Di Leonardo Guarnotta
La Convenzione di Palermo
La Convenzione delle Nazioni Unite contro il crimine organizzato internazionale, in vigore dal 2003, ha trovato la propria ragion d’essere in quelle ineludibili esigenze di contrasto della criminalità organizzata, in quanto fenomeno transnazionale, che riguardano. come è noto, non soltanto il profilo europeo ma anche, in una prospettiva più vasta, l’intera comunità internazionale.
Non vi è chi non veda come, ormai, il crimine organizzato abbia assunto la dimensione di un fenomeno di portata mondiale, contro il quale nessuna iniziativa di contrasto e di prevenzione potrebbe raggiungere soddisfacenti, positivi risultati ove non fosse frutto condiviso di una coordinazione e di una maggiore armonizzazione, in materia di lotta contro la criminalità organizzata, tra più Stati a livello non solo europeo ma addirittura universale.
L’esperienza dell’ONU verso una lotta coordinata al crimine organizzato si è condensata e realizzata nella Convenzione siglata a Palermo nel dicembre 2000 da 189 su 193 paesi con la quale si è inteso ampliare al massimo la portata della norma sovranazionale in cui rilevano le attività connesse al crimine organizzato.
Forti di questa consapevolezza le Nazioni Unite si sono impegnate nell’adozione di strategie di contrasto su scala globale e, a seguito di un cammino a tappe graduali, sono pervenute all’elaborazione di veri e propri “standard normativi”, destinati a costituire il minimo comune denominatore dei sistemi penali degli Stati membri
La Conferenza di Palermo si è adoperata, quindi, nell’opera di definizione del concetto di “gruppo criminale organizzato” inteso come un “gruppo strutturato che persegue reati gravi”, una formula questa che, in realtà, è stata ritenuta non molto chiara e viziata da eccessiva vaghezza.
Ma la scelta operata dalla Convenzione si deve probabilmente all’influenza che in essa ha avuto la tradizione dei sistemi penali di Common Law, nei quali la figura della Conspiracy abbraccia tanto le forme di mero accordo volto a compiere un reato quanto la realizzazione di uno o più reati da parte di un gruppo organizzato.
Una duplicità riprodotta perfettamente nella definizione delle condotte incriminate dal testo della Convenzione a titolo di partecipazione all’organizzazione criminale.
Tuttavia, nel complesso, la definizione della Convenzione è apparsa soddisfacente sia perchè esclude che sia necessaria la rigida definizione di ruoli e compiti all’interno del gruppo criminale organizzato sia perchè può attagliarsi anche a fenomeni di organizzazione criminale diversi dal gruppo strutturato e consistere in “aggregazioni mutevoli di soggetti volti a perseguire le più svariate attività criminose”.
In sostanza la Convenzione ONU richiede per la punibilità dei singoli la partecipazione diretta alle attività criminali, la suddivisione dei compiti fra almeno tre sodali, la previsione del mero accordo tra gli stessi, finalizzato alla perpetrazione dei reati, la conoscenza da parte degli associati della attività illecite svolte dal gruppo o delle finalità illecite derivanti da esse.
E’ palese l’intento della Convenzione di ampliare al massimo la portata della norma sovranazionale in cui rilevano le attività connesse al crimine organizzato.
Era assolutamente indispensabile, quindi, che tale modello avesse piena attuazione negli ordinamenti nazionali perchè l’importanza della Convenzione risiede soprattutto nel messaggio che ha inteso trasmettere e cioè che la sua ragion d’essere non risiede tanto nell’introduzione di questa o quella singola misura di contrasto più o meno innovativa, più o meno efficace, quanto nell’avere ricercato e, in gran parte ottenuto un linguaggio comune nell’azione di contrasto al crimine organizzato.
Non c’è chi non veda, dunque, come la Convenzione delle Nazioni Unite contro il crimine organizzato transnazionale sia il principale strumento internazionale nella lotta contro tale crimine e rappresenti un importante passo avanti nella strategia di contrasto allo stesso perchè ha significato il riconoscimento da parte degli Stati membri della gravità dei problemi posti da una criminalità organizzata in tutte le sue articolazioni: dal terrorismo alle mafie, dal traffico di esseri umani al riciclaggio, dal traffico di armi a quello di sostanze stupefacenti.
Ma sbaglierebbe di grosso chi ritenesse che la lotta al crimine organizzato possa conseguire positivi risultati se non a medio-lungo termine perchè la ciminalità organizzata vive ed opera pienamente inserita nel XXI secolo ed è in grado di sfruttare sino in fondo tutte le opportunità offerte dal progresso tecnologico.
