Gaetano Costa nasce a Caltanissetta il 1 marzo 1916, città dove studia, laureandosi nella facoltà di Giurisprudenza di Palermo Dopo aver vinto il concorso in magistratura arruolato come ufficiale nell’aviazione ottenendo due croci di guerra. L’8 settembre si unisce ai partigiani che stavano operando nella Val di Susa. Terminata la guerra, inizia a lavorare presso il tribunale di Roma e in seguito chiede il trasferimento alla Procura della Repubblica di Caltanissetta. Qui svolge la maggior parte della sua attività di magistrato prima come sostituto procuratore e poi come procuratore capo dimostrando alta preparazione professionale, indipendenza ed equilibrio. Nonostante apparisse freddo e distaccato e con poca inclinazione ai rapporti sociali, dimostrò sempre una grande umanità ed attenzione soprattutto nei confronti dei soggetti più deboli. Riuscì ad intuire sin dagli anni sessanta che la mafia aveva subito una radicale mutazione e che si era annidata nei gangli vitali della pubblica amministrazione controllandone gli appalti, le assunzioni e la gestione in genere. Riteneva, infatti, che un’efficace lotta alla mafia imponeva la predisposizione di strumenti legislativi che consentissero di indagare sui patrimoni dei presunti mafiosi e di colpirli. Nel gennaio del 1978 è nominato Procuratore capo di Palermo e nel momento dell’insediamento, consapevole di dover affrontare resistenze, dichiara: “Vengo in un ambiente dove non conosco nessuno, sono distratto e poco fisionomista. Sono circostanze che provocheranno equivoci. In questa situazione è inevitabile che il mio inserimento provocherà anche dei fenomeni di rigetto. Se la discussione però si sviluppa senza riserve mentali, per quanto vivace, polemica e stimolante, non ci priverà di una sostanziale serenità. Ma ove la discussione fosse inquinata da rapporti d’inimicizia, d’interlocutori ostili e pieni di riserve, si giungerà fatalmente alla lite”. Durante la sua gestione avvia una serie di delicatissime indagini nell’ambito delle quali tenta di penetrare i santuari patrimoniali della mafia. In particolare, firma di proprio pugno la convalida degli arresti di 55 mafiosi, in testa Rosario Spatola, fermati quattro giorni prima, subito dopo l’uccisione del capitano dei carabinieri Emanuele Basile. Proprio questo gesto coraggioso, insieme al fatto che Costa aveva messo gli occhi anche sugli appalti al Comune di Palermo, a partire da quello su sei scuole in mano a ditte facenti capo a Rosario Spatola a portare “Cosa nostra” a decidere di uccidere il magistrato. Fu assassinato il 6 agosto 1980, mentre si trovava da solo e senza scorta davanti a una bancarella di libri nella centralissima via Cavour, vicino alla sua abitazione. Fu raggiunto alle spalle da tre colpi di pistola sparatigli da due killer in moto. Il delitto venne ordinato dal clan mafioso capeggiato da Salvatore Inzerillo. Pur essendo l’unico magistrato a Palermo al quale, in quel momento, erano state assegnate un’auto blindata ed una scorta, non ne usufruiva ritenendo che la sua protezione avrebbe messo in pericolo altri e che lui era uno di quelli che “aveva il dovere di avere coraggio”. L’omicidio, di chiaro stampo mafioso, tutt’ora non ha un colpevole, sebbene la Corte di assise di Catania ne abbia accertato il contesto individuandolo nella zona grigia tra affari, politica e crimine organizzato. Il suo impegno fu continuato da Rocco Chinnici, allora tra i pochi che lo capirono e ne condivisero gli intenti e l’azione, e a cui, per questo, toccò la stessa sorte. Nel libro “È così lieve il tuo bacio sulla fronte”, edito da Mondadori, Caterina Chinnici ricorda l’abnegazione di Gaetano Costa con queste parole: “Nel febbraio 1982 – noi l’abbiamo scoperto dopo – papà andò in missione a Roma, sotto falso nome, a riferire al Consiglio Superiore della Magistratura cosa stava accadendo a Palermo. Raccontò di Costa, di come fosse stato lasciato solo a firmare un plico di ordini di cattura di cui nessuno voleva farsi carico, contro le famiglie Spatola, Inzerillo e Gambino. Disse che era stato ucciso per aver voluto compiere il suo dovere di magistrato, ed era esattamente così. Nessuno di quegli uomini – Costa, Scaglione, Terranova, Mattarella, Basile e gli altri che si aggiunsero alla lista nel 1981 – stava facendo altro che il proprio dovere”. Lo Stato ha onorato il suo sacrificio con il conferimento della Medaglia d’oro al merito civile per aver esercitato la propria missione ispirandosi al principio dell’indipendenza della funzione giudiziaria, con profondo impegno ed appassionata dedizione, distinguendosi per la particolare fermezza ed il rigore morale, pur consapevole dei rischi personali connessi alla sua funzione di Pubblico Ministero MINISTERO DELL’INTERNO
