- Audio deposizioni ai processi
- Interrogatorio 17.7.2009 PD
- Andriotta ammette di avere inventato tutto
LA TESTIMONIANZA DI FRANCESCO ANDRIOTTA Le indagini subirono una svolta con la collaborazione di Francesco Andriotta, che riferì che tra il giugno e l’agosto 1993, mentre era in carcere con Vincenzo Scarantino, questi gli rivelò, dopo la notizia dell’arresto del carrozziere Giuseppe Orofino, che era stato quest’ultimo a commissionargli il furto dell’auto; non solo, gli aveva anche raccontato che il fratello di un mafioso vicino ai Madonia aveva intercettato un’utenza telefonica per conoscere gli spostamenti di Paolo Borsellino e che ai preparativi della strage e alle operazioni di caricamento dell’esplosivo aveva partecipato anche il cognato Salvatore Profeta.
Nell’interrogatorio del 17 luglio 2009, dopo la confessione di Gaspare Spatuzza, Andriotta riferì che: “Io non sapevo nulla della strage di via d’Amelio, ma non sono io che ho costruito le cose. Il tutto è stato costruito dal dottore La Barbera e dal dottore Bo. Mi avevano promesso che mi avrebbero fatto togliere l’ergastolo. Me lo disse anche un giovane funzionario, che si chiamava pure La Barbera. Scarantino non mi ha detto nulla su via d’Amelio.“
Borsellino, a processo per depistaggio l’ex pentito Andriotta tra conferme e “non ricordo” Tra conferme, alcune contraddizioni, e diversi ‘non ricordo’, l’ex pentito di mafia Francesco Andriotta, torna sul banco dei testimoni al processo per il presunto depistaggio delle indagini sulla strage di via D’Amelio che si celebra davanti al Tribunale di Caltanissetta, presieduto da Francesco D’Arrigo. Oggi è stato il turno del controesame. Andriotta, condannato per calunnia aggravata nel processo Borsellino quater, ha risposto alle domande dei legali dei tre imputati, i funzionari di Polizia Mario Bo, Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo, accusati di calunnia aggravata in concorso. Non sono mancati i ‘non ricordo’ dell’ex collaboratore di giustizia, ma durante il controesame ha ribadito quanto già detto lo scorso primo febbraio, durante l’interrogatorio condotto dal sostituto procuratore Stefano Luciani.
LE ACCUSE In quell’occasione Andriotta era tornato ad accusare l’ex capo della mobile poi questore di Palermo, Arnaldo La Barbera, morto nel 2002, Vincenzo Ricciardi, già questore di Novara, oggi in pensione, Mario Bo, imputato nel processo, e Salvatore La Barbera. Sarebbero stati loro, secondo l’accusa, ad averlo preparato a mentire su Scarantino e sul furto della 126. «Non era Scarantino a dirmi i fatti ma sono stati questi poliziotti che mi hanno fatto accusare persone innocenti facendomi credere che erano colpevoli – aveva detto in aula nella scorsa udienza- Questo non voglio più farlo. Mi dispiace e chiedo perdono!». Ma oggi nel corso del controesame, Andriotta, incalzato a lungo dall’avvocato Panepinto, è caduto più volte in contraddizione e sono stati i numerosi ‘non ricordò. Ma anche le conferme di quanto detto. Soprattutto sui ‘manoscrittì che gli sarebbero stati consegnati dai poliziotti prima degli interrogatori «per rinfrescarmi la memoria», dice oggi. «Erano scritti a mano che dattiloscritti, e c’era scritto cosa dovevo fare. Me li consegnarono al carcere Pagliarelli
“Voglio capire perché siamo imputati solo io e Scarantino per avere fatto condannare degli innocenti, cui è stato inflitto pure il carcere duro. Voglio capire perché non sono imputati i funzionari che mi hanno costretto ad accusare degli innocenti. È un rimorso che mi porterò dentro per tutta la vita. Mi rivolgerò anche alla Corte europea di Strasburgo e al presidente della Repubblica Mattarella”. Si è sfogato così, prima di scoppiare a piangere, il falso pentito Francesco Andriotta, deponendo in videoconferenza nel quarto processo per la strage di via D’Amelio, che lo vede imputato in Corte d’Assise a Caltanissetta per calunnia. E’ accusato di avere detto il falso sulla fase preparatoria dell’attentato del 19 luglio ’92, in cui morirono il magistrato Paolo Borsellino e cinque agenti di scorta. Sotto processo per calunnia ci sono anche Vincenzo Scarantino e Calogero Pulci, mentre i boss di Brancaccio Salvo Madonia e Vittorio Tutino rispondono di strage. L’esame di Andriotta, iniziato ieri pomeriggio, sta proseguendo questa mattina. Ieri l’imputato aveva accusato l’ex capo della Mobile di Palermo Arnaldo La Barbera e due funzionari di polizia di averlo costretto a mentire. ANSA) – CALTANISSETTA, 14 MAG 2015 –
Depistaggio via d’Amelio, Andriotta torna ad accusare i poliziotti Dalle botte subite alle indicazioni sulle dichiarazioni da fare per “incastrare” Vincenzo Scarantino prima degli interrogatori, passando per le promesse di aiuto nei suoi confronti. Sono questi gli argomenti su cui ha riferito il “falso pentito” Francesco Andriotta, condannato per calunnia al processo Borsellino quater, ieri ascoltato al processo sul depistaggio della strage di via d’Amelio che vede imputati i poliziotti Mario Bo, Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo. Gli ex appartenenti del gruppo Falcone-Borsellino, che indagò sull’attentato, devono rispondere all’accusa di calunnia aggravata dall’aver favorito Cosa nostra.
Andriotta, rispondendo alle domande del sostituto procuratore Stefano Luciani è tornato ad accusare l’ex capo della mobile poi questore di Palermo, Arnaldo La Barbera, morto per un male incurabile nel 2002, Vincenzo Ricciardi, già questore di Novara, oggi è in pensione, Mario Bo, oggi imputato nel processo, e Salvatore La Barbera. Sarebbero stati loro ad averlo preparato a mentire su Scarantino e sul furto della 126. “Non era Scarantino a dirmi i fatti ma sono stati questi poliziotti che mi hanno fatto accusare persone innocenti facendomi credere che erano colpevoli – ha detto in aula – Questo non voglio più farlo. Mi dispiace e chiedo perdono!”.
Tutto ebbe inizio nel 1993 nel carcere di Busto Arsizio: “Incontrai Arnaldo La Barbera e Ricciardi, che mi diede anche uno scappellotto perché in un primo momento io non volevo accettare quella cosa e mi disse di ‘ascoltare il dottor La Barbera, che è una persona che può aiutare’. La Barbera mi disse che se davo una mano mi avrebbe aiutato a risolvere la problematica della mia condanna all’ergastolo; che c’erano persone colpevoli anche se non avevano prove per inchiodarli. Mi disse che mi avrebbe fatto ottenere la detenzione domiciliare, il programma di protezione. Io ero in difficoltà in quel periodo”.
Per convincerlo a collaborare, secondo quanto riferito dal teste, non sarebbero mancati neanche gli episodi di violenza: “Vi fu una perquisizione notturna nella mia cella ed anche in quella di Scarantino. Una guardia specificatamente, che parlava siciliano, mi ha picchiato mi ha messo il cappio al collo. Io sentivo anche Scarantino gridare, come se avessero alzato le mani anche a lui”. Durante la deposizione in più occasioni il pm Luciani ha evidenziato le criticità delle dichiarazioni dello stesso Andriotta. “Questa cosa lei nel 2009 non l’ha detta. Lei non ha menzionato Scarantino che è oggetto di vessazioni e maltrattamenti. Come mai?” ha chiesto al teste. “Oggi ho rivisto quella scena dottore e ricordo le urla di Scarantino. Del resto poi parlai con lui. Lui mi diceva che era innocente e che gli volevano far dire cose”.
Andriotta avrebbe dovuto anche pressare il “picciotto della Guadagna” e per metterlo in soggezione gli parlò anche di Antonino Gioè, morto “suicida” in carcere. “La Barbera mi disse che non si era impiccato ma che lo avevano impiccato. Io questo Gioè anche lo conoscevo – ha detto ieri il teste – Serviva per mettere paura a Scarantino e mi dissero quello che dovevo fare”. E se nel confronto con Scarantino, nel 2010, aveva riferito che di Gioè parlarono solo dopo aver appreso la notizia dal settimanale Panorama oggi Andriotta ha dichiarato: “Il fatto del settimanale mi hanno detto loro di dirlo dopo, perché lo dice Scarantino, ma non è così. Noi non avevamo settimanali”.
Ugualmente, per la prima volta, il teste ha oggi riferito di aver ricevuto, prima degli interrogatori con i pm, dei fogli dattiloscritti a macchina ma anche scritti a mano, con le indicazioni delle dichiarazioni da dire. “Li dovevo studiare a memoria – ha detto il teste – per poi raccontare ai magistrati della Dda che ai tempi erano la dottoressa Ilda Boccassini e il dottor Fausto Cardella. Già a Busto Arsizio ma anche nell’aula bunker di Rebibbia prima del processo mi diedero carte”. Nel corso della deposizione diverse sono state le contestazioni da parte del pm Luciani. “Né negli interrogatori né nelle dichiarazioni del Borsellino quater trovo traccia della consegna delle carte al processo Borsellino Uno” ha sottolineato il magistrato. “Dottore mi sarà sfuggita. Pian piano ricordo cose” ha risposto il teste che in alcuni momenti ha anche perso il controllo gridando: “Il cappio al collo l’ho ricevuto io. Le mazzate le ho prese io. Ho preso una bastonata perché ho accusato persone ingiuste da accusare. Capite il mio stato d’animo ogni volta che ripercorro la cosa della strage di via d’Amelio. Perché ve la prendete con me stamattina. Mettere qualcuno come i dottori Mario Bo, Arnaldo La Barbera, La Barbera Salvatore, o dottor Ricciardi”.
Andriotta ha riferito che prima degli interrogatori parlava con gli investigatori. “Io non sapevo nulla di Profeta, me lo indica La Barbera. Siamo vicino all’onomastico e pochi giorni dopo c’era l’arresto di Profeta anche. Perché non chiesi spiegazioni dopo che all’inizio ero stato generico sul furto della 126 e che era stato commissionato da un parente a Scarantino? Io non mi ricordo se chiesi o meno. Ma l’interrogatorio l’ho avuto e c’era la Boccassini. Il blitz su Profeta scatta dopo e io venni trasferito al carcere di Alessandria”. Andriotta ha anche accusato l’ispettore Mario Bo di aver suggerito in più occasioni, durante le pause degli interrogatori, le risposte che doveva dare ai magistrati. Il falso pentito, infatti, dopo l’inizio della collaborazione con la giustizia di Scarantino, di volta in volta aveva aggiunto nuovi dettagli alle sue dichiarazioni. “C’era questa cosa – ha detto – questi aggiustamenti. Io non potevo sapere cosa diceva Scarantino. Le cose che dovevo dire me le dicono di volta in volta di presenza o con i fogli”. Rispetto ad alcuni documenti Andriotta ha ribadito di averli distrutti tra il 2005 d il 2006 quando era nel carcere di Alessandria: “C’era il nervosismo perché in quel periodo ero stato accusato e avevo paura che queste carte uscissero fuori e io presi e distrussi tutto”. Il controesame di Andriotta è stato rinviato ad una prossima udienza mentre il processo proseguirà il 4 febbraio quando è previsto il primo giorno di trasferta a Roma per sentire i collaboratori di giustizia.
