palermo, “stavo per mettermi a piangere anch’io. Ha voluto dirmi che i palermitani onesti, i padri di famiglia, sono al nostro fianco”. Quella cena con i carabinieri, Borsellino, la ricorderà per sempre. La chiamerà “la cena degli onesti”. (Da Capaci a via D’Amelio ricordando i 57 giorni – Venerdì 5 giugno 1992  – Antonio Ingroia racconta che alla sera, durante una cena a Terrasini, organizzata dai carabinieri, il calore delle gente raggiunge Paolo Borsellino in pieno.)

5 GIUGNO 1992 – Il procuratore aggiunto Paolo Borsellino partecipa a una cena organizzata dai carabinieri di Palermo in un ristorante di Terrasini, alle porte della città.Vent’anni dopo, quella cena diventerà importante. Molti dei carabinieri che vi parteciparono hanno avuto storie tragiche. Il maresciallo Antonio Lombardo, suicida nella caserma di Terrasini; il tenente Carmelo Canale (cognato di Lombardo, e principale collaboratore di Borsellino) imputato (e assolto) di essere colluso con la mafia; il maggiore Mario Obinu imputato con il generale Mori di collusione con la mafia. La versione che della cena ha dato nel 2011 l’allora maggiore Umberto Sinico, presente, è che questa fu della massima cordialità e che Borsellino alzò il calice per dire: “Brindo agli onesti” (a dimostrazione che il giudice non aveva nessun dubbio sulla lealtà dell’Arma).Antonio Ingroia, allora giovane sostituto procuratore e oggi procuratore aggiunto, anche lui presente alla cena, ha un altro ricordo: “Terminiamo di cenare, e il proprietario del locale si avvicina a Paolo, gli sussurra in un orecchio che il cuoco vorrebbe conoscerlo, nulla di più. Paolo mi sembra imbarazzato dalla insolita richiesta, ma dice di sì. Si alza, va incontro al cuoco, un uomo anziano, dal viso buono. Appena gli stringe la mano, questi si mette a piangere come un bambino. Paolo resta pietrificato per pochi secondi. Poi, commosso, lo abbraccia. I due escono dal ristorante, cominciano a passeggiare parlando fitto fitto, come vecchi amici, in palermitano stretto. Sai Antonio, mi racconta in auto mentre rientriamo a Palermo, ‘stavo per mettermi a piangere anch’io. Ha voluto dirmi che i palermitani onesti, i padri di famiglia, sono al nostro fianco. Quella cena con i carabinieri, Borsellino la ricorderà per sempre. La chiamerà ‘la cena degli onesti’”

13 GIUGNO 1992 – PAOLO BORSELLINO INCONTRA A PALERMO L‟EX-PRESIDENTE FRANCESCO COSSIGAche lo invita a candidarsi alla guida della Superprocura. “Glielo dissi chiaro e tondo – ricostruisce oggi Cossiga – è inutile che si agiti: lei è il successore e l’erede di Falcone. Lei e nessun altro”. Ci sapeva fare con i mafiosi pentiti Paolo Borsellino, così come Giovanni Falcone è tanti colleghi col vero senso della giustizia. Alcuni sostengono che una delle cause del delitto sia stata proprio l’essere vicino a scoprire i mandanti e gli esecutori della strage di Capaci. Voleva continuare a difendere Giovanni Falcone come aveva fatto quando l’amico era vivo. In ogni caso, Paolo Borsellino aveva certamente il senso di andare incontro alla sua morte. Avrebbe potuto cambiare strada, ne avrebbe avuto motivo più che in passato. Rimase per fedeltà a un’amicizia. Il 23 giugno del 1992, a Palermo, nella monumentale basilica di san Domenico, Borsellino tenne uno splendido discorso in memoria dell’amico Falcone, le sue parole, rievocate oggi, hanno ancora un timbro umano inconfondibile. Parlando di Giovanni Falcone, Paolo Borsellino ci parlava di se stesso: Perché non è fuggito, perché ha accettato questa tremenda situazione, perché non si è turbato, perché è stato sempre pronto a rispondere a chiunque della speranza che era in lui? Per amore! La sua vita è stata un atto d’amore verso la sua città, verso la terra che lo ha generato. Perché se l’amore è soprattutto ed essenzialmente dare, per lui, e per coloro che gli sono stati accanto in questa meravigliosa avventura, amare Palermo e la sua gente ha avuto e ha il significato di dare a questa terra qualcosa, tutto ciò che era ed è possibile dare delle nostre forze morali, intellettuali e professionali per rendere migliore la patria cui apparteniamo – Da l’agenda rossa di Paolo Borsellino.  

Durante il settennato posizioni di Cossiga su magistratura e mafia erano state molto bizzarre. Applaudì per esempio, in nome del garantismo, la decisione del giudice Carnevale di liberare (“per decorso limite della custodia cautelare”) i più importanti mafiosi fatti arrestare da Falcone (in quella occasione la decisione di Carnevale fu impugnata da Martelli e Andreotti, che li fecero rimettere in carcere quarantotto ore dopo). Si scagliò beffardamente contro “i giudici ragazzini”, quando uno di loro, Rosario Livatino, era stato inseguito su un’autostrada e ucciso da Cosa nostra. Difese sempre l’Arma dei carabinieri da qualsiasi sospetto di collusione, invocandone anche una discesa in campo nella politica. Inquietante il ricordo che Agnese Borsellino, la vedova di Paolo, ha raccontato al settimanale “Left” alla fine del 2011: “Mi chiamò l’ex presidente Cossiga un mese prima di morire. In quella telefonata mi disse: ‘La storia di via D’Amelio è da colpo di stato’. Poi chiuse il telefono senza dirmi nient’altro”. Sempre nel 2011 anche il successore di Cossiga al Quirinale, Oscar Luigi Scalfaro (che sarebbe morto di lì a poco), venne intervistato sulla possibile trattativa stato-mafia degli anni 1992-1993. Le sue risposte non furono esaustive: “Temo che non sapremo mai la verità sugli attentati”. E ancora, in un’altra intervista: “A chi insiste sulla vicenda del famoso ‘papello’, sul quale Riina avrebbe scritto le condizioni di Cosa nostra, l’unica risposta possibile deve essere di assoluta cautela”. Marzio Breda sul “Corriere” gli chiedeva: “Ci fu il negoziato?”. Scalfaro: “Bisogna stare attenti a non superare il confine tra vero-verosimile e falso”

19 GIUGNO 1992 – Il generale dei carabinieri Antonio Subranni, comandante del Ros, invia il rapporto numero 541 al comando generale dei carabinieri in cui si riporta che “numerose fonti, mafiose e non” hanno parlato di una decisione di Cosa nostra di eliminare fisicamente Paolo Borsellino. Altri possibili obiettivi sono il maresciallo Canale e il maggiore Sinico, il ministro della Difesa Andò e l’ex ministro Calogero Mannino. Il rapporto è intitolato “Minacce nei confronti di personalità ed inquirenti”.Borsellino viene informato del rischio e la sua scorta viene raddoppiata.Dunque i carabinieri disponevano di notizie abbastanza precise. C’erano fonti anche dentro Cosa nostra. C’era una lista. E, per quanto riguarda Borsellino, il rapporto indicava un movente molto preciso: le inchieste del procuratore aggiunto sulla mafia di Castelvetrano, in provincia di Trapani, che avevano decimato la cosca locale; una famiglia che aveva agganci diretti negli uffici dellaCorte di cassazione.

23 GIUGNO 1992 – A un mese di distanza dalla strage di Capaci, Paolo Borsellino ricorda Giovanni Falcone davanti a circa mille esponenti di associazioni antimafia di Palermo, nel cortile di Casa Professa, centro dei gesuiti palermitani. Il suo discorso – emozionato, senza diplomazie, senza linguaggio giuridico, semplicemente terribile – viene continuamente interrotto da ondate di applausi, irrefrenabili. Nelle parole del giudice incombe la presenza di una tragedia compiuta e di un’altra che sta per esserlo. È l’ultimo intervento pubblico di Borsellino, che indossa giacca e cravatta. È anche detto “il discorso dell’amore”.

Questo il testo:“Giovanni Falcone lavorava con perfetta coscienza che la forza del male, la mafia, lo avrebbe un giorno ucciso. Francesca Morvillo stava accanto al suo uomo con perfetta coscienza che avrebbe condiviso la sua sorte. Gli uomini della scorta proteggevano Falcone con perfetta coscienza che sarebbero stati partecipi della sua sorte. Perché non è fuggito, perché ha accettato questa tremenda situazione, perché non si è turbato, perché è stato sempre pronto a rispondere a chiunque della speranza che era in lui? Per amore!La sua vita è stata un atto d’amore verso questa sua città, verso questa terra che lo ha generato.Perché se l’amore è soprattutto ed essenzialmente dare, per lui, e per coloro che gli sono stati accanto in questa meravigliosa avventura, amare Palermo e la sua gente ha avuto e ha il significato di dare a questa terra qualcosa, tutto ciò che era ed è possibile dare delle nostre forze morali, intellettuali e professionali per rendere migliore questa città e la patria cui essa appartiene. Per lui la lotta alla mafia non doveva essere soltanto una distaccata opera di repressione, ma un movimento culturale e morale, che coinvolgesse tutti specialmente le giovani generazioni, le più adatte a sentire la bellezza del fresco profumo della libertà che fa rifiutare il puzzo del compromesso morale, dell’indifferenza, della contiguità, e quindi della complicità. Ricordo la felicità di Falcone quando in un breve periodo d’entusiasmo, conseguente ai dirompenti successi originati dalle dichiarazioni di Buscetta, egli mi disse: “La gente fa il tifo per noi”. Qui Borsellino si ferma per quasi due minuti, per gli applausi che lo sommergono. Questa stagione del “tifo per noi” sembrò durare poco, perché ben presto sopravvenne il fastidio e l’insofferenza al prezzo che per la lotta alla mafia doveva essere pagato dalla cittadinanza. Insofferenza alle scorte, insofferenza alle sirene, insofferenza alle indagini, insofferenza che finì per legittimare un garantismo di ritorno, che ha finito per legittimare, che ha finito a sua volta per legittimare provvedimenti legislativi che hanno estremamente ostacolato la lotta alla mafia, il loro codice di procedura penale. E adesso hanno fornito un alibi a chi, dolosamente spesso, colposamente ancor più spesso, di lotta alla mafia non ha più voluto occuparsi. In questa situazione Falcone andò via da Palermo. Non fuggì ma cercò di ricreare altrove le ottimali condizioni per il suo lavoro. Venne accusato di essersi avvicinato troppo al potere politico. Non è vero! Pochi mesi di dipendenza al ministero non possono far dimenticare il lavoro di dieci anni. E Falcone lavorò incessantemente per rientrare in magistratura, in condizioni ottimali. Per fare il magistrato, indipendente come lo era sempre stato. Morì, è morto, insieme a sua moglie e alle sue scorte e ora tutti si accorgono quali dimensioni ha questa perdita, anche coloro che, per averlo denigrato, ostacolato, talora odiato, hanno perso il diritto di parlare. Nessuno tuttavia ha perso il diritto, e anzi il dovere sacrosanto, di continuare questa lotta. La morte di Falcone e la reazione popolare che ne è seguita dimostrano che le coscienze si sono svegliate e possono svegliarsi ancora. Sono morti per noi e abbiamo un grosso debito verso di loro e dobbiamo pagarlo gioiosamente, continuando la loro opera; facendo il nostro dovere, rispettando le leggi, anche quelle che ci impongono sacrifici, rifiutando di trarre dal sistema mafioso anche i benefici che potremmo trarre (anche gli aiuti, le raccomandazioni, i posti di lavoro); collaborando con la giustizia, testimoniando i valori in cui crediamo, anche nelle aule di giustizia: accettando in pieno questa gravosa e bellissima eredità. Dimostrando a noi stessi e al mondo che Falcone è vivo”.

25 GIUGNO 1992 – PALERMO –Il maggiore Umberto Sinico e il maresciallo Antonio Lombardo si recano nel carcere di Fossombrone per ascoltare Gerolamo D’Anna, capomafia di Terrasini, storico contatto del maresciallo, suo concittadino e capostazione dei carabinieri locali. Questi, che è “in confidenza” con il maresciallo, gli annuncia che “è arrivato il tritolo per Borsellino”. Sinico riferisce immediatamente la notizia al magistrato che così commenta: “Lasciamogli questo spiraglio, almeno lasciano stare la mia famiglia”.Questa rivelazione è stata fatta nel 2011 nel corso del processo contro il generale Mario Mori e il maggiore Obinu, nel quale Umberto Sinico, oggi colonnello, era testimone per la difesa. Sono state fornite alcune informazioni supplementari. Per esempio che Girolamo D’Anna è un uomo d’onore della vecchia guardia di Cosa nostra, “posato” perché vicino a Tano Badalamenti (caduto in disgrazia dopo l’avvento dei corleonesi), ma ancora di grande carisma e messo al corrente delle decisioni importanti. Si evince quindi che Cosa nostra avviò una vasta consultazione sull’opportunità o meno di uccidere Borsellino, e che D’Anna non si tenne la cosa per sé, anzi mandò a chiamare dal carcere chi poteva impedire l’azione. (Il tutto getta una luce nuova sui rapporti tra stato e mafia, e sul loro funzionamento pratico.) La reazione fatalista di Borsellino, che Sinico apprese con sorpresa dolorosa, viene portata a riprova dell’assoluta fiducia che il giudice aveva nei carabinieri. Con due particolari non spiegati, però: in che cosa consisteva lo spiraglio che il giudice voleva lasciare a Cosa nostra? Voleva forse, in qualche modo, facilitare i suo compito? E, secondo, se la sua angoscia principale non era la propria morte, ma un attentato contro la sua famiglia, perché non vennero prese, a maggior ragione, iniziative di protezione, a partire dall’elementare istituzione della zona di rimozione in via D’Amelio?