Con l’abbattimento delle frontiere e la conseguente globalizzazione, beni, servizi e capitali circolano con grande facilità in ogni parte del mondo ed in Europa tutte le persone, anche quelle dedite ad attività illecite, possono liberamente spostarsi da uno Stato ad un altro dell’Unione, praticamente senza limite alcuno.
Ed allora, era assolutamente necessario ed indefettibile che le Istituzioni adottassero una comune strategia globale di contrasto, cioè armonizzata a livello internazionale per compiere ogni sforzo al fine di individuare e aggredire l’oligopolio criminale.
Senonchè, a dispetto dell’internalizzazione e globalizzazione del crimine organizzato, sembra persistere, purtroppo, un carattere ancora prevalentemente e prettamente nazionale e nazionalistico delle normative penali finalizzate all’azione di contrasto.
Si tratta di una differenza o disomogeneità dei sistemi penali vigenti nei vari Paesi interessati alla repressione del crimine organizzato che, non solo non facilita e non agevola, ma anzi inceppa l’efficacia e la tempestività degli interventi preventivi e repressivi sino a narcotizzarli e sclerotizzarli.
Addirittura, la mancanza di cooperazione e coordinamento può persino operare come fattore criminogeno.
Ed invece, in nessun altro campo come quello del contrasto alla criminalità organizzata transnazionale occorre che le Istituzioni dei Paesi interessati adottino una comune strategia globale di contrasto, cioè armonizzata a livello internazionale per compiere ogni sforzo al fine di individuare ed aggredire l’oligopolio criminale.
Sottoscrivendo la Convenzione finale, circa due terzi degli Stati aderenti all’ONU hanno assunto il formale impegno di inserire nel proprio ordinamento una serie di misure “pensate” con riferimento alla realtà delle organizzazioni criminali, quale emersa dall’esperienza investigativo-giudiziaria acquisita e maturata in decenni di lotta alla organizzazione criminale di tipo mafioso in particolare nel nostro paese, ma più in particolare in Sicilia.
La conferenza di Palermo, dunque, ha posto le basi per una solida piattaforma di integrazione internazionale nella lotta al crimine organizzato, premessa necessaria per rompere il muro dei confini, sino ad allora invalicabili, per le indagini e per la riduzione degli interstizi e delle zone grigie della “modernità” entro cui le mafie sanno bene incunearsi.
Conclusivamente, l’impegno dell’Unione Europea nella lotta alla criminalità appare ispirato da due linee guida.
La prima segnala che per una efficace lotta al crimine organizzato occorrono il dialogo e l’intesa tra gli Stati e con le Istituzioni comunitarie, non essendo più giustificabile, se non tollerabile, l’autarchia nelle scelte di politica criminale.
La seconda indica che nei rapporti di assistenza tra gli Stati è il principio dell’affidamento e non quello della indifferenza preconcetta e tanto meno della ostilità, a dover prevalere.
Ed in applicazione di tali linee che da tempo, in Europa, è in corso un processo lineare ed univoco di rafforzamento della cooperazione investigativa e giudiziaria tra gli Stati.
L’ultima tappa di questo percorso è stata Vienna dove, nel mese di ottobre 2018, si sono ritrovati i rappresentanti di 189 Paesi per fare il punto sulla sua applicazione.
Al termine dei lavori, è stata approvata all’unanimità la risoluzione che apre ad una revisione dell’accordo e ne rende ancora più stringenti gli impegni con la creazione di meccanismi di controllo volti ad accertare che tutti gli Stati abbiano adeguato i loro codici a quanto previsto dalla Convenzione.
Uno strumento prezioso per colmare le ultime lacune legislative e per rafforzare la collaborazione tra le forze di polizia e le magistrature di tutte le Nazioni che Giovanni Falcone già 40 anni fa auspicava.
Il sogno di Falcone: l’alleanza degli Stati contro la criminalità organizzata transnazionale
Primissimi anni ’80. Ufficio di Istruzione Penale del Tribunale di Palermo.