La “collaborazione” di Francesco Andriotta
La collaborazione di Francesco Andriotta (intrapresa nel settembre 1993) per la strage di via Mariano D’Amelio, non solo apriva la strada, in maniera determinante, a quella successiva di Vincenzo Scarantino (che iniziava a giugno 1994), ma permetteva altresì di puntellare il costrutto accusatorio riversato nei tre gradi del primo processo celebrato per questi fatti (nei confronti dello stesso Scarantino Vincenzo, nonché di Profeta Salvatore, Scotto Pietro ed Orofino Giuseppe), consentendo persino di superare la clamorosa ritrattazione dibattimentale di Scarantino, nel settembre 1998.
Oggi, anche alla luce delle dichiarazioni di Gaspare Spatuzza, la genesi e l’evoluzione di quella ‘collaborazione’, devono esser rivisitate, con la consapevolezza che le dichiarazioni di Andriotta costituivano la svolta per le indagini preliminari dell’epoca, inducendo alla collaborazione anche Scarantino.
Pertanto, come anticipato, prima di affrontare il merito di quanto riferito dall’imputato nell’odierno procedimento, dal 2009 in avanti, ammettendo apertamente la natura mendace della propria collaborazione (e lo scopo della stessa, vale a dire costringere Scarantino a ‘collaborare’, mettendolo con le “spalle al muro”), soltanto una volta messo innanzi all’evidenza di quanto già accertato dalle più recenti indagini, pare opportuno muovere dal contenuto delle dichiarazioni (come detto, pacificamente mendaci) che questi rendeva, da ‘collaboratore’ della giustizia, in relazione a quanto (asseritamente) appreso sulla strage di via D’Amelio, durante la detenzione in carcere a Busto Arsizio, con Vincenzo Scarantino.
Andriotta iniziava a ‘collaborare’ sui fatti di via D’Amelio, con l’interrogatorio del 14 settembre 1993 (reso a Milano, davanti al Pubblico Ministero, dott.ssa Ilda Boccassini), dove riferiva (in sintesi, in ben otto ore d’interrogatorio) che:
- chiedeva il trasferimento dal carcere di Saluzzo a quello di Busto Arsizio, per essere più vicino alla famiglia; arrivava in tale ultima struttura il 3 giugno 1993 e veniva assegnato al Reparto Osservazione, occupando prima la cella n. 5 e poi la n. 1, dove rimaneva fino al 23 agosto 1993;
- proprio in tale periodo conosceva Vincenzo Scarantino, col quale instaurava un rapporto cordiale, che diventava, giorno dopo giorno, più stretto; come
- usualmente avveniva tra detenuti, i due iniziavano a parlare delle rispettive vicissitudini e, quindi, anche delle attività illecite per cui erano detenuti;
- Scarantino gli riferiva che contrabbandava sigarette (come attività collaterale) e che era legato ad importanti personaggi mafiosi, in particolare a Carlo Greco e Salvatore Profeta, con i quali gestiva grossi traffici di stupefacenti; di Profeta aggiungeva che era suo cognato, nonché ‘uomo d’onore’, che godeva di grande rispetto in Cosa Nostra, essendo il braccio destro di Pietro Aglieri, il capo nel quartiere della Guadagna;
- col passare dei giorni, il rapporto di confidenza si tramutava in vera e propria amicizia, con scambio di favori: Scarantino cucinava anche per Andriotta, mentre quest’ultimo, in occasione dei colloqui carcerari, consegnava alla propria moglie dei messaggi scritti per la famiglia di Scarantino; a volte era lo stesso imputato che scriveva tali messaggi, su dettatura di Scarantino, poiché questi non sapeva scrivere in corretto italiano e la moglie di Andriotta (che doveva chiamare il numero di telefono riportato sul ‘pizzino’, leggendone il contenuto all’interlocutore), non capiva cosa vi era scritto;
- nel prosieguo del rapporto fra i due detenuti, Scarantino si lasciava andare ad una serie di importanti confidenze, riguardanti anche il suo diretto coinvolgimento nella strage di via D’Amelio. Inizialmente, Scarantino gli spiegava solo che era imputato per questi fatti e che le prove a suo carico erano le dichiarazioni di tali Candura e Valenti, delle quali non si preoccupava perché si trattava di due tossicodipendenti poco attendibili (Scarantino aveva, addirittura, appreso che il secondo, nel corso di un confronto con il primo, aveva ritrattato le sue dichiarazioni). Scarantino neppure era preoccupato per il filmato, in possesso di Candura, che lo ritraeva in occasione di una festa di quartiere, giacché era in grado di darne ampia giustificazione. Invece, qualche apprensione mostrava Scarantino quando apprendeva dell’arresto di suo fratello per l’accusa di ricettazione di autovetture, tanto che, con il predetto sistema dei messaggi trasmessi tramite la moglie di Andriotta, cercava di capire se detto reato era o no collegato alla strage di via D’Amelio. Molto più forte era la preoccupazione di Scarantino quando (tramite un detenuto della seconda sezione) apprendeva che in televisione davano notizia dell’arresto di un garagista coinvolto nella strage di via D’Amelio.
In tale contesto, Scarantino si lasciava andare ad ulteriori confidenze, rivelando ad Andriotta, tra le altre cose, che temeva un eventuale pentimento del predetto garagista, le cui dichiarazioni potevano comportare, per lui, la condanna all’ergastolo. La fiducia nutrita nel compagno di detenzione, poi, induceva Scarantino a confessare ad Andriotta di aver effettivamente commissionato al predetto Candura il furto di quella Fiat 126 che veniva utilizzata nella strage del 19 luglio 1992, e ciò su richiesta di un parente (un cognato o fratello). L’autovettura da sottrarre doveva essere di colore bordeaux, perché anche la sorella di Scarantino (Ignazia) ne possedeva una dello stesso colore (in tal modo, se qualcuno lo avesse visto durante gli spostamenti della vettura, non avrebbe nutrito alcun sospetto). Candura (sempre secondo le false confidenze di Scarantino, riferite da Andriotta) aveva sottratto la Fiat 126 di proprietà della sorella di Valenti Luciano e quest’ultimo la aveva portata nel posto stabilito, dove Scarantino la aveva presa in consegna, provvedendo a ricoverarla in un garage, diverso da quello dove la stessa era stata, successivamente, imbottita d’esplosivo. Inoltre, Andriotta aveva riferito anche ulteriori circostanze di dettaglio (sempre apprese, a suo dire, da Scarantino), in merito al furto della predetta autovettura, come il fatto che la stessa non era in condizioni di perfetta efficienza e, per tal motivo, veniva spinta o trainata. Ancora, per il furto di detta autovettura, Scarantino aveva promesso 500.000 lire a Candura, ma ne aveva corrisposto soltanto una parte, vale a dire 150.000 Lire, oltre a della sostanza stupefacente (non pagando la differenza). L’autovettura era stata anche riparata ed alla stessa erano state cambiate le targhe. Inoltre, Scarantino gli confidava che era lui stesso che aveva portato la macchina dal garage alla via D’Amelio. Circa il luogo dove la vettura era stata imbottita d’esplosivo, Scarantino gli confidava cose contrastanti, giacché, in un primo momento, riferiva di una località di campagna dove la sua famiglia possedeva dei maiali, e successivamente, dopo l’arresto del predetto garagista, faceva invece riferimento proprio all’autorimessa di quest’ultimo. Peraltro, Scarantino non era presente al riempimento della vettura d’esplosivo, perché se ne occupavano altre due persone, uno dei quali era uno specialista italiano di nome Matteo o Mattia. Scarantino spiegava anche che si era ritardata la denuncia del furto delle targhe al lunedì successivo all’attentato.
A tale primo interrogatorio ne seguivano altri, in relazione ai quali si riporteranno, in questa sede (anche per economia motivazionale, attesa la pacifica falsità di tutte queste dichiarazioni dell’imputato, come ammesso ampiamente da Andriotta, anche nell’esame dibattimentale) solo gli ulteriori dettagli e circostanze, via via aggiunti, rispetto a quanto già sopra sintetizzato. In particolare, nel corso dell’interrogatorio del 4 ottobre 1993 (nel carcere di Milano Opera, sempre alla presenza del Pubblico Ministero, dott.ssa Ilda Boccassini), l’odierno imputato riferiva:
- di un messaggio fatto pervenire a Vincenzo Scarantino, occultato dentro un panino e gettato all’interno del cubicolo dove questi si trovava, da parte di alcuni detenuti sottoposti al regime differenziato dell’art. 41-bis O.P. (e ristretti nell’apposita sezione), come preannunciato da un amico del detenuto (che gridava dalla finestra “Vincenzo quando vai all’aria domani mattina, trovi un panino, mangiatillo”). Nel biglietto c’era il seguente messaggio: “guidala forte la macchina”; detto biglietto veniva poi dato da Scarantino ad Andriotta, affinché quest’ultimo lo consegnasse alla moglie, che avrebbe dovuto chiamare il recapito telefonico indicatole, per leggere all’interlocutore il testo del predetto messaggio;
- che Scarantino confidava ad Andriotta che il “telefonista” arrestato per la strage di via D’Amelio aveva intercettato la telefonata per conoscere gli spostamenti del dott. Paolo Borsellino operando su un armadio della società telefonica posto in strada. Questo soggetto era il fratello di un grosso boss mafioso. Quando veniva arrestato il “telefonista”, comunque, Scarantino non sembrava affatto preoccupato;
- che colui che, a dire di Scarantino, gli aveva commissionato il furto dell’automobile da utilizzare per la strage, era Salvatore Profeta; Andriotta motivava l’iniziale reticenza, a tale riguardo, con la paura di menzionare un personaggio d’elevato spessore criminale, spiegando che rammentava il nome del parente di Scarantino, in quanto quest’ultimo gli confidava che commentava tale presenza, al momento in cui l’esplosivo arrivava o veniva prelevato per essere trasportato nella carrozzeria, con la frase ”è arrivata la Profezia”;
- che il ritardo nella denuncia di furto al lunedì successivo la strage, riguardava le targhe apposte alla Fiat 126.
- In occasione dell’interrogatorio del 25 novembre 1993, inoltre, Andriotta rendeva le seguenti ed ulteriori dichiarazioni:
- riferiva alcuni dettagli sul messaggio minatorio di cui aveva parlato nel precedente atto istruttorio, precisandone il contenuto (“guida forte la macchina”);
- su domanda dei magistrati, rendeva ulteriori dichiarazioni sul predetto Matteo o Mattia, evidenziando che Scarantino non gli specificava se questi era siciliano o meno, e precisando di non essere sicuro se, al posto di tale nome, il compagno di detenzione menzionava un altro nome, simile a quello appena riferito;
- nel momento in cui arrivava l’esplosivo o quando lo stesso veniva trasferito sulla Fiat 126, assieme a tale Matteo o Mattia, era presente anche Salvatore Profeta; inoltre, Andriotta non poteva escludere che fossero presenti altre persone, poiché Scarantino gli faceva intendere di aver pronunciato la frase “è arrivata la Profezia”, a coloro che si trovavano sul posto.
Ancora, in occasione dell’interrogatorio del 17 gennaio 1994, Andriotta aggiungeva che, dopo la strage di via D’Amelio, Candura cercava, più volte, Scarantino, per sapere se l’autovettura utilizzata per l’attentato era proprio quella rubata da lui; Scarantino lo trattava in malo modo, intimandogli di non fargli più domande sul punto, e facendogli fare anche una telefonata minatoria, vista l’insistenza del Candura. Infine, Andriotta precisava che Scarantino ordinava a Candura di non rubare l’automobile nel quartiere della Guadagna.