- Mio padre fu tradito
- L’omicidio del procuratore
- Il ricordo di Gaetano Costa – ANM
- Per non dimenticare Gaetano Costa – CSM
Gaetano Costa (Caltanissetta, 1° marzo 1916 – Palermo, 6 agosto 1980) è stato un magistrato italiano, ucciso da Cosa Nostra mentre ricopriva la carica di Procuratore Capo a Palermo.Nato a Caltanissetta, dove studiò fino alla maturità, si laureò in Giurisprudenza all’Università di Palermo. Sin dal liceo aveva aderito al Partito Comunista d’Italia, ai tempi del fascismo clandestino. Nel 1940, a 26 anni, vinse il concorso in Magistratura, ma fu subito arruolato come Ufficiale dell’Aviazione durante la Seconda Guerra Mondiale, ottenendo due croci di guerra, per poi raggiungere la Val di Susa unendosi alla Resistenza Partigiana. Immesso in ruolo come giudice istruttore a Roma, chiese e ottenne il trasferimento a Caltanissetta nel 1944, dove rimase fino al 1978.In quegli anni si occupò sistematicamente del fenomeno mafioso, con indagini sulla Banca Rurale di Mussomeli, la Banca Artigiana di San Cataldo, la filiale del Banco di Sicilia di Campofranco. Durante la visita a Caltanissetta della Commissione Parlamentare Antimafia, nel 1969, diede una lucida analisi della mafia che stava cambiando pelle e sugli appalti “solo formalmente regolari” nella pubblica amministrazione: “Ormai non esiste più un certo tipo di attività mafiosa, quella tradizionale, quella che si concretizzava nei sequestri, nei danneggiamenti, negli incendi, nell’omicidio… Ora, quando dopo la riforma agraria è venuto meno il latifondo, c’è stata la suddivisione dei feudi, la campagna si è impoverita e non rende più; in queste condizioni è evidente che non c’è convenienza, non è più un affare andare a controllare una campagna per stabilire che un determinato ladruncolo si orienta verso un pascolo piuttosto che un altro. La mafia, quindi, ha abbandonato virtualmente la campagna, date queste mutate condizioni. Penso che il complesso dei problemi sia rappresentato dall’amministrazione e che esso vada esaminato più a fondo.“
La nomina a Procuratore Capo di Palermo Nel gennaio 1978 fu nominato Procuratore capo di Palermo ma la reazione del “Palazzo” fu, in larga misura, negativa, tanto da far sì che si ritardasse la sua immissione in possesso sino al luglio di quell’anno perché il suo predecessore, Giovanni Pizzillo, si rifiutò di chiedere l’anticipato possesso. Insediatosi ad agosto, consapevole delle resistenze che avrebbe dovuto affrontare, dichiarò: “Vengo in un ambiente dove non conosco nessuno, sono distratto e poco fisionomista. Sono circostanze che provocheranno equivoci. In questa situazione è inevitabile che il mio inserimento provocherà anche dei fenomeni di rigetto. Se la discussione però si sviluppa senza riserve mentali, per quanto vivace, polemica e stimolante, non ci priverà di una sostanziale serenità. Ma ove la discussione fosse inquinata da rapporti d’inimicizia, d’interlocutori ostili e pieni di riserve, si giungerà fatalmente alla lite.“
Come raccontato dal figlio, fino alla fine di Natale venne tenuto sotto controllo dal sostituto procuratore aggiunto Martorana, che filtrava tutto quello che arrivava sulla sua scrivania. Inizialmente cercò di evitare il filtro, poi si scontrò duramente con l’aggiunto e cominciarono gli attacchi contro di lui[. Per sapere quello su cui stavano lavorando i suoi sostituti, faceva quelle che lui chiamava “perquisizioni domiciliari”: si alzava dalla sedia e si faceva un giro nelle loro stanze, sbirciando tra le carte.
L’indagine sul traffico di droga degli Spatola-InzerilloNei primi mesi del suo lavoro, Costa strinse un forte sodalizio con il capo dell’Ufficio Istruzione Rocco Chinnici: i due si incontravano spesso nell’ascensore di servizio per discutere delle indagini lontani da occhi e orecchie indiscrete[.
In quel periodo le indagini si stavano orientando sul filone della mafia italo-americana, il traffico di droga USA-Sicilia e le famiglie palermitane degli Spatola, dei Gambino e degli Inzerillo. Le indagini di Boris Giuliano, ucciso il 21 luglio 1979, poi proseguite dal capitano Emanuele Basile di Monreale, lambirono anche gli affari del Clan dei Corleonesi. Nel marzo 1980 erano stati ritrovati a Milano 40 kg di eroina purissima nelle custodie dei dischi di Esmeralda Ferrara, una cantante pop di Bagheria, che andava avanti e indietro dagli USA proprio per conto della famiglia dei Gambino. Costa voleva individuare gli assetti societari e bancari per risalire ai soci occulti delle famiglie mafiose e scoprire i meccanismi di riciclaggio dei narcodollari. Il 16 aprile Basile consegnò a Paolo Borsellino un rapporto, soprannominato “rapporto dei 55”, che sarebbe stato alla base degli arresti del 5 maggio 1980, all’indomani dell’uccisione proprio del capitano Basile. Il 9 maggio Costa convocò nel suo ufficio tutti i sostituti per convalidare gli arresti, ma alla fine fu costretto a rompere la consolidata prassi dell’unanimità e firmò da solo gli ordini di cattura. Gli avvocati dei mafiosi restarono di sasso e un paio di sostituti, per difendersi, scaricarono tutta la colpa su Costa, come disse poi la moglie Rita Bartoli in un’intervista al Corriere della Sera il 14 settembre 1983.
L’omicidio Il 6 agosto Gaetano Costa fu sfigurato verso le 19:30 dai proiettili di un killer solitario che lo aveva seguito da casa fin davanti a un’edicola libreria nella centralissima via Cavour. Il giorno dopo sarebbe dovuto partire per le vacanze per le Isole Eolie con la famiglia. Proprio il giorno dopo avrebbe avuto la scorta, fino a quel momento mai concessa. Ai suoi funerali parteciparono pochissimi magistrati, a riprova dell’isolamento in cui aveva vissuto fino al giorno della sua morte.
Indagini e Processi La morte di Gaetano Costa resta senza colpevoli, benché la Corte d’Assise di Catania individuò l’origine nella zona grigia mafia-economia-appalti. Ufficialmente quindi l’omicidio Costa non ha ad oggi né mandanti né esecutori condannati. Il 4 agosto, due giorni prima dell’omicidio, i poliziotti avevano fermato sotto l’abitazione di Costa Totuccio Inzerillo, giovane trentaduenne appartenente a una delle famiglie colpite dagli ordini di cattura firmati dal Procuratore Capo. Il giovane, che pure aveva insospettito gli agenti, venne subito rilasciato. Una settimana dopo l’omicidio Costa si presentò spontaneamente in Procura accompagnato dal suo avvocato, si sottopose all’esame del guanto di paraffina ma venne rilasciato prima dell’esito dell’esame. Tre anni dopo la magistratura catanese spiccò contro di lui un mandato di cattura per omicidio, senza però che potesse essere eseguito. Ciononostante, negli anni diversi collaboratori di giustizia (da Tommaso Buscetta a Francesco Marino Mannoia, da Giovanni Brusca a Francesco DI Carlo) indicarono la matrice mafiosa del delitto, sostenendo che l’omicidio fosse stato ordinato da Salvatore Inzerillo per dimostrare all’interno di Cosa Nostra la supremazia delle famiglie palermitane rispetto ai Corleonesi, che agli albori della Seconda Guerra di Mafia uccidevano senza l’autorizzazione della Commissione. WIKI MAFIA