In un contesto storico-giudiziario fosco, oscuro in cui, anche da parte di rappresentanti delle istituzioni si affermava che la mafia non esistesse in quanto mera invenzione giornalistica o, addirittura, si sosteneva da altri che fosse un espediente mediatico del P.C.I. per screditare agli occhi dei cittadini la D.C., nasceva il pool antimafia dell’Ufficio di Istruzione di Palermo, un organo giudiziario non previsto dall’ allora vigente codice di procedura penale (ma posto in essere avvalendosi del disposto dell ‘art. 17 delle Disposizoni Regolamentari del codice Rocco), ideato e realizzato da due consiglieri dirigenti di quell’Ufficio, dapprima il compianto dott. Rocco Chinnici (ucciso dalla mafia il 29 luglio 1983 per mano di Giovanni Brusca, potente “uomo d’onore” della “famiglia” di San Giuseppe Jato) e, dopo, dal suo successore, l’indimenticato dott. Antonino Caponnetto (deceduto nel 2002), i quali concepirono, Rocco Chinnici, ed attuarono, Antonino Caponnetto, il disegno, del tutto innovativo, di affidare le indagini sul fenomeno della criminalità organizzata di tipo mafioso ad un gruppo di giudici di modo che, lavorando in stretto collegamento fra di loro, fosse possibile un scambio di notizie ed informazioni sui risultati delle indagini espletate da ciascuno di essi ed il patrimonio di notizie così acquisite da ognuno degli inquirenti non fosse disperso ma bensì portato a conoscenza degli altri colleghi.
La strategia che si era inteso attuare era, dunque, quella di formare un drappello di magistrati, all’inizio davvero sparuto, che esperisse il primo e serio tentativo di ripristinare, nel pieno rispetto delle norme penal-processuali, il primato del diritto e della legalità contro la violenza, l’arroganza e la tracotanza, divenute intollerabili, della criminalità organizzata di tipo mafioso, la “cosa nostra” come poi si apprenderà chiamarsi dalle rivelazioni di Tommaso Buscetta, storico collaboratore di giustizia, carismatico “uomo d’onore” della “famiglia” palermitana di Porta Nuova.
Le complesse indagini esperite ebbero ad oggetto gli anni settanta ed i primi anni ottanta sino al 1989; insieme con l’eliminazione di magistrati e funzionari dello Stato, le sentenze-ordinanze emesse dal pool hanno preso in considerazione le “attività” di “cosa nostra” quali il traffico di sostanze stupefacenti, i sequestri di persona, le rapine, le estorsioni consistenti nell’imposizione del “pizzo”, cioè del pagamento di somme di denaro, a commercianti, imprenditori e professionisti le cui attività si svolgevano nel territorio sotto la “giurisdizione” delle numerose “famiglie” mafiose operanti a Palermo e provincia.
Le indagini condotte dal pool antimafia hanno consentito, inoltre, di far luce sulla cd. guerra di mafia combattuta tra il 1980 ed il 1983 nel corso della quale vennero uccisi, ad opera dei corleonesi di Riina e Provenzano, “uomini d’onore” della fazione avversa, quali Stefano Bontate e Salvatore Inzerillo, nonché vennero consumati numerosi atroci delitti, una barbarica scia di vendette che insanguinò la città di Palermo in nome del predominio egemonico di una fazione di mafia, quella del c.d. clan dei Corleonesi.
Delitti che, purtroppo, sono stati considerati da troppi con indifferenza, oggetti del consumo delittuoso, quasi fossero una naturale conseguenza di un gioco violento che, comunque, andava consumato, o, ancora peggio, con la soddisfazione del cinismo, quasi che quei poveri corpi strangolati, sfigurati, incaprettati, cioè legati con una corda stretta tra il collo e gli arti inferiori, o sciolti nell’acido, uccisi nelle maniere più atroci non appartenessero anch’essi alla comunità umana e non fosse compito della società civile impedire quel massacro.
Il maggiore merito della incessante, complessa, articolata e difficile attività di indagine del pool antimafia è stato, dunque, quello di definire, una volta per tutte, la struttura interna dell’organizzazione mafiosa “cosa nostra” e tale impostazione è stata recepita nella sentenza della Cassazione del 30 gennaio 1992 con la quale si è formato il giudicato sul primo grande processo al Ghota mafioso, celebratosi a Palermo dal 10 febbraio 1986 al 16 dicembre 1987, a tutt’oggi il più grande processo mai celebrato al mondo contro appartenenti alla criminalità organizzata.
Venne, così, incontrovertibilmente e definitivamente accertato che “cosa nostra” è un vero potere criminale che si muove come anti-stato nello Stato, alla cui sicurezza attenta, apportandovi grave offesa con la commissione di efferati delitti che mirano a privarlo dell’opera di fedeli servitori (poliziotti, magistrati, funzionari pubblici) e mina alle sue fondamenta l’amministrazione della giustizia, l’ordine costituito e la sicurezza pubblica in molte zone del nostro paese, sì da fare apparire affievolito, se non addirittura compromesso, il ruolo delle Istituzioni della Repubblica, con effetti eversivi sulle Istituzioni stesse e sulla società civile.