Ulteriori e significative progressioni nelle dichiarazioni di Andriotta, sempre riportando (falsamente) le confidenze carcerarie (inesistenti) di quest’ultimo, si registravano nel verbale d’interrogatorio del 29 ottobre 1994, dove l’imputato spiegava di aver taciuto, sino a quel momento, su alcune circostanze, per timore delle eventuali conseguenze per la propria incolumità personale. In particolare, il prevenuto riferiva che alla strage partecipava anche Salvatore Biondino, pur non sapendo con quale ruolo (Scarantino non glielo aveva detto). Inoltre, Scarantino gli parlava anche di una riunione in cui si definivano alcuni dettagli relativi all’esecuzione della strage, cui partecipavano Salvatore Riina, Pietro Aglieri e Carlo Greco, Salvatore Cancemi, Gioacchino La Barbera e Giovanni Brusca (sul punto si tornerà nel prosieguo, atteso che Andriotta, in buona sostanza, si adeguava alle sopravvenute dichiarazioni di Vincenzo Scarantino, sulla riunione di villa Calascibetta).
Nel successivo interrogatorio del 26 gennaio 1995, Andriotta proseguiva nell’aggiunta di ulteriori particolari sulla predetta riunione, evidenziando che alla stessa (sempre a dire di Scarantino) partecipava anche un tal Gancio o Ciancio, capo mafia di un quartiere di Palermo, nonché quel Matteo o La Mattia di cui aveva parlava in precedenza. Mentre si svolgeva la riunione, Scarantino rimaneva all’esterno, a fare la vigilanza; per un motivo che Andriotta non ricordava, ad un certo punto, entrava dentro la stanza, assistendo persino ad un momento della discussione: non tutti i partecipanti alla riunione erano d’accordo per assassinare il dott. Paolo Borsellino e, in particolare, Cancemi era uno di quelli che dissentiva. I Madonia non erano presenti alla riunione ma facevano pervenire il loro consenso. Ancora, Scotto aveva avuto anch’egli un ruolo nella strage (sempre a dire di Scarantino), avendo -quanto meno- fornito il consenso dei Madonia rispetto alla stessa. Infine, a proposito del “telefonista”, Scarantino confidava all’imputato che, circa due giorni prima del collocamento dell’autobomba in via Mariano D’Amelio, questo soggetto comunicava che “era tutto a posto”, nel senso che era stato messo sotto controllo il telefono della casa della madre del dott. Borsellino.
In data 31 gennaio 1995 e 16 ottobre 1997, Andriotta veniva esaminato, rispettivamente, nei dibattimenti di primo grado dei processi c.d. Borsellino uno e Borsellino bis ed, in specie, nella seconda occasione, approfondiva le accuse mosse nei confronti dello Scarantino, chiamando anche in causa (sempre de relato dal compagno di detenzione), per la prima volta, in relazione alla strage di via D’Amelio, Cosimo Vernengo, come “partecipe” all’eccidio (si riporta, in nota, lo stralcio d’interesse della relativa dichiarazione dibattimentale, sulla quale si ritornerà).
Infine, sempre nell’ambito del processo c.d. Borsellino bis, Andriotta veniva nuovamente esaminato il 10 giugno 1998, allorché riferiva (falsamente) che veniva minacciato, in data 17 settembre 1997, mentre si trovava in permesso premio a Piacenza, da due individui che lo chiamavano per nome, gli intimavano di confermare la ritrattazione fatta da Scarantino ad Italia Uno nel 1995 e aggiungevano che doveva anche parlare dell’omosessualità del predetto. In sostanza, Andriotta doveva dire che Vincenzo Scarantino nel 1995, ritrattando le sue dichiarazioni, aveva detto la verità e che aveva fatto (prima d’allora) delle accuse false, per la strage di via D’Amelio, perché continuamente picchiato, su istigazione del dott. Arnaldo La Barbera. Inoltre, Andriotta doveva spiegare che quanto a sua conoscenza sulla strage di via D’Amelio e su fatti di mafia era il frutto di un accordo fra lui e Scarantino. Altri avvertimenti gli venivano fatti sempre dagli stessi due individui, nel periodo natalizio del 1997, quando si trovava in permesso: tra le istruzioni ricevute, vi era anche quella di nominare come suoi difensori, prima di Pasqua, gli avvocati Scozzola e Petronio (direttiva alla quale aveva, poi, ottemperato).
In cambio di quanto richiesto, gli venivano promessi trecento milioni di Lire.
Ciò premesso, si deve ora passare a trattare della valutazione d’attendibilità o meno delle predette dichiarazioni, da parte delle Corti d’Assise che si occupavano di questi fatti, nei precedenti processi celebrati per la strage di via D’Amelio.
Così sinteticamente riportate le mendaci dichiarazioni che l’imputato rendeva in ordine alle inesistenti confidenze carcerarie di Vincenzo Scarantino, occorre esaminare anche le conclusioni raggiunte da talune delle sentenze dei precedenti processi celebrati per la strage di via D’Amelio, in ordine alla sua attendibilità. In tal senso, la sentenza di primo grado del primo processo celebrato per questi fatti (c.d. Borsellino uno), concludeva per un giudizio positivo sull’attendibilità intrinseca di Andriotta, evidenziando che la decisione di questi di collaborare con la giustizia era il frutto di una scelta autonoma, maturata e meditata all’interno della sua coscienza, in maniera del tutto libera e spontanea.
A tal proposito, si valorizzavano le dichiarazioni di alcuni testimoni che consentivano (ad avviso di quella Corte) di dissipare i dubbi prospettati dalle difese sul possibile impiego del ‘collaboratore’ di giustizia in funzione di agente provocatore, nonché il fatto (positivamente valutabile) che Andriotta riferiva, inizialmente, i fatti di reato che lo riguardavano in prima persona e, solo in seguito, delle confidenze carcerarie di Vincenzo Scarantino sulla strage di via D’Amelio (peraltro, seguendo un preciso suggerimento degli inquirenti dell’epoca, come oggi è dato sapere per la confessione dell’imputato, sul punto specifico attendibile), nonché il fatto che l’imputato continuava a rendere dette dichiarazioni anche dopo la conferma in appello della pena dell’ergastolo, nel processo (per omicidio) a suo carico: queste circostanze deponevano per l’assoluta mancanza, nella genesi della collaborazione di Andriotta, di valutazioni di personale tornaconto, che potessero far dubitare della genuinità delle sue dichiarazioni. Non risultavano, poi, elementi da cui inferire che Andriotta nutrisse nei confronti degli imputati (con i quali non aveva, in precedenza, alcun genere di rapporti), sentimenti d’astio, risentimento o vendetta, tali da far ipotizzare che potesse esser mosso da ragioni di malanimo o da intenti calunniosi. Infine, le dichiarazioni di Andriotta venivano valutate ricche di dettagli, costanti rispetto a quelle rese in fase d’indagine e verosimili sul fatto che potesse essere stato il ricettore delle confidenze di Scarantino, poiché l’ingresso dell’imputato, dal 3 giugno 1993, nel reparto carcerario di Busto Arsizio dove il detenuto della Guadagna era (in precedenza) ristretto da solo, era motivo di sollievo per Scarantino, consentendogli di uscire finalmente da quella condizione di solitudine ed alienazione che si protraeva ormai da diversi mesi.
Con particolare riferimento alle valutazioni negative, sulla credibilità di Francesco Andriotta, già contenute nella pronuncia d’appello a suo carico (per la quale l’imputato è ergastolano), confermata dalla decisione del giudice di legittimità, la Corte d’Assise del primo processo sui fatti di via D’Amelio, riteneva che tale giudizio critico non potesse, in alcun modo, inficiare il suddetto giudizio d’attendibilità, non refluendo nel procedimento per la strage del 19 luglio 1992.
Inoltre, le dichiarazioni di Andriotta potevano dirsi, sempre ad avviso della prima Corte d’Assise che s’occupava della strage di via D’Amelio, confortate da una serie di elementi oggettivi:
- dagli accertamenti condotti presso il carcere di Busto Arsizio, emergeva l’effettiva possibilità di comunicare per Andriotta e Scarantino, come confermato anche dai testi Murgia ed Eliseo, che spiegavano come le rispettive celle (e finestre) erano contigue (inoltre, era dimostrato che l’agente di turno della Polizia Penitenziaria, unico per tutto il Reparto, non poteva assicurare la sorveglianza a vista di Scarantino, dovendo attendere a tutte le altre incombenze);
- potevano dirsi pienamente riscontrate le dichiarazioni del collaboratore Andriotta per quanto atteneva al proprio ruolo di tramite con l’esterno, in favore di Scarantino, sulla base della documentazione acquisita al processo, nonché per le dichiarazioni di Bossi Arianna (moglie di Andriotta), e, ancora, per il contenuto delle intercettazioni di quel processo;
- era accertato che Ignazia Scarantino, sorella di Vincenzo, coniugata con Salvatore Profeta, utilizzava l’autovettura Fiat 126, di colore amaranto, targata PA 622751, intestata a Profeta Angelo, e che, in effetti, sul quotidiano “Il Giorno” del 10 luglio 1993, veniva riportata, in un trafiletto in settima pagina, la notizia dell’arresto di un fratello di Vincenzo Scarantino.
In parte diverso era il giudizio sull’attendibilità di Francesco Andriotta, nonché sulla valenza del suo contributo dichiarativo, da parte dei Giudici di prime cure del secondo processo celebrato per la strage di via D’Amelio.
Vale la pena di riportare, qui di seguito, un breve stralcio della sentenza di primo grado emessa nel processo c.d. Borsellino bis, appunto, nella parte della motivazione a ciò dedicata:
“Dal contesto delle dichiarazioni dibattimentali di Andriotta e, soprattutto, dall’analisi delle dichiarazioni utilizzate per le contestazioni appare tuttavia evidente che le dichiarazioni di Andriotta prima del pentimento di Scarantino Vincenzo sono state limitate alle confidenze di Scarantino riguardanti singoli momenti esecutivi della strage, quali il furto della Fiat 126 utilizzata come autobomba, la custodia dell’autovettura prima della sua utilizzazione, il ruolo di Profeta Salvatore, (…), il caricamento dell’esplosivo presso la carrozzeria Orofino, il trasporto dell’autovettura sul luogo della strage e l’esecuzione di una intercettazione telefonica sul telefono della madre del dott. Borsellino ad opera di un parente di un uomo d’onore a nome Scotto, (…). Infatti risulta chiaro dalle dichiarazioni rese in dibattimento dall’Andriotta che lo stesso ha parlato della famosa riunione preparatoria della strage solamente dopo che i mezzi di informazione avevano diffuso la notizia del pentimento di Scarantino Vincenzo. (…) Orbene, per quanto attiene alla prima fase delle dichiarazioni di Andriotta è agevole osservare che hanno trovato ampio riscontro (…) tutte le indicazioni fornite da Andriotta circa la concreta possibilità che lo stesso aveva di dialogare con Scarantino (…). Assolutamente incontestabile appare, poi, lo scambio di favori e cortesie tra lo Scarantino e l’Andriotta e, in particolare, il fatto che lo Scarantino si sia avvalso della collaborazione dell’Andriotta per le comunicazioni con l’esterno del carcere (…). Alla luce di tali fatti appare ampiamente riscontrato il fatto che Scarantino Vincenzo abbia progressivamente intensificato i suoi rapporti con il compagno di detenzione, (…) ed appare credibile che possa anche avergli fatto qualche confessione, verosimilmente limitata, frammentaria e forse confusa (…). Certamente il distacco temporale tra le prime dichiarazioni di Andriotta e l’inizio della collaborazione con la giustizia di Scarantino e la divergenza di molti dettagli dagli stessi riferiti induce ad escludere un iniziale accordo tra i due (…) le dichiarazioni di Andriotta non possono certo considerarsi come prove autonome rispetto alle corrispondenti dichiarazioni di Scarantino Vincenzo, per la semplice ragione che lo stesso non ha fatto altro che riferire confidenze ricevute dal compagno di detenzione. Tali dichiarazioni (…) hanno solamente il valore di confermare, proprio per il fatto di essere state raccolte ampiamente prima dell’avvio della collaborazione di Scarantino Vincenzo, soltanto l’intrinseca attendibilità delle dichiarazioni rese da quest’ultimo nella prima fase della sua collaborazione con la giustizia e di rendere per contro assolutamente inattendibile la successiva totale ritrattazione di Scarantino”.
