Genchi: ”A dicembre 1992 La Barbera mi disse che i carabinieri avrebbero arrestato Riina”

 

L’ex funzionario di Polizia sentito al processo sul depistaggio di via d’Amelio

“Nel dicembre 1992 Arnaldo La Barbera mi dice: ‘Senti io devo lasciare, tutto deve passare in mano ai Carabinieri perché a breve arresteranno Riina e noi siamo stati fatti fuori dalle indagini. A Palermo manderanno una testa di c…che deve venire a fare il pupo a dirigere la Squadra Mobile'”. A raccontare il dettaglio è l’ex funzionario di Polizia, Gioacchino Genchi, sentito venerdì a Caltanissetta nell’ambito del processo contro i funzionari di polizia Mario Bo e i due sottufficiali Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo accusati di calunnia aggravata dall’aver favorito Cosa nostra. Alla domanda del procuratore aggiunto Paci sulla data in cui sarebbe stata fatta l’anticipazione il teste ha detto che il periodo è quello “tra Natale e capodanno. Non sapevo il Ros, lui parlò dei Carabinieri”. Non era quella la prima volta che l’ex questore “anticipava” l’arresto di qualcuno. “Noi sapevamo che Contrada sarebbe stato arrestato – ha detto Genchi – Io l’ho saputo qualche giorno prima. E La Barbera mi disse: ‘temo che l’arresto di Contrada avrà ripercussioni su di noi’. Ma io dissi: ‘Noi che c’entriamo con Contrada noi stiamo facendo le indagini'”. Al tempo infatti, a fine anno 1992, con la Procura di Caltanissetta era stata avviata un’indagine su appartenenti dei servizi di sicurezza per un possibile coinvolgimento di quell’organismo sulla strage di via d’Amelio. 

Ugualmente l’ex consulente informatico ha dichiarato di non aver mai saputo del diretto coinvolgimento del Sisde nelle indagini della Procura di Caltanissetta. “Se avessi appreso una cosa del genere – ha ribadito – probabilmente avrei preso determinate decisioni molto tempo prima del maggio 1993”. 

Rispetto alle indagini su via d’Amelio Genchi ha riferito di non aver mai saputo delle informative del Sisde di agosto e settembre 1992 dove vi erano riferimenti alle indagini sull’attentato contro Borsellino e sulle parentele di Scarantino con figure mafiose. 

“Noi tra agosto e settembre 1992 ancora brancolavamo nel buio – ha detto parlando dell’indagine – E sono portato ad escludere categoricamente che La Barbera sapesse qualcosa di diverso”. Resta comunque il dato che in quella nota del 13 agosto 1992 il Centro di Palermo comunicava alla Direzione del Sisde di Roma che “a seguito di ‘contatti informali’ con gli investigatori della Questura di Palermo, anticipazioni sullo sviluppo delle indagini relative alla strage di via d’Amelio circa gli autori del furto della macchina ed il luogo ove la stessa ‘sarebbe stata custodita prima di essere utilizzata nell’attentato”.

Nel corso della sua deposizione Genchi ha ricostruito i suoi rapporti con l’ex Capo della mobile di Palermo a partire dall’agosto 1988 quando, su ordine del capo della polizia, Parisi, si era messo a disposizione di La Barbera per ricostruire la squadra mobile palermitana. Il rapporto fra i due divenne sempre più stretto “anche se io gli davo sempre del lei”, fin quando, nel giugno 1989, non ci fu la vicenda dei pentiti Totuccio Contorno tornato in armi in Sicilia facendo base a San Nicola l’Arena. “Io abitavo in quella zona – ha ricordato Genchi – ed un giorno il titolare di un bar-ristorante che frequentavo la domenica mi avvisa che c’erano movimenti strani in una casa davanti la stazione e che queste persone andavano sempre a telefonare lì davanti, in una cabina telefonica. Iniziammo gli accertamenti e identifichiamo Gaetano Grado e Contorno, che non sapevamo essere in Sicilia. Facendo delle intercettazioni su quella cabina, con grande sorpresa, scoprimmo che Contorno aveva colloqui telefonici di grande autorevolezza e tra gli altri intratteneva rapporti diretti con il dottor Gianni De Gennaro, con telefonate suggestive proprio in prossimità degli omicidi che c’erano stati in quel periodo. La Barbera ci rimase molto male, soprattutto perché De Gennaro non gli aveva detto nulla sul fatto che Contorno si trovasse a San Nicola l’Arena. Poi emersero contatti con un tale D’Agati che era il killer che aveva preso parte a diversi omicidi. Quando io spinsi per fare la perquisizione del covo ed arrestare tutti La Barbera tentenna. A quel punto io taglio una prima volta”.

Quei contatti con l’allora capo della Squadra mobile ripresero qualche tempo dopo quando a Roma Genchi incontrò un funzionario dei servizi, il dottor Luigi De Sena, che in qualche maniere fece da “paciere” tra i due. 