Pur in presenza di tale drammatica situazione, maturò la consapevolezza che sarebbe stata necessaria l’adozione non di provvedimenti eccezionali, nel senso di una deroga ai principi fondamentali del nostro ordinamento giuridico, ma di straordinarie misure politiche, amministrative e legislative che, sempre muovendosi nell’ambito dei principi costituzionali, consentissero alla magistratura ed alle forze dell’ordine di contrastare in modo più adeguato e stroncare la minaccia che la criminalità organizzata rappresentava per l’ordine costituito e per la sicurezza dei cittadini.
Ma siffatta ardua impresa non poteva essere opera soltanto della magistratura e delle forze di polizia ma frutto di un condiviso, concorde e solidale impegno di tutte le componenti della società civile.
Prevenzione e repressione a nulla sarebbero valse se non accompagnate da una profonda e sentita rivolta morale, cui però lo Stato avrebbe dovuto garantire un sufficiente grado di sicurezza e di operatività.
Dopo le stragi di Capaci e Via D’Amelio c’è stata una grande mobilitazione, frutto dell’emozione suscitata da quegli eventi, da parte della società civile, quella avvertita, quella che rispetta le regole, quella che informa la sua condotta alla coltura e che non può non desiderare, con tutte te sue forze, che venga finalmente conseguita la definitiva liberazione da quelle gramigne infette, da quei bubboni malefici che si chiamano “cosa nostra”, “ndrangheta”, “camorra”, “sacra corona unita”, associazioni per delinquere di tipo mafioso, operanti anche in altre regioni dell’Italia, contro le quali non è sufficiente l’azione repressiva delle forze dell’ordine e della magistratura ma è anche e soprattutto necessario non l’interessato opportunismo di sedicenti paladini dell’Antimafia di cartone, dell’Antimafia parolaia, dell’Antimafia di chi cerca poltrone o vuole lucrare benemerenze ma bensì l’impegno serio, concreto, costante, diuturno delle componenti sane della società civile, di tutta la società civile, quella che denuncia il pizzo, quella che si costituisce parte civile in processi di mafia, quella che organizza convegni, come quello che stiamo vivendo, per farsi carico della protesta e capire come bisogna comportarsi, perché, è bene che lo si tenga presente una volta per tutte, la mafia non è un fenomeno criminale circoscritto alla Sicilia, ma ha travalicato i confini della Trinacria per espandersi in Italia là dove ha trovato terreno fertile, là dove ha potuto contare su reticoli di contiguità e connivenze ma anche di collusioni e complicità, grazie alle quali non ha quasi più bisogno di ricorrere alla violenza o alla intimidazione; ecco perché non bisogna mai, mai dimenticare che la mafia è una società per azioni criminali con sede illegale a Palermo e con filiali nel resto della Sicilia, in molte Regioni italiane e in alcuni paesi del mondo e che la società civile non si libererà dalla soffocante, non più tollerabile presenza della mafia, antistato nello stato, che inquina il tessuto socio-economico-imprenditoriale, sino a quando sarà auto-indulgente e tollererà facilmente al proprio interno, atteggiamenti paternalitistici, clientelari, conformistici, conservatori, illegali e “alegali”; insomma atteggiamenti mafiosi e paramafiosi.
È necessario che si faccia strada la convinzione che la cultura della violenza, del privilegio e della sopraffazione debba essere combattuta sia sul versante repressivo, grazie al costante impegno delle forze dell’ordine e della magistratura, sia sul versante preventivo mediante la costante ricerca di un radicate cambiamento culturale che consenta il riconoscimento e l’affermazione di irrinunciabili valori quali la democrazia, la legalità, la solidarietà, la pace e la giustizia.
Le cronache giudiziarie degli ultimi trent’anni, i processi a carico di importanti uomini delle istituzioni, basti ricordare quelli celebrati a carico di un sette volte primo ministro, nei confronti di un governatore della Sicilia e di alti funzionari di polizia, per limitarci a processi celebrati a Palermo e definiti con sentenze passate in giudicato, di condanna o di non doversi procedere perchè estinto il reato per intervenuta prescrizione, sono la cartina di tornasole di una pericolosissima commistione di interessi economici e di potere tra “cosa nostra” e rappresentanti delle istituzioni, grazie alla quale è possibile ai mafiosi infiltrarsi in nuovi settori economici ed imprenditoriali conseguendo in tal modo il controllo sempre più soffocante del territorio.
Altrimenti, come sarebbe stato mai possibile a Riina e Provenzano, capi dei capi quasi analfabeti, impegnarsi anche in attività legali (imprese, appalti e altro) senza la collaborazione di altri soggetti del mondo delle professioni, delle imprese e delle istituzioni?