In buona sostanza (come appena riportato), i Giudici di primo grado del processo c.d. Borsellino bis ritenevano veritiere le rivelazioni originarie di Francesco Andriotta, fatte prima che Vincenzo Scarantino intraprendesse la sua ‘collaborazione’: le dichiarazioni dell’imputato, non dotate di autonomia (nel senso che si trattava, come detto, delle confidenze del vicino di cella), erano pienamente utilizzabili per dimostrare l’attendibilità della collaborazione di Scarantino e la falsità della sua successiva ritrattazione (“in tale limitato ambito le dichiarazioni di Andriotta hanno una sicura valenza di conferma dell’attendibilità intrinseca delle originarie dichiarazioni di Scarantino Vincenzo e ciò a prescindere da qualsiasi eventuale arricchimento o coloritura che l’Andriotta possa avere operato”). Inoltre, la Corte d’Assise del secondo processo celebrato per questi fatti, riteneva logicamente credibile anche il predetto intervento intimidatorio, da parte di emissari di Cosa Nostra, mentre Andriotta si trovava in permesso premio; tale intervento era collocabile in una più ampia strategia d’inquinamento probatorio, tesa ad ottenere anche la ritrattazione delle dichiarazioni di Vincenzo Scarantino (la stessa conclusione, sul punto, veniva raggiunta dai Giudici di secondo grado).
A diversa conclusione, invece, pervenivano i medesimi Giudici, in relazione alle dichiarazioni di Andriotta, successive alla notizia del pentimento di Scarantino ed alle sue rivelazioni sulla riunione deliberativa della strage di via D’Amelio. A tal proposito, si evidenziava, in chiave negativa, che dette confidenze di Scarantino ad Andriotta non erano agganciate ad alcun episodio concreto (come gli arresti di Giuseppe Orofino, Rosario Scarantino e Pietro Scotto) o a risultanze tangibili, come la ricostruzione delle modalità del fatto attraverso gli esiti della consulenza esplosivistica, sicché le stesse, qualora effettivamente fatte, sarebbero state del tutto gratuite ed ingiustificate (se non per il solo fatto della fiducia che Scarantino riponeva
in Andriotta). Inoltre, le giustificazioni fornite da Andriotta in relazione al grave ritardo con cui rendeva questa parte delle sue dichiarazioni, vale a dire il timore di conseguenze negative per la propria incolumità personale, venivano ritenute fragili, poiché egli, in precedenza, non si limitava a tacere qualche nome o talune circostanze, ma ometteva totalmente di fare dette rivelazioni. Infine, tali ultime dichiarazioni, a differenza delle prime, non apparivano costellate da incertezze e contraddizioni, ma si mostravano perfettamente allineate rispetto a quelle (sopravvenute) di Vincenzo Scarantino.
La Corte d’Assise del secondo processo per questi fatti, così si esprimeva, sul punto: “Ad un certo punto, leggendo le dichiarazioni rese da Scarantino nel corso delle indagini, come meglio di dirà più avanti, si ha quasi l’impressione che Scarantino ed Andriotta conducano un gioco perverso, non necessariamente concordato prima, in cui le due fonti si confermano reciprocamente e progressivamente: Andriotta confermando di avere ricevuto le confidenze relative alle ulteriori dichiarazioni rese dall’ex compagno di detenzione, spesso riportate dai mezzi di infomazioni o culminate in arresti ed operazioni di polizia; Scarantino confermando di avere fatto tali confidenze all’Andriotta (ciò avviene sicuramente per esempio in un particolare momento sospetto della collaborazione di Scarantino in cui lo stesso indica Di Matteo Mario Santo tra i partecipanti alla riunione, Andriotta conferma di avere percepito un cognome simile che ricorda come “Matteo, Mattia o La Mattia” e Scarantino a chiusura del cerchio conferma di averne parlato ad Andriotta in pericoloso incastro di reciproche conferme)”. In conclusione, la Corte d’Assise “ritiene che l’attendibilità delle dichiarazioni rese da Andriotta successivamente al pentimento di Scarantino e, in particolare, delle dichiarazioni riguardanti la famosa riunione preparatoria sia perlomeno dubbia, non potendosi escludere che l’Andriotta abbia in realtà riportato notizie apprese dai mezzi di informazione e che abbia avviato con Scarantino, anche al di fuori di un espresso e preventivo accordo, un facile sistema di riscontro reciproco incrociato”.
Nello stesso solco rispetto alle valutazioni appena riportate, si ponevano anche quelle effettuate dai Giudici dell’appello del primo processo celebrato per questa strage (l’appello del processo c.d. Borsellino uno, infatti, veniva celebrato in parallelo rispetto al dibattimento di primo grado del secondo processo per questi fatti). Come si diceva, anche i Giudici di secondo grado del primo troncone del processo, dopo aver acquisito, con l’accordo delle parti, le nuove dichiarazioni testimoniali di Andriotta (fatte nel parallelo procedimento c.d. Borsellino bis), le valutavano inattendibili, nella parte in cui il collaboratore introduceva elementi nuovi, mai accennati prima della collaborazione di Vincenzo Scarantino.
LE MENZOGNE DI ANDRIOTTA PER METTERE SCARANTINO “CON LE SPALLE AL MURO”
Francesco Andriotta iniziava a collaborare il 14 settembre 1993. Non solo apriva la strada alla collaborazione successiva di Vincenzo Scarantino, ma permetteva persino di superare la clamorosa ritrattazione dibattimentale di quest’ultimo, nel 1998. Andriotta avrebbe poi ammesso di aver mentito per costringere Scarantino a “collaborare”
La collaborazione di Francesco Andriotta (intrapresa nel settembre 1993) per la strage di via Mariano D’Amelio, non solo apriva la strada, in maniera determinante, a quella successiva di Vincenzo Scarantino (che iniziava a giugno 1994), ma permetteva altresì di puntellare il costrutto accusatorio riversato nei tre gradi del primo processo celebrato per questi fatti (nei confronti dello stesso Scarantino Vincenzo, nonché di Profeta Salvatore, Scotto Pietro ed Orofino Giuseppe), consentendo persino di superare la clamorosa ritrattazione dibattimentale di Scarantino, nel settembre 1998.
Oggi, anche alla luce delle dichiarazioni di Gaspare Spatuzza, la genesi e l’evoluzione di quella ‘collaborazione’, devono esser rivisitate, con la consapevolezza che le dichiarazioni di Andriotta costituivano la svolta per le indagini preliminari dell’epoca, inducendo alla collaborazione anche Scarantino.
Pertanto, come anticipato, prima di affrontare il merito di quanto riferito dall’imputato nell’odierno procedimento, dal 2009 in avanti, ammettendo apertamente la natura mendace della propria collaborazione (e lo scopo della stessa, vale a dire costringere Scarantino a ‘collaborare’, mettendolo con le “spalle al muro”), soltanto una volta messo innanzi all’evidenza di quanto già accertato dalle più recenti indagini, pare opportuno muovere dal contenuto delle dichiarazioni (come detto, pacificamente mendaci) che questi rendeva, da ‘collaboratore’ della giustizia, in relazione a quanto (asseritamente) appreso sulla strage di via D’Amelio, durante la detenzione in carcere a Busto Arsizio, con Vincenzo Scarantino.
Andriotta iniziava a ‘collaborare’ sui fatti di via D’Amelio, con l’interrogatorio del 14 settembre 1993 (reso a Milano, davanti al Pubblico Ministero, dott.ssa Ilda Boccassini), dove riferiva (in sintesi, in ben otto ore d’interrogatorio) che:
- chiedeva il trasferimento dal carcere di Saluzzo a quello di Busto Arsizio, per essere più vicino alla famiglia; arrivava in tale ultima struttura il 3 giugno 1993 e veniva assegnato al Reparto Osservazione, occupando prima la cella n. 5 e poi la n. 1, dove rimaneva fino al 23 agosto 1993;
- proprio in tale periodo conosceva Vincenzo Scarantino, col quale instaurava un rapporto cordiale, che diventava, giorno dopo giorno, più stretto; come
usualmente avveniva tra detenuti, i due iniziavano a parlare delle rispettive vicissitudini e, quindi, anche delle attività illecite per cui erano detenuti;
- Scarantino gli riferiva che contrabbandava sigarette (come attività collaterale) e che era legato ad importanti personaggi mafiosi, in particolare a Carlo Greco e Salvatore Profeta, con i quali gestiva grossi traffici di stupefacenti; di Profeta aggiungeva che era suo cognato, nonché ‘uomo d’onore’, che godeva di grande rispetto in Cosa Nostra, essendo il braccio destro di Pietro Aglieri, il capo nel quartiere della Guadagna;
col passare dei giorni, il rapporto di confidenza si tramutava in vera e propria amicizia, con scambio di favori: Scarantino cucinava anche per Andriotta, mentre quest’ultimo, in occasione dei colloqui carcerari, consegnava alla propria moglie dei messaggi scritti per la famiglia di Scarantino; a volte era lo stesso imputato che scriveva tali messaggi, su dettatura di Scarantino, poiché questi non sapeva scrivere in corretto italiano e la moglie di Andriotta (che doveva chiamare il numero di telefono riportato sul ‘pizzino’, leggendone il contenuto all’interlocutore), non capiva cosa vi era scritto;
nel prosieguo del rapporto fra i due detenuti, Scarantino si lasciava andare ad una serie di importanti confidenze, riguardanti anche il suo diretto coinvolgimento nella strage di via D’Amelio. Inizialmente, Scarantino gli spiegava solo che era imputato per questi fatti e che le prove a suo carico erano le dichiarazioni di tali Candura e Valenti, delle quali non si preoccupava perché si trattava di due tossicodipendenti poco attendibili (Scarantino aveva, addirittura, appreso che il secondo, nel corso di un confronto con il primo, aveva ritrattato le sue dichiarazioni). Scarantino neppure era preoccupato per il filmato, in possesso di Candura, che lo ritraeva in occasione di una festa di quartiere, giacché era in grado di darne ampia giustificazione. Invece, qualche apprensione mostrava Scarantino quando apprendeva dell’arresto di suo fratello per l’accusa di ricettazione di autovetture, tanto che, con il predetto sistema dei messaggi trasmessi tramite la moglie di Andriotta, cercava di capire se detto reato era o no collegato alla strage di via D’Amelio. Molto più forte era la preoccupazione di Scarantino quando (tramite un detenuto della seconda sezione) apprendeva che in televisione davano notizia dell’arresto di un garagista coinvolto nella strage di via D’Amelio. In tale contesto, Scarantino si lasciava andare ad ulteriori confidenze, rivelando ad Andriotta, tra le altre cose, che temeva un eventuale pentimento del predetto garagista, le cui dichiarazioni potevano comportare, per lui, la condanna all’ergastolo. La fiducia nutrita nel compagno di detenzione, poi, induceva Scarantino a confessare ad Andriotta di aver effettivamente commissionato al predetto Candura il furto di quella Fiat 126 che veniva utilizzata nella strage del 19 luglio 1992, e ciò su richiesta di un parente (un cognato o fratello). L’autovettura da sottrarre doveva essere di colore bordeaux, perché anche la sorella di Scarantino (Ignazia) ne possedeva una dello stesso colore (in tal modo, se qualcuno lo avesse visto durante gli spostamenti della vettura, non avrebbe nutrito alcun sospetto). Candura (sempre secondo le false confidenze di Scarantino, riferite da Andriotta) aveva sottratto la Fiat 126 di proprietà della sorella di Valenti Luciano e quest’ultimo la aveva portata nel posto stabilito, dove Scarantino la aveva presa in consegna, provvedendo a ricoverarla in un garage, diverso da quello dove la stessa era stata, successivamente, imbottita d’esplosivo. Inoltre, Andriotta aveva riferito anche ulteriori circostanze di dettaglio (sempre apprese, a suo dire, da Scarantino), in merito al furto della predetta autovettura, come il fatto che la stessa non era in condizioni di perfetta efficienza e, per tal motivo, veniva spinta o trainata. Ancora, per il furto di detta autovettura, Scarantino aveva promesso 500.000 Lire a Candura, ma ne aveva corrisposto soltanto una parte, vale a dire 150.000 Lire, oltre a della sostanza stupefacente (non pagando la differenza). L’autovettura era stata anche riparata ed alla stessa erano state cambiate le targhe. Inoltre, Scarantino gli confidava che era lui stesso che aveva portato la macchina dal garage alla via D’Amelio. Circa il luogo dove la vettura era stata imbottita d’esplosivo, Scarantino gli confidava cose contrastanti, giacché, in un primo momento, riferiva di una località di campagna dove la sua famiglia possedeva dei maiali, e successivamente, dopo l’arresto del predetto garagista, faceva invece riferimento proprio all’autorimessa di quest’ultimo. Peraltro, Scarantino non era presente al riempimento della vettura d’esplosivo, perché se ne occupavano altre due persone, uno dei quali era uno specialista italiano di nome Matteo o Mattia. Scarantino spiegava anche che si era ritardata la denuncia del furto delle targhe al lunedì successivo all’attentato.
