BENITO MORSICATO, «Cosa nostra non è finita. È ancora forte»

 

 

NUOVO PENTITO NEL CLAN DI BAGHERIA: BENITO MORSICATO

Era finito in cella durante l’operazione “Reset” ai primi di giugno. Ora Benito Morsicato, 35 anni, ha deciso di “saltare il fosso” e collaborare con la giustizia rivelando inediti retroscena su affari ed estorsioni commessi dai boss. A rivelarlo è l’edizione locale di Repubblica Palermo. Nei giorni scorsi è stata prelevata da Bagheria l’intera famiglia, la moglie ed i due figli, e condotta in un luogo sicuro. Le indagini coordinate dai pm Francesco Mazzocco e Caterina Malagoli l’avevano sorpreso mentre spiegava come comportarsi con chi non voleva piegarsi al racket: “Prendi un bidoncino da venti, lo rovesci per terra, lo fai svuotare tutto e così succede il viva Maria – riferiva a un suo giovanissimo complice – perché qua come vai con un litro non fai niente, qua minimo devi rovesciargli il bidone di venti litri per terra”. Morsicato era impiegato del consorzio che si occupa del servizio di nettezza urbana in 21 comuni della provincia di Palermo e secondo gli inquirenti potrebbe svelare il business dei rifiuti di Cosa nostra.  Pur non essendo un uomo di punta il suo pentimento assume comunque un certo valore considerato che si tratta di un soldato della famiglia mafiosa di Bagheria, ovvero una di quelle che negli ultimi tempi era tornata ad assumere un ruolo di vertice all’interno della città. ANTIMAFIA DUEMILA 1.7.2014

 

UN NUOVO PENTITO… video

 

L’INTERVISTA/Prima parte. Parla il collaboratore di giustizia siciliano

 Benito Morsicato: «Non ho mai ammazzato nessuno. Ho deciso di collaborare per liberarmi la coscienza». Abbiamo deciso di dividere in più parti la conversazione, per affrontare nel miglior modo possibile tutti gli argomenti trattati. Sul vigliacco latitante Matteo Messina Denaro: «È lui che ha un curriculum di tutto rispetto che può prendere il posto di Provenzano e Totò Riina. È lui che ha 25 anni di latitanza (dal 1993, nda), ma lo tengono fuori loro. Quello è a casa sua, a Castelvetrano. Loro lo sanno che se lo prendono mettono in ginocchio la politica italiana. Nel 2014, quando ho collaborato, e ho cominciato a parlare di Matteo Messina Denaro ho avuto un casino di problemi. Poi ho scoperto che un carissimo amico d’infanzia di Matteo Messina Denaro, faceva parte della Commissione Antimafia. (regionale siciliana, nda)».

Non lo abbiamo cercato noi. L’incontro è nato quasi per caso. Dopo la risposta di Luigi Coppola all’avvocato Antonio Bucci (sulla vicenda di un altro collaboratore di giustizia, in questo caso di camorra, Fiore D’Avino) è arrivata la precisazione di Benito Morsicato. Un collaboratore siciliano, oggi fuori dal programma di protezione, residente a Bagheria. In passato amico (in affari) di un nipote di Matteo Messina Denaro. «Bagheria è sempre stata molto vicina a Castelvetrano». Ma cosa aveva detto di tanto fastidioso il testimone di giustizia campano? «…non comprendo minimamente questa sua uscita mediatica e quasi diffamatoria per i tanti testimoni di giustizia che, per colpa di alcuni delinquenti diventati poi dei santi con il pentimento, si sono rovinati la vita perdendo aziende, famiglie e un futuro tranquillo. …dico a lei se è giusto che chi prima ha estorto, rubato e magari anche sparso del sangue nelle nostre strade, debba essere considerato una fortuna per lo Stato».