E’ l’amara conferma di un potere mafioso in continua espansione come rilevato da numerose operazioni, condotte dalla magistratura nel Lazio, in Lombardia, Piemonte, Emilia-Romagna che hanno consentito di constatare, anche in queste regioni, la inquinante presenza di un “fenomeno” politico-mafioso già ben noto agli inquirenti che operano al Sud.
Il rapporto tra mafie e politica è, dunque, un tema sempre più di grande attualità ed è indubbiamente uno degli aspetti più inquietanti e controversi del fenomeno mafioso e
della storia dei partiti e delle istituzioni della nostra nazione.
Tornando alle vicende del pool antimafia, per quello che interessa in questa sede, in quella iniziale, straordinaria stagione storica e giudiziaria, il consigliere Rocco Chinnici assegnava a Giovanni Falcone, giudice istruttore da poco approdato a quell’ufficio, l’incarico di istruire il procedimento penale a carico di Rosario Spatola, un costruttore e faccendiere siciliano, su cui gravava l’accusa di gestire un grosso traffico internazionale di sostanze stupefacenti tra Palermo e New York, dove coesistevano e prosperavano, commerciando in armi ed eroina, ben cinque “famiglie” mafiose.
Nel corso di quel procedimento, a carico anche di altri soggetti, veniva accertato come alcune “famiglie” mafiose palermitane acquistassero in Turchia ingenti quantità di morfina base, la trasportassero a Palermo, dove veniva trattata in clandestine “raffinerie” e trasformata in eroina purissima, che veniva commercializzata preferibilmente a New York ma anche in altre città statunitensi ed il cui ricavato era oggetto di transazioni economiche presso istituti di credito svizzeri.
Quel processo, in cui erano coinvolti importanti soggetti legati a “cosa nostra”, fece comprendere a Giovanni Falcone che la strategia sino ad allora seguita nel contrasto giudiziario alla criminalità organizzata andava abbandonata perchè del tutto inidonea a conseguire risultati soddisfacenti.
Anche perchè, per moltissimi anni, la lotta alla mafia era stata quasi sempre emergenziale consistendo in estemporanee iniziative susseguenti a singoli fatti delittuosi come ad esempio la istituzione della commissione parlamentare antimafia del 1963 dopo la strage di Ciaculli, una borgata di Palermo, regno di Michele Greco, detto il “Papa”, in cui perirono sette carabinieri e due civili, dilaniati da una carica di tritolo nascosta nel portabagagli di una Alfa Romeo “Giulietta”.
Per un lungo lasso di tempo, quindi, le singole manifestazioni criminose erano state viste in una ottica parcellizzante e disancorata dalla considerazione unitaria del fenomeno mafioso di certo sottovalutato forse inconsapevolmente ma certo colpevolmente da coloro i quali avrebbero potuto e dovuto occuparsene e preoccuparsene.
Eppure, nel mese di marzo del 1973, Leonardo Vitale, il c.d. protopentito, giovane aspirante “uomo d’onore” e nipote del capo-mandamento Titta Vitale, aveva delineato, in un verbale di sommarie informazioni a firma dell’allora commissario della P.S. Bruno Contrada, l’organigramma della associazione mafiosa dell’epoca, naturalmente a livello delle sue ancora frammentarie ed incomplete conoscenze, facendo nomi e cognomi di numerosi sodali e di persone contigue all’associazione quali, ad esempio, Vito Ciancimino, a lungo assessore comunale e poi anche sindaco di Palermo sia pure per pochi giorni, anticipando di oltre dieci anni le analoghe, ma più precise e numerose rivelazioni di Tommaso Buscetta, contenute nel verbale del suo primo interrogatorio reso in Italia a Giovanni Falcone il 16 luglio 1984 e nei successivi.
Ma Leonardo Vitale, essendo stato ritenuto non completamente sano di mente, venne condannato per i reati commessi e confessati e internato in un manicomio giudiziario dal quale, scontata la pena irrogatagli, verrà dimesso nel dicembre del 1984 mentre nessuna o quasi iniziativa giudiziaria venne intrapresa nei confronti delle persone dallo stesso chiamate in reità e correità.
Qualche giorno dopo il suo rientro a Palermo, la mafia punirà con la morte il suo “tradimento”.
Dunque, non avere prestato la dovuta attenzione, per usare un eufemismo, alle propalazioni di Leonardo Vitale ha ritardato di oltre dieci anni l’azione di contrasto a “cosa nostra” ed è stata una grande occasione colpevolmente persa.
