LE BUGIE, I GRAVIANO, I RICORDI “HO SCELTO DI USCIRE ALLO SCOPERTO”

Il racconto di Fiammetta Borsellino ai magistrati di Messina
 

 C’è il dolore eterno per la perdita del padre ammazzato dalla mafia; la rabbia, seppur composta, per una verità giudiziaria negata; il percorso di speranza che spinge una donna ad incontrare i carnefici. Quella donna è Fiammetta Borsellino, uno dei figli del giudice Paolo. C’è tutto questo nell’audizione davanti ai pubblici ministeri di Messina.

LA RICHIESTA DI ARCHIVIAZIONE  Ventotto anni dopo la strage di via D’Amelio ci sono troppe ombre sull’eccidio e sui suoi responsabili.

 È di pochi giorni fa la richiesta di archiviazione della Procura di Messina nei confronti dei magistrati Anna Maria Palma e Carmelo Petralia. Erano due dei pubblici ministeri che raccolsero le dichiarazioni dei falsi pentiti, su cui sono stati costruiti i processi.

La gestione dei collaboratori di giustizia presenta anomalie e solleva forti perplessità anche nella valutazione dei pm messinesi, guidata da Maurizio De Lucia. Ma non basta per chiedere un processo.

“USCIRE ALLO SCOPERTO” Fiammetta Borsellino è stata sentita il 25 marzo 2019 nell’ambito delle indagini sul possibile ruolo dei magistrati nel depistaggio, per il quale ci sono già tre poliziotti sotto processo a Caltanissetta.

Leggere alcuni passaggi dell’audizione serve a provare ad avvicinarsi al dolore di una famiglia. L’approccio di Fiammetta Borsellino, che è lo stesso dei suoi fratelli e delle sue sorelle, si coglie nell’incipit: “Io ho deciso di uscire allo scoperto… mio padre mi ha insegnato che lo si fa quando si hanno delle cose certe da dire, sennò si diventa urlatori e basta”.

Fiammetta ha studiato ogni passaggio delle carte dei quattro processi sulla strage anche e soprattutto “tramite Fabio Trizzino il marito di Lucia… abbiamo fatto questo lavoro di conoscenza, di apprendere quante più cose possibili”. Trizzino è stato per anni attenta presenza nelle udienze, infine è diventato avvocato ed assiste i familiari come parte civile.

IL SOPRALLUOGO PER LA 126  Ed è studiando migliaia di pagine di atti processuali, spiega la figlia del giudice, che le anomalie emergono con forza. La prima riguarda il sopralluogo effettuato dalla polizia con Vincenzo Scarantino nel garage dove sarebbe stata rubata la 126, poi parcheggiata piena di tritolo in via D’Amelio. Quello del furto della macchina è l’inizio della catena di bugie che hanno retto al vaglio del giudici: “Non esiste un verbale. Ho letto le deposizioni e la signora Palma al processo Borsellino quater quando le viene chiesto ‘ma com’è che non esiste un verbale di questo sopralluogo e com’è che non solo non esiste ma pure non ne avete fatto richiesta?’ Lei risponde: ‘Non lo so, forse non mi ricordo… cioè addirittura a volte quasi si autoaccusa di non essere lei abbastanza preparata non sapendo proprio che cosa dire”. Sono stati tanti i “non ricordo” dei protagonisti di quella stagione. Ed “il suo mutismo, il suo non sapere dare una risposta”, come dice Fiammetta Borsellino, ad avere contribuito al groviglio giudiziario?

FACCIA A FACCIA CON I CARNEFICI Nel 2018 c’è il passaggio umanamente più difficile: incontrare in carcere i carnefici del padre, i fratelli Filippo e Giuseppe Graviano, stragisti di Brancaccio. Fiammetta Borsellino lo ricorda così: “… era più un percorso mio personale ovvio anche di speranza però non sono una cretina. Lo so che non potevo andare da questi che erano chiusi da anni in carcere e dire ‘e ora… ‘. È ovvio che è stato un viaggio di speranza, di innescare anche la possibilità di un contributo. Prima di Natale sono andata prima a Terni a fare un colloquio con Giuseppe Graviano e poi nello stesso giorno a L’Aquila con Filippo”.

GIUSEPPE GRAVIANO I sentimenti sono contrastanti. Di Giuseppe Graviano le è rimasto impresso “il carattere maligno” e al contempo “quell’atteggiamento grottesco” mentre parlava della “buonanima di mio padre”. Insomma “se da un lato ti provoca dolore dall’altro ti dà anche la possibilità di rilanciare”. Perché il boss stragista, abile nelle sue inaccettabili acrobazie della memoria, continuava a parlare di “rispetto per la buonanima” e a ripetere che “mio figlio cresce nella legalità, io non ho mai fatto nulla. Sono andato sempre raccogliere patate, in seminario eccetera eccetera”. Fiammetta Borsellino ha mantenuto la compostezza di sempre anche quando rivolgendosi a Giuseppe Graviano “gli ho detto ah vedi che c’è, sono fortunata oggi sono davanti a un santo che è qui a scontare una pena non si sa perché”. Composta, ma cosciente del fatto di essere stata “oltraggiata”.

“SI PRESENTÒ IN VESTAGLIA” Di Graviano ricorda anche “mi ha fatto attendere, si è presentato in vestaglia e poi ad un certo punto l’ha buttata sui magistrati della serie ‘perché viene da me a chiedere le cose non l’ha visto che hanno fatto e depistatori, Di Matteo… ha fatto dei nomi pure’”. Borsellino “senza cadere nella trappola gli ho detto guardi io non lo so quello che hanno fatto altri, non ho elementi ma l’unica cosa che mi sono limitata a dire è che spostare la responsabilità su altri non serviva deludere le sue di responsabilità soltanto questo”. 

“GLI HANNO DATO L’ALIBI” Ed ecco uno dei passaggi in cui viene fuori tutta l’amarezza per la gestione dell’indagine da parte dei magistrati: “Poi nella mia mente ho registrato che uno dei grandi danni che hanno fatto queste persone, veramente bravi e capaci, è stato quello anche di fornire un alibi per non parlare, perché se uno ti dice perché viene da me non va da altri proprio gli hai dato l’alibi perfetto come dire per deresponsabilizzarsi di tutto”.

“FILIPPO GRAVIANO ERA PROVATO” Con Filippo Graviano le cose andarono diversamente: “… si presenta in tutt’altro modo, intanto sistemato vestito bene, non mi ha mai fatto aspettare, dignitoso, è in uno stato di dolore e prostrazione visibile, di sudorazione… cioè una persona che non aveva imparato la lezioncina a memoria lì c’è stato spazio per parlare di dolore, di insicurezze del fatto che lui non rinnegava quello che aveva fatto senza però avere…”.

“IL PROCURATORE GIAMMANCO” Infine alcuni ricordi personali. Di “Palma” che un giorno fece un “po’ incavolare” suo padre, perché “dopo che è morto Falcone addirittura la Palma ad un certo punto lo invitò per San Pietro e Paolo a casa di Giammanco (l’allora procuratore di Palermo, Pietro Giammanco. I suoi rapporti con Borsellino erano moto tesi, come aveva raccontato il tenente Carmelo Canale ndr) ) tant’è che mio padre gli disse ‘Ma scusa non non lo sai che a questo fra poco lo arrestiamo?… Poi la Palma è stata anche una grande frequentatrice di salotti palermitani cosa che insomma mio padre non ha mai fatto”.

I RAPPORTI CON DI MATTEO Ricorda dell’ex pubblico ministero Antonino Di Matteo che “in una fase più finale entra in questo rapporto di enorme confidenza con Lucia tanto che io spesso ho chiesto a Lucia ‘Ma com’è che…’ perché poi questa vicinanza, alla luce tutto quello che è successo ti fa anche pensare un po’ male no? Nel senso, diciamo, sei vicino e ci metti in guardia o sei vicino perché questo è, ad un certo punto funzionale, a questo percorso che stai intraprendendo?… cioè sto pensando ad alta voce mi vengono tanti dubbi”. La grande confidenza con Di Matteo “poi si è interrotta improvvisamente perché fino a quando la famiglia è educata accondiscendente e va tutto bene, quando invece poi è successo un episodio, che pare sia l’inizio della frizione, anche io ho cercato diciamo facendo un lavoro quasi da psicologa di capire anche con Lucia e Fabio cosa fosse successo con Nino Di Matteo tanto da provocare una rottura e loro mi raccontano che tutto inizia, è una frizione, una incomprensione profonda che inizia quando Lucia decide di fare l’assessore di mettere a disposizione le sue competenze tecniche diciamo per questa missione allora a quanto pare Nino ha da ridire su questa cosa, non capendo quasi da alto valore morale con cui Lucia, che non è un politico si accingeva, a fare questo opera lì c’è l’inizio di una rottura”. Sono gli anni in cui Lucia Borsellino accetta di fare l’assessore alla Sanità nella giunta regionale di Rosario Crocetta.

di Riccardo Lo Verso LIVE SICILIA

 


CHIESTA L’ARCHIVIAZIONE PER I PB PALMA E PETRALIA  Il documento della Procura Messina dopo la sentenza con cui si escludevano depistaggi da parte dei pm. Sistema incapace di svelare la verità e anomalie nella gestione dei pentiti. Scarantino inattendibile. Indagini segnate dal tempo trascorso “Le indagini, doverosamente svolte secondo l’indicazione della Corte di assise di Caltanissetta, pur avendo imposto a quest’ufficio un considerevole dispendio di energie ai fini di soddisfare il canone della completezza, non hanno consentito di individuare alcuna condotta posta in essere ne’ dai magistrati indagati, ne’ da altre figure appartenenti alla magistratura che abbiano posto in essere reali e consapevoli condotte volte ad inquinare le dichiarazioni, certamente false, rese da Vincenzo Scarantino”. Lo scrivono i pm di Messina – coordinati dal procuratore Maurizio de Lucia – nella richiesta di archiviazione dell’inchiesta sul depistaggio delle indagini sulla strage di via D’Amelio del 19 luglio del 1992 in cui morirono il giudice Paolo Borsellino e gli agenti della scorta, a carico degli ex pm Anna Maria Palma e Carmelo Petralia. Questi ultimi, secondo una prima ipotesi accusatoria, avrebbero avuto un ruolo nell’inquinamento delle indagini. Per gli stessi fatti e per la stessa accusa – calunnia aggravata – a Caltanissetta è in corso un processo contro tre dei poliziotti che condussero le indagini e che, costruendo a tavolino tre falsi pentiti, avrebbero inquinato la ricostruzione dell’attentato al giudice Paolo Borsellino e alla sua scorta. “Indubbiamente, – aggiunge la Procura di Messina – senza la successiva collaborazione di Gaspare Spatuzza, di tale falsità non vi sarebbe stata alcuna certezza; tale dato deve fare riflettere su un sistema processuale che, in ben tre gradi di giudizio, non è riuscito a svelare tale realtà. Tuttavia, questa valutazione esula dai compiti di questa Procura della Repubblica, così come ogni valutazione concernente profili diversi da quello penale, per gli indagati e per i magistrati comunque coinvolti nella vicenda processuale”. “Anomalie nella gestione dei pentiti” “Le indagini in questione, svolta a distanza di oltre 27 anni dalla strage, hanno ricostruito il contesto nel quale è maturata la ‘collaborazione con la giustizia’ di Scarantino e le anomalie tecnico giuridiche e valutative che hanno caratterizzato quella gestione, in termini di uso dei colloqui investigativi, di contatti informali con il collaboratore ed i suoi familiari”. I magistrati sottolineano più volte le “anomalie” dell’indagine sull’attentato che ha portato alla condanna all’ergastolo, per l’attentato al giudice Borsellino, di sette innocentiPer i pm “il silenzio, ineccepibile in punto di diritto del quale si sono avvalsi” i tre poliziotti sotto processo per il depistaggio a Caltanissetta, Bo, Mattei e Ribaudo, che come i due pm rispondono di calunnia aggravata, “non ha consentito di comprendere quale effettivo ruolo hanno svolto il dottor Giovanni Tinebra – a quell’epoca Procuratore capo della Repubblica di Caltanissetta – e i suoi sostituti nella gestione di Scarantino, né quale direzione effettiva essi hanno avuto delle indagini. Senza dire che la scomparsa di Tinebra e La Barbera ha impedito, oggettivamente, di acquisire le conoscenze che gli stessi direttamente avevano o potevano avere dei fatti”. “Le indagini scontano tempo trascorso” “Le indagini – si legge ancora nel documento – scontano dei limiti strutturali difficilmente superabili”. I magistrati messinesi, che in due anni di indagini hanno interrogato veri e falsi pentiti e tutti i protagonisti delle vicende dell’epoca – poliziotti, avvocati e magistrati – sottolineano “il venir meno, nel tempo, di fonti di prova rilevanti (è il caso – scrivono – dei sopravvenuti decessi del dott. Tinebra e del dott. Arnaldo La Barbera, i quali hanno certamente avuto un ruolo importante nella vicenda)”. Il riferimento è all’ex procuratore di Caltanissetta e all’ex capo della Mobile di Palermo che coordinava il gruppo investigativo che svolse gli accertamenti sull’attentato al giudice Borsellino.

