Antimafia Duemila contro Fiammetta Borsellino

Il mondo alla rovescia

Da Marco Travaglio a Fiammetta Borsellino

di Giorgio Bongiovanni

Ventiquattro ore (o per essere più precisi 23 ore, 56 minuti e 4 secondi) è il tempo che la Terra impiega per girare sul proprio asse.
Da qualche tempo, però, il mondo sembra andare davvero al contrario e invece di muoversi in senso antiorario, da ovest verso est, per 365 giorni all’anno, è come se girassi all’inverso con capovolgimenti e giravolte da parte di chi meno ti aspetti.
Cosa c’entrano Marco Travaglio e Fiammetta Borsellino in questo ragionamento?
C’entrano, c’entrano e lo spieghiamo immediatamente.
Partiamo dalla figlia del giudice Paolo, barbaramente ucciso assieme agli agenti della scorta il 19 luglio 1992.
Le scorse settimane è emerso che la Procura di Messina, diretta da Maurizio De Lucia, ha chiesto l’archiviazione nei confronti dei magistrati, Annamaria Palma e Carmelo Petralia, oggi rispettivamente avvocato generale dello Stato a Palermo e procuratore aggiunto a Catania, in merito al depistaggio dell’indagine sulla strage di via D’Amelio che aveva al centro la gestione del falso pentito Vincenzo Scarantino.
Abbiamo letto il documento redatto dai pm messinesi e tra gli atti dell’indagine vi è anche un verbale, datato 25 marzo 2019, in cui ad essere sentita è proprio Fiammetta Borsellino. In alcuni passaggi di questo verbale vi sono alcuni riferimenti già noti, sui colloqui in carcere coi fratelli Giuseppe e Filippo Graviano, ma anche alcune valutazioni su due magistrati: Anna Maria Palma e Nino Di Matteo.
La prima, indagata per cui è stata chiesta l’archiviazione. Il secondo neanche indagato. Già questo elemento basterebbe a squalificare la signora Fiammetta Borsellino e certe considerazioni che vengono continuamente ripetute.
Lo abbiamo scritto ormai più e più volte.
Senza nulla togliere alla legittima pretesa di verità dei familiari delle vittime di mafia, non si deve commettere l’errore di mescolare carte, fatti ed episodi avvenuti, senza adoperare i dovuti ed opportuni distinguo. E in questo mondo rovesciato Fiammetta Borsellino questo errore lo ha ripetuto in diverse occasioni, da ultimo anche di fronte ai magistrati nel momento in cui si cerca di inserire, più o meno, il magistrato Nino Di Matteo all’interno del depistaggio attraverso considerazioni ed episodi personali (l’interruzione del rapporto con Lucia Borsellino dopo che quest’ultima decise di diventare assessore regionale alla Sanità per il governo Crocetta).
L’effetto è che così si isola la figura del magistrato palermitano, oggetto di una condanna a morte espressa direttamente dal Capo dei capi Totò Riina e dal super latitante Matteo Messina Denaro. Un pubblico ministero, oggi consigliere togato al Csm, che ha impegnato la propria vita proprio nella ricerca della verità sulle stragi ed in particolare sui mandanti esterni che si celano dietro ad esse. Inchieste pesantissime, condotte assieme al collega Luca Tescaroli, che si sono sviluppate negli anni successivi, come quelle su “Alfa e Beta” (ovvero Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri) oppure sulla presenza in via d’Amelio di Bruno Contrada, che fu anche accusato di concorso in strage (e poi archiviato). E a Palermo ha condotto, ottenendo pesantissime condanne in primo grado contro boss, ufficiali dell’arma e ex senatori, nel processo sulla trattativa Stato-Mafia.
Si dimentica troppo spesso che, rispetto alle indagini del Borsellino bis (uno dei due processi oggetto di “revisione”), Di Matteo si occupò di esse solo marginalmente. Diversamente istruì in toto le indagini sul “Borsellino ter” che portarono alla condanna di tutti i capi della Commissione provinciale e regionale, tracciando il percorso delle indagini sui cosiddetti mandanti esterni.