25 GIUGNO 1992 – ROMA – Vito Ciancimino, mentre tratta con mafiosi e carabinieri, svolge anche attività di pubbliche relazioni. Riceve nella sua dimora romana il giornalista Gianpaolo Pansa cui dà la sua interpretazione dei fatti. La principale è: “Adesso la superprocura non la faranno più. Non avrebbe senso farla, visto che il dottor Falcone è morto”.

25 GIUGNO 1992 PALERMO – Paolo Borsellino chiede un incontro informale con il colonnello del Ros Mario Mori e con il capitano Giuseppe De Donno. L’incontro avviene in via riservata nei locali della caserma Carini. Borsellino ha chiesto di vederli «fuori dalla procura» per ragioni di riservatezza, stando a quanto essi stessi hanno dichiarato ai magistrati, sei anni dopo l’incontro. Che cosa vuole il procuratore aggiunto di Palermo dai due alti ufficiali del Ros? È già stato messo al corrente della trattativa? Vuole chiedere a Mori e De Donno i dettagli degli abboccamenti di Vito Ciancimino di cui sanno già tutto la Ferraro e Martelli? Mori dice di no. Spiega il generale: «La risposta di Ciancimino [alla richiesta di un primo contatto formulata dal Ros, nda] arrivò dopo l’incontro alla caserma Carini perché altrimenti ne avrei parlato con il procuratore Borsellino. Cosa che invece assolutamente non si è verificata». Secondo Mori, Borsellino lo convoca per parlare di mafia e appalti. Il magistrato è a conoscenza dello scontro tra il procuratore di Palermo Pietro Giammanco e il Ros sul dossier mafia-appalti dei carabinieri, nella parte che individua una serie di politici coinvolti nella spartizione dei lavori in accordo con la mafia. Sul summit alla caserma Carini, Mori è fecondo di dettagli. «L’incontro avvenne nel primo pomeriggio del 25 giugno 1992» racconta l’ufficiale il 29 gennaio 1998 al pm della Procura di Caltanissetta Nino Di Matteo. «Portavoce della volontà di incontrarmi del dottor Borsellino fu il maresciallo Canale, che si è messo in contatto con il maggiore Obinu. Borsellino desiderava incontrarsi con me e desiderava altresì che fosse presente il capitano De Donno. Mi venne detto che desiderava incontrarci in una struttura dei carabinieri e non in procura. Rimasi a parlare quindici-venti minuti a quattr’occhi con il dottor Borsellino, introducendo successivamente, per una decina di minuti, il capitano De Donno. Mi chiese se c’erano novità investigative sull’omicidio di Falcone, subito dopo portò l’argomento su quello che compresi essere il vero oggetto dell’incontro, e cioè la sua volontà di prospettare nuove ipotesi di lavoro in relazione alla vicenda mafia-appalti. Borsellino mi assicurò che delle indagini voleva occuparsi in prima persona, cosa che per lo sviluppo che la vicenda aveva avuto in precedenza costituiva per me un presupposto irrinunciabile per un nuovo impegno operativo del Ros [Mori si riferisce alle polemiche sorte in procura a Palermo dopo la presentazione del suo rapporto su mafia e appalti, nda]. Di questo incontro non parlai con nessuno, non escludo di avere fatto qualche accenno al generale Subranni, solo dopo la strage di via D’Amelio e comunque escludo di avergli anticipato le prospettive operative.» Nove giorni prima, il 20 gennaio 1998, a Caltanissetta, ai pm Di Matteo, Anna Palma e Carmelo Petralia, il capitano De Donno aveva sostanzialmente fornito la stessa versione, aggiungendo un particolare: «Non so, né chiedemmo a Borsellino in che modo pensasse di gestire il tutto, stante la ben nota assegnazione ad altri magistrati. Noi parlavamo con il procuratore aggiunto e non ci ponemmo il problema. Ci chiese di affiancarlo con grande riservatezza e direttamente alle sue dipendenze in questa attività che si prefiggeva di svolgere». Borsellino viene informato della trattativa in corso? Mori dice di no, sostiene di non aver detto nulla a Borsellino di quegli incontri in corso con Ciancimino. Ma se la risposta di don Vito, stando a quanto dice il generale, il 25 giugno non è ancora arrivata, com’è possibile che De Donno due giorni prima sia andato a chiedere alla Ferraro «garanzie» per conto dell’ex sindaco che si è detto disponibile a collaborare? Per questo motivo, gli inquirenti ritengono importante riuscire a datare con certezza l’incontro a Palermo tra il capitano e la direttrice degli Affari penali. Ma l’iniziale sicurezza di Martelli sul 23 giugno, data del trigesimo della strage Falcone, successivamente è sfumata. Incerti sui propri ricordi, l’ex guardasigilli e la Ferraro, dopo un confronto davanti ai pm, hanno concordato che l’incontro tra il capitano del Ros e la direttrice degli Affari penali è avvenuto con certezza tra il 21 e il 28 giugno 1992, ma non sono più riusciti a fissare il giorno preciso. 1 Intervenendo a un convegno promosso dalla rivista «MicroMega» la sera del 25 giugno, solo qualche ora dopo aver incontrato Mori e De Donno, Borsellino, nell’atrio della biblioteca comunale a Palermo, dice apertamente di considerarsi un «testimone» edi attendere una convocazione formale da parte dell’autorità giudiziaria di Caltanissetta, per riferire «tutti gli elementi» in suo possesso sull’uccisione di Falcone. Nei giorni successivi, nessuno da Caltanissetta lo convoca per un interrogatorio formale.

27 GIUGNO 1992 –A Palermo sfilano contro la mafia centomila persone, organizzate dai sindacati Cgil, Cisl e Uil. Da un mese la città espone le lenzuola bianche ai balconi; lenzuola “multiple” sono state cucite per farle pendere dai palazzi più alti. Non esiste al mondo un’altra città dominata dal crimine, dove la resistenza sia così visibile e coraggiosa. Lo scrittore Corrado Stajano scrive per il Corriere una cronaca della giornata: Non c’è città in Europa, neppure nel mondo, forse in Colombia, dove in pochi anni sono stati assassinati tutti, proprio tutti gli uomini dello stato, il presidente della Regione, il capo dell’opposizione, il consigliere istruttore, il procuratore della Repubblica, il prefetto, il capo della Mobile, i magistrati, i commissari, i medici legali, i poliziotti, i carabinieri. Ecco, l’elicottero che lascia la sua ombra proprio sulla via Carini dove dieci anni fa furono uccisi il generale Dalla Chiesa, sua moglie, l’agente di scorta. Ecco l’elicottero che lascia la sua ombra sulla via Cavour dove davanti alla bancarella di libri fu assassinato il procuratore della Repubblica Costa. Una geografia di lapidi, Palermo”.

28 GIUGNO 1992 ROMA, AEROPORTO DI FIUMICINO– Paolo Borsellino, insieme alla moglie Agnese, è in attesa dell’aereo per Palermo. Nella sala Vip dell’aeroporto incontra Liliana Ferraro, che ha preso il posto che era stato di Falcone al ministero di Giustizia. Lo informa che i carabinieri del colonnello Mario Mori hanno contattato Vito Ciancimino per trattare l’arresto di latitanti, a partire dal più famoso, Salvatore Riina.Borsellino ha anche un altro colloquio con un altro passeggero in attesa, il ministro della Difesa Salvo Andò. Questi, confidenzialmente gli comunica di aver saputo che per Borsellino “è arrivato il tritolo” e che anche lui è minacciato di morte. Si stupisce che Borsellino non lo sappia. Lui lo ha saputo dal procuratore capo di Palermo, Pietro Giammanco. E così, in un solo giorno, in circostanze fortuite, l’uomo che è stato candidato a prendere il posto di Falcone e a diventare il capo della superprocura antimafia, apprende che i carabinieri (quelli della “cena degli onesti”) stanno trattando (cosa, esattamente? E cosa stanno offrendo?) con il mediatore di Cosa nostra. E che il suo capo alla procura sa che è arrivato il tritolo per lui, ma non glielo ha detto…

giugno 1992Palermo – Il procuratore di Caltanissetta uscente Salvatore Celesti, 14 in partenza per Palermo, non prende iniziative e aspetta l’insediamento del suo successore. Lo stesso Borsellino è consapevole del rischio di impasse investigativa se dopo Capaci si propone propone al Csm chiedendo di assumere un ruolo ufficiale nelle indagini. Il magistrato fa sapere informalmente al Csm di essere pronto a trasferirsi subito a Caltanissetta per fornire il proprio contributo all’inchiesta sulla strage. Già il 28 maggio, cinque giorni dopo il «botto» sull’autostrada, il Csm ha nominato il magistrato Giovanni Tinebra nuovo procuratore capo di Caltanissetta. Borsellino è disposto ad affiancarsi al nuovo procuratore, per buttarsi a capofitto, con un ruolo istituzionalmente riconosciuto, nelle indagini sui macellai di Falcone. Ma il Csm, vicepresidente Giovanni Galloni, manifesta la sua perplessità: valuta la disponibilità di Borsellino e, altrettanto informalmente, gli fa sapere che non è opportuno, per lui, amico fraterno di Falcone, assumere ufficialmente un incarico inquirente nell’indagine. È un momento drammatico, di emergenza nazionale, eppure il Csm non riesce a decidere al di fuori delle rigide logiche formali: da Palazzo dei Marescialli qualcuno comunica «amichevolmente» a Borsellino che per indagare sulla strage di Capaci occorre nominare un pool di magistrati che non sia «coinvolto dal punto di vista emotivo». Si tratta, ovviamente, di una misura da osservare a garanzia della correttezza dell’indagine. Borsellino, magistrato con un altissimo senso delle istituzioni, fa un passo indietro. Non protesta, incassa il rifiuto del Csm e non ne parla con nessuno. Ma è deluso. È lo stesso Csm che, pochi mesi prima, si era violentemente opposto alla nomina di Falcone al vertice della nascente Superprocura e che aveva designato, al suo posto, il procuratore di Palmi Agostino Cordova.

28 giugno 1992 Roma  Di ritorno da Bari, nella saletta vip di Fiumicino, Borsellino, con la moglie Agnese,

incontra il nuovo direttore degli Affari penali Liliana Ferraro. 15 È in questa occasione che quest’ultima racconta diffusamente al magistrato dell’incontro con De Donno, dei contatti di Ciancimino con i carabinieri e delle richieste di «coperture» da parte dell’ex sindaco mafioso per proseguire la collaborazione. Ricorda la Ferraro: «Borsellino mi disse che era solo, ma Agnese, udendo tale frase, si inserì nel discorso chiedendomi più volte di convincere il marito a non andare avanti, perché non voleva che i suoi figli rimanessero orfani. Riferii poi a Borsellino la visita di De Donno. Lui non ebbe nessuna reazione, mostrandosi per nulla sorpreso, e quasi indifferente alla notizia, dicendomi comunque che se ne sarebbe occupato lui». 16 A un tratto, nella saletta vip, arriva anche il nuovo ministro della Difesa Salvo Andò, socialista, che saluta Borsellino, gli si avvicina e gli dice che deve parlargli. Borsellino si allontana e si apparta con Andò; questi gli riferisce preoccupato dell’informativa del Ros, spedita nei giorni precedenti alla Procura di Palermo, che li indica entrambi come possibili bersagli di un attentato mafioso. Un terzo obiettivo indicato dal Ros è il pm di Milano Antonio Di Pietro. Andò gli chiede informazioni ulteriori, pareri, consigli. Borsellino impallidisce, poi va su tutte le furie: non ne sa nulla. È persino imbarazzato, ma deve confessare ad Andò di essere totalmente all’oscuro dell’informativa. Il procuratore di Palermo Pietro Giammanco, destinatario ufficiale della nota riservata del Ros, non gli ha comunicato niente.

29 giugno 1992 Palermo– Un solo foglio, bianco, con le scritte in stampatello. Fra una riga e l’altra dodici punti. È il documento che Massimo Ciancimino ha custodito per diciotto anni, che per diciotto anni nessuno ha cercato, e che infine il figlio di don Vito consegnerà ai pm di Palermo. È il documento che contiene le richieste di Cosa nostra rivolte allo Stato dopo la strage Falcone e prima della strage Borsellino. Secondo Massimo, il foglio venne consegnato da Cinà il 29 giugno 1992. È la prova della trattativa. Ecco cosa c’è scritto: -Revisione sentenza maxi-processo -Annullamento decreto 41-bis -Revisione legge Rognoni-La Torre -Riforma legge pentiti -Riconoscimento benefici dissociati -Brigate rosse -per condannati di mafia -Arresti domiciliari dopo 70 anni -Chiusura super carceri -Carcerazione vicino le case dei familiari -Niente censura posta familiari -Misure prevenzione -rapporto con familiari -Arresto solo fragranza (sic) reato -Levare tasse carburanti come ad Aosta. Allegato al foglio, vi è un post-it con la scritta: «Consegnato personalmente al colonnello dei carabinieri Mario Mori, dei Ros». Il post-it è vergato personalmente da don Vito.

1° luglio 1992 Roma– A Roma da un giorno, Borsellino trascorre la mattina all’Holiday Inn e si prepara agli appuntamenti del pomeriggio. Alle tre, nei palazzoni della Dia, lo aspetta il nuovo pentito, il boss di Partanna Mondello Gaspare Mutolo, ex autista di Totò Riina, per il primo interrogatorio ufficiale. La sua storia di aspirante pentito è tormentata: braccio destro e killer di fiducia del boss Saro Riccobono, Mutolo, detto «il barone», è tra i pochissimi sopravvissuti alla mattanza del 30 novembre 1982 che decimò la cosca di don Saro. Gasparino si salvò per la sua vicinanza con Totò Riina, suo compagno di cella, con cui giocava a carte «facendolo vincere», dirà poi ai magistrati. Ma Cosa nostra gli sta stretta, sa perfettamente che, in quanto vicino al boss perdente, il suo destino è segnato. E prima o poi la campana a morto suonerà pure per lui. Per questo gioca d’anticipo, chiedendo, alla fine del 1991, di parlare con il giudice Giovanni Falcone. La richiesta, però, non può essere accolta perché, lavorando al ministero della Giustizia, Falcone è fuori dai ruoli della magistratura, e non può ascoltarlo. Glielo dice lo stesso Falcone, incontrandolo nel carcere di Spoleto il 16 dicembre 1991. Mutolo si ferma, riflette, non fa passi falsi. E dopo la strage di Capaci torna alla carica, scegliendosi, anche questa volta, l’interlocutore: «Voglio Paolo Borsellino. Mi fido solo di lui» detta a verbale al procuratore di Firenze Piero Luigi Vigna andato a interrogarlo nel carcere toscano. Trasmesso a Palermo, quel verbale arriva sul tavolo del procuratore Pietro Giammanco mentre Borsellino si trova in Germania per un’inchiesta sulla mafia di Palma di Montechiaro. Giammanco non ci pensa due volte: non esiste che il pentito si scelga il magistrato con cui parlare, anche se si chiama Paolo Borsellino. Che si occupa, peraltro, delle cosche di Trapani e Agrigento. E non di quelle di Palermo, di cui Mutolo parlerà. La questione è solo di «difesa dell’autonomia della magistratura» anche di fronte ai pentiti? Di rigido rispetto della competenza, delle forme, che pure spesso sono sostanza? O è legata anche al valore della testimonianza di Gasparino della quale ancora, ufficialmente, non si sa nulla? Giammanco va dritto per la sua strada, ignora la volontà di Mutolo e, senza consultare Borsellino, sceglie il rigido criterio burocratico, affidando il fascicolo ad altri magistrati: l’aggiunto Vittorio Aliquò, i sostituti Guido Lo Forte e Gioacchino Natoli. Borsellino, tornato dalla Germania, resta impietrito quando scopre che il procuratore lo ha tenuto fuori, nonostante l’aperta richiesta del «barone» di parlare solo con lui. È sconvolto e amareggiato, si sfoga con il collega Antonio Ingroia: «Ma come può fare questo? Giammanco sostiene che ho la delega solo su Trapani e Agrigento, che non avendo la competenza su Palermo non posso interrogare Mutolo. E se quello non si pente più?». Si apre così uno scontro frontale con il capo dell’ufficio. Borsellino è furioso, Giammanco capisce che la questione è troppo delicata per affidarla a pandette e codicilli e, accogliendo un suggerimento di Aliquò che indossa i panni del mediatore, fa marcia indietro chiedendo a Lo Forte e Natoli di coordinarsi con Borsellino. È una soluzione di compromesso, ma Borsellino non può che accettarla, se vuole incontrare personalmente l’aspirante pentito. «Dovrò convincere Mutolo -dice a Ingroia -a parlare anche con i miei colleghi, spero che vorrà darmi ascolto.» Il pentito accetta di parlare, ma il disagio e gli scontri non si esauriscono. Alla riunione periodica della Direzione distrettuale antimafia, Giammanco chiede ad Aliquò e a Borsellino di riferire il contenuto del primo interrogatorio dei pentiti Mutolo e Messina. Aliquò riferirà di Mutolo, Borsellino di Messina. Una distinzione che Borsellino legge come un’offesa, un voler rimarcare che lui, con Mutolo, in fondo, non c’entra. Il pomeriggio del primo luglio è cruciale. Mutolo annuncia rivelazioni «scottanti»: sono accuse che colpiscono il cuore delle istituzioni «colluse». Mutolo è pronto a farle, ma ha paura e fa sapere che considera Borsellino l’interlocutore principale, l’unico vero destinatario delle sue parole. Quel giorno il pentito gli ha anticipato che farà dichiarazioni esplosive su alcuni esponenti delle istituzioni. Ma prima vuole tracciare la mappa aggiornata della mafia militare. Ancor prima che quelle accuse vengano ufficialmente verbalizzate, Borsellino dunque sa che quel pentito è «roba che scotta», si rende conto che la riservatezza su quelle anticipazioni di fuoco è necessaria e deve essere assoluta. Si muove con passi felpati; è prudente, guardingo, ma è anche amareggiato perché prevede i conflitti istituzionali che quelle accuse faranno esplodere. Alle 15, nello stanzone della Direzione investigativa antimafia, davanti a Paolo Borsellino e Vittorio Aliquò, al tenente colonnello Domenico Di Petrillo e al vicequestore Francesco Gratteri, entrambi della Dia, all’ispettore di polizia Danilo Amore, Mutolo inizia a declinare le proprie generalità, per aprire la verbalizzazione e cominciare il suo racconto nero sulla mafia. Ma, all’improvviso, accade qualcosa di inatteso. Una telefonata. E per «esigenze di ufficio» il verbale viene chiuso alle 17.40 e rinviato alle 19. Ecco la ricostruzione di Rita Borsellino sugli eventi di quel pomeriggio: «A un tratto, durante l’interrogatorio, Paolo riceve una telefonata, chiude il verbale, si precipita al Viminale, accompagnato da Aliquò e dalla scorta, poi ritorna da Mutolo. Il pentito ha raccontato successivamente che, di ritorno dal Viminale, Paolo era talmente nervoso che fumava due sigarette contemporaneamente e decise di non continuare l’interrogatorio». 23 Ancora più dettagliato emerge il ricordo di quel pomeriggio dalle parole dello stesso Mutolo, qualche anno dopo, il 21 febbraio 1996, nell’aula del processo per la strage di via D’Amelio: «Il giudice Borsellino mi viene a trovare, io ci faccio un discorso molto chiaro […] e ci ripeto, diciamo, quello che io sapevo su alcuni giudici e su alcuni funzionari dello Stato molto importanti, però ci dico che non volevo verbalizzare niente se prima non parlavo della mafia, ma diciamo li ho avvisati per dirci: “C’è questo pericolo, insomma, mi sa che questa cosa qui finisce male”. Allora mi ricordo probabilmente […] che il dottor Borsellino la prima volta che mi interroga, interroga, riceve una telefonata, mi dice: “Sai, Gaspare, debbo smettere perché mi ha telefonato il ministro. Va be’ -dice -manco una mezz’oretta e vengo”. Quindi manca qualche ora, quaranta minuti, cioè all’incirca un’ora, e mi ricordo che quando è venuto, è venuto tutto arrabbiato, agitato, preoccupato, ma che addirittura fumava così distrattamente che aveva due sigarette in mano. Io, insomma, non sapendo che cosa… “Dottore, ma che cosa ha?” E lui, molto preoccupato e serio, mi fa che viceversa del ministro, si è incontrato con il dottor Parisi e il dottor Contrada… mi dice di scrivere, di mettere a verbale quello che io gli avevo detto oralmente, cioè che il dottor Contrada, diciamo, era colluso con la mafia, che il giudice Signorino, diciamo, era amico dei mafiosi… amico… insomma che tutto quel che sapeva gli diceva, ci ho detto: “Guardi, noi più di questo non dobbiamo verbalizzare niente, perché -ci dissi io -io… insomma a me mi ammazzano, e quindi a me interessa che prima io verbalizzo tutto quello che concerne l’organigramma mafioso. Io, appena finisco di parlare dei mafiosi, possiamo parlare di qualunque cosa, che a me non mi interessa più”». Sull’incontro al Viminale, sono stati ascoltati al processo sia Aliquò che Mancino. Il primo ricorda che, durante quell’interrogatorio, Mutolo ha accennato a categorie di persone colluse con Cosa nostra, ma non ha fatto nomi. Aliquò conferma di aver incontrato Parisi al Viminale e di aver accompagnato Borsellino sulla soglia dell’ufficio di Mancino, restando fuori; poi, di essere entrato a sua volta per un incontro con il ministro appena insediato, fatto dei consueti convenevoli. Ma non ricorda di aver incontrato Contrada ed esclude che Borsellino possa avergliene parlato. Ricorda che Parisi sapeva che Borsellino stava interrogando Mutolo, ma di questo non si era stupito, dovendo sia lui che Borsellino chiedere la scorta per ogni spostamento, e dunque informando continuamente la polizia della loro attività. Non ricorda, Aliquò, nessuna particolare manifestazione di nervosismo, in Borsellino, successivamente a quell’incontro: «Ma quando mai… a Paolo capitava spesso di accendere la nuova Dunhill con il mozzicone di quella precedente, perché era un grande, accanito fumatore, non perché fosse particolarmente nervoso». E Mancino? L’ex ministro, interrogato su questo argomento, ha detto di non ricordare di aver incontrato Borsellino, ma non ha escluso che l’incontro possa comunque essere avvenuto, considerato che quel primo luglio era il giorno del suo insediamento al ministero, ed erano moltissime le persone che aveva dovuto incontrare. Mancino riferisce: «Non ho precisa memoria di tale circostanza, anche se non posso escluderla… Era il giorno del mio insediamento, mi vennero presentati numerosi funzionari e direttori generali… Non escludo che tra le persone che possono essermi state presentate ci fosse anche il dottor Borsellino. Con lui però non ho avuto alcuno specifico colloquio e perciò non posso ricordare in modo sicuro la circostanza… non sapevo della sua presenza a Roma ed escludo, quindi, di avere io provocato un colloquio dello stesso con me. Non escludo che il capo della polizia possa, di sua inziativa, avere invitato il giudice Borsellino per presentarlo a me». Se Borsellino quel giorno ha incontrato Contrada, non lo ha confidato a nessuno, tranne che a Mutolo. E, forse, ma il ricordo non è troppo preciso, anche al pm Pietro Vaccara, applicato dalla Procura di Caltanissetta per le indagini sulla strage di Capaci. Dice oggi Vaccara: «Ricordo, ma sono passati tanti anni, che Borsellino mi disse di avere visto Contrada che usciva da una porta del ministero, forse la stanza del capo della polizia Parisi, mentre lui entrava. È un ricordo flebile, nel senso che io lo colloco certamente dopo il primo luglio, in una data prossima alle mie ferie, scattate il 15 luglio. Con Borsellino al mio ritorno dovevamo incontrarci a Caltanissetta, ma poi c’è stata la strage…». 24 E Borsellino, dopo quel primo luglio, non è più andato al Viminale..

1 LUGLIO 1992 – PAOLO BORSELLINO SI RECA A ROMA. HA RICEVUTO NOTIZIA CHE IL PENTITO GASPARE MUTOLO HA DELLE RIVELAZIONI IMPORTANTI DA FARE. (1) Vuole parlare direttamente con Borsellino, l’unico giudice di cui si fida e che considera di integrità morale assoluta. L’interrogatorio “segreto” inizia alle ore 15:00 negli uffici della DIA (Direzione Investigativa Antimafia). Mutolo parla a ruota libera delle commistioni tra mafia e istituzioni. In particolare, fa i nomi del giudice Signorino e del numero tre del SISD e Bruno Contrada. Li definisce “avvicinabili”, ovvero pronti ad obbedire docilmente alle richieste di Cosa Nostra. L’interrogatorio prosegue per circa tre ore fino alle 18:00, quando Paolo Borsellino riceve una chiamata dal Ministero. Gli viene fatto sapere che deve recarsi urgentemente negli uffici del neoministro dell’interno Nicola Mancino. L’interrogatorio viene interrotto. L’avvocato generale di Palermo Vittorio Aliquò accompagna Borsellino “fin sulla porta del ministro”. Alle 18:30 il giudice è negli uffici del Ministero. A sorpresa, però, non ci trova Mancino, ma il capo della Polizia Vincenzo Parisi e Bruno Contrada, personaggio citato poco prima dal pentito.Sempre l’agente del Sisde avrebbe riferito al giudice: “Se gli serve qualcosa a Gaspare fammi sapere”. Ma come faceva a sapere dell’incontro, visto che doveva essere segreto? Alla fine, verso le 19:30, finalmente, compare anche Mancino. La conversazione col ministro dura una mezz’ora. Verso le 20:00 Borsellino torna alla DIA per riprendere l’interrogatorio. Mutolo vede il giudice sconvolto, talmente agitato da accendersi due sigarette alla volta. Gli chiede scherzosamente se non è contento di aver visto il ministro. Borsellino risponde adirato: “Ma quale ministro e ministro! Sono andato dal dottor Parisi e dal dottor Contrada!”. Tornato a casa la sera, la moglie ricorderà di averlo visto vomitare: “Sto vedendo la mafia in diretta”.