Boccassini, gestione Scarantino sciatta Alla lettera con cui l’ex pm Ilda Boccassini, il 12 ottobre del 1994, metteva nero su bianco le sue perplessità sull’attendibilità e sulla gestione del falso pentito Vincenzo Scarantino è dedicata un’ampia parte della richiesta di archiviazione. Sentita dai pm di Messina, Boccassini ha raccontato di aver fatto consegnare la missiva, scritta poco prima di lasciare l’ufficio inquirente di Caltanissetta, a tutti i colleghi, ma nessuno di loro, interrogato successivamente, dice di averla ricevuta. Tutto l’ufficio ne sarebbe venuto a conoscenza anni dopo. Anche il maresciallo a cui Boccassini dice di aver dato la lettera da recapitare ai colleghi non ricorda di averla materialmente fatta avere ai destinatari. Nonostante le lacune e le contraddizioni per la Procura di Messina è però ragionevole pensare che Palma e Petralia, e il loro capo di allora, Gianni Tinebra, poi morto, fossero a conoscenza delle forti perplessità manifestate dalla Boccassini e dal collega Saieva sull’attendibilità delle iniziali dichiarazioni di Scarantino. “Il fatto che Scarantino mentisse in maniera grossolana – ha detto Boccassini alla Procura di Messina – era percepibile il primo o secondo interrogatorio. Tant’è che c’è stata per me l’esigenza, perché avevo capito che c’era un atteggiamento diverso da parte dei colleghi, e feci la prima relazione insieme a Roberto Saieva e fu portata dal mio collaboratore, che stava con me a Milano, nelle stanze di tutti i colleghi. Poi non l’hanno letta questo è un altro paio di maniche”.

Durissimi i giudizi della Boccassini su come veniva gestito Scarantino. “Interrogare Scarantino senza avvocato chiusi in una stanza. – dice – Tutto così, raffazzonato. Ma non dico neanche per… avevano uno scopo, per sciatteria voglio sperare, anche se io ritengo la sciatteria peggio della… dell’agire con dolo rispetto a certe cose”.

I pm peloritani, Scarantino inattendibile Anche i magistrati messinesi hanno confermato che “la principale fonte dichiarativa sulla strage di via D’Amelio, Vincenzo Scarantino, ha continuato, nel corso degli anni, a contraddirsi rendendo, di fatto ed in diritto, del tutto inutilizzabili le sue dichiarazioni, le quali, comunque, non hanno mai assunto un accettabile grado di concretezza in ordine a possibili contatti delittuosi tra lo stesso e magistrati della Procura di Caltanissetta”. “Scarantino ha mantenuto tale atteggiamento ondivago anche nel corso dell’interrogatorio reso innanzi a questo ufficio, arrivando a negare circostanze e fatti che, invece, aveva riferito in precedenti contesti giudiziari”, si legge nel documento.

Per Mannoia Scarantino non era mafioso Anche l’interrogatorio di un pentito storico come Francesco Marino Mannoia è stato alla base degli accertamenti della procura di Messina.. Nel corso di un confronto, del tutto inedito a cui fu sottoposto dalla Procura di Caltanissetta con Scarantino nel 1995, Mannoia aveva concluso, e riferito agli inquirenti, rafforzando quanto detto da altri collaboratori, che il “picciotto della Guadagna” non era un mafioso. Conclusione che Mannoia ha ripetuto ai pm messinesi.

La figlia del giudice sentita sui colloqui con Graviano Tra i testi sentiti dai pm di Messina nell’inchiesta sul depistaggio delle indagini sulla strage di via d’Amelio c’è stata anche Fiammetta Borsellino, figlia del giudice, che da anni combatte una battaglia per arrivare alla verità sulla morte del padre. La Borsellino ha raccontato ai magistrati del suo incontro in carcere con i boss Giuseppe e Filippo Graviano, capimafia di Brancaccio condannati per l’attentato. La figlia del magistrato ha definito l’incontro “un percorso personale”, ma non nasconde di aver sperato che da quel colloquio arrivasse un contributo alla verità pur nella consapevolezza che sarebbe stato molto difficile vista la caratura criminale dei due boss. Fiammetta Borsellino ha raccontato ai pm dei “grotteschi” tentativi di Graviano di discolparsi addossando la colpa del depistaggio delle indagini ai magistrati. “L’unica cosa che mi sono limitata a dire è che spostare la responsabilità su altri non serviva ad eludere le sue di responsabilità, soltanto questo”, ha raccontato ai pm. Diverso sarebbe stato invece il tono del colloquio con Filippo Graviano che si sarebbe presentato “in uno stato di dolore e prostrazione visibile”. “Una persona – ha detto Fiammetta Borsellino – che non aveva imparato la lezioncina a memoria, cioè, lì c’è stato spazio per parlare di dolore, di insicurezze, del fatto che lui, appunto, non rinnegava quello che aveva fatto.”  QUOTIDIANO DI SICILIA  11.6.2020