I NUOVI INTERROGATORI A tale primo interrogatorio ne seguivano altri, in relazione ai quali si riporteranno, in questa sede (anche per economia motivazionale, attesa la pacifica falsità di tutte queste dichiarazioni dell’imputato, come ammesso ampiamente da Andriotta, anche nell’esame dibattimentale) solo gli ulteriori dettagli e circostanze, via via aggiunti, rispetto a quanto già sopra sintetizzato. In particolare, nel corso dell’interrogatorio del 4 ottobre 1993 (nel carcere di Milano Opera, sempre alla presenza del Pubblico Ministero, dott.ssa Ilda Boccassini), l’odierno imputato riferiva: di un messaggio fatto pervenire a Vincenzo Scarantino, occultato dentro un panino e gettato all’interno del cubicolo dove questi si trovava, da parte di alcuni detenuti sottoposti al regime differenziato dell’art. 41-bis O.P. (e ristretti nell’apposita sezione), come preannunciato da un amico del detenuto (che gridava dalla finestra “Vincenzo quando vai all’aria domani mattina, trovi un panino, mangiatillo”). Nel biglietto c’era il seguente messaggio: “guidala forte la macchina”; detto biglietto veniva poi dato da Scarantino ad Andriotta, affinché quest’ultimo lo consegnasse alla moglie, che avrebbe dovuto chiamare il recapito telefonico indicatole, per leggere all’interlocutore il testo del predetto messaggio;
- che Scarantino confidava ad Andriotta che il “telefonista” arrestato per la strage di via D’Amelio aveva intercettato la telefonata per conoscere gli spostamenti del dott. Paolo Borsellino operando su un armadio della società telefonica posto in strada. Questo soggetto era il fratello di un grosso boss mafioso. Quando veniva arrestato il “telefonista”, comunque, Scarantino non sembrava affatto preoccupato;
- che colui che, a dire di Scarantino, gli aveva commissionato il furto dell’automobile da utilizzare per la strage, era Salvatore Profeta; Andriotta motivava l’iniziale reticenza, a tale riguardo, con la paura di menzionare un personaggio d’elevato spessore criminale, spiegando che rammentava il nome del parente di Scarantino, in quanto quest’ultimo gli confidava che commentava tale presenza, al momento in cui l’esplosivo arrivava o veniva prelevato per essere trasportato nella carrozzeria, con la frase ”è arrivata la Profezia”;
- che il ritardo nella denuncia di furto al lunedì successivo la strage, riguardava le targhe apposte alla Fiat 126.
In occasione dell’interrogatorio del 25 novembre 1993, inoltre, Andriotta rendeva le seguenti ed ulteriori dichiarazioni:
- riferiva alcuni dettagli sul messaggio minatorio di cui aveva parlato nel precedente atto istruttorio, precisandone il contenuto (“guida forte la macchina”);
- su domanda dei magistrati, rendeva ulteriori dichiarazioni sul predetto Matteo o Mattia, evidenziando che Scarantino non gli specificava se questi era siciliano o meno, e precisando di non essere sicuro se, al posto di tale nome, il compagno di detenzione menzionava un altro nome, simile a quello appena riferito;
- nel momento in cui arrivava l’esplosivo o quando lo stesso veniva trasferito sulla Fiat 126, assieme a tale Matteo o Mattia, era presente anche Salvatore Profeta; inoltre, Andriotta non poteva escludere che fossero presenti altre persone, poiché Scarantino gli faceva intendere di aver pronunciato la frase “è arrivata la Profezia”, a coloro che si trovavano sul posto.
Ancora, in occasione dell’interrogatorio del 17 gennaio 1994, Andriotta aggiungeva che, dopo la strage di via D’Amelio, Candura cercava, più volte, Scarantino, per sapere se l’autovettura utilizzata per l’attentato era proprio quella rubata da lui; Scarantino lo trattava in malo modo, intimandogli di non fargli più domande sul punto, e facendogli fare anche una telefonata minatoria, vista l’insistenza del Candura. Infine, Andriotta precisava che Scarantino ordinava a Candura di non rubare l’automobile nel quartiere della Guadagna.
Ulteriori e significative progressioni nelle dichiarazioni di Andriotta, sempre riportando (falsamente) le confidenze carcerarie (inesistenti) di quest’ultimo, si registravano nel verbale d’interrogatorio del 29 ottobre 1994, dove l’imputato spiegava di aver taciuto, sino a quel momento, su alcune circostanze, per timore delle eventuali conseguenze per la propria incolumità personale. In particolare, il prevenuto riferiva che alla strage partecipava anche Salvatore Biondino, pur non sapendo con quale ruolo (Scarantino non glielo aveva detto). Inoltre, Scarantino gli parlava anche di una riunione in cui si definivano alcuni dettagli relativi all’esecuzione della strage, cui partecipavano Salvatore Riina, Pietro Aglieri e Carlo Greco, Salvatore Cancemi, Gioacchino La Barbera e Giovanni Brusca (sul punto si tornerà nel prosieguo, atteso che Andriotta, in buona sostanza, si adeguava alle sopravvenute dichiarazioni di Vincenzo Scarantino, sulla riunione di villa Calascibetta).
Nel successivo interrogatorio del 26 gennaio 1995, Andriotta proseguiva nell’aggiunta di ulteriori particolari sulla predetta riunione, evidenziando che alla stessa (sempre a dire di Scarantino) partecipava anche un tal Gancio o Ciancio, capo mafia di un quartiere di Palermo, nonché quel Matteo o La Mattia di cui aveva parlava in precedenza. Mentre si svolgeva la riunione, Scarantino rimaneva all’esterno, a fare la vigilanza; per un motivo che Andriotta non ricordava, ad un certo punto, entrava dentro la stanza, assistendo persino ad un momento della discussione: non tutti i partecipanti alla riunione erano d’accordo per assassinare il dott. Paolo Borsellino e, in particolare, Cancemi era uno di quelli che dissentiva. I Madonia non erano presenti alla riunione ma facevano pervenire il loro consenso. Ancora, Scotto aveva avuto anch’egli un ruolo nella strage (sempre a dire di Scarantino), avendo -quanto meno- fornito il consenso dei Madonia rispetto alla stessa. Infine, a proposito del “telefonista”, Scarantino confidava all’imputato che, circa due giorni prima del collocamento dell’autobomba in via Mariano D’Amelio, questo soggetto comunicava che “era tutto a posto”, nel senso che era stato messo sotto controllo il telefono della casa della madre del dott. Borsellino.
In data 31 gennaio 1995 e 16 ottobre 1997, Andriotta veniva esaminato, rispettivamente, nei dibattimenti di primo grado dei processi c.d. Borsellino uno e Borsellino bis ed, in specie, nella seconda occasione, approfondiva le accuse mosse nei confronti dello Scarantino, chiamando anche in causa (sempre de relato dal compagno di detenzione), per la prima volta, in relazione alla strage di via D’Amelio, Cosimo Vernengo, come “partecipe” all’eccidio (si riporta, in nota, lo stralcio d’interesse della relativa dichiarazione dibattimentale, sulla quale si ritornerà).
Infine, sempre nell’ambito del processo c.d. Borsellino bis, Andriotta veniva nuovamente esaminato il 10 giugno 1998, allorché riferiva (falsamente) che veniva minacciato, in data 17 settembre 1997, mentre si trovava in permesso premio a Piacenza, da due individui che lo chiamavano per nome, gli intimavano di confermare la ritrattazione fatta da Scarantino ad Italia Uno nel 1995 e aggiungevano che doveva anche parlare dell’omosessualità del predetto. In sostanza, Andriotta doveva dire che Vincenzo Scarantino nel 1995, ritrattando le sue dichiarazioni, aveva detto la verità e che aveva fatto (prima d’allora) delle accuse false, per la strage di via D’Amelio, perché continuamente picchiato, su istigazione del dott. Arnaldo La Barbera. Inoltre, Andriotta doveva spiegare che quanto a sua conoscenza sulla strage di via D’Amelio e su fatti di mafia era il frutto di un accordo fra lui e Scarantino. Altri avvertimenti gli venivano fatti sempre dagli stessi due individui, nel periodo natalizio del 1997, quando si trovava in permesso: tra le istruzioni ricevute, vi era anche quella di nominare come suoi difensori, prima di Pasqua, gli avvocati Scozzola e Petronio (direttiva alla quale aveva, poi, ottemperato).
In cambio di quanto richiesto, gli venivano promessi trecento milioni di Lire.
A CURA DELL’ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA
NEL “BORSELLINO UNO” ANDRIOTTA È RITENUTO CREDIBILE Ciò premesso, si deve ora passare a trattare della valutazione d’attendibilità o meno delle predette dichiarazioni, da parte delle Corti d’Assise che si occupavano di questi fatti, nei precedenti processi celebrati per la strage di via D’Amelio.
[…] In tal senso, la sentenza di primo grado del primo processo celebrato per questi fatti (c.d. Borsellino uno), concludeva per un giudizio positivo sull’attendibilità intrinseca di Andriotta, evidenziando che la decisione di questi di collaborare con la giustizia era il frutto di una scelta autonoma, maturata e meditata all’interno della sua coscienza, in maniera del tutto libera e spontanea.