In una stagione giudiziaria, quindi, in cui le conoscenze dell’apparato strutturale e funzionale di “cosa nostra” erano ancora frammentarie e parziali e, correlativamente, episodica e discontinua era stata l’azione repressiva e punitiva dello Stato, diretta prevalentemente a colpire, con risultati ovviamente deludenti, le singole manifestazioni criminose (si pensi alle numerosissime assoluzioni per insufficienza di prove con le quali, negli anni ’60 e ’70 si erano chiusi i processi di Catanzaro, Bari e Palermo a carico di centinaia di mafiosi), un grandissimo e determinante contributo alle indagini svolte dal pool anti-mafia è stato fornito dalle collaborazioni di Tommaso Buscetta, Salvatore Contorno, Antonino Calderone, Francesco Marino Mannoia, “uomini d’onore” transitati dalla parte dello Stato, i quali hanno adottato tale decisione perché non hanno più creduto in “cosa nostra” ed hanno compreso che non valeva la pena di prestare ossequio ai principi di una organizzazione che aveva rivelato il suo vero volto di criminalità della peggiore specie e nei cui “valori” (da intendersi, ovviamente, in senso deteriore) più non si riconoscevano.
Ma, attenzione, per sgomberare il campo da ogni malinteso, va sottolineato che non deve ritenersi che alcuno dei predetti sia stato spinto a collaborare perché folgorato “sulla via di Damasco” come Saulo (poi diventato San Paolo) o perchè convinto da ragioni morali o ideali né che abbia aderito a “cosa nostra” sull’erroneo presupposto che si trattasse di una organizzazione a difesa dei deboli.
Si vuol dire, soltanto, che la degenerazione dei principi tradizionali di “cosa nostra” (le cd. “regole del gioco”) e la presa del potere da parte di spietati e feroci assassini (i “corleonesi” di Salvatore Riina, Bernardo Provenzano e Leoluca Bagarella) senza alcun vincolo solidaristico se non quello del lucro, hanno fatto comprendere che il rispetto dell’omertà era ormai un non senso.
E l’esperienza maturata al riguardo convinse i componenti del pool di essere nel vero nel ritenere che, ormai, la omertà era sempre meno il frutto di una convinta adesione ad una determinata sub-cultura e, sempre più, il frutto del terrore, della paura, della violenza e dell’intimidazione da un lato, e del tornaconto egoistico e di mire utilitaristiche dall’altro.
Le propalazioni di Tommaso Buscetta, Salvatore Contorno, Antonino Calderone e Francesco Marino Mannoia, supportate dagli obiettivi riscontri cercati sino allo sfinimento ed acquisiti nell’assoluto rispetto delle norme penal-processuali, hanno reso possibile, da un lato, infrangere il muro dell’omertà, che ha costituito uno dei pilastri portanti della stessa esistenza di “cosa nostra” da oltre centocinquanta anni, e dall’altro, di acquisire la reale conoscenza del fenomeno mafioso nella sua interezza, consentendo di alzare il sipario su di uno scenario fino ad allora soltanto immaginato, intuito o intravisto.
Istruendo il procedimento a carico di Rosario Spatola ed altri, Giovanni Falcone comprese ben presto che la mafia era anche un fenomeno criminale internazionale, che la sua potenza economica aveva superato i confini della Sicilia, che era riduttivo e fuorviante indagare solo a Palermo e che, soprattutto, era necessario penetrare nei “santuari” degli istituti di credito, dovunque si trovassero, nei quali affluivano e venivano “puliti” gli ingentissimi capitali accumulati con i traffici internazionali di armi e droga.
Ed allora era necessario fare un passo in avanti, dare una svolta definitiva alla strategia di attacco alla mafia economica e finanziaria operante anche all’estero, intensificando la collaborazione con gli organi investigativi e giudiziari degli Stati a livello europeo e mondiale, in una ottica di prevenzione e di contrasto alle più svariate attività criminali.
Nel mese di ottobre del 1982 una delegazione italiana partecipò alla Conferenza internazionale delle forze dell’ordine tenutasi presso la sezione “Criminalità organizzata” del Federal Bureau of Investigation, nella sede della sua accademia a Quantico in Virginia.
Di quella delegazione faceva parte Giovanni Falcone, la cui presenza fu l’occasione propizia per prendere contatti, ben presto favoriti da cordiali rapporti personali, con quelle autorità giudiziarie che, all’epoca, erano impegnate nell’inchiesta condotta dall’F.B.I, avente ad oggetto un grosso traffico di droga, denominata Pizza Connection, perchè pizzerie e ristoranti venivano impiegati per coprire l’importazione dell’eroina da Palermo.
In quegli anni di febbrile attività investigativa, ben presto si intensificarono le rogatorie negli U.S.A. di Giovanni Falcone e degli altri componenti del pool antimafia e dei pubblici ministeri della Procura della Repubblica di Palermo al fine di acquisire elementi di prova da utilizzare nel processo pendente a carico dello Spatola e di altri trafficanti di armi e sostanze stupefacenti ma anche di trarre insegnamenti dall’esperienza maturata, già allora, da investigatori e funzionari dell’ F.B.I, il principale corpo della polizia federale statunitense, e della D.E.A., l’agenzia anti-droga statunitense, i quali avevano scoperto un maxi-traffico di eroina tra la Sicilia e gli U.S.A. gestito da mafiosi siciliani e “cugini” americani.
Fu così possibile ottenere la preziosa collaborazione di Rudolph Giuliani, Procuratore Distrettuale e poi sindaco di New Jork, di Louis Freeh, componente prima e direttore poi dell’ F.B.I e di Richard Martin, procuratore del distretto di Manhattan,
Nel corso delle numerose regotarie a New Jork, si aprì agli occhi di Falcone un mondo nuovo, un metodo investigativo all’avanguardia grazie, anche, alla esperienza maturata in tema di collaboratori di giustizia (figure introdotte nel nostro ordinamento soltanto nel 1991) ed alla disponibilità da parte degli investigatori statunitensi di strumenti di lavoro quali, ad esempio, le agende elettroniche, cioè i computers, mentre Falcone, gli altri giudici del pool ed i pubblici ministeri ancora annotavano i nomi degli imputati e le informazioni sul loro conto su calapini ed agende cartacee.
Ma, soprattutto, l’indagine condotta dagli investigatori statunitensi, chiamata “pizza Connection”, fornì a Giovanni Falcone preziosissimi elementi utilizzati nel c.d. “maxi-processo” che si è concluso con la irrogazione di 19 ergastoli, 2665 anni di reclusione e molti milioni di lire di pene pecuniarie
Trovò, così, conferma l’intuizione di quel giudice non “visionario” ma lungimirante sulla necessità della collaborazione tra gli Stati per fare fronte, sia sul versante preventivo che repressivo, alle organizzazioni criminali che, già allora, come ora, facevano “affari” anche fuori i confini nazionali spartendosi un mercato miliardario.
Sulla scorta dell’esperienza maturata negli U.S.A.e di quella acquisita nel pool antimafia, Giovanni Falcone, lasciate le funzioni Procuratore Aggiunto presso la Procura di Palermo ed assunte quelle di responsabile della Direzione degli Affari Penali del Ministero di Grazia e Giustizia (chiamatovi da Claudio Martelli, titolare di quel Dicastero), si adoperò fattivamente, grazie alle opportunità offerte da quel privilegiato osservatorio, affinchè il legislatore adottasse, provvedimenti legislativi finalizzati a dotare la magistratura e le forze dell’ordine di innovativi strumenti di contrasto al crimine organizzato.
In particolare:
- è stato costituito presso alcune Procure della Repubblica la Direzione Distrettuale Antimafia (D.D.A) in cui esercitano le loro funzioni magistrati scelti in relazione alle loro specifiche attitudini ed esperienze professionali, sulla falsariga dell’F.B.I. e della D:E.A. Nonché del vecchio pool antimafia del soppresso ufficio di istruzione a seguito dell’entrata in vigore del nuovo codice di rito;
- è stata istituita la figura del Procuratore Nazionale Antimafia le cui funzioni consistono nell’attività di impulso e di coordinamento delle attività di indagine in tutto il territorio nazionale in relazione ai procedimenti per i delitti indicati nell’articolo 51 comma 3 bis del codice di procedura penale, in modo da assicurare anche il collegamento tra diverse Autorità Giudiziarie interessate ad indagini concernenti lo stesso reato o più persone coinvolte in vicende processuali di competenza di dette Autorità, spesso all’insaputa l’una delle altre per mancanza di collegamenti o scambio di informazioni;
- è stata costituita la Direzione Investigativa Antimafia (D.I.A.), un gruppo interforze in cui operano qualificati ed esperti appartenenti alla Polizia di Stato, all’Arma dei Carabinieri ed alla Guardia di Finanza, il quale opera in stretto collegamento con le Procure della Repubblica, così come era già accaduto durante l’esperienza del pool antimafia che si era costantemente avvalso della fattiva e preziosissima collaborazione di esponenti delle forze dell’ordine senza dimenticare che un contingente di appartenenti alla Guardia di Finanza era stato stabilmente distaccato presso il c.d. “bunkerino”, come veniva chiamato l’ufficio in cui avevano lavorato Giovanni Falcone e Paolo Borsellino ed anche il sottoscritto dopo il trasferimento, a sua domanda, di Paolo Borsellino alla Procura della Repubblica di Marsala;
- è stata approvata, sulla scorta dell’esperienza maturata da Giovanni Falcone negli U.S.A e nel pool, una legge premiale per i collaboratori di giustizia, i c.d. “pentiti”, le cui dichiarazioni avessero contribuito in modo determinante alla conoscenza delle dinamiche interne a “cosa nostra” e all’individuazione di appartenenti a quella associazione e di soggetti responsabili di gravi fatti di sangue in danno di magistrati, poliziotti, funzionari dello Stato, professionisti, avvocati, i c.d. “delitti eccellenti”;
- è stato introdotto nell’ordinamento penitenziario l’art. 41 bis che prevede un durissimo regime carcerario per gli appartenenti a “cosa nostra” condannati alla pena dell’ergastolo o a pesanti pene detentive al fine di impedire loro qualsiasi contatto con l’esterno e trasmettere ordini agli affiliati ancora in libertà.