Le parole del testimone Coppola hanno provocato la reazione del pentito. Questo è il messaggio che abbiamo ricevuto: «Mi chiamo Morsicato Benito e sono un collaboratore di giustizia. In merito a quello che sostiene l’avvocato (testimone di giustizia, nda) Luigi Coppola mi sento molto offeso e discriminato. Vorrei parlare con voi». E siccome noi diamo parola a tutti, abbiamo deciso di raccogliere un altro punto di vista, proveniente dall’altra parte della barricata. E abbiamo raccolto la sua replica: «Non voglio offendere nessuno. Chi denuncia va rispettato. Al testimone di giustizia Coppola voglio dire che i collaboratori non sono tutti uguali. Il mio pentimento non è stato di convenienza. Il mio desiderio è stato quello di ripulirmi la coscienza. Non bisogna mai fare di tutta un’erba un fascio».

Con Morsicato, però, siamo partiti dall’inizio. Dalla sua esperienza “criminale” sino alla collaborazione con la giustizia. Senza tralasciare la sua esperienza nel programma di protezione, i legami del vigliacco Matteo Messina Denaro su Bagheria (parenti e amante compresa) e tante altre cose. Abbiamo parlato del suo passato e del suo presente. «Il mio futuro lo vedo dentro una bara. Perché Cosa nostra non dimentica».

Ma perché Morsicato è un collaboratore di giustizia?

«La mia collaborazione inizia nel 2014. Sono stato raggiunto da un’ordinanza, per l’operazione Reset, dove è stato smantellato tutto il mandamento della provincia di Palermo. Dopo 10 giorno dal mio arresto ho deciso di collaborare con la giustizia. Per dare un futuro migliore ai miei figli.»

Prima di essere arrestato di cosa faceva parte?

«La mia carriera stava per nascere. Ero un uomo del racket. Raccoglievo solo le estorsioni.»

Che significa “la mia carriera stava per nascere”?

«La mia carriera criminale stava per nascere. Non sono un vero e proprio criminale. Ma ho deciso subito di troncare questa situazione. Ho visto che non era quello che meritavano i miei figli.»

Lei ha fatto parte di Cosa nostra?

«Sì, dal 2011. Ero un ragazzo molto sveglio, un ragazzo di strada. Sapevo chi comandava nel paese, chi erano le persone che facevano parte di Cosa nostra…».

Mi scusi, quale paese?

«Bagheria.»

Quanti anni aveva?

«A 12, 13 anni ero già in giro con gli amici. Anzi ci sono parecchi amici d’infanzia che oggi, purtroppo, non ci sono più, che sono stati ammazzati.»

Era un bullo?

«Non direi, non ho mai picchiato nessuno.»

E cosa faceva con questi suoi amici?

«Qualche furtarello, ragazzate. Però poi, negli anni, prendi fiducia di questi soggetti e ti inseriscono dentro Cosa nostra.»

Quindi lei è stato avvicinato per essere inserito in Cosa nostra?

«Sono stato avvicinato a Cosa nostra perché nel 2011 mia sorella si frequentava con un soggetto di Bagheria definito dalle Procure come il capodecina del mandamento mafioso di Bagheria.»

Come si chiamava questo soggetto?

«Giorgio Provenzano.»        

Parente di Binnu Provenzano?

«Non so se hanno una parentela. Da quel momento questa persona mi ha preso a simpatia. Lui era appena uscito dal carcere. Il mio non è stato un inserimento vero e proprio. È cominciato che lo accompagnavo in alcune riunioni. In macchina si parla, una parola tira l’altra. Lui mi raccontava alcune cose. E mi cominciò a dare le estorsioni, poi c’è stata la famosa rapina clamorosa, alla TNT di Campobello di Mazara di Trapani. Dove abbiamo avuto l’autorizzazione direttamente degli eredi di Matteo Messina Denaro, altrimenti la rapina non si poteva fare. Siamo stati autorizzati a fare questa rapina, con il patto che il 10% veniva lasciato al paese per garantire la latitanza di Matteo Messina Denaro.»  

Gli “eredi di Matteo Messina Denaro” stanno in galera?

«Sì, sono i nipoti del cuore di Matteo Messina Denaro.»

Poi ci arriviamo. Quando entra ufficialmente in Cosa nostra?