E invece ogni scusa diventa buona, pur arrampicandosi sugli specchi, per colpire il magistrato, così delegittimandolo. Una “campagna” iniziata ormai da qualche anno e che sta spingendo la signora Fiammetta Borsellino in un tunnel profondo fatto nella migliore delle ipotesi di gravissimi errori di valutazione proprio su un magistrato che non è nemmeno stato indagato. E leggendo la richiesta di archiviazione dei pm messinesi si scopre come gli stessi hanno messo nero su bianco che non è stato possibile “individuare alcuna condotta posta in essere né dai magistrati indagati, né da altre figure appartenenti alla magistratura che abbiano posto in essere reali e consapevoli condotte volte ad inquinare le dichiarazioni, certamente false, rese da Vincenzo Scarantino“.
Certo, bisognerà attendere quel che deciderà il Gip così come l’esito del processo attualmente in corso a Caltanissetta contro i poliziotti. Quel che è certo, però, è che la vicenda Scarantino non è altro che “un segmento” del grande scenario investigativo nella ricerca della verità sulla strage.
Uno scenario investigativo che Di Matteo, assieme a pochi altri magistrati, ha cercato in questi anni di riportare alla luce. Anziché ammettere l’errore e ringraziare per quella ricerca della verità costante, però, si preferisce proseguire con gli attacchi, strumentalizzando con arroganza anche fatti totalmente personali.
In questo mondo che gira alla rovescia il vero ed il falso vengono mescolati continuamente.
E si resta sgomenti ed attoniti nel vedere familiari vittime di mafia conversare e dialogare con quegli avvocati che difendono gli assassini del proprio padre. Non è un mistero che la figlia di Borsellino ha più volte dato credito a certi legali che si sono ritrovati a difendere contemporaneamente i mafiosi stragisti e altri soggetti “ingiustamente” accusati e condannati.
Tra questi vi è Rosalba Di Gregorio che non è solo il difensore di una delle vittime delle bugie del falso pentito Vincenzo Scarantino (Gaetano MuranaGiuseppe La Mattina Cosimo Vernengndr) ma è già stata legale del boss corleonese Bernardo Provenzano ed anche del boss di Santa Maria del Gesù, Pietro Aglieri, entrambi membri della Cupola di Cosa nostra e condannati a vari ergastoli in via definitiva, anche per la strage di via d’Amelio.
Ognuno esercita la propria professione come meglio crede ed anche difendere i boss mafiosi è assolutamente legittimo, oltre che un diritto. E’ altrettanto chiaro che nella difesa dei propri assistiti vengono messi in campo tutti i mezzi a propria disposizione.
Basti pensare a ogni volta che si fa riferimento al tardivo deposito dei verbali dei confronti tra il “pupo” vestito, Vincenzo Scarantino, ed i collaboratori di giustizia Salvatore Cancemi, Mario Santo Di Matteo e Gioacchino La Barbera, che smentivano lo stesso picciotto della Guadagna. Si fa finta di non conoscere che su quell’operato vi è stata una sentenza del Gip di Catania che archiviò l’inchiesta aperta nei confronti dei sostituti procuratori di Caltanissetta, Annamaria Palma, Carmelo Petralia e Nino Di Matteo, denunciati dagli avvocati Di Gregorio, Marasà e Scozzola per “comportamento omissivo”. I giudici scrissero che quella condotta dei pm, che depositarono i verbali comunque entro la fine del processo “Borsellino bis”, era priva di alcun “comportamento omissivo”.
Ed è proprio così che va in scena la mistificazione dei fatti fino a generare un meccanismo perverso capace di offuscare le valutazioni di chi, con rabbia, cerca di ottenere giustizia per la morte del proprio padre.