A tal proposito, si valorizzavano le dichiarazioni di alcuni testimoni che consentivano (ad avviso di quella Corte) di dissipare i dubbi prospettati dalle difese sul possibile impiego del ‘collaboratore’ di giustizia in funzione di agente provocatore, nonché il fatto (positivamente valutabile) che Andriotta riferiva, inizialmente, i fatti di reato che lo riguardavano in prima persona e, solo in seguito, delle confidenze carcerarie di Vincenzo Scarantino sulla strage di via D’Amelio (peraltro, seguendo un preciso suggerimento degli inquirenti dell’epoca, come oggi è dato sapere per la confessione dell’imputato, sul punto specifico attendibile), nonché il fatto che l’imputato continuava a rendere dette dichiarazioni anche dopo la conferma in appello della pena dell’ergastolo, nel processo (per omicidio) a suo carico: […]. Infine, le dichiarazioni di Andriotta venivano valutate ricche di dettagli, costanti rispetto a quelle rese in fase d’indagine e verosimili sul fatto che potesse essere stato il ricettore delle confidenze di Scarantino, poiché l’ingresso dell’imputato, dal 3 giugno 1993, nel reparto carcerario di Busto Arsizio dove il detenuto della Guadagna era (in precedenza) ristretto da solo, era motivo di sollievo per Scarantino, consentendogli di uscire finalmente da quella condizione di solitudine ed alienazione che si protraeva ormai da diversi mesi.
Con particolare riferimento alle valutazioni negative, sulla credibilità di Francesco Andriotta, già contenute nella pronuncia d’appello a suo carico (per la quale l’imputato è ergastolano), confermata dalla decisione del giudice di legittimità, la Corte d’Assise del primo processo sui fatti di via D’Amelio, riteneva che tale giudizio critico non potesse, in alcun modo, inficiare il suddetto giudizio d’attendibilità, non refluendo nel procedimento per la strage del 19 luglio 1992.
Inoltre, le dichiarazioni di Andriotta potevano dirsi, sempre ad avviso della prima Corte d’Assise che s’occupava della strage di via D’Amelio, confortate da una serie di elementi oggettivi:
- dagli accertamenti condotti presso il carcere di Busto Arsizio, emergeva l’effettiva possibilità di comunicare per Andriotta e Scarantino, come confermato anche dai testi Murgia ed Eliseo, che spiegavano come le rispettive celle (e finestre) erano contigue (inoltre, era dimostrato che l’agente di turno della Polizia Penitenziaria, unico per tutto il Reparto, non poteva assicurare la sorveglianza a vista di Scarantino, dovendo attendere a tutte le altre incombenze);
- potevano dirsi pienamente riscontrate le dichiarazioni del collaboratore Andriotta per quanto atteneva al proprio ruolo di tramite con l’esterno, in favore di Scarantino, sulla base della documentazione acquisita al processo, nonché per le dichiarazioni di Bossi Arianna (moglie di Andriotta), e, ancora, per il contenuto delle intercettazioni di quel processo;
- era accertato che Ignazia Scarantino, sorella di Vincenzo, coniugata con Salvatore Profeta, utilizzava l’autovettura Fiat 126, di colore amaranto, targata PA 622751, intestata a Profeta Angelo, e che, in effetti, sul quotidiano “Il Giorno” del 10 luglio 1993, veniva riportata, in un trafiletto in settima pagina, la notizia dell’arresto di un fratello di Vincenzo Scarantino.
IL GIUDIZIO DEL “BORSELLINO BIS” In parte diverso era il giudizio sull’attendibilità di Francesco Andriotta, nonché sulla valenza del suo contributo dichiarativo, da parte dei Giudici di prime cure del secondo processo celebrato per la strage di via D’Amelio.
[…] In buona sostanza (come appena riportato), i Giudici di primo grado del processo c.d. Borsellino bis ritenevano veritiere le rivelazioni originarie di Francesco Andriotta, fatte prima che Vincenzo Scarantino intraprendesse la sua ‘collaborazione’: le dichiarazioni dell’imputato, non dotate di autonomia (nel senso che si trattava, come detto, delle confidenze del vicino di cella), erano pienamente utilizzabili per dimostrare l’attendibilità della collaborazione di Scarantino e la falsità della sua successiva ritrattazione (“in tale limitato ambito le dichiarazioni di Andriotta hanno una sicura valenza di conferma dell’attendibilità intrinseca delle originarie dichiarazioni di Scarantino Vincenzo e ciò a prescindere da qualsiasi eventuale arricchimento o coloritura che l’Andriotta possa avere operato”). Inoltre, la Corte d’Assise del secondo processo celebrato per questi fatti, riteneva logicamente credibile anche il predetto intervento intimidatorio, da parte di emissari di Cosa Nostra, mentre Andriotta si trovava in permesso premio; tale intervento era collocabile in una più ampia strategia d’inquinamento probatorio, tesa ad ottenere anche la ritrattazione delle dichiarazioni di Vincenzo Scarantino (la stessa conclusione, sul punto, veniva raggiunta dai Giudici di secondo grado).
A diversa conclusione, invece, pervenivano i medesimi Giudici, in relazione alle dichiarazioni di Andriotta, successive alla notizia del pentimento di Scarantino ed alle sue rivelazioni sulla riunione deliberativa della strage di via D’Amelio. A tal proposito, si evidenziava, in chiave negativa, che dette confidenze di Scarantino ad Andriotta non erano agganciate ad alcun episodio concreto (come gli arresti di Giuseppe Orofino, Rosario Scarantino e Pietro Scotto) o a risultanze tangibili, come la ricostruzione delle modalità del fatto attraverso gli esiti della consulenza esplosivistica, sicché le stesse, qualora effettivamente fatte, sarebbero state del tutto gratuite ed ingiustificate (se non per il solo fatto della fiducia che Scarantino riponeva in Andriotta). Inoltre, le giustificazioni fornite da Andriotta in relazione al grave ritardo con cui rendeva questa parte delle sue dichiarazioni, vale a dire il timore di conseguenze negative per la propria incolumità personale, venivano ritenute fragili, poiché egli, in precedenza, non si limitava a tacere qualche nome o talune circostanze, ma ometteva totalmente di fare dette rivelazioni. Infine, tali ultime dichiarazioni, a differenza delle prime, non apparivano costellate da incertezze e contraddizioni, ma si mostravano perfettamente allineate rispetto a quelle (sopravvenute) di Vincenzo Scarantino.
La Corte d’Assise del secondo processo per questi fatti, così si esprimeva, sul punto:
“Ad un certo punto, leggendo le dichiarazioni rese da Scarantino nel corso delle indagini, come meglio di dirà più avanti, si ha quasi l’impressione che Scarantino ed Andriotta conducano un gioco perverso, non necessariamente concordato prima, in cui le due fonti si confermano reciprocamente e progressivamente: Andriotta confermando di avere ricevuto le confidenze relative alle ulteriori dichiarazioni rese dall’ex compagno di detenzione, spesso riportate dai mezzi di infomazioni o culminate in arresti ed operazioni di polizia; Scarantino confermando di avere fatto tali confidenze all’Andriotta (ciò avviene sicuramente per esempio in un particolare momento sospetto della collaborazione di Scarantino in cui lo stesso indica Di Matteo Mario Santo tra i partecipanti alla riunione, Andriotta conferma di avere percepito un cognome simile che ricorda come “Matteo, Mattia o La Mattia” e Scarantino a chiusura del cerchio conferma di averne parlato ad Andriotta in pericoloso incastro di reciproche conferme)”. In conclusione, la Corte d’Assise “ritiene che l’attendibilità delle dichiarazioni rese da Andriotta successivamente al pentimento di Scarantino e, in particolare, delle dichiarazioni riguardanti la famosa riunione preparatoria sia perlomeno dubbia, non potendosi escludere che l’Andriotta abbia in realtà riportato notizie apprese dai mezzi di informazione e che abbia avviato con Scarantino, anche al di fuori di un espresso e preventivo accordo, un facile sistema di riscontro reciproco incrociato”.
Nello stesso solco rispetto alle valutazioni appena riportate, si ponevano anche quelle effettuate dai Giudici dell’appello del primo processo celebrato per questa strage (l’appello del processo c.d. Borsellino uno, infatti, veniva celebrato in parallelo rispetto al dibattimento di primo grado del secondo processo per questi fatti). Come si diceva, anche i Giudici di secondo grado del primo troncone del processo, dopo aver acquisito, con l’accordo delle parti, le nuove dichiarazioni testimoniali di Andriotta (fatte nel parallelo procedimento c.d. Borsellino bis), le valutavano inattendibili, nella parte in cui il collaboratore introduceva elementi nuovi, mai accennati prima della collaborazione di Vincenzo Scarantino.
LA SQUADRA DI ARNALDO LA BARBERA E IL FALSO COLLABORATORE Francesco Andriotta già nel primo interrogatorio da falso “collaboratore” di giustizia, senza sapere niente della strage, parlava di circostanze non rientranti nel suo bagaglio di conoscenze, ma oggettivamente vere, vale a dire di problemi meccanici della Fiat 126 utilizzata come autobomba e della necessità di trainarla subito dopo il furto
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione cosa vostra. In questa serie, seguiamo gli sviluppi del processo Borsellino quater, dopo la strage di via d’Amelio: uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria italiana.
Si devono ora analizzare le dichiarazioni rese da Francesco Andriotta nell’ambito dell’odierno dibattimento, anche rispetto a quelle rese negli interrogatori espletati in fase d’indagine preliminare (come detto, acquisite al fascicolo per il dibattimento col consenso delle parti).
In primo luogo, Andriotta spiegava che veniva collocato nel carcere di Busto Arsizio, nell’estate del 1993, su sua richiesta. Dopo l’allocazione nella cella accanto a quella di Vincenzo Scarantino, che si era sempre protestato estraneo ai fatti di via D’Amelio (“Io devo ribadire che Scarantino ha sempre ribadito che era innocente”), riceveva una visita da parte del dottor Arnaldo La Barbera e dal dottor Vincenzo Ricciardi. Tale visita “importante” gli veniva anche preannunciata dal comandante della polizia penitenziaria di quel carcere. La richiesta degli inquirenti era quella di collaborare con la giustizia, sui fatti di via D’Amelio.
Andriotta faceva subito presente che non sapeva alcunché della strage e gli inquirenti gli spiegavano che volevano “incastrare” e mettere con le “spalle al muro” Vincenzo Scarantino, inducendolo a collaborare, poiché erano assolutamente certi del suo coinvolgimento nell’eccidio del 19 luglio 1992. In cambio, venivano prospettati ad Andriotta, all’epoca condannato all’ergastolo con sentenza di primo grado (non ancora definitiva), benefici come il programma di protezione, per lui e la famiglia (negli Stati Uniti d’America) e la riduzione della pena perpetua con una temporanea (di diciassette o diciotto anni di reclusione). Contestualmente, gli veniva accennato, da parte di Arnaldo La Barbera, il contenuto delle dichiarazioni che doveva rendere in merito al furto della Fiat 126 utilizzata come autobomba in via D’Amelio ed i nomi dei soggetti che doveva chiamare in causa per quella strage. Di fronte alle resistenze di Andriotta, il dottor Arnaldo La Barbera lo invitava a prender tempo ed a rifletterci meglio, anche se non per troppo tempo, perché in carcere “si può sempre scivolare e rimanere per terra”, mentre il dottor Vincenzo Ricciardi dava un buffetto sulla guancia di Andriotta, invitandolo ad ascoltare il collega e dicendogli che lo avrebbero aiutato e sostenuto.