«Con la scusa che lo accompagnavo. E non è che lui (Provenzano, nda) andava a comprare la frutta. Si vedeva con altri soggetti mafiosi degli altri mandamenti. Tipo delle riunioni. Di solito le facevano sulla scogliera del mare, per evitare cimici. Si incontravano anche sulle barche, diciamo in zone molto isolate. In alcuni episodi ha preteso che lo accompagnassi anche armato.»

Vuole spiegare meglio?

«C’erano dei poblemi tra alcuni mandamenti, tra Bagheria e Villabate. Degli screzi. E allora, per sicurezza, un giorno mi disse: ‘mettiti questa sopra, non si può sapere mai. Comincia a sparare, tu non guardare chi spara. Spara e basta’. Fortunatamente non c’è stata questa esigenza.»

Ma questo Provenzano le fa una richiesta esplicita per entrare in Cosa nostra?

«Non c’è mai la richiesta diretta, si capisce. Si comincia con semplici accompagnamenti. Quando ha capito che ero molto sveglio… un giorno mi disse in macchina: ‘senti, da domani ti autorizzo io. Cominci a girare per tutti i locali, senza saltarne uno’. Noi avevamo il monopolio delle slot machine. Praticamente ogni slot dentro un bar doveva pagare, ogni mese. Poi lui voleva rinnovare questa cosa e voleva pretendere un euro al giorno per ogni slot in tutti i locali.»

Ma il monopolio non è dello Stato?

«Quello legale. Poi c’è quello illegale che ce l’ha la mafia. Parliamoci chiaro…».

Prego…

«Oggi dicono tutti che la mafia ha abbassato la testa. Ma la mafia non ha abbassato la testa. Se ne arrestano 100 oggi, già domani mattina ci sono pronti quelli che prendono il loro posto.»

Lei sta dicendo che Cosa nostra oggi è forte come prima?

«Sì. Perché non è più la Cosa nostra di prima.»

Può spiegare meglio?

«Dopo Totò Riina parlo io. Ricordo, quando ero piccolino, chi comandava il paese, i famosi boss del paese, non hanno mai permesso l’ingresso nemmeno un grammo di hashish e di altri tipi di sostanze stupefacenti.»

Cosa vuole dire?

«Chi comandava a quel tempo non voleva droghe nel paese dove comandava. Facevano business con gli appalti. Non gli interessava la droga.»

Parliamo, comunque, sempre di delinquenti sanguinari.

«Sì, ci mancherebbe. Non delinquenti, peggio. Poi si è scoperto che nel mio paese non entravano queste sostanze, era un paese abbastanza tranquillo e ordinato, poi si è saputo, negli anni, che soggiornava Provenzano in questo paese

Il latitante Provenzano?

«Sì, praticamente abitava a 100 metri da casa mia. Dietro casa mia.»

Lei era a conoscenza di questa latitanza?

«No.»

Quando l’ha saputo?

«Quando cominciò a parlare il collaboratore Lo Verso, poi Sergio Flamia. Che sono dei grossi collaboratori. Lo Verso era l’autista di Provenzano, mentre Flamia era il killer di Provenzano che ha collaborato e si è autoaccusato di 40 omicidi. Ma comunque quando ho visto Provenzano non era la prima volta che lo vedevo sto signore.»

Senza sapere chi fosse?

«Ma comunque diverse persone a Bagheria hanno detto che lo vedevano passeggiare. Ma tutto potevano pensare, ma non che fosse Provenzano.»

E lei come se la spiega questa lunga latitanza?

«Lo Stato ci ha sempre imbrogliati e non hanno detto mai la verità. Totò Riina è stato consegnato da Provenzano, la famosa Trattativa Stato-mafia. Provenzano gli ha consegnato Totò Riina per finire il periodo stragista. E lo Stato ha fatto un patto, garantendo la libertà a Provenzano. Come si fa a stare 43 anni latitante? Ma stiamo scherzando?»     

E Provenzano da chi è stato consegnato?

«Provenzano si è costituito da solo. Dopo 43 anni di latitanza, guarda caso, lo vanno a prendere quel giorno che esce la mano dal casolare per prendere il formaggio. Quella è stata una cosa tutta organizzata.»

Lei sa che undici anni prima, nel 1995, si è registrato il mancato arresto a Mezzojuso?