1° LUGLIO 1992 (2)- Paolo Borsellino si reca a Roma per interrogare Gaspare Mutolo, boss della famiglia di Partanna Mondello, molto vicino a Salvatore Riina. Killer, imprenditore, narcotrafficante, Mutolo si era già incontrato confidenzialmente con Giovanni Falcone non molto tempo prima del suo assassinio. Nel corso della giornata avviene, per lui, qualcosa di sconvolgente. Gaspare Mutolo è l’uomo che fa a Borsellino i nomi di Bruno Contrada, numero tre del Sisde, e di Domenico Signorino, magistrato della procura di Palermo (ha retto insieme ad Ayala l’accusa in Corte d’assise nel famoso maxiprocesso). Mutolo racconta di favori (appartamenti, donne) fatti al poliziotto e al magistrato dalla famiglia mafiosa dei Riccobono, in cambio del loro aiuto. Borsellino, che si ricorda ovviamente di tutte le confidenze di Giovanni Falcone, sta raccogliendo le prove per far arrestare Contrada e Signorino.Durante l’interrogatorio, Borsellino viene avvertito che il nuovo ministro dell’Interno, Nicola Mancino, appena insediato, lo vuole incontrare al Viminale. Borsellino dice a Mutolo:“Sospendiamo, torno fra mezz’ora”. Al Viminale però non incontra il ministro, ma il capo della polizia Vincenzo Parisi e – appunto – Bruno Contrada. Secondo il racconto di Mutolo, Borsellino torna sconvolto. “L’ho visto fumare e accendersi una seconda sigaretta.” Mi ha riferito che Contrada gli ha detto: “Chieda a Mutolo se ha bisogno di qualcosa…”, ma nessuno doveva sapere dell’interrogatorio. I due si lasciano e Borsellino riparte per Palermo.

PRIMI DI LUGLIO 1992 PALERMO  Secondo il pentito Giovanni Brusca, in questi giorni Totò Riina gli rivela di aver redatto un «papello» con alcune richieste da far pervenire allo Stato.  Lipari sostiene invece di aver saputo che anche il boss di San Giuseppe Jato partecipò alla redazione della lista.

2 LUGLIO 1992 –Borsellino parla con Vincenzo Calcara, un boss di Trapani che si è pentito e che gli ha raccontato di aver avuto l’ordine di ucciderlo già due anni fa. I due si incontrano per un “colloquio investigativo”.  “La Gazzetta del Sud” pubblica un’intervista a Borsellino in cui il magistrato parla, per la prima volta, di dissidi tra Riina e Provenzano, considerati fino ad allora una “coppia di ferro”

4 luglio 1992 – Marsala: l’addio a Marsala Le massime autorità della provincia di Trapani sono presenti al Tribunale di Marsala in occasione dell’incontro per il commiato definitivo del procuratore della Repubblica Paolo Borsellino, trasferito già da qualche mese a Palermo con il sostituto Antonio Ingroia e il maresciallo dei carabinieri Carmelo Canale, e l’insediamento del nuovo procuratore di Marsala Antonino Silvio Sciuto. Paolo Borsellino parla a braccio, ricorda i sacrifici che i magistrati devono affrontare per assicurare alla nazione il servizio della giustizia, senza mai nominarlo cita il collega Vincenzo Geraci, il quale aveva scritto che a Marsala Borsellino era andato perché voleva una procura con il mare, e riceve una lettera di saluto dai «suoi» sostituti, i giovani pm cresciuti sotto la sua ala protettiva negli anni delle inchieste marsalesi: Giuseppe Salvo, Francesco Parrinello, Luciano Costantini, Lina Tosi, Massimo Russo, Alessandra Camassa. Una lettera che Borsellino incornicerà e appenderà nello studio di casa.Da “L’agenda rossa di Paolo Borsellino”

6 Luglio 1992Sicurezza zero La visita istituzionale lascia una coda in procura. Parisi fa il giro degli uffici e scoprela vulnerabilità di Borsellino. Persino il capo della polizia ne resta sconvolto. Ecco il ricordo di Agnese Piraino Leto, nella sua testimonianza al processo Borsellino ter: «Dieci giorni prima che mio marito morisse, il capo della polizia è arrivato a Palermo, ha fatto un giro in procura e si è accorto che alle spalle di mio marito c’era un vetro normale e allora lui si è lamentato come mai nessuno si fosse accorto che c’era questo vetro, enorme ma un vetro normale, e allora subito ha fatto mettere il vetro blindato nella stanza di mio marito. C’era la scrivania con la poltrona che dava le spalle a questo vetro, dunque era anche quello un punto vulnerabile. E poi, che io sappia, gli addetti ai lavori, il Comitato di sicurezza non lo so che cosa abbiano deciso, questo sarà scritto nei verbali, sotto i miei occhi non ho visto niente di particolare, insomma non si sono prese delle precauzioni e dei provvedimenti che potessero ostacolare il preannunciato progetto criminale. A me non risulta nient’altro, ecco. Soltanto ricordo che mio marito era più sicuro o si sentiva più sicuro quando era fuori la città di Palermo che quando si trovava in città. Era molto preoccupato per la sua incolumità e la nostra. Ed era anche disposto a sottoporsi a qualsiasi sacrificio pur di salvarsi, pur di salvare gli uomini della sua scorta, pur di salvare la nostra famiglia».

7 luglio 1992 – MannheimIl fortino tedesco Ad attenderli, nella cittadina di Mannheim, Borsellino, Canale e Principato trovano un imponente spiegamento di forze, una scorta armata, un corteo di auto blindate. L’albergo prenotato è stato trasformato in un autentico «fortino», la polizia ha installato un sistema di intercettazioni telefoniche che registra tutte le conversazioni in entrata e in uscita, ogni persona viene passata «ai raggi x». Borsellino si concede un piccolo fuori programma, entra in un negozio, per acquistare un regalo per Massimo, il figlio del suo collega e amico Diego Cavaliero, che domenica prossima sarà battezzato a Salerno. Per il bimbo sceglie un regalo tradizionale, una collanina d’oro. Le teste di cuoio impazziscono. Si precipitano all’interno del negozio, ogni angolo viene ispezionato da cima a fondo, perquisito, bonificato, e solo dopo permettono a Borsellino di entrare per fare il suo acquisto. Il magistrato sorride sotto i baffi, e ironizza: «Proprio come a casa!». Poi si torna al lavoro. Entrati in carcere, i giudici italiani vengono informati da un funzionario della Bka, la polizia tedesca, che un connazionale, tale Egon Schinna, uno spacciatore di piccolo calibro, detenuto nella stessa cella di Schembri, ha cominciato a collaborare, rivelando che il siciliano è uno dei killer del giudice Rosario Livatino. La notizia è importantissima, promette una svolta decisiva nelle indagini su quel delitto ancora insoluto. Borsellino appare galvanizzato, e non perde il suo spirito fanciullesco.

9 LUGLIO 1992– L’autografo a Narduzzo Da Mannheim, Borsellino torna a Roma, per reinterrogare Leonardo Messina, il pentito di San Cataldo (Caltanissetta), che sa tutto della mafia nissena, che aprirà uno squarcio di luce sulle trame segrete della massoneria in combutta con la mafia e l’alta finanza di riciclatori. Borsellino dovrebbe sbarcare a Fiumicino, e lì in aeroporto ha un appuntamento con Fiammetta, sua figlia, che proprio quel giorno parte per Bangkok con l’amico Alfio Lo Presti. Invece, per un disguido, il suo volo atterra a Ciampino, e il magistrato non potrà incontrare la ragazza. La chiama al telefono, le dice: «Mi dispiace». Non si vedranno mai più. Ma quella mattina Borsellino non lo sa: ha una fretta del diavolo, passa da un pentito all’altro, e corre alla palazzina dell’Eur, nei cui sotterranei vengono ospitati i collaboratori, per interrogare Leonardo Messina, in un faccia a faccia che proseguirà il giorno dopo. Con il suo gusto per il paradosso, si paragona scherzando al dottor Tersilli, il protagonista del film con Alberto Sordi, che faceva il medico della mutua e non si fermava mai per racimolare un numero sempre più cospicuo di pazienti. Messina parla di guerre sanguinarie tra i clan, descrive omicidi e sparatorie, agguati e massacri, poi chiede: «Dottore, una cortesia, me lo fa un autografo?». Borsellino resta di stucco: «Un autografo?». «Sì –risponde il pentito –è per i miei figli, me l’hanno chiesto loro, la conoscono, la vedono in tv.» Borsellino, al successivo incontro, si presenta con una cartolina: «In ricordo delle lunghe giornate trascorse con vostro padre. Paolo Borsellino».

9 luglio 1992 – Roma –Borsellino è di nuovo a Roma per proseguire l’interrogatorio di Gaspare Mutolo.La sera cena all’aperto in trattoria con il tenente Carmelo Canale che lo ha accompagnato. Secondo Canale il giudice è disteso, ama parlare della sua infanzia e adolescenza a Palermo. Il centro della città è sottoposto a grandi misure di sicurezza per il Maurizio Costanzo Show, in trasferta al teatro Politeama, per una serata in onore di Giovanni Falcone. Intorno alla mezzanotte, nella zona del fiume Oreto, Gaspare Spatuzza ruba una vecchia Fiat 126 che dovrà essere utilizzata per uccidere Paolo Borsellino. Questa è, almeno, l’ultima versione che abbiamo, dopo vent’anni, sulla strage di via D’Amelio. Rubano la macchinetta, la ripuliscono di qualsiasi oggetto che la possa far riconoscere, compresa un’immagine di santa Rosalia, ma non dell’etichetta sul blocco motore. Spatuzza testa freni e frizione, e fa cambiare i primi. Sabato 18 luglio imbottiscono la Fiat di tritolo in un’officina di via Villasevaglios “alla presenza di una persona che non avevo mai visto, un elegantone”, che nel 2011 sarà sospettato essere Lorenzo Narracci, vice di Bruno Contrada.

13 luglio 1992 – PalermoBersaglio vivente Di quei giorni, gli ultimi della vita di Borsellino, la moglie Agnese ricorda la fretta, la frenesia di lavorare, la paura di avere poco tempo, la consapevolezza di essere un bersaglio vivente. «Era turbato. Gli facevo tante domande, e lui non mi rispondeva. E io dicevo: “Ma perché non mi rispondi?”. “Non vi voglio esporre –mi ripeteva –e poi: non ho tempo da perdere, devo lavorare, devo lavorare…”. Era turbato, sì, tantissimo.» Agnese ricorda quell’angoscia di correre, di correre contro il tempo, per arrivare alla verità prima di essere fermato. Ma quale verità?Vuole diventare pentito pure lei? Non starà prendendo nota su cosa abbiamo mangiato ieri sera a cena e chi c’era con noi?» La sera precedente, a cena, erano in quattro: con Borsellino e Canale, c’erano Diego Cavaliero e il sostituto procuratore Alfredo Greco. «Carmelo –risponde gelido Borsellino –per me è finito il momento di parlare. Sono successi troppi fatti in questi mesi, anch’io ho le mie cose da scrivere. E qua dentro ce n’è anche per lei.» «Ricordo – racconta Agnese – che Paolo mi ripeteva sempre: “È una corsa contro il tempo quella che io faccio. Sto vedendo la mafia in diretta, devo lavorare tanto, devo lavorare tantissimo”.»

13 LUGLIO 1992 Il tritolo per Borsellino è arrivato”: nuovamente il Ros informa il procuratore Giammanco. Il Ros informa la procura. Borsellino lo confida (“È arrivato insieme a un carico di bionde, lo sa la finanza”) a don Cesare Rattoballi, un prete suo amico (è il cugino di Rosaria Schifani, che la accompagnò in cattedrale e la sostenne durante la sua inaudita denuncia: “Mafiosi, vi perdono, ma inginocchiatevi…”. Borsellino chiede a don Rattoballi di confessarsi. La confessione avviene seduta stante, nel suo ufficio al palazzo di giustizia. Una nota. Tutte queste informazioni, praticamente in tempo reale, che il Ros fornisce sul viaggio del tritolo per Borsellino, vengono smentite da Gaspare Spatuzza, che maneggiò personalmente quell’esplosivo (lo triturò nella casa della zia), già nell’aprile del 1992, dopo averlo recuperato – in tre fusti – da un peschereccio a Porticello. Quindi, che senso avevano quelle informazioni così puntuali? Nel pomeriggio, un poliziotto della scorta guarda Borsellino in volto, lo vede preoccupato, teso, troppo teso, non può fare a meno di chiedergli: «Dottore, cosa c’èÈ successo qualcosa?». Borsellino, come se non potesse trattenersi, gli dice di botto: «Sono turbato, sono preoccupato per voi, perché so che è arrivato il tritolo per me e non voglio coinvolgervi». L’agente sbianca, resta senza parole.

14 luglio 1992 – Palermo – Confessione in procura «Il tritolo è arrivato con un carico di “bionde”, l’ha scoperto la finanza ed è arrivato per me, Orlando e un ufficiale dei carabinieri.» È la rivelazione che Borsellino fa in un giorno di giugno a padre Cesare Rattoballi, dirigente dell’Agesci, l’associazione cattolica degli scout, il sacerdote che è diventato suo confidente nelle ultime settimane. Don Rattoballi è cugino di Rosaria Schifani, è rimasto vicino alla giovane vedova che ha lanciato l’anatema contro i mafiosi, dal pulpito della chiesa di San Domenico, nel giorno dei funerali di Falcone, e delle altre vittime di Capaci. Conosce Borsellino fin dagli anni settanta, gli si è avvicinato in modo particolare in quelle settimane di fuoco, dopo il «botto» sull’autostrada, imparando a leggerne i silenzi, le inquietudini, a rispettarne gli sforzi per scoprire la verità sull’attacco stragista allo Stato. Anche in quei giorni di luglio, mentre la città si va svuotando per le ferie, don Cesare sente il bisogno di andare a far visita all’amico, senza una ragione precisa, guidato dall’affetto o dall’istinto. Il sacerdote è solo, varca il metal detector del Palazzo di giustizia, s’infila nel vecchio ascensore, sale al secondo piano, scivola silenzioso fino in procura. Bussa alla porta di Borsellino. Lo saluta, gli sorride. Si siede di fronte a lui. Non sa ancora che questo sarà il loro ultimo incontro. «Quella mattina, non la dimenticherò mai –ricorda il sacerdote –era un giorno di luglio, me ne andai in procura, non ricordo per quale ragione, bussai alla porta di Borsellino, lo salutai, lui mi accolse con un sorriso, ci mettemmo a chiacchierare. Parlammo di tante cose, era sereno, preoccupato solo per il futuro dei suoi ragazzi. A un tratto mi disse: “Io sono come quello che guarda i quadri, chissà se li potrò più vedere”. Più tardi, quando fui sul punto di andarmene, mi fermò di colpo e mi chiese: “Aspetta, prima di andare via mi devi confessare”. E lì, nel suo ufficio, tra le sue carte, si raccolse e si confessò.» Rattoballi non era il suo confessore abituale. «Paolo –ricostruisce oggi il parroco –sosteneva che il sacramento della riconciliazione si può ottenere da qualsiasi sacerdote, e quindi non aveva un confessore fisso.» Quella mattina, chiacchierando con don Cesare, l’amico, ma soprattutto il sacerdote, Borsellino coglie al volo l’occasione. Si confessa. Vuole essere purificato. Vuole essere pronto.

15 luglio 1992 – Roma – Superdecreto: vertice con Martelli Il procuratore di Palermo lo ha definito «una delle più importanti innovazioni legislative dopo l’approvazione del nuovo codice» e tutti i ventisei procuratori distrettuali antimafia hanno invitato il ministro Martelli «a non cedere di fronte a pressioni provenienti da più parti e anche dall’Associazione nazionale magistrati». Questa è l’accoglienza riservata al decreto legge anticriminalità dai procuratori distrettuali antimafia, che si incontrano con Martelli per discutere ed esaminare il decreto dell’ 8 giugno. Martelli invita i procuratori a pronunciarsi «su ciò che va mantenuto e su ciò che può essere utilmente modificato». I titolari delle ventisei procure richiedono al ministro di mantenere ferma la struttura portante del decreto limitandosi ad apportare a esso solo modifiche di «chiarificazione o integrazione». «Ampi consensi», secondo una nota del ministero, arrivano dai procuratori soprattutto in riferimento alle parti del decreto relative al potenziamento dell’attività investigativa della polizia giudiziaria e «a questo riguardo è stato anzi sostenuto che proprio questa parte del decreto sta fornendo positivi risultati dando luogo a importanti casi di dissociazione».

15 luglio 1992 Palermo  Borsellino torna a casa, prende la moglie in disparte, la trascina sul balcone e le confida con voce turbata: «Ho visto la mafia in diretta. Subranni… ho saputo che… è punciuto».  Lo racconta Agnese Borsellino, molti anni dopo, ai pm di Caltanissetta. Chi suggerisce a Borsellino che Subranni è coinvolto con la mafia? Perché quella sera il giudice usa la parola «punciuto» e con «colluso»? Sta ripetendo lo stesso termine dialettale ascoltato dalla sua fonte? E qual è la fonte di quell’informazione? Una fonte istituzionale o un pentito? In quei giorni Borsellino ascolta più volte il pentito Schembri, di Agrigento, stessa provincia di provenienza di Subranni, e ha fatto numerose confidenze sull’omicidio del maresciallo Giuliano Guazzelli, rivelando di avere molte conoscenze nell’ambiente dei carabinieri. Schembri, però, ha sempre negato di aver parlato di Subranni con Borsellino.  Da “L’AGENDA NERA”

16 luglio 1992 – Roma – Ancora minacce di morte Un confidente dei carabinieri di Milano rivela che si sta preparando un attentato a Di Pietro e a Borsellino. La fonte è ritenuta altamente attendibile e il raggruppamento Ros di Milano invia un rapporto alla Procura di Milano e uno a quella di Palermo. L’informativa viene inviata per posta ordinaria e arriverà a Palermo dopo la strage di via D’Amelio. In seguito a questa notizia viene pesantemente rafforzata la scorta a Di Pietro e alla sua famiglia, il pm milanese non dorme neppure a casa sua. Il maresciallo Cava del Ros di Milano tenta anche di mettersi in contatto diretto con la procura palermitana ma senza risultato. Curiosamente la notizia su queste minacce filtra sulla stampa dopo l’attentato di via D’Amelio in modo alquanto strano: viene pubblicata sul «Secolo XIX» del 23 luglio 1992 insieme ad altre due notizie false: un presunto incontro di Falcone e Di Pietro prima della strage di Capaci (incontro subito smentito dallo stesso Di Pietro e dal procuratore di Milano Francesco Saverio Borrelli) e alcune indiscrezioni sulla possibile collaborazione del boss Tanino Fidanzati. Anche questa notizia si rileverà un falso, mentre il rapporto dei Ros verrà confermato.

16 LUGLIO 1992 – PALERMO – Il Palazzo di giustizia è quasi deserto. È il giorno della festa di santa Rosalia. Borsellino incontra Ingroia che sta andando in ferie. Borsellino è silenziosamente contrariato, vorrebbe che il suo braccio destro resti al suo fianco per proseguire il lavoro. Ma Ingroia ha già prenotato una casa per le vacanze e non può rinviare. Lo rassicura: si tratta comunque di una sola settimana da trascorrere al mare, a San Vito Lo Capo, a pochi chilometri da Palermo. Borsellino, che al mattino mantiene un atteggiamento di «silenzioso rimprovero», il pomeriggio incontra di nuovo il pm. «Lo vidi sorridere per l’ultima volta –racconta Ingroia –quando gli dissi che sarei rimasto fuori soltanto per il weekend, promettendogli che sarei tornato in ufficio già lunedì.» Borsellino si è rasserenato. Si alza, abbraccia Ingroia, lo saluta. Il pm va via, ancora un po’ dispiaciuto di lasciarlo solo in quel palazzo deserto.

16 LUGLIO 1992 – MILANO –Il Ros incontra alla procura di Milano Antonio Di Pietro. I carabinieri lo informano che sarà oggetto di un attentato di Cosa nostra insieme a Paolo Borsellino. Gli viene fornita un’auto blindata, il magistrato non dorme a casa. Due appunti: il primo è che Di Pietro ebbe sicuramente più attenzione di Borsellino, in merito alla sua vita. Il secondo è che queste notizie sono state rese note dall’ex magistrato solo diciotto anni dopo, durante una trasmissione televisiva. Il leader dell’Idv aggiunse che il 4 agosto 1992 gli venne consegnato, alla questura di Bergamo, un passaporto falso con il nome di “Mario Canale” e che con questo lui e la moglie andarono per qualche tempo in Costarica. Di Pietro, si è poi venuti a sapere diciotto anni dopo con la pubblicazione di “imbarazzanti fotografie di una cena”, era stato almeno una volta, nel dicembre 1992, commensale di Bruno Contrada.

17 LUGLIO 1992 – ROMA –  Borsellino è di nuovo a Roma, per il terzo interrogatorio a Gaspare Mutolo. Finiti gli impegni, con il collega Natoli cenano al ristorante Il moccoletto, insieme a Carlo Vizzini, presidente del Psdi, uno dei politici minacciati di morte da Cosa nostra. Vizzini propone loro di affrontare il grande tema di “mafia e appalti”. L’ultimo verbale Borsellino interroga Gaspare Mutolo. È l’ultimo interrogatorio, dura parecchie ore. Il pentito accetta di verbalizzare le accuse su Contrada e Signorino. Ma oggi non si fa in tempo, se ne riparlerà lunedì prossimo. È tardi. Borsellino chiude il verbale senza neppure una parola, sempre più incupito. Saluta Mutolo, ed è l’ultima volta che lo vede. 

17 LUGLIO 1992 – Di ritorno da Punta Raisi, Borsellino fa un salto in procura per mettere i verbali in cassaforte, fare qualche telefonata e salutare i colleghi. Li abbraccia anche, uno per uno. «Loro si meravigliano – racconta Rita Borsellino – perché è una cosa che Paolo non ha mai fatto. Almeno tre o quattro di loro, e tra questi Ignazio De Francisci e Vittorio Teresi, affermano di essere rimasti sconvolti da quell’episodio. Gli chiedono: “Paolo, ma che stai facendo?”. E lui, al solito, scherzando: “E perché vi stupite? Non vi posso salutare?”»

17 LUGLIO 1992 PALERMO – BORSELLINO ARRIVA IN FAMIGLIA NEL TARDO POMERIGGIO, TESO, NERVOSOA casa, però, trova spazio per un momento di ottimismo. Dice a Manfredi: «Sento che il cerchio attorno a Riina sta per chiudersi, stavolta lo prendiamo». Non fa il nome di Mutolo, non può farlo, ma confida a suo figlio che c’è un nuovo pentito, uno che sa tante cose, che ha fatto rivelazioni su uomini d’onore vicini a Riina. Ma c’è di più, anche se quel di più Manfredi lo verrà a sapere solo dopo: il giorno precedente, Mutolo ha promesso di verbalizzare le accuse su Contrada e Signorino.  Ecco perché Borsellino è così nervoso. A un tratto propone ad Agnese: «Andiamo a Villagrazia, ho bisogno di un po’ d’aria, ma senza scorta, da soli». Agnese è stupita. «Da soli? Paolo, cosa c’è? È successo qualcosa?». «Andiamo», ordina. La moglie lo conosce, lo segue. In macchina, in silenzio, mentre cala la sera, Agnese lo guarda, capisce che è tormentato da mille angosce, mille dubbi. Riesce a fargli ammettere che qualcosa è successo: Mutolo ha parlato, ha detto cose gravissime, ha accusato personaggi al di sopra di ogni sospetto. Paolo è sconvolto, confida ad Agnese che alla fine dell’interrogatorio era cosi traumatizzato da avere addirittura vomitato. «Stavo malissimo» dice. Anni dopo, Agnese, sentita come teste nel processo Borsellino ter, ricorda: «Mutolo gli aveva annunciato che avrebbe dovuto parlare di Signorino, però mio marito ha detto pure: “Se ne riparla la prossima settimana, perché è tardi e dobbiamo […] abbiamo chiuso già il verbale, dunque se ne riparlerà lunedì”». La moglie di Borsellino afferma che Paolo quella sera non fa altri nomi. E lei non insiste con le domande, cogliendo il suo profondo turbamento. «Non gli ho fatto altre domande, sapevo che avrebbe significato ferirlo ancora di più. Capivo che dentro di lui provava un dolore immenso». Che ha detto di così sconvolgente Mutolo a Borsellino? Ha parlato solo di Contrada e Signorino? Ha parlato d’altro?

18 LUGLIO 1992 –La Fiat 126 viene “imbottita”, alla presenza dello “sconosciuto”.Borsellino va a trovare la madre in via D’Amelio. Il cardiologo che doveva visitarla non è potuto venire per un guasto alla macchina. Al telefono il magistrato parla con la sorella Rita e le dice che verrà l’indomani, domenica 19, a prenderla e la porterà lui stesso dal cardiologo.

18 LUGLIO 1992  – Tornando a casa, quella sera, Borsellino saluta il suo portiere, don Ciccio, lo abbraccia e lo bacia. Anche in questo caso sono effusioni insolite, atipiche, mai manifestate prima. Il portinaio del palazzone di via Cilea le riferirà, commosso, ai familiari del giudice, nei giorni successivi alla strage.

18 LUGLIO 1992 PALERMO – Borsellino parla al telefono con Liliana Ferraro. «Mi disse che era in partenza il lunedì successivo -ricorda l’ex direttrice degli affari penali -e che al ritorno si sarebbe fermato a Roma perché voleva parlarmi di tutte le questioni che avevamo in sospeso. Più esattamente mi disse: “Poi dobbiamo parlare”; sicché ritenni che vi potesse essere un nesso con le discussioni avvenute il 28 giugno [nella sala vip di Fiumicino, nda].»

19 LUGLIO 1992 – Un’insolita telefonata. Nell’ultima giornata della sua vita, Borsellino è già in piedi, dalle 5. A quell’ora, infatti, è arrivata la telefonata di Fiammetta dalla Thailandia. Dopo avere parlato con la figlia, il giudice si rintana nel suo studio, deve rispondere a una lettera. È indirizzata a una professoressa di Padova, che tre mesi prima lo ha invitato a un incontro con gli studenti del suo liceo. Quell’invito non è mai arrivato a Borsellino, e la docente protesta: essere un giudice famoso e stracarico di lavoro, non deve far dimenticare le buone maniere. C’è anche un questionario, con dieci domande: Come e perché è diventato giudice? Cosa sono la Dia e la Dna? Quali le differenze tra mafia, camorra, ’ndrangheta e sacra corona unita? Quali i rapporti tra la mafia italiana e statunitense?Borsellino, con una pazienza davvero infinita, risponde con una lunga lettera alla professoressa risentita, una lettera che oggi sembra quasi un testamento spirituale. Alle 7, squilla nuovamente il telefono. A quell’ora, è una chiamata insolita. Agnese si preoccupa, si alza dal letto, raggiunge lo studio, ascolta. La conversazione dura pochi minuti. Agnese sente Paolo replicare infuriato: «No, la partita è aperta». Poi il rumore della cornetta sbattuta sul telefono. «Che succede?» Borsellino alza gli occhi, si accorge di averla svegliata, ma è troppo arrabbiato persino per scusarsi: «Lo sai chi era? Quel… Era Giammanco». Poi, congestionato per la rabbia, le racconta che il procuratore l’ha chiamato dicendogli che per tutta la notte non ha chiuso occhio, al pensiero di quella delega sulle indagini di mafia a Palermo, al pensiero delle polemiche sugli interrogatori di Mutolo. I tempi sono maturi, gli annuncia Giammanco, perché finalmente questa delega gli venga conferita. Il capo la firmerà domani mattina, in ufficio, e gliela consegnerà prima della sua partenza per la Germania. Sì, ma perché lo chiama di domenica? A quell’ora? «Ma perché tanta fretta?» chiede Agnese. Quella delega la aspetta da mesi. Eppure Borsellino, piuttosto che contento è turbato, arrabbiato. Passeggia, si agita, fa su e giù per il corridoio di casa. Riferisce alla moglie: «Lo sai che mi ha detto? Così la partita è chiusa». «La partita? E tu?» Borsellino alza ancora la voce: «E io? Non l’hai sentito? Gli ho urlato: la partita è aperta». Altro che chiusa, sono comportamenti di cui Giammanco dovrà rendere conto al momento e nella sede più opportuna, spiega Borsellino alla moglie. Poi si accorge che nello studio è arrivata pure Lucia. «Oh Lucia, pure tu ti sei svegliata? Mi dispiace… Senti, gioia, vuoi venire con noi a Villagrazia? Magari riuscirò a vederti un po’abbronzata.» Borsellino ora sorride, programma all’istante la giornata: subito a Villagrazia a prendere il sole, poi insieme a Lucia a prendere la nonna per portarla dal cardiologo, infine ritorno a casa: la ragazza a studiare, lui a lavorare. Ma Lucia è irremovibile. «Non posso, mi dispiace, lo sai che domani ho un esame.» Neanche Manfredi, quella domenica, accetta di accompagnare papà al mare, nel villino estivo, in un orario così mattiniero. «La sera prima –ricorda il ragazzo – avevo fatto tardi, volevo prendermela comoda, così gli dissi: vai avanti, papà, poi ti raggiungo.» Né Lucia né Manfredi lo accompagnano. Borsellino è un po’ seccato, ma non cambia i suoi programmi. Agnese esce di casa per prima, quella mattina, si avvia a Villagrazia con un cugino, il marito la raggiungerà verso le 10. Quando più tardi anche Manfredi arriva a Villagrazia, sono già le 11, e il ragazzo trova davanti al villino gli agenti della scorta. Lo informano: «Suo padre è uscito in barca, con l’amico Vincenzo Barone, è andato a fare un bagno al largo.» Dopo il bagno, con il motoscafo i due amici vanno a Marina Longa, si intrufolano in un condominio privato in cui si entra dal mare. Lì c’è un ristorante dove Agnese è andata a comprare del pesce, con un’amica. Il giudice spera di incontrarla per tornare in barca, insieme a lei. Ma non la vede. La moglie, infatti, è appena rincasata a piedi. Quando torna a casa, Borsellino si affretta verso il villino di Pippo e Mirella Tricoli, vecchi amici di famiglia, per pranzare con loro.

19 luglio 1992 –. Si sveglia alle cinque, quando riceve una telefonata dalla figlia Fiammetta in vacanza a Bali, Indonesia. Risponde dettagliatamente a una professoressa di Padova che gli chiede: perché è diventano un giudice? Che cos’è la Dia? Che cos’è la superprocura? Paolo Borsellino è nella villa al mare di Villagrazia di Carini Esce in mare e si fa un bagno. Va a pranzo dal suo vecchio amico Peppe Tricoli, consigliere comunale dell’Msi. Fa un sonnellino, ma in realtà non dorme, fuma. Guarda in tv la tappa del Tour de France, perché è un appassionato di ciclismo. Alle 16.40 comunica a tutti che va a prendere la madre in via D’Amelio, il convoglio parte da Villagrazia e arriverà a destinazione circa venti minuti dopo. Vincenzo Scarantino si mette la tunica della confraternita religiosa della Guadagna e bussa a quattrini nel suo quartiere. I fratelli Graziano, costruttori edili, vanno a controllare il loro palazzo in costruzione in via D’Amelio. Raffaele Ganci, il capomafia della Noce, informa Salvatore Cancemi che Borsellino sarà ucciso prima che venga sera. Il numero tre del Sisde Bruno Contrada, che ha scelto di passare le ferie a Palermo, passa la giornata con il suo vice Narracci sulla barca di un confidente. Salvatore Vitale, l’inquilino del pianterreno, presenzia al posteggio della Fiat 126, manda via i bambini che giocano in strada e se ne parte con la famiglia per Castelbuono. Salvatore Biondino dice a Giovanni Brusca che non è a disposizione perché “sotto lavoro”. Giuseppe Graviano, preceduto da una decina di uomini che gli fanno da staffette, si sistema nel giardino che chiude via D’Amelio con un telecomando. Emanuela Loi, la ragazza poliziotto, prima donna in una scorta, era in malattia a casa dei genitori in Sardegna con una febbre da cavallo, ma è tornata al lavoro per senso di responsabilità. L’autobomba esplode alle 16.58. Da “L’AGENDA NERA”

 

E i giorni a seguire…

 20 luglio 1992– Il giorno dopo la strage di via D’Amelio, Palermo è una città in ginocchio. In casa di Paolo Borsellino, nelle stanze degli investigatori, davanti alla camera mortuaria, nei palazzi delle istituzioni, fra i poliziotti addetti alla tutela degli uomini a rischio, le prime ore dopo l’esplosione passano nel febbrile tentativo di capire che cosa è veramente successo, cosa sta succedendo nel paese. Durante la notte gli inquirenti, dopo avere esplorato minuziosamente il teatro della strage, hanno messo a punto una prima ricostruzione della dinamica dell’esplosione. In casa Borsellino, intanto, la vedova del magistrato Agnese, figlia di Angelo Piraino Leto (alto magistrato in pensione), i figli Manfredi e Lucia di venti e ventidue anni, e pochissimi intimi passano la giornata stretti nel dolore, rifiutando di vedere estranei. Solo pochissimi amici vengono ammessi a condividere lo strazio familiare nell’appartamento di via Cilea. Un’angoscia silenziosa che deve sopportare un ulteriore tormento: Fiammetta, diciannove anni, la terza figlia di Paolo e Agnese, è in viaggio in Indonesia, ed è stata raggiunta soltanto nel pomeriggio dalla terribile notizia. Si aspetta solo lei per i funerali che, per decisione unanime dei familiari, si svolgeranno presumibilmente il giorno seguente in forma strettamente privata. L’unico rappresentante delle istituzioni che è stato invitato esclusivamente a titolo personale in casa Borsellino è il presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro, che la mattina ha telefonato alla vedova per esprimere il cordoglio di tutta la nazione. Decine di agenti di scorta manifestano davanti al palazzo della Prefettura di Palermo.

Con l’uccisione di Borsellino, Palermo è sconvolta e paralizzata dall’angoscia. La Squadra mobile di Palermo comincia a indagare sull’esplosione di via D’Amelio. Il capo Arnaldo La Barbera arriva, attraverso una fortuita intercettazione telefonica, a individuare gli autori del furto dell’autobomba, una Fiat 126: un gruppo di balordi della Guadagna, accusati di aver rubato l’utilitaria della strage per fornirla a Cosa nostra. Il perito Gioacchino Genchi, nel frattempo, individua nel Castello Utveggio una possibile base per gli attentatori e scopre, all’interno dell’edificio, l’esistenza di una cellula «riservata» del Sisde. Genchi indaga su una sospetta «talpa» che avrebbe intercettato gli ultimi spostamenti di Borsellino. Le indagini di La Barbera portano all’arresto di Vincenzo Scarantino, un piccolo spacciatore della Guadagna, l’uomo che avrebbe commissionato ai balordi il furto dell’auto. Scarantino viene descritto da una relazione del Sisde come l’anello di congiunzione tra la piccola manovalanza di borgata e il gotha di Cosa nostra. Parte da qui il depistaggio che costruirà su via D’Amelio una verità a prova di Cassazione. Nei percorsi investigativi avviati a Palermo subito dopo la strage si nasconde, secondo i pm di Caltanissetta che oggi indagano sulla falsa pista Scarantino, la genesi della misteriosa manovra illusionistica che per diciotto anni ha ingannato la giustizia italiana. Si parte da una vecchia utilitaria rubata, dalle intercettazioni dell’utenza telefonica della proprietaria dell’auto, e si scopre un festino a luci rosse fra tre balordi e una commessa, che viene etichettato come «stupro» per spedire in carcere i violentatori già definiti, in quelle intercettazioni, come i sospetti ladri della Fiat 126. Sembra una storiaccia da rotocalco, anche per la qualità umana dei protagonisti: malviventi di piccolo cabotaggio inseriti in un contesto di assoluto degrado che, immediatamente dopo l’arresto, confessano di essere coinvolti nella fase preparatoria della strage. E scaricano tutta la responsabilità sul loro presunto committente: Vincenzo Scarantino, membro di una confraternita religiosa, sposato e padre di tre figli, ma frequentatore abituale di transessuali. Il picciotto è già stato definito «neurolabile» dall’ospedale militare di Chieti, che lo ha riformato dopo la visita medica per il servizio di leva. Nel referto stilato dagli ufficiali medici si legge che Scarantino è «un soggetto che minaccia reazioni al minimo stimolo esogeno non gradito». Eppure, per la task force antimafia che indaga sulle stragi, è un uomo che appare credibile nel ruolo di stragista. Forse per un piccolo, ma cruciale dettaglio: è il cognato di Salvatore Profeta, uomo d’onore della Guadagna legato al boss Pietro Aglieri, fedelissimo di Provenzano. E il Sisde di Bruno Contrada si affretta a sfornare la nota che trasforma il Signor Nessuno nel giustiziere Scarantino: un appunto che ricorda la parentela mafiosa con Profeta e un’altra, acquisita, con il clan dei boss Madonia».

23 luglio 1992 Palermo– Con una nota, otto dei sedici magistrati addetti alla Procura distrettuale antimafia hanno annunciato e motivato la decisione di dimettersi. Sono Ignazio De Francisci, Alfredo Morvillo, Vittorio Teresi, Teresa Principato, Antonio Ingroia, Antonio Napoli, Roberto Scarpinato, Giovanni Ilarda. «La rapida successione delle stragi di Capaci e di via D’Amelio -scrivono i dimissionari -dimostra dimostra in modo inequivocabile che sono venute meno le condizioni minimali per l’esercizio della giurisdizione penale.» Secondo la nota, «Paolo Borsellino era pienamente consapevole di essere esposto a un incombente rischio di morte e, nonostante ciò, aveva accettato tale rischio confidando che lo Stato, soprattutto dopo la strage di Capaci, avrebbe profuso il massimo sforzo per tutelare la sua vita». Il Procuratore Pietro Giammanco alla fine viene trasferito.

24 luglio 1992 Palermo– Il pianto, ma anche la speranza e la voglia di resistenza di Palermo, sono i sentimenti che hanno segnato oggi i funerali di Paolo Borsellino. La cerimonia, nella chiesa di Santa Luisa di Marillac, la prediletta del magistrato, è stata «rigorosamente privata», secondo il desiderio dei familiari, ma è divenuta corale per la partecipazione di tanta gente. Al rito ha assistito il capo dello Stato Oscar Luigi Scalfaro, sbarcato a Palermo per la seconda volta in pochi giorni a esprimere il cordoglio di un’intera nazione. Con Scalfaro, il capo della polizia Vincenzo Parisi, destinatario con il presidente della Repubblica di un tributo di affettuosa gratitudine, ritmato dai lunghi applausi esplosi davanti al feretro di Borsellino. Il momento più commovente è stata l’orazione funebre del magistrato Antonino Caponnetto, ritenuto professionalmente il «padre» di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Al termine della cerimonia funebre, il carro con il feretro ha percorso, tra due ali di folla plaudente che scandiva «Paolo, Paolo, Paolo è vivo», il breve tratto di strada che separa la parrocchia da via Cilea, dove abita la famiglia Borsellino. Dietro alla bara la vedova, i tre figli, l’inseparabile Caponnetto, parenti e amici, tanti giudici fra i quali gli otto che la sera prima si sono dimessi dalla Procura distrettuale antimafia. Borsellino è stato tumulato nella tomba di famiglia del cimitero dei Rotoli, sul litorale per Mondello.

29 settembre 1992 Caltanissetta– «Siamo riusciti con un lavoro meticoloso e di gruppo, con la partecipazione di magistrati, tecnici e investigatori che hanno lavorato in sintonia, a conseguire un risultato importante: abbiamo arrestato uno degli esecutori della strage di via D’Amelio.» Così il procuratore di Caltanissetta Giovanni Tinebra descrive l’arresto di Scarantino, durante una conferenza stampa convocata per illustrare la cattura del «manovale» della strage. Tinebra sottolinea che Scarantino «appartiene a una famiglia di Palermo da tempo nota agli inquirenti per associazione mafiosa e traffico di droga». Il procuratore spiega poi che «la stessa sera del massacro, in un primo tempo, si era pensato che l’auto imbottita di esplosivo fosse una Seat Marbella, ma raccogliendo dei pezzi in via D’Amelio, tecnici e periti hanno ricostruito la 126 bianca. 5 Quest’auto era stata rubata da tre giovani, arrestati il mese scorso dalla Squadra mobile, per aver tentato di violentare una ragazza. Due di questi sono parenti della proprietaria della 126 e sono ancora detenuti in carcere». Al procuratore viene chiesto se ritenga possibile che la mafia «si affidi a un balordo per compiere una strage così importante». Tinebra risponde: «Non ci siamo posti la domanda. I fatti, secondo noi, si sono svolti in un certo modo, Scarantino non è un uomo da manovalanza».

9 novembre 1992 Caltanissetta – I sostituti procuratori Ilda Boccassini e Fausto Cardella vengono applicati alla Procura della Repubblica di Caltanissetta dal procuratore nazionale antimafia reggente Giuseppe De Gennaro e già lavorano al fianco dei colleghi impegnati nelle indagini sulle stragi di Capaci e via D’Amelio. Ilda Boccassini arriva dalla Procura di Milano. Fausto Cardella, siciliano di origine, proviene dalla Dda di Perugia. «Sono due rinforzi necessari -ha detto il procuratore Tinebra -in un momento in cui le inchieste ci impegnano su vari fronti di indagine suscettibili di interessanti sviluppi. La collega Boccassini era il nostro punto di riferimento milanese in occasione di indagini precedenti collegate ad altre inchieste in Lombardia, il collega Cardella ha già lavorato in Sicilia.» Il procuratore Tinebra avrà presto al suo fianco anche un aggiunto: il sostituto procuratore Francesco Paolo Giordano, proveniente dalla Procura di Catania e applicato agli uffici di Caltanissetta dopo la strage di Capaci. Ilda Boccassini, il pm che ha gestito il sequestro di Fabio Tacchinardi e le indagini-lampo, ha fama di magistrato severo. Figlia d’arte (anche suo padre è un giudice), madre di due ragazzi, è persona estremamente riservata. Ma chi conosce bene Ilda «la Rossa», come spesso viene chiamata lungo i corridoi del Palazzo di giustizia, la descrive come una donna dalla fiera anima napoletana: un mix di scontrosità e simpatia. La sua prima inchiesta di rilevanza nazionale è la Duomo Connection, nel cui ambito si occupa di infiltrazioni mafiose nell’Italia settentrionale. L’inchiesta è portata avanti con la collaborazione di un gruppo di investigatori guidati dal tenente «Ultimo», del Ros dei carabinieri. Sono gli anni delle prime collaborazioni anche con il giudice Giovanni Falcone, che sfoceranno in un legame di profonda amicizia. All’inizio degli anni Novanta, la Boccassini entra in rotta di collisione con altri colleghi del pool antimafia milanese, viene estromessa dall’allora procuratore Francesco Saverio Borrelli, ma porta comunque a termine il processo sulla Duomo Connection. Dopo la morte di Falcone, decide di lavorare in Sicilia. Siciliano di Caltanissetta, Cardella è stato pm alla Procura di Marsala, prima di passare a Spoleto come giudice. Dall’ 87 è sostituto procuratore a Perugia, con funzioni di capo dell’ufficio. 

17 marzo 1993 – PalermoVito Ciancimino, alla presenza del capitano De Donno, riferisce al procuratore di Palermo Caselli la sua versione sui rapporti con il Ros dei mesi precedenti. L’ex sindaco racconta che Mori e De Donno, dopo le stragi di Capaci e via D’Amelio, gli chiesero di portare ai capi di Cosa nostra una richiesta di «resa incondizionata». In particolare, Mori avrebbe detto: «Consegnatevi e lo Stato tratterà bene le vostre famiglie». Molti anni dopo, Massimo Ciancimino sosterrà che quella era una versione «concordata» tra suo padre e gli ufficiali del Ros per occultare le coordinate della prima parte della trattativa tra Stato e mafia, e per coprire il reale atteggiamento dei carabinieri. «La richiesta di resa è una cosa mai esistita» dirà Massimo. «Che senso poteva avere, infatti, una simile sollecitazione rivolta a Cosa nostra quando questa aveva appena dato prova di tutta la sua potenza?» Secondo Ciancimino jr sarebbero state modificate anche le date degli incontri tra Mori e don Vito, spostate tutte da giugno ad agosto del ’92, cioè a dopo la strage di via D’Amelio. Il primo incontro tra don Vito e De Donno risale, secondo Massimo, ai primi di giugno del 1992. Poco dopo anche Mori si sarebbe recato a casa di suo padre per «trattare».

17 maggio 1994 – CaltanissettaI fratelli Giuseppe e Filippo Graviano, Pietro Aglieri, Carlo Greco e Ciccio Tagliavia sarebbero gli esecutori materiali della strage di via D’Amelio. Lo rivela il pentito Salvatore Cancemi ai giudici di Caltanissetta. Cancemi dice di aver appreso dal boss Raffaele Ganci che a volere la morte del magistrato fu Salvatore Riina e che «la fase esecutiva era stata delegata ai fratelli Graviano, ad Aglieri, Greco e Tagliavia e a quel Vitale di cui ho già parlato. In sostanza esponenti delle famiglie Brancaccio e Guadagna». Il pentito aggiunge che Ganci gli aveva detto che «a suo giudizio, anche Biondino [l’autista di Riina, nda] aveva sovrainteso le fasi esecutive di tutta l’operazione che portò nel luglio 1992 al secondo attentato». La decisione di uccidere Borsellino sarebbe stata comunicata ai boss dallo stesso Riina nel corso della riunione organizzata per «brindare» alla strage di Capaci. «Nel corso della riunione che si tenne a casa di Girolamo Guddo -ha detto Cancemi -sentii distintamente Riina pronunciare la frase “la responsabilità è mia”. Quando Ganci mi confidò che Riina era l’artefice della morte di Borsellino, capii che in quell’incontro Riina aveva comunicato la decisione dell’eliminazione del giudice. In quell’occasione, per la prima volta in vita mia ho sentito pronunciare da Ganci frasi molto forti di condanna nei confronti del capo dei capi: “Questo cornuto a tutti ci vuole consumare”.» Cancemi ha aggiunto che «il fatto che il commando che ha operato in via D’Amelio sia diverso, almeno parzialmente, da quello di Capaci, non deve essere assolutamente interpretato come una contrapposizione di due gruppi. Vi ho già spiegato nei primi interrogatori che il gruppo di fuoco di cui si avvale Riina è costituito proprio dalle persone che ho già indicato, tra cui emergono le figure di Pietro Aglieri, Carlo Greco e i fratelli Graviano». Il pentito ha aggiunto poi che, «come per Capaci, sono state utilizzate delle persone che avevano più conoscenza del territorio. Ecco perché Raffaele Ganci mi disse che quel certo Vitale aveva dato un forte contributo per la fase preparatoria della strage di via D’Amelio in quanto abitava in quello stabile. Chi, meglio di lui, poteva fornire le notizie utili sugli spostamenti spostamenti del giudice Borsellino?».

18 luglio 1994 – Caltanissetta– La collaborazione di Scarantino porta i primi frutti. La magistratura di Caltanissetta firma diciotto ordini di custodia cautelare nei confronti degli esecutori materiali e dei mandanti della strage di via D’Amelio, il cui secondo anniversario ricorre l’indomani. I provvedimenti sono stati emessi anche sulla base delle dichiarazioni del pentito Salvatore Cancemi. Gli investigatori sostengono che le indicazioni dei pentiti Cancemi e Scarantino avrebbero confermato, «con qualche aggiustamento marginale», le indagini fin qui condotte, che hanno portato all’identificazione di quattro presunti esecutori materiali della strage. Lo stesso Scarantino ha confermato di essere stato lui a guidare la Fiat 126 imbottita di tritolo sul luogo della strage, rivelando che la scelta di via D’Amelio avvenne dopo una serie di sopralluoghi compiuti dai boss per identificare il luogo più idoneo per l’attentato. «La strage di via D’Amelio è la naturale prosecuzione della strategia mafiosa iniziata con la strage di Capaci» ha detto il procuratore aggiunto Paolo Giordano. «I risultati che verranno resi noti domani costituiscono la maniera migliore di onorare la memoria del collega e degli agenti assassinati.»

15 settembre 1998 Como– Vincenzo Scarantino ritratta. Ma secondo i due pm del processo-bis per la strage di via D’Amelio, Nino Di Matteo e Anna Palma, dietro la retromarcia del pentito c’è Cosa nostra. Per il pm Palma, comunque, la ritrattazione «non è un problema di particolare importanza per il processo, soprattutto dopo il controesame fatto dal pubblico ministero». Palma aggiunge: «Non è la prima, né l’ultima ritrattazione. È però ancora una dimostrazione di quanto Cosa nostra sia forte e in grado di incidere su tutta la realtà italiana. Prima la mafia cercava di aggiustare i processi in un modo che avete visto dalle vicende mafiose degli ultimi anni, anche per via giudiziaria. Ora Cosa nostra ha trovato un’altra strada, dimostrando di sapersi adeguare ai cambiamenti». Il pm Di Matteo non è voluto scendere nei particolari in riferimento al denaro che Scarantino avrebbe ricevuto per ritrattare: «Non posso dire di più di quanto ho detto nell’udienza. Abbiamo chiesto la convocazione di alcuni testimoni che compariranno e spiegheranno di cosa si è trattato». Di diverso avviso i difensori degli imputati, la maggior parte dei quali hanno chiesto la scarcerazione dei propri assistiti in quanto, a parere loro, la misura di custodia cautelare sarebbe stata emessa solo in base alle dichiarazioni di Scarantino. L’avvocato Rosalba Di Gregorio ha sostenuto che «la ritrattazione di Scarantino avrebbe creato grossi problemi al processo, posto che alcuni imputati sono in carcere per le sole dichiarazioni di questo personaggio. Secondo me, la Corte non potrà che prendere atto della ritrattazione e disporre la scarcerazione, visto che Scarantino non può essere più considerato attendibile». La Corte ha rigettato le richieste di scarcerazione. «Io con chiunque ho parlato, con i pm, che Dio mi perdoni, ho giurato falsamente. Io di mafia non so niente.» Il colpo di scena arriva nell’aula bunker del carcere di Como. Scarantino ritratta tutte le sue accuse agli imputati, alcuni dei quali già condannati all’ergastolo. «Tutte bugie. Ho inventato tutto io, assieme alla polizia, e insieme ai giornali. L’unica cosa vera è la droga, che io lavoravo con la droga.» Racconta di avere mentito per ottenere un trattamento migliore in carcere, di aver deciso di ritrattare dopo che è passata in giudicato la condanna a diciotto anni per il primo processo sulla strage di via D’Amelio, chiede perdono ai familiari delle vittime e accusa i magistrati di averlo condizionato e gli investigatori di avergli estorto le false accuse con violenze e minacce nelle carceri di Busto Arsizio e Pianosa. «A Pianosa -dice -ho passato quaranta giorni indimenticabili. Scrivevo sui muri del bagno che se io facevo il bugiardo era perché mi volevano ammazzare.» Poi, ha detto di aver dichiarato di essere pronto a collaborare e a rivelare notizie sul traffico di droga a Palermo: «Dissi agli inquirenti: “Vi faccio arrestare mezza Palermo”; ma mi fu risposto che non interessava. Sulla strage Borsellino, invece, ho inventato tutto. Ad esempio, avevo descritto il percorso fatto per portare la 126 fino a via D’Amelio, ma nemmeno sapevo dove era questa strada e infatti il dottor La Barbera mi fece notare che non andava bene e così io corressi il percorso». Fu il trattamento carcerario («cibo scarso e con i vermi») a convincerlo a cambiare atteggiamento. «La Barbera mi disse che mi sarei fatto solo qualche mese di galera e che mi avrebbe dato duecento milioni. A me non interessavano i “piccioli” [soldi, nda]». Scarantino ha poi aggiunto di avere raccontato ai magistrati fatti appresi in base a notizie raccolte da processi o sui giornali, o ascoltando tv o Radio Radicale, e di avere accusato alcuni degli imputati per motivi personali, di vendetta. Ha accusato il pm di aver «aggiustato» insieme a lui le dichiarazioni su alcune date di incontri con un imputato del processo, Gaetano Scotto. Ha aggiunto di aver fatto dichiarazioni, in cambio di benefici, per vedere quanto valeva come pentito: «Io chiedevo soldi, o chiedevo una macchina. E mi accontentavano. Io sono una pedina». Infine ha sostenuto di aver collaborato con la giustizia dopo essersi arreso alle pressioni psicologiche dei pm. «Mentivo per fare un piacere ai magistrati, e loro mi hanno fatto dare da un’ispettrice di polizia un libro scritto da Buscetta per imparare come era composta Cosa nostra. Dicevano che ero troppo “grezzo” come pentito, cioè non conoscevo l’organigramma della mafia. Prima, infatti, parlavo di quartieri della Guadagna, della Noce e così via, mentre poi appresi che dovevo dire “famiglie”.» Infine ha dichiarato di aver temuto che qualcuno volesse infettarlo con il virus dell’Aids: «Io sono qua per pulirmi la coscienza. So bene che mia moglie e i miei figli saranno gettati in mezzo alla strada». E ha concluso: «Se muoio, è per ordini superiori della Squadra mobile di Napoli o Palermo. Io non ho intenzione di ammazzarmi».

24 settembre 1998 – Roma– È durato una decina di minuti il confronto tra Scarantino e Giovanni Brusca nell’aula bunker di Rebibbia, nel processo d’appello del Borsellino-uno. Il faccia a faccia si è subito concluso perché, dopo la ritrattazione di Scarantino, la sua versione e quella di Brusca coincidono. Brusca ripete di non averlo mai incontrato da libero e di aver sentito il suo nome solo dopo l’attentato. «Michele Traina mi disse che era una cosa inutile» è la linea di Brusca su Scarantino. Il picciotto della Guadagna conferma di non aver mai conosciuto il boss, al quale dà rispettosamente del «lei», prima del proprio arresto. E l’incontro con Brusca e Ignazio Pullarà a casa del fratello Rosario? «Non è vero niente» risponde Scarantino. «Mi sono inventato tutto. Brusca l’ho visto solo in un precedente confronto.» Il pentito continua ad accusare i magistrati e persino il suo ex avvocato, che non ha presentato appello alla condanna di primo grado, divenuta così definitiva: «Ho fatto un casino per presentare i motivi d’appello -dice oggi Scarantino -ma l’avvocato Lucia Falzone mi rispose che tanto in carcere non ci sarei andato e Annamaria Palma [sostituto a Caltanissetta, nda] aggiunse che era meglio se all’appello arrivavo come definitivo, così sarei stato più convincente». Scarantino continua a riferire i maltrattamenti e le pressioni psicologiche da lui subite in prigione per convincerlo a collaborare: «Sono stato usato come un orsacchiotto con le batterie e costretto a prendere in giro lo Stato con le minacce. In galera ho mangiato anche i vermi, le guardie mi dicevano che mentre ero dentro mia moglie andava a battere e facevano allusioni alla morte di Gioè [Antonino, suicidatosi a Rebibbia, nda] intendendo che forse non si era impiccato da solo». Alla domanda di uno degli avvocati difensori, Scarantino conferma che durante la pausa di un interrogatorio a Pianosa, assente il suo avvocato di allora Luigi Li Gotti, il pm Ilda Boccassini e l’allora questore di Palermo Arnaldo La Barbera gli dissero che se non avesse fatto anche il nome di Salvatore Profeta non sarebbe stato credibile. «Un giorno, nel carcere di Genova, trovai il coraggio di dire al pm Petralia che volevo ritrattare» spiega. «Mi rispose che dovevo stare tranquillo, che mi avrebbe fatto portare una tortina da mia moglie per poterla incontrare. Pensai che non gli interessava distinguere il vero e il falso, ma che voleva solo portare a conclusione il processo.» Scarantino ha quindi ribadito di non aver avuto alcun ruolo nella strage di via D’Amelio e che mai suo cognato gli aveva chiesto di rubare una 126. Poi ha raccontato anche di aver avuto a disposizione foto e verbali di suoi interrogatori «accuratamente sottolineati», che «ripassava e aggiustava» insieme a due poliziotti, «inventando» anche qualcosa da dire nel processo di primo grado, e ha aggiunto che questo materiale si trova ancora in possesso di sua moglie. Gli avvocati Giuseppe Scozzola e Vittorio Mammana hanno chiesto l’acquisizione di tali atti nel processo d’appello. «Si tratta di documenti potenzialmente molto importanti -ha commentato Scozzola -perché se a margine di questi verbali si dovessero trovare degli appunti, cosa possibile, sarà importante stabilire a chi appartiene la calligrafia.» Nel corso della sua lunga deposizione, Scarantino, che più volte è scoppiato in lacrime, ha affermato: «Sono quattro anni che volevo dire la verità».

23 ottobre 1998 – Caltanissetta– Il procuratore Giovanni Tinebra toglie ai pm Anna Palma e Nino Di Matteo il fascicolo processuale relativo all’indagine sulla ritrattazione «pilotata» di Scarantino, affidandolo ai colleghi Salvatore Leopardi e Roberto Condorelli. I due pm continuano invece a sostenere l’accusa nel processo per la strage di via D’Amelio. Alla ripresa dell’interrogatorio Scarantino rinnova le sue accuse a magistrati e investigatori, e conferma la sua ritrattazione giurando sulla testa dei figli: «Che Dio possa castigare la mia famiglia e fare morire i miei figli, se adesso dico bugie». E allora, gli chiedono i pm, perché ha continuato ad accusare Peppuccio Contorno [un mafioso della famiglia di Santa Maria di Gesù, nda] quando aveva già manifestato, in una lettera, l’intenzione di uscire dal programma di protezione? «Per fare uno sfregio alla difesa -è la sorprendente risposta -che mi aveva accusato di essere omosessuale. Ho deciso così di vendicarmi.» Le indagini sono state condotte con correttezza e rispettando la legge. Alla fine della deposizione di Scarantino, il pm Anna Palma dichiara in aula di avere presentato al procuratore capo di Caltanissetta Giovanni Tinebra la richiesta di astensione, «per evitare che gli attacchi contro la mia persona possano influenzare in qualche modo il processo. L’istanza è stata respinta dal procuratore che, prosegue Palma, «ha dato atto della mia correttezza». Tinebra ha aggiunto di «avere trasmesso gli atti alla Procura di Catania per eventuali approfondimenti». L’altro pm, Nino Di Matteo, la pensa diversamente: «Non ho sottoposto al procuratore la possibilità di un’astensione perché gli eventuali dubbi su di me non riguardano il processo».

19 marzo 1999verbale interrogatorio a Giovanni Brusca del pm Alfonso Sabella. Dice Brusca: «Ricapitolando, mentre Lima viene ucciso perché, sostanzialmente, ci ha abbandonati e Giovanni Falcone perché era il nemico principale di Cosa nostra e l’artefice del maxiprocesso, il dott. Borsellino (il cui nome era stato pure genericamente genericamente fatto come una delle persone da sopprimere) probabilmente è stato ucciso come conseguenza della trattativa. Mi spiego meglio. Una volta che Riina stava trattando con esponenti delle istituzioni e, principalmente, voleva ottenere la revisione del maxiprocesso, il dott. Borsellino avrebbe certamente costituito un serio ostacolo lungo tale strada in quanto in caso di esito favorevole della trattativa si sarebbe opposto con tutte le sue forze a una eventuale revisione della sentenza del maxi. Con ciò non voglio dire che i carabinieri del Ros abbiano precise responsabilità nella strage di via D’Amelio, ma segnalare che da parte di qualcuno di essi se ne sia avvertito il peso morale e che, dunque, la mancata perquisizione della casa di Salvatore Riina avesse, come ho già detto in altre occasioni, lo scopo di fare sparire ogni traccia della trattativa da cui derivò, sempre a mio avviso, la straordinaria accelerazione nell’esecuzione dell’omicidio del dottor Paolo Borsellino. […] L’Ufficio mi fa presente che se tale mia ricostruzione fosse esatta Riina mi avrebbe detto qualcosa in merito, ovvero mi avrebbe comunicato che Paolo Borsellino costituiva un ostacolo allo sviluppo della trattativa. Al riguardo devo dire che in quel periodo (quello compreso tra la strage di Capaci e quella di via D’Amelio) mi sono incontrato poco con Riina, e, soprattutto, che Riina, ammesso che lo sapesse e ritengo che così fosse, non mi avrebbe mai detto, per la sua mentalità e per i discorsi che mi aveva sempre fatto, che stava trattando con i carabinieri. Certo è che Riina, all’epoca, ebbe a notare più di un segnale di debolezza da parte dello Stato (devo ricordare che nello stesso periodo io stavo autonomamente trattando con Bellini, e, come ho poi saputo, il terminale del Bellini era proprio il generale Mori) e, dunque, riteneva di avere concrete speranze di concludere positivamente la trattativa. In conclusione posso escludere -come ho detto ai magistrati di Caltanissetta -che le stragi di Capaci e via D’Amelio possano essere ricondotte a vicende di appalti: si è solo trattato di una coincidenza cronologica che può anche essere stata equivocata dagli organi inquirenti dell’epoca».

29 Settembre 2001 – PALERMO«Paolo Borsellino muore per la trattativa che era stata avviata fra i boss corleonesi e pezzi delle istituzioni. Il magistrato, dopo la strage di Capaci, ne era venuto a conoscenza e qualcuno gli aveva detto di starsene in silenzio, ma lui si era rifiutato.» Lo sostiene il collaboratore di giustizia Giovanni Brusca in un verbale del 1998 reso ai pm di Caltanissetta, 7 poi trasmesso alla Procura di Palermo e acquisito agli atti dell’inchiesta denominata «Sistemi criminali». «A Borsellino -dice Brusca -era stato proposto di non opporsi alla revisione del maxiprocesso e di chiudere un occhio su altre vicende. Il suo rifiuto ha portato venti giorni dopo a progettare ed eseguire l’attentato in via D’Amelio.» Il pentito dice di non conoscere il nome della persona con la quale i boss, e in particolare Riina, avevano avviato la «trattativa» per alleggerire la lotta a Cosa nostra. Brusca dice di avere appreso della trattativa direttamente da Totò Riina che aveva preparato un papello per interrompere la strategia stragista in cambio di vantaggi per i mafiosi. Di questo fatto si sarebbe parlato nel giugno del ’92, secondo quanto dice Brusca, durante un incontro fra alcuni boss riuniti da Riina in una casa alla periferia di Palermo.

18 marzo 2002 – Caltanissetta – Arriva anche la sentenza d’appello del Borsellino-bis, e la Corte d’assise non tiene conto della ritrattazione di Scarantino. Oltre agli ergastoli comminati in primo grado, tutti confermati, la massima pena è inflitta anche a Cosimo Vernengo, Giuseppe La Mattina, Natale Gambino, Lorenzo Tinnirello, Giuseppe Urso e Gaetano Murana, che erano stati invece assolti in primo grado. Dieci anni di reclusione per associazione mafiosa, sentenza confermata, sono inflitti a Giuseppe Calascibetta e Salvatore Vitale, otto anni e sei mesi a Salvatore Tomaselli e otto anni ad Antonino Gambino.

luglio 2008 – Palermo– L’imbianchino di Brancaccio Gaspare Spatuzza, killer di padre Puglisi e fedelissimo del capomafia Giuseppe Graviano che lo utilizzò a Firenze nella strage di via dei Georgofili, collabora ufficialmente con gli inquirenti. Le rivelazioni dell’aspirante pentito, per cui i magistrati non hanno ancora chiesto il programma di protezione, smentiscono il collaboratore Vincenzo Scarantino sulla ricostruzione delle fasi preliminari della strage di via D’Amelio e aprono uno scenario investigativo radicalmente nuovo. Ma quali sono le novità del neopentito? Due, in sostanza: Spatuzza si autoaccusa del furto della Fiat 126 utilizzata come autobomba, ed esclude dal coinvolgimento la famiglia mafiosa di Santa Maria di Gesù. Le rivelazioni di Spatuzza sono clamorose e depositano sul tavolo degli inquirenti un rebus di difficilissima soluzione: se il dichiarante dice la verità, l’indagine «pura» della Squadra mobile di Palermo, nonostante il bollo della Cassazione, è destinata a sgretolarsi. E soprattutto, il teste chiave di via D’Amelio, Scarantino, si rivelerebbe un impostore. Da “L’AGENDA NERA