Un condizionamento a cui, a quanto pare, Fiammetta Borsellino non si è sottratta. Perché altrimenti non si spiegherebbe tanta acredine nei confronti di un magistrato come Nino Di Matteo che proprio per la ricerca della verità sulle stragi ha sacrificato la propria vita.
E per comprendere ulteriormente la gravità di quel che sta accadendo bisogna ricordare un altro fatto riguardante l’avvocato Di Gregorio, ovvero quel che disse durante un’udienza del “Borsellino ter” l’ex boss di Porta Nuova e collaboratore di giustizia, Totò Cancemi.
Raccontò che un giorno, mentre si trovava in tribunale a Palermo, l’avvocato Di Gregorio gli aveva confidato di aver saputo che c’era un grosso corleonese latitante in contatto con i servizi segreti. Cancemi spiegò che il latitante a cui si faceva riferimento era Bernardo Provenzano (di cui l’avvocatessa fu difensore). La stessa Di Gregorio ha sempre smentito l’accaduto, ne diamo atto, ma a questo punto ci domandiamo: se si ritiene che Cancemi abbia detto il vero su Scarantino perché dovrebbe aver mentito sul legale?

Il senso della Commissione antimafia per Travaglio
Ma nella giornata di oggi abbiamo provato un senso di sgomento (anche se forse non ne siamo stati sorpresi) nel leggere l’editoriale su Il Fatto Quotidiano, di Marco Travaglio. Un collega stimatissimo con cui abbiamo condiviso anche tante battaglie in questi anni. Negli ultimi mesi ci stiamo rendendo conto che per quanto riguarda la vicenda Bonafede, le scelte del governo sulla lotta alla mafia, la mancata nomina di Nino Di Matteo, la questione scarcerazioni e Dap, ed il lavoro che sta conducendo la Commissione parlamentare antimafia del Presidente Nicola Morra, la vediamo in maniera profondamente diversa.
Pur riconoscendo che l’attuale governo ha fatto qualche buona legge e riforma (voto di scambio, spazzacorrotti, blocca-prescrizione) noi non ci accontentiamo dei provvedimenti recenti per cui i detenuti usciti dal carcere grazie al Covid-19 sono tornati in galera 50 su 223. E neanche ci sembra irrilevante la famosa circolare del 21 marzo del Dap, dal momento in cui è stata evidenziata da autorevoli magistrati come un “atto di impulso” anche laddove non si fa riferimento ad un ordine di scarcerazione. Non possiamo credere che Travaglio non ravvisi l’anomalia di un atto firmato il sabato da una funzionaria qualsiasi, anziché da un diretto responsabile, né l’anomalia di quella frase con cui si invita a comunicare “con solerzia alla Autorità giudiziaria, per le eventuali determinazioni di competenza”, il nominativo di quei detenuti che hanno più di 70 anni e sono affetti da determinate patologie.
Siamo d’accordo con Travaglio quando afferma che la mancata nomina di Di Matteo al Dap è una scelta “sbagliata del ministro Bonafede”, ma non condividiamo il resto dell’analisi dal momento in cui si sostiene che la Commissione parlamentare antimafia non avrebbe dovuto occuparsi di certi fatti. Proprio perché compito della Commissione, anche dove non ci sono responsabilità penali (di cui si occupano i Tribunali), è anche quello di fare delle ricerche sulle eventuali responsabilità politiche.
E quel che è avvenuto tra il 2018 e gli ultimi mesi, anche se può non esservi una relazione diretta, lascia trasparire proprio questa eventualità.
Inoltre, la Commissione parlamentare è sicuramente una sede migliore rispetto a quella televisiva, per approfondire certe tematiche tanto complesse quanto delicate.
Grazie al lavoro del Presidente Morra si è fatta luce su alcuni punti che erano rimasti oscuri in maniera inquietante, specie su quella mancata nomina di Di Matteo al Dap.
Checché se ne dica Di Matteo non ha mai accusato Bonafede in maniera diretta di essere stato “indotto” dalla mafia per quel voltafaccia sulla nomina del Dap.
Tuttavia è chiaro che dal momento che Bonafede era al corrente, come da lui stesso ammesso, di quelle relazioni del Gom sulle proteste dei mafiosi che non volevano Di Matteo a capo del Dap, l’unica risposta possibile, se davvero si voleva essere forti contro i desiderata dei boss, era nominarlo proprio in quel ruolo. Tutto il resto sono chiacchiere. Gli Affari penali, il Dag da riformare e quant’altro.
Perché quella clamorosa marcia indietro nel giro di 24 ore, anche se in buonafede o legittima, è stata di fatto un favore a quella mafia che aveva espresso il suo mancato gradimento.
In Commissione antimafia Di Matteo è tornato sul punto escludendo di essere a conoscenza di pressioni dirette dei mafiosi (“Se avessi avuto notizie di reato avrei avuto la sede per riferirle, ossia le procure della Repubblica, se avessi avuto elementi per ritenere che il ministro aveva cambiato idea perché indotto dai mafiosi lo avrei detto”) ma è stato ancora più specifico su quanto apprese direttamente per bocca del ministro della Giustizia su quel “niet” ricevuto (“Bonafede insistette più volte, e al momento di congedarci mi disse ‘ci sto rimanendo male, la prego di rifletterci, per quest’altro incarico non ci sono dinieghi o mancati gradimenti che tengano’”).
Dunque è chiaro che quel “diniego” proviene da personaggi potenti, in seno alle istituzioni.
Adesso è il Guardasigilli che dovrà dare i suoi chiarimenti e dovrà farlo senza poter mentire o trincerandosi dietro alla semplice scelta personale. Perché anche in quel caso, in virtù del fallimento della gestione Basentini, dimessosi dal Dap così come il funzionario che ha disposto la circolare del 21 marzo, Giulio Romano, è evidente che le scelte del ministro siano state totalmente fallaci. Eppure lui è ancora al comando del dicastero di via Arenula.
Per situazioni anche meno rilevanti Travaglio avrebbe crocefisso, giustamente, i “nemici della cavalleria” (da Berlusconi a Salvini, passando per Renzi, Meloni e affini), proprio in virtù di quello spirito del giornalismo: quella funzione di “cane da guardia” delle istituzioni e della politica, cavillando e criticando su ogni argomento proprio per rendere migliore ed efficace il buon governo.
Un “concetto etico” di cui parlava Pippo Fava e che abbiamo visto applicare ai Montanelli ai Biagi. A lungo anche dallo stesso Travaglio che, dobbiamo dare atto, non ha mai guardato in faccia a nessuno (fino a qualche mese fa) quando c’erano da raccontare i fatti. Oggi abbiamo l’impressione che qualcosa sia cambiato. O non è così?

P.S. E’ notizia dell’ultimo minuto che il Premier Giuseppe Conte, intervenuto in videocollegamento alla festa del fattoquotidiano.it, rispondendo ad una domanda di Peter Gomez sulla vicenda delle scarcerazioni durante il lockwdown, ha affermato di essere “sicuro e certo dell’operato di Bonafede”, il ministro della Giustizia, anche perché “nessun atto del Governo ha portato alla scarcerazioni dei boss” in maniera diretta, visto che “tutto è passato attraverso passaggi ordinari, ed è stato affidato al vaglio finale dei magistrati”. Queste parole sono l’ennesimo segnale del fallimento di questo governo sul fronte della lotta alla mafia laddove il Presidente del Consiglio si ritrova attorniato da soggetti quantomeno incompetenti se non, nella peggiore delle ipotesi, che vogliono convivere con la mafia.
Finché i nostri governanti non si renderanno conto che il problema numero uno in Italia, pari o superiore al Covid-19, è rappresentato dalla mafia, da Cosa nostra, dalla ‘Ndrangheta dai Sistemi criminali e dalla corruzione, il vero cambiamento del Paese sarà solo una speranza vana.