«Ce ne sono stati diversi. A Bagheria abbiamo la clinica Santa Teresa, costruita dall’ing. Aiello, che gli hanno sequestrato 700 milioni di euro di beni, tutti risalenti a Provenzano. Questa clinica è stata costruita per curare Provenzano. È l’unica in Europa con determinati macchinari. Vengono anche dalla Francia per fare delle risonanze magnetiche.»

E perché Provenzano va a Marsiglia a farsi operare alla prostata?

«Perché ancora la Clinica non era nata. Il soggetto che l’ha creata era vicino a diversi politici, nel momento in cui è stato messo sotto sorveglianza sa chi ci andava ad avvisarlo di questi controlli?»

Lo dica lei.

«Proprio chi metteva le cimici e lo teneva sotto controllo.»

Chi è il soggetto?

«L’ing. Aiello. Veniva avvisato dalle alte istituzioni che era stato messo sotto controllo e all’epoca ci sono stati parecchi arresti tra mafia, politica, marescialli, colonnelli. Sono stati tutti arrestati. Il tempo che mettevano Provenzano, o chi vicino a lui, sotto sorveglianza loro lo sapevano già in anticipo. Sapevano dove mettevano le telecamere, erano informati.»

Quindi, secondo lei, la Trattativa c’è sempre stata?

«Anche quando hanno arrestato Riina… guarda caso, la mancata perquisizione al covo. Hanno dato il tempo a Provenzano o chi era molto vicino a lui di avere la possibilità di svuotare la cassaforte. In quella cassaforte che c’era in quel villino c’erano dei documenti che oggi metterebbero l’intera politica in ginocchio. Noi in Sicilia abbiamo i killer, gli esecutori. I mandanti sono Roma, è la politica. I pezzi grossi dello Stato. Oggi Matteo Messina Denaro ha avuto questi documenti da Provenzano prima che lo prendessero. Sono il lasciapassare.»

Secondo lei il latitante Matteo Messina Denaro risiede in Sicilia o altrove?

«Un boss che si allontana dalla sua zona, anche se è un capo grande, perde il potere.»

Matteo Messina Denaro è il capo di Cosa nostra?

«Sì, lui ha preso il posto. È lui il numero uno, è lui che ha un curriculum di tutto rispetto che può prendere il posto di Provenzano e Totò Riina. È lui che ha 25 anni di latitanza (dal 1993, nda), ma lo tengono fuori loro. Quello è a casa sua, a Castelvetrano. Loro lo sanno che se lo prendono mettono in ginocchio la politica italiana. Nel 2014, quando ho collaborato, e ho cominciato a parlare di Matteo Messina Denaro ho avuto un casino di problemi all’interno del Servizio. Poi ho scoperto che un carissimo amico d’infanzia di Matteo Messina Denaro, faceva parte della Commissione Antimafia (regionale siciliana, nda).»

Questo soggetto è ancora presente nel panorama politico?

«No. Questa cosa è stata lamentata dal figlio del collaboratore Cimarosa in una intervista televisiva. E ha mostrato anche la foto».

Chi c’era nella foto?

«Matteo Messina Denaro, la sorella, il cognato e lui. In una foto di un matrimonio. Quella foto è stata fatta nel 1993, dalla sera di quel matrimonio comincia la latitanza di Matteo Messina Denaro.»

Come si chiama questo politico?

«Giovanni Lo Sciuto.»

Ritorniamo al suo ingresso in Cosa nostra.

«Non sono stato affiliato a tutti gli effetti. Uscivo con Provenzano, piano piano mi ha cominciato a dare degli incarichi. ‘Vai – tipo – nell’altro paese a Villabate che ti devono dare dei soldi delle estorsioni, vai là e dici che ti mando io. Vai a fare un attentato in quel negozio che non vuole pagare, bruciamoci la saracinesca’. E piano piano si prende fiducia e poi arrivano gli incarichi più grossi.»

Non c’è stato un giuramento, una cerimonia di affiliazione?

«No, ma se continuavo sì. Poi se continuavo venivo messo in regola, con la punciuta.»   

Lei che reati ha commesso?

«Sono stato arrestato…»

Prima dell’arresto, che reati ha commesso?

«Furto, tanti anni fa prima che mi sposavo, ero imputato di una rapina. Non cose legate alla mafia.»

Quali sono i reati legati alla mafia?

«Estorsioni, danneggiamenti… comunque sono stato arrestato solo per un danneggiamento. Potevo rischiare due anni, ma poi mi son voluto pulire la coscienza e ho parlato di tutto, anche di cose che non ero completamente indagato.»

In che anno viene arrestato?

«Nel 2014. Il 5 giugno del 2014.»

Quando decide di “saltare il fosso”?

«È una cosa un po’ strana. La mia collaborazione inizia il 21 giugno (2014, nda), il giorno del mio compleanno. Ero in carcere e sento in tv Papa Francesco che rinnova l’appello e dice ‘mafiosi, inginocchiatevi’. Non so quello che mi è successo, ho cominciato a pensare ai miei figli, sono cominciate a girare tante cose in testa. Mi sono alzato, ho chiamato il secondino e ho detto che volevo parlare subito con il PM.»  

Come inizia la sua collaborazione?

«Appena ho aperto bocca, loro su questa rapina non sapevano neanche da dove cominciare e nemmeno ero indagato, mi hanno bloccato subito, dicendomi che la mia collaborazione era molto importante. E, infatti, dopo due giorni si son portati subito la famiglia.»

La vuole raccontare anche a noi questa rapina? Perché è così importante?

«La rapina è stata fatta vestiti da poliziotti, con le macchine, i lampeggianti, le palette, le casacche…»

E questo materiale dove è stato preso?

«Lo abbiamo fatto a Bagheria. Le pettorine le abbiamo fatte stampare presso una tipografia. I lampeggianti, le palette provenivano da furti. Non ci mancava niente.»

Quanti eravate?

«Otto persone, anche il nipote di Matteo Messina Denaro. Bellomo, il soprannome era “Luca”. La moglie di Bellomo, l’avvocatessa, è la nipote di Matteo Messina Denaro.»

Bagheria è territorio di Matteo Messina Denaro?

«Sì, lui ha tutti i cognati che abitano ad Aspra, frazione di Bagheria. Ho rilasciato anche dichiarazioni sul fratello dell’amante di Matteo Messina Denaro, perché gli ho venduto delle armi prima che mi arrestassero.»

L’amante di Matteo Messina Denaro?

«Sì, è stata anche condannata per favoreggiamento al latitante. È stata anche seguita un paio con la speranza che li portava al covo del latitante. È la segretaria dei cognati di Matteo Messina Denaro, lavora presso i Guttadauro. Sui Guttadauro ho rilasciato dichiarazioni, li ho fatti arrestare.

Il pentito: «Matteo Messina Denaro è un pezzo di merda. Voglio parlare con Di Matteo» «Ho chiesto, per avvenimenti molto importanti, di poter parlare solo con il PM Di Matteo, per delle cose che sono successe nell’89, che ho visto di presenza. Mai nessuno mi ha fatto parlare con il dott. Di Matteo. Sono cose molto importanti…». Nella prima parte dell’intervista – il pentito di mafia – ha raccontato il suo avvicinamento a Cosa nostra e la sua decisione di “saltare il fosso”. Senza dimenticare i legami tra Bagheria, il posto in cui è tornato a vivere, e la mafia di Castelvetrano. «Dietro casa mia ci fu il famoso omicidio della mamma, della sorella e della zia di Mannoia. Ero presente, ho visto tutto.»

Il vigliacco di ‘Cosa nostra’, Matteo Messina Denaro

Bagheria, Sicilia. Baarìa (che significa Porta del Vento), l’antico nome della bellissima città siciliana, conosciuta al grande pubblico anche grazie al regista Tornatore, che ha raccontato 50 anni di storia, di lotte e di conquiste di tre generazioni. Il protagonista, il comunista Peppino Torrenuova, alla fine del film, spiega al figlio, in un breve dialogo, un concetto filosofico: “Papà, perché tutti pensano che abbiamo un brutto carattere? Forse perché è vero. Oppure? Oppure perché ci crediamo di poter abbracciare il mondo, ma abbiamo le braccia troppo corte».  

In questo paese vive un collaboratore di giustizia. Si chiama Benito Morsicato. Le sue dichiarazioni hanno aperto le porte del carcere per i fiancheggiatori di Matteo Messina Denaro. La “primula rossa” di Cosa nostra. Latitante da 27 anni. «Quello è a casa sua, a Castelvetrano. Loro lo sanno che se lo prendono mettono in ginocchio la politica italiana. Nel 2014, quando ho collaborato, e ho cominciato a parlare di Matteo Messina Denaro ho avuto un casino di problemi all’interno del Servizio. Poi ho scoperto che un carissimo amico d’infanzia di Matteo Messina Denaro, faceva parte della Commissione Antimafia (regionale siciliana, nda)». Per Binnu Provenzano sono serviti quasi 50 anni di latitanza. Per questo tizio quanto tempo ancora dobbiamo aspettare? C’è ancora una schifosa Trattativa in corso tra lo Stato e Cosa nostra? Chi sta proteggendo il vigliacco di Castelvetrano? È lui il Capo dei Capi?

Nella seconda parte (e ultima parte) dell’intervista siamo partita dalla rapina alla TNT di Campobello di Mazara di Trapani. «Dove abbiamo avuto l’autorizzazione direttamente degli eredi di Matteo Messina Denaro».     

Cosa avete rapinato?

«L’azienda TNT era dei fratelli Lupo, persone molto vicine anche ai Graviano di Brancaccio, gli hanno sequestrato tutti i beni, per milioni di euro. Quando la TNT passa nelle mani dello Stato diventa rapinabile.»

Che significa? Qual è la logica?

«La logica è questa: ‘lo Stato si è presa la TNT e io ti vengo a fare la rapina e te la svuoto’.»

Cosa avete rapinato?

«Seicento colli, tra articoli di gioielleria. Abbiamo venduto la merce intorno ai 200mila euro. Di cui più del 10% è rimasto a Castelvetrano. Nel novembre 2013 abbiamo fatto la rapina, nel dicembre 2013 sono scattati gli arresti della sorella di Matteo Messina Denaro, insieme ad altri suoi parenti e persone molto vicine a lui. Guarda caso, quando stavamo vendendo la merce e avevamo incassato intorno ai 60-70mila euro, si presentò il nipote di Messina Denaro, Francesco Guttadauro, perché aveva esigenze di soldi. Non per lui, ma per lo zio. Infatti gli consegnammo intorno ai 10mila euro perché servivano subito i soldi.»

Senta, dobbiamo chiarire un punto. Lei, all’inizio, ha affermato di aver commesso furti, rapine, estorsioni, danneggiamenti, ma ha affermato di non essere un criminale. Perché lei sostiene di non essere un criminale?

«Perché io non ho fatto il collaboratore per convenienza e non ho omicidi sulle spalle. Non mi ritengo un criminale, certo ho sbagliato. Però c’è differenza fra me e un soggetto che ha fatto degli omicidi. C’è una differenza enorme.»

Secondo lei, una persona che commette furti, rapine, estorsioni, danneggiamenti è o non è un criminale?

«È un criminale.»

Lei si sente cambiato?

«Al 70%, sì.»

Quanti anni ha?

«Ho 42 anni e due bambine. Una il prossimo anno mi diventa maggiorenne e una bambina di 13 anni.»

Per quanti anni lei è stato criminale?

«Sono stato ladruncolo, mi definisco ladruncolo…»

Lei si definisce ladruncolo però, ripeto, lei ha confermato che ha commesso rapine, danneggiamenti, estorsioni. Non è proprio un ladruncolo.

«Ero un criminale quando ho fatto parte di Cosa nostra, a tutti gli effetti. Prima ero un ladruncolo. Voglio precisare: quello che ho fatto non è bello.»

La sua vita, che sta rinnegando, quanti anni è durata?

«Dal 2011 vicino a Cosa nostra.»

Quindi se lei ha iniziato con piccoli furti a tredici anni ed oggi ne ha 43, possiamo dire che ha fatto questa vita per trent’anni?

«Dai 13 ai 23. Poi mi ero sposato, ho allontanato amici, mi ero trovato anche un lavoro presso il Comune, ho fatto quindici anni l’autista. Poi mi sono avvicinato a questa persona (Giorgio Provenzano, nda) e mi sono rimesso di nuovo in questi affari sporchi. Ho perso il lavoro e ho perso tutto.»

A parte la rapina, di cosa ha parlato con i giudici durante la sua collaborazione?

«Ho parlato del mandamento della provincia di Palermo, del capodecina, della “testa dell’acqua”.»

Cos’è la “testa dell’acqua”?

«Il capo in assoluto.»

Quante persone ha fatto arrestare?

«Nell’operazione Reset ho confermato le accuse su 31 soggetti, in tutto intorno alle 60 persone

Comprese le due operazioni: Eden1 ed Eden2?

«Sì, grazie alle mie dichiarazioni, le operazioni sono state Reset1, Reset2, Eden1 ed Eden2. Un altro collaboratore, Salvatore Lo Piparo, ha confermato tutte le cose che ho detto io.»

Le operazioni Eden1 ed Eden2 hanno interessato i fiancheggiatori di Matteo Messina Denaro?

«Sì, tutti i parenti di Matteo Messina Denaro e le persone molto vicine a lui.»

Questi fiancheggiatori sono tutti appartenenti a Cosa nostra o ci sono anche dei “colletti bianchi”?

«Di “colletti bianchi” non ne ho parlato. Anche se sapessi qualcosa dei “colletti bianchi” non parlerei. Questa cosa l’ho detta anche ai magistrati.»

Per paura?

«Sì.»

Di cosa ha paura?

«Nel 2014, quando ho iniziato la mia collaborazione, dissi telefonicamente a mia moglie, ero stato autorizzato dalla Procura di Palermo a poter telefonare ogni giorno dieci minuti solo a mia moglie per sentire lei e le bambine, loro già si trovavano in una località segreta e io in un carcere definito località segreta. Ero a Frosinone.»

Cosa disse a sua moglie?

«A mia moglie dissi telefonicamente, perché era stata autorizzata a fare un incontro con i genitori in località segreta, di portarmi degli appunti, avevo il vizio di segnarmi tutto anche quando facevo parte dell’organizzazione mafiosa…»

E che succede?

«Mia moglie viene accompagnata con la scorta ad incontrare i genitori e guarda caso viene fatto il furto nella macchina di scorta. Vengono rubate le due valigie dove all’interno c’erano gli appunti, le cose che dovevo dichiarare ai PM.»

È gravissimo ciò che sta dicendo. In questi appunti cosa c’era scritto?

«Purtroppo non lo posso dire.»

Ma parliamo di fiancheggiatori, di “colletti bianchi”?

«Erano degli avvenimenti in cui mi segnavo la data.»

Avvenimenti legati a Matteo Messina Denaro?

«Sì, alla mafia di Bagheria. Da quel momento ho capito che, forse, stavo alzando un po’ il tiro.»

Dove avviene questo furto?

«A Roma.»

Lei sta affermando che…

«C’è una denuncia…»

Lei ha affermato che ha chiesto, telefonicamente, a sua moglie degli appunti per poter fare delle dichiarazioni ai PM. Questi appunti, quando sua moglie viene accompagnata nella località protetta, spariscono. È così?

«Sì. Mia moglie era dentro al centro commerciale, si avvicina uno della scorta, che erano in quattro, e dice: ‘purtroppo è successa una cosa, hanno rotto la macchina e si sono fregate le valigie. Fortunatamente non hanno toccato la paletta, il lampeggiante e la carpetta con tutti i documenti. Hanno preso solo le valigie’.            

Mi scusi, ma come potevano sapere che in quelle valigie c’erano i suoi appunti?

«Le telefonate, sicuramente, erano controllate. Lo sa dove è avvenuto lo stesso furto, nello stesso periodo? Sempre su Matteo Messina Denaro. Così ho collegato…»

Dove è avvenuto?

«Al Tribunale di Palermo, nell’ufficio della Principato. Sparito un PC con le chiavette, dove c’erano tutte le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia e delle importanti prove su Matteo Messina Denaro. Dentro la Procura. E allora mi son messo un po’ di paura.

Poi ho chiesto, per avvenimenti molto importanti, di poter parlare solo con il PM dott. Di Matteo, per delle cose che sono successe nell’89, che ho visto di presenza. Mai nessuno mi ha fatto parlare con il dott. Di Matteo. Sono cose molto importanti…»

Cosa era successo nell’89?

«Dietro casa mia ci fu il famoso omicidio della mamma, della sorella e della zia di Mannoia (in via De Spuches vengono massacrate Leonarda Cosentino, Vincenza Marino Mannoia e Lucia Cosentino, madre, sorella e zia di Francesco Marino Mannoia, nda). Io ero là, ho visto tutto. Sono stato uno dei primi ad avvicinarsi. Ancora oggi ho l’immagine davanti.»

Lei cosa ha visto?

«Mi ricordo anche che è venuto il dott. Falcone. Ero bambino, avevo 12 anni.»

Ha visto anche chi ha commesso il massacro?

«Ero là, presente. Dico solo questo. Attualmente, dietro casa mia, ancora c’è la casa di Mannoia. La casa è sua.»

È stato mai sentito su questi fatti?

«No, ho visto dei soggetti qua. Io conoscevo un soggetto, oggi dichiarato morto ma non è vero. È in America. Lo hanno messo come “lupara bianca” ma non è vero.»

Se la sente di fare il nome?

«No. Mai nessuno mi ha fatto avvicinare a parlare con Di Matteo. Ho visto delle persone a Bagheria su cui oggi alcune Procure stanno lottando, in merito alla Trattativa Stato-mafia. E uno di questi soggetti l’ho visto, in compagnia di questa persona che si trova negli Stati Uniti. Quello è vivo.»

Quelle persone, che lei dice di avere visto quel giorno dell’89, sono “ritornati” nella sua vita?

«Non erano della zona queste persone. Un soggetto di questi che faceva parte dei servizi segreti, l’ho visto in compagnia di questa persona che conoscevo. Durante gli anni ho rivisto questa persona in tv, perché ha un particolare. È riconoscibile da un particolare.»

Lei sta parlando di un soggetto appartenente ai servizi segreti, con un particolare riconoscibile. Era presente il giorno del massacro?

«Un paio di giorni prima che succedesse questo efferato omicidio l’ho visto. Erano in tre: il soggetto, oggi deceduto, con il particolare riconoscibile; il mio conoscente dichiarato morto e un’altra persona e ricordo un particolare, era pure zoppo. Ed era abbastanza alto, intorno al metro e ottanta.»

Mi scusi, stiamo parlando di “Faccia da mostro”?

«Mi avvalgo della facoltà di non rispondere. Non voglio rispondere.»

E lo zoppo dove lo mettiamo, in Cosa nostra o negli apparati dello Stato?

«Negli apparati dello Stato e in Cosa nostra.»

Senta, ma il terzo?

«Era un politico. Legato a Cosa nostra. Questo signore divideva le fatture dell’acqua, poi diventò un grosso imprenditore. E i miliardi non sapeva più dove metterli.»

Mi scusi, lei vuole parlare con Di Matteo. Ma perché queste dichiarazioni non le ha fatte quando era all’interno del programma?

«Già sono stato sentito su alcune cose, prima che uscissi dal programma. Ma ne voglio parlare solo con Di Matteo.»

Come nasce il rapporto di amicizia con il nipote di Matteo Messina Denaro?

«L’ho conosciuto grazie alla mafia bagherese. Nel periodo che si stava organizzando quella rapina ho avuto modo di conoscere questo soggetto».

Chi è per lei Matteo Messina Denaro?

«Un pezzo di merda.»

Cos’è per lei Cosa nostra?

«Parliamo sempre di letame. Questo penso oggi. Se si ribellassero tutti la mafia finirebbe. Finché c’è quello che abbassa la testa