Così come aveva fatto al processo Borsellino quaterprocesso Borsellino quater Genchi ha anche raccontato del suo rapporto con Giovanni Falcone e soprattutto dell’esame dei supporti informatici del giudice Falcone, immediatamente dopo l’attentato di Capaci. “Alcuni file del computer di Falcone – ha riferito – custodito in una delle stanze della sezione Affari penali del ministero furono violati nonostante la stanza fosse sequestrata. Sul portatile che fu consegnato dal cognato di Falcone, Alfredo Morvillo, qualcuno installò un programma pc tools, utilizzato sia per recuperare che per cancellare definitivamente i file. Stessa cosa avvenne per l’agendina elettronica da dove emersero aspetti importanti come il viaggio di Falcone negli Stati Uniti, o l’incontro con Mutolo nel carcere di Spoleto. Dopo la decodifica dell’agenda, venni messo da parte, il clima nei miei confronti cambiò”. Genchi ha poi raccontato anche altri particolari delle indagini: “Partecipai in prefettura alla riunione del comitato per la sicurezza e l’ordine pubblico, in quanto con i miei tecnici mi occupavo delle registrazioni”. E ha poi aggiunto: “All’indomani dell’omicidio Lima, Falcone rivolgendosi a Pietro Giammanco, all’epoca procuratore capo di Palermo, gli disse: ‘e adesso i tuoi amici che dicono di questo omicidio?

L’interrogatorio con Candura

L’ex funzionario di Polizia ha anche parlato dell’interrogatorio a cui ha assistito a Mantova tra il pm Carmelo Petralia e il falso pentito Candura. “Io la vicenda di Candura e Valenti la conoscevo – ha detto rispondendo alle domande del pm – Ero alla mobile il giorno loro arresto. Poi seppi delle loro dichiarazioni ma c’erano delle discrasie. Non mi convincevano fino in fondo. E quel giorno Petralia raccolse le dichiarazioni ma si convinse anche di risentirli. Ricordo che La Barbera, che era presente in quel giorno, fu sorpreso di vedermi e manifestò dissenso. Ma fu Petralia a chiedermi di accompagnarlo perché in quel giorno eravamo stati insieme alla Casio per la questione delle agende elettroniche di Falcone”. Genchi ha sostenuto che “si vedeva a un miglio che quei due soggetti erano insufflati, perché cercavano di sostenere l’esamino. Il pm fu corretto nella redazione dell’atto, che era un atto riassuntivo. Al tempo non potevamo avere una fonoregistrazione e fu fatta solo una sintesi. Certo è che al tempo vi erano degli elementi reali ed oggettivi che andavano a connotare certe dichiarazioni. Fatti incontrovertibili come il furto della 126 di proprietà di Pietrina Valenti e il furto delle targhe, poi denunciate. Non si poteva buttare tutto quello che si diceva”.

La deposizione di Dianese

Prima dell’esame di Genchi (che è stato rinviato al prossimo 11 gennaio) a salire sul pretorio è stato il giornalista del “Gazzettino di Venezia” Maurizio Dianese. Quest’ultimo, come già aveva riferito al Borsellino quaterha raccontato delle dichiarazioni a lui fatte da Vincenzo Pipino, il “ladro gentiluomo” di Venezia, che fu detenuto con Vincenzo Scarantino, proprio su iniziativa di Arnaldo La Barbera. “Pipino mi racconta che lui sapeva che la cella era imbottita di microspie e di aver parlato con Scarantino nelle docce. Lo Scarantino disse a Pipino che non c’entrava nulla con la strage di via d’Amelio e lui lo riferì a La Barbera. Ma c’erano anche elementi oggettivi, perché Scarantino era un poveraccio che non sapeva scrivere, piangeva in continuazione. Questa racconto lo appresi in un periodo antecedente all’inizio della collaborazione con la giustizia di Gaspare Spatuzza. Non scrissi nulla perché non potevo verificare il racconto con La Barbera che conoscevo in quanto ex capo della Squadra Mobile di Venezia. Non ricordo se stava già male o se era già deceduto”. 

Il giornalista ha anche ricordato che Pipino gli riferì che La Barbera, “in cambio di quel servizio aveva promesso di intervenire su un processo per droga che lo vedeva come imputato a Roma e di potergli consegnare 150 milioni”. Pipino però avrebbe rifiutato la somma. Non solo. “Pipino ha detto di aver riferito al dottor La Barbera che erano in preparazione gli attentati di Firenze, quindi mi raccontò anche l’episodio di un lancio di un cellulare che lui e Scarantino avevano nella loro disponibilità in cella. Il fatto di un ritrovamento di un telefono lanciato fuori d una finestra e fracassato fuori dal carcere di Santa Maria Maggiore fu anche riportato da alcuni giornali. Tempo dopo Pipino mi disse che era stato lui a lanciarlo fuori”.

ANTIMAFIA 2000 16.12.18