Queste provvide iniziative legislative nonché gli insostituibili, irrinunciabili e non negoziabili valori di giustizia, legalità, rispetto dei diritti umani, di condivisione e solidarietà, per i quali hanno sacrificato il bene supremo della vita, costituiscono l’eredità lasciataci da Giovanni Falcone e, come non ricordarlo, dall’altro grande protagonista di quella irripetibile stagione giudiziaria, Paolo Borsellino.
Non una eredità fatta di beni, rendite o patrimoni ma bensì una eredità ricca di insegnamenti, di gesti, di parole, di comportamenti, di memoria lasciata da chi ci è venuto a mancare e tutti gli uomini di buona volontà, che si sono sentiti più soli dopo la loro morte, devono fare tesoro della loro testimonianza, del loro impegno, del loro sacrificio, del modo con il quale hanno provato a dare un senso alla loro esistenza.
Non è una eredità di sangue ma è una eredità simbolica che, rendendoli presenti nelle nostre vite, ci infonde coraggio, ci consiglia di non arrendersi mai, ci invita a credere che un cambiamento è sempre possibile, ci insegna il loro modello di lavoro e di vita, ci ricorda che la presa di distanza dal malaffare e da ogni forma di criminalità è un impegno inderogabile da assumere da parte di tutti noi, ci fa comprendere che, in un contesto temporale in cui sembra smarrito il senso profondo dell’interesse generale, del futuro, dello Stato, della giustizia, si impone un soprassalto di fierezza e di dignità, ed è necessario uno sforzo comune da parte di tutte le componenti sane della società civile per realizzare una opera di bonifica morale e sociale che consenta a tutti di vivere ed operare in una società nella quale la forza del diritto abbia sempre la meglio sul diritto della forza.
Giovanni Falcone e Paolo Borsellino non appartengono soltanto alla storia del nostro paese ma sono ancora presenti tra noi e lo saranno ancora a lungo perchè la loro speranza in un domani migliore e il loro coraggio sono la stessa speranza e lo stesso coraggio ereditati e fatti propri da tutti coloro che li hanno amati, condividendo quei valori per i quali Falcone e Borsellino hanno sacrificato il bene supremo della vita, e recependo il loro insegnamento di non fermarsi mai davanti agli ostacoli, di reagire alle incomprensioni ed alle avversità che inevitabilmente ciascuno di noi incontrerà nel proprio cammino.
Infine, desidero ricordare due fra le celebri frasi di Falcone e Borsellino.
“Perchè una società vada bene, si muova nel progresso, nell’esaltazione dei valori della famiglia, dello spirito, del bene, dell’amicizia, perchè prosperi senza contrasti tra i vari consociati, per avviarsi serena nel cammino verso un domani migliore, basta che ognuno faccia il suo dovere”.
Giovanni Falcone
“La sensazione di essere un sopravvissuto e di trovarmi, come viene ritenuto, in estremo pericolo, è una sensazione che non si disgiunge dal fatto che io credo ancora profondamente nel lavoro che faccio, so che è necessario che lo faccia, so che è necessario che lo facciano tanti altri insieme a me. E so anche che tutti noi abbiamo il dovere morale di continuarlo a fare senza lasciarci condizionare dalla sensazione che, o financo, vorrei dire, dalla certezza che tutto questo può costarci caro”
Paolo Borsellino
In queste due incisive e intense frasi mi sembra possano compendiarsi l’insegnamento, il richiamo al dovere e la speranza di un domani migliore, che costituiscono la preziosa, inestimabile eredità lasciataci da Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.
Milano 3 Maggio 2019