Sulla persona che accompagnava, in detta occasione, Arnaldo La Barbera, Andriotta spiegava (senza alcuna esitazione od incertezza) che si trattava proprio di Vincenzo Ricciardi e che detto ricordo gli affiorava gradualmente(effettivamente, l’imputato ne riferiva già in fase d’indagine preliminare). L’imputato non ricordava se, prima di fargli la suddetta proposta di rendere le false dichiarazioni sulle confidenze carcerarie di Vincenzo Scarantino, i due funzionari di polizia gli prospettavano anche la possibilità di divenire un loro informatore. A tal proposito, Andriotta (dietro precisa indicazione di Arnaldo La Barbera) rifiutava, anche dopo l’avvio della sua falsa collaborazione, quanto prospettatogli dal Pubblico Ministero con cui rendeva i primi interrogatori (la dott.ssa Ilda Boccassini), vale a dire di ritornare in carcere a Busto Arsizio, per registrare le sue conversazioni con Scarantino, accampando, timori per la propria incolumità personale, in caso di ritorno in quell’istituto da ‘collaboratore’.
In epoca successiva rispetto alla visita carceraria di Arnaldo La Barbera e Vincenzo Ricciardi, quando ancora non aveva accettato la loro proposta, Andriotta veniva prelevato dalla cella, di notte, e portato nel cortile del passeggio (analogamente a Vincenzo Scarantino), dove veniva minacciato da un giovane agente di polizia penitenziaria, con accento palermitano, che lo sollecitava “a dire le cose come ti hanno riferito”, perché Scarantino era colpevole. L’agente della penitenziaria, inoltre, gli metteva un foulard, a mo’ di cappio, attorno al collo (quest’ultimo particolare, comunque, già dichiarato dall’imputato anche nell’interrogatorio del 17.7.2009, veniva confermato al dibattimento dopo la contestazione del Pubblico Ministero). Analogo trattamento veniva riservato a Scarantino, come Andriotta poteva udire in carcere (quella stessa notte, oppure in un’altra occasione).
Anche in altre circostanze, Andriotta, sentiva che Scarantino urlava, perché sottoposto a maltrattamenti, nel carcere di Busto Arsizio; il compagno di detenzione gli confidava poi che i maltrattamenti erano da parte di Arnaldo La Barbera (anche su tale circostanza, non secondaria e non confermata da Scarantino, l’imputato confermava le sue precedenti dichiarazioni soltanto dopo la contestazione del Pubblico Ministero). Scarantino raccontava ad Andriotta che gli facevano mangiare cibo contenente urina e che non lo curavano adeguatamente, quando stava male. Andriotta, su indicazione di Arnaldo La Barbera, parlava a Scarantino della morte in carcere di Nino Gioè, per fargli pressione psicologica, cercando d’incutergli tensione e paura (detta circostanza, peraltro, veniva negata da Andriotta, nel confronto pre-dibattimentale con Vincenzo Scarantino).
LA DECISIONE DI “COLLABORARE” CON GLI INQUIRENTI Andriotta decideva, poi (non è affatto chiaro in quale momento e, soprattutto, in che modo), d’accettare le proposte ricevute dai predetti funzionari, dopo aver riflettuto sul colloquio con Arnaldo La Barbera e Vincenzo Ricciardi, e chiedeva d’essere interrogato dalla dott.ssa Zanetti della Procura di Milano (vale a dire il Pubblico Ministero del processo per omicidio, a suo carico) sulle vicende che lo riguardavano direttamente, per far presente, in un secondo momento, come suggeritogli da Arnaldo La Barbera, che era in condizione di riferire anche circostanze utili alle indagini sulla strage di via Mariano D’Amelio.
Ancora, Andriotta parlava di un successivo incontro avvenuto alla Procura di Milano, dopo aver sostenuto un primo interrogatorio (con la dott.ssa Zanetti) sull’omicidio del quale era accusato e prima d’essere ascoltato dalla dott.ssa Boccassini, proprio in relazione alle conoscenze millantate sulla strage di via D’Amelio. In quell’occasione, Andriotta conosceva anche Salvatore La Barbera, che entrava, seguito da Vincenzo Ricciardi, nella stanza dove l’imputato attendeva d’essere condotto davanti al magistrato.
L’imputato inoltre confermava (dopo la contestazione di quanto dichiarato nella fase delle indagini) la presenza di Arnaldo La Barbera (detta presenza, comunque, è documentata, in occasione dell’interrogatorio del 14 settembre 1993, che segnava l’avvio della ‘collaborazione’ di Francesco Andriotta).
In tale occasione, Salvatore La Barbera raccomandava ad Andriotta di seguire quello che gli suggeriva Arnaldo La Barbera, che era “il numero uno”, una vera e propria “potenza” ed avrebbe mantenuto le promesse. Quando Andriotta rispondeva che lui non sapeva alcunché della strage di via D’Amelio, il funzionario gli strizzava l’occhiolino, dicendo che Scarantino, nel carcere di Busto Arsizio, gli parlava della strage. Inoltre, prima che Andriotta venisse condotto davanti alla dott.ssa Boccassini, Arnaldo La Barbera entrava nella stanza dove l’imputato attendeva e gli spiegava che doveva fare i nomi di Scarantino, Profeta, Orofino e Scotto, come persone coinvolte nella strage di via D’Amelio, in base alle confidenze carcerarie ricevute dal primo, nel carcere di Busto Arsizio.
[…] Il predetto dialogo con i funzionari di polizia, prima dell’atto istruttorio del 14 settembre 1993, che segnava l’avvio della falsa collaborazione di Francesco Andriotta, non durava a lungo (appena cinque o dieci minuti circa, secondo l’imputato), a fronte di un interrogatorio di ben otto ore (il relativo verbale è composto da oltre diciassette pagine). Sul punto, Andriotta spiegava, in modo assai poco convincente e lineare, poiché molto generico e con dichiarazioni assolutamente inedite prima del dibattimento, che, in precedenza, gli giungevano (neppure è dato sapere se al carcere di Busto Arsizio, oppure in quello di Saluzzo) degli appunti, da parte del dottor Arnaldo La Barbera, con scritto quello che doveva imparare e dichiarare all’autorità giudiziaria.
[…] L’imputato dichiarava anche d’aver ricevuto, nel corso del tempo, in due o tre occasioni, delle somme di danaro per un totale di circa dieci o dodici milioni di Lire, ulteriori rispetto alle somme accreditategli dal Servizio Centrale di Protezione. Dette somme, a dire di Andriotta, venivano consegnate, in un’occasione, direttamente alla sua ex moglie (Bossi Arianna), da Arnaldo La Barbera e, un’altra volta, invece, nelle sue mani, da Mario Bò, durante un permesso premio (negli interrogatori pre-dibattimentali, invece, Andriotta dichiarava che riceveva, personalmente, in entrambi i casi, le somme in questione per cinque milioni di Lire). L’imputato spiegava poi che non riferiva, in precedenza, che parte di quelle somme venivano ricevute dalla sua ex moglie, perché non voleva coinvolgerla nella sua vicenda processuale. Analoga giustificazione veniva data dall’imputato ad un’altra dichiarazione inedita, relativa alla circostanza che la sua ex convivente, Manacò Concetta, a metà degli anni duemila, sapeva della falsità della sua collaborazione con la giustizia e, in un’occasione, gli sputava persino in faccia per questo motivo, dicendogli che sapeva che tutto quello che lui dichiarava sui fatti di via D’Amelio era falso, perché Scarantino non gli aveva mai fatto quelle confidenze.
Oltre alla predetta vicenda degli appunti, contenenti le dichiarazioni da imparare, in vista dell’avvio della collaborazione, l’imputato confermava che, prima di diversi interrogatori con l’autorità giudiziaria, i funzionari di polizia gli indicavano cosa doveva dichiarare ai Pubblici Ministeri. Ad esempio, prima di un interrogatorio nel carcere di Milano Opera con la dottoressa Boccassini, Andriotta aveva un colloquio con il dottor Arnaldo La Barbera (la circostanza, tuttavia, non risulta affatto riscontrata), così come incontrava il predetto funzionario, nel carcere di Vercelli, prima di un altro interrogatorio (quest’ultima affermazione dell’imputato, invece, è riscontrata: il 17 gennaio 1994, Andriotta veniva interrogato, peraltro, aggiungendo circostanze significative rispetto alle sue precedenti rivelazioni ed, in pari data, risulta un colloquio investigativo con Arnaldo La Barbera).
Ancora, l’imputato ricordava d’aver incontrato il dottor Mario Bò, nel carcere di Paliano, con il funzionario che gli spiegava cosa doveva dichiarare nell’interrogatorio successivo. Su quest’ultima emergenza si tornerà a breve, ma si deve subito accennare che, dagli accertamenti espletati […], risultano documentati due accessi al carcere di Paliano del predetto funzionario, in occasione degli interrogatori resi da Andriotta il 16 settembre ed il 28 ottobre 1994: la circostanza pare di non poco momento, posto che si trattava proprio dei due interrogatori immediatamente successivi alla sopravvenuta ‘collaborazione’ di Vincenzo Scarantino, dove Andriotta, adeguandosi (in gran parte) alle dichiarazioni dell’ex compagno di detenzione, millantava, per la prima volta, delle confidenze dello stesso Scarantino sulla riunione di Villa Calascibetta, asseritamente taciute, sino ad allora, per timore.
Inoltre, Andriotta dichiarava (non senza qualche oscillazione, […]) d’aver ricevuto, mentre era ristretto in cella (con tale Nicola Di Comite), nel carcere di Milano Opera, agli inizi del 1996, tramite il comandante della polizia penitenziaria di detto istituto, corposa documentazione, contenente anche interrogatori resi dal ‘collaboratore’ Vincenzo Scarantino.
Ancora, sul tema del materiale scritto che gli veniva messo a disposizione dagli inquirenti, Andriotta dichiarava, per la prima volta al dibattimento, che riceveva, personalmente, dal dottor Mario Bò, presso uno dei tre istituti dove veniva trasferito, in rapida successione, dopo il carcere romano di Rebibbia, anche il verbale contenente la ritrattazione dibattimentale di Vincenzo Scarantino.
In merito ai suoi rapporti con Scarantino, Andriotta escludeva decisamente d’essersi mai accordato con lui, per rendere le sue false dichiarazioni all’autorità giudiziaria (così anche Scarantino), negando (in maniera molto decisa) d’aver mai riferito di un tale accordo (appunto, inesistente) a Franco Tibaldi ed a Giuseppe Ferone (come, invece, affermavano costoro, nei verbali d’interrogatorio acquisiti agli atti del dibattimento). A Franco Tibaldi, che faceva la socialità con lui al carcere di Ferrara, Andriotta spiegava (giacché questi era con lui, quando l’imputato riceveva la missiva) che il suo avvocato (Valeria Maffei) rinunciava al mandato, poiché assumeva la difesa di un nuovo collaboratore di giustizia (Gaspare Spatuzza), che faceva rivelazioni sui fatti di via D’Amelio e, probabilmente, si lasciava pure andare ad uno sfogo, in sua presenza, dicendo che “gli accordi non erano questi”. Tuttavia, detto riferimento del prevenuto era agli accordi con i predetti funzionari, messi in discussione dalla collaborazione di Gaspare Spatuzza […].
In merito alle promesse che gli venivano fatte affinché si determinasse a rendere le false dichiarazioni sulla strage di via D’Amelio, Andriotta ha sostenuto che gli inquirenti gli prospettavano anche (come già esposto) la riduzione della pena dell’ergastolo di primo grado, nei successivi gradi di giudizio. Dopo che la condanna all’ergastolo diventava definitiva, senza che Andriotta ottenesse la prospettata riduzione di pena, gli inquirenti, oltre a spiegargli i benefici di cui poteva, comunque, fruire come collaboratore di giustizia, gli avrebbero parlato della possibile revisione del processo: “ne parlò la dottoressa Anna Maria Palma di una revisione, di una probabile revisione del processo e ci fu quella volta là c’è la dottoressa e c’era il dottore Antonino Di Matteo quando mi disse questa cosa” (era la prima occasione in cui Andriotta conosceva il dottor Di Matteo). Inoltre, veniva anche assicurato all’imputato che, da lì a poco, gli avrebbero concesso un permesso premio, come -effettivamente- accadeva e come gli comunicava Salvatore La Barbera, nell’aula bunker di Catania Bicocca (il funzionario sottolineava che loro mantenevano le promesse). Ancora, dopo che Scarantino ritrattava, ad Andriotta veniva richiesto di dichiarare, falsamente, d’esser stato avvicinato, in località protetta, da due mafiosi per indurlo alla ritrattazione. Il fine di tali dichiarazioni, come gli spiegavano, in occasione di due diversi permessi premio, sia Arnaldo La Barbera (a settembre 1997) che Mario Bò (a dicembre 1997), era quello di screditare la ritrattazione di Scarantino, facendola apparire come il frutto di un’intimidazione mafiosa (per rendere tali dichiarazioni, all’imputato veniva promessa la detenzione domiciliare e, dopo due anni, la liberazione condizionale).
«SE VOGLIO IO, GLI FACCIO CADERE TUTTO IL PROCESSO» […] Inoltre, l’imputato sosteneva (in maniera assai poco convincente) la propria volontà di ritrattare le sue false dichiarazioni sulle confidenze carcerarie di Vincenzo Scarantino, anche prima d’esser messo innanzi all’evidenza delle risultanze successive alla collaborazione di Gaspare Spatuzza. In particolare, Andriotta sosteneva d’aver riferito ad un ispettore dell’Anticrimine di Piacenza di nome “Davio, Davico, Davini”, durante un permesso premio del marzo 1998: «mi stanno facendo girare le scatole, se voglio io, gli faccio cadere tutto il processo» (la circostanza, tuttavia, non trovava alcuna conferma, nonostante l’audizione dei poliziotti dell’Anticrimine piacentina). Ancora, durante un permesso premio nel mese di ottobre/novembre 2005, preso dal rimorso, Andriotta avrebbe fatto un’istanza al servizio centrale di protezione per poter rendere una dichiarazione alla stampa ed alla televisione, ma l’autorizzazione veniva negata. Nessun magistrato della Procura di Caltanissetta andava ad interrogarlo per comprendere che cosa voleva riferire agli organi di stampa, né Andriotta avanzava alcuna richiesta d’esser ascoltato dai magistrati, poiché intendeva ritrattare soltanto “via etere”, sentendosi più tutelato dai media (in quanto, a suo parere, i magistrati potevano insabbiare la vicenda).
Ancora (per lo stesso motivo), pur venendo successivamente ascoltato dalla Procura Nazionale Antimafia, Andriotta non ritrattava le sue dichiarazioni sui fatti di via D’Amelio (chiedeva d’esser ascoltato dal dottor Pietro Grasso, ma veniva interrogato dal dottor Giordano, già in servizio alla Direzione Distrettuale Antimafia di Caltanissetta).
Andriotta, dettagliando un accenno fatto durante le indagini (nell’interrogatorio del 17 luglio 2009: “ci sono state delle volte che io volevo ritrattare e ho preso botte”), riferiva anche alcuni episodi di maltrattamenti personalmente realizzati dagli agenti di polizia penitenziaria nel carcere di Sulmona, nel 2002 e nel 2007, allorché aveva rappresentato al suo avvocato dell’epoca, a colloquio in tale carcere, che non riusciva più a sopportare il peso delle false dichiarazioni e che intendeva ritrattarle.
Per tali fatti veniva anche celebrato un processo penale, presso il Tribunale di Sulmona («Perché purtroppo in quel carcere, quando parli con il tuo legale di fiducia, ti ascoltano e io dissi in più occasioni all’Avvocato che non… non riuscivo ad andare avanti, volevo dire la verità perché non me la sentivo, mi stavo facendo io la galera e anche gli altri, non volevo più andare avanti così. Però puntualmente, come operazione farfalla, abbuscavo mazzate. Ogni volta, ogni volta!»). Sul punto, Andriotta rendeva anche un’altra dichiarazione inedita sul fatto che, dopo l’inizio della collaborazione di Gaspare Spatuzza, veniva avvicinato, nel giugno/luglio del 2009, dal comandante della polizia penitenziaria del carcere di Ferrara, che gli faceva domande “strane”, se corrispondeva o meno a verità che intendeva ritrattare le sue precedenti dichiarazioni.
Altra dichiarazione rilevante di Andriotta era quella relativa alla circostanza che, durante uno dei processi in cui deponeva come testimone, in particolare nell’aula bunker di Torino, in una pausa dell’udienza (trattasi dell’udienza del 16 ottobre 1997, nel dibattimento di primo grado del processo c.d. Borsellino bis), il dottor Mario Bò lo rimproverava duramente perché rendeva una dichiarazione difforme da quella che gli veniva suggerita (della quale, però l’imputato non rammentava l’oggetto), rischiando, a dire del funzionario, di far saltare il processo. A tal proposito, quando gli veniva domandato se a tale “rimprovero” di Mario Bò assistevano anche la dott.ssa Palma oppure il dottor Di Matteo (che erano i due Pubblici Ministeri di quell’udienza), Andriotta rispondeva (più di una volta): “mi avvalgo della facoltà di non rispondere”.
Analoga facoltà veniva esercitata dall’imputato anche in risposta ad una domanda sulla conoscenza, da parte dei magistrati inquirenti dell’epoca, della circostanza che Scarantino si professava innocente per la strage, peraltro dopo che Andriotta aveva già affermato, spontaneamente, d’aver rivelato, anche ai magistrati inquirenti, che Scarantino si professava innocente («Ah, questo gliel’avevo detto ai poliziotti che lui non mi aveva mai raccontato nulla e che continuava a dire che era innocente. (…) Al dottor Arnaldo La Barbera, al dottor Ricciardi e anche al dottor Mario Bo. (…) E anche ai magistrati. (…) Su questo mi avvalgo della facoltà di non rispondere, come ho detto all’Avvocato Scozzola nell’aula bunker di Torino»). Tale atteggiamento dell’imputato è legittimo, ma contraddittorio, poiché egli esercitava il c.d. diritto al silenzio, dopo una serie domande su eventuali intromissioni dei magistrati nella sua falsa collaborazione: ebbene, a dette domande (fatte appena pochi minuti prima), Andriotta rispondeva escludendo qualsivoglia ruolo o consapevolezza dei magistrati dell’epoca, per poi affermare, invece, quanto sopra riportato. Nel riesame del Pubblico Ministero, infine, Andriotta tornava sui suoi passi, sostenendo (in maniera assolutamente non convincente) che s’era avvalso della facoltà di non rispondere soltanto per un “errore di pronuncia” e specificando di non aver mai informato alcun magistrato delle falsità delle sue rivelazioni o di quelle di Scarantino. Invece, nell’interrogatorio del 17 luglio 2009 (pienamente utilizzabile ai fini probatori), Andriotta spiegava che era proprio la dott.ssa Palma ad arrabbiarsi molto con lui, chiedendogli come faceva a sapere delle cose che non erano nemmeno uscite sui giornali […].
LE CONCLUSIONI DEI GIUDICI DEL BORSELLINO QUATER Orbene, prima di passare alle conclusioni in merito alla responsabilità penale dell’imputato per la calunnia continuata ed aggravata […] occorre fare alcune considerazioni generali sul contenuto delle predette dichiarazioni, palesemente autoaccusatorie.
A tal proposito, va -innanzitutto- sottolineato come il percorso dell’imputato (a far data dal luglio del 2009, allorché decideva di ritrattare le dichiarazioni rese nei precedenti procedimenti) sia tutt’altro che lineare, in quanto segnato da molteplici incoerenze e contraddizioni, oltre che da significativi aspetti di progressione (e pure da qualche reticenza) nelle accuse mosse contro altri soggetti. Talune novità nelle dichiarazioni dibattimentali dell’imputato, poi, dopo ben quattro interrogatori nell’arco di un anno e mezzo (in fase d’indagine preliminare), sono assolutamente non credibili e paiono strumentali ad alleggerire la propria posizione processuale. […]
Ebbene, pur con tutte le (doverose) cautele e riserve sull’attendibilità complessiva dell’imputato (le cui dichiarazioni vanno ‘maneggiate’ con estrema cautela, soprattutto ove attingano terze persone), alla luce del suddetto percorso di falso ‘collaboratore’ della giustizia ed anche della marcata progressività delle dichiarazioni stesse (evidentemente funzionali, come detto, ad alleggerire la propria posizione processuale), pare difficile, alla luce del complessivo compendio probatorio (ed al di là delle accennate ed evidenti contraddizioni ed incongruenze, su molteplici circostanze specifiche), confutare quanto da lui dichiarato in merito alla tematica generale dell’indottrinamento da parte degli inquirenti infedeli dell’epoca, sebbene sia del tutto evidente che l’imputato introduca anche circostanze non vere e, comunque, non voglia raccontare tutto quanto è a sua conoscenza in merito alla propria ed all’altrui ‘collaborazione’. Sul punto, al di là dell’evidenziata progressività delle dichiarazioni dell’imputato (che parlava, come detto, solo al dibattimento di appunti scritti consegnatigli in carcere, prima dell’avvio della ‘collaborazione’), pare assai difficile ipotizzare un’origine diversa rispetto al suggerimento degli inquirenti dell’epoca (poco importa, da tale punto di vista, se con appunti scritti o soltanto con indottrinamento orale, magari fatto con modalità assai diverse, rispetto a quelle -inverosimili- riferite dall’imputato negli interrogatori acquisiti agli atti), atteso che la collaborazione di Scarantino non era ancora iniziata (come è noto, il primo verbale del pentito della Guadagna risale al giugno 1994). […]
Addirittura inquietanti (come già accennato), alla luce di quanto ampiamente accertato in questo procedimento sul furto della Fiat 126 e sulle sue condizioni meccaniche, oltre che sulla sistemazione dell’impianto frenante, a cura di Gaspare Spatuzza (tramite Maurizio Costa) e francamente inspiegabili (come si vedrà meglio, trattando della posizione di Vincenzo Scarantino), senza un apporto di infedeli inquirenti e/o funzionari delle istituzioni, la circostanza che Andriotta, già nel primo interrogatorio da falso ‘collaboratore’ della giustizia, senza sapere alcunché della strage che occupa, né ricevendo alcuna confidenza da Scarantino (totalmente estraneo alla preparazione ed esecuzione della strage), parlava di circostanze non rientranti nel suo bagaglio di conoscenze, ma oggettivamente vere (come risulta da questo procedimento), vale a dire di problemi meccanici della Fiat 126 utilizzata come autobomba e della necessità di trainarla subito dopo il furto (come oggi dichiarato da Gaspare Spatuzza), ed, ancora, della sua riparazione e del cambio delle targhe prima dell’attentato, nonché del ritardo nella denuncia al lunedì successivo la strage (di tutte queste circostanze, così come dell’attendibilità di Gaspare Spatuzza e dei numerosi riscontri alle sue dichiarazioni, si è dato ampiamente atto, in altra parte della motivazione, alla quale si rimanda). A CURA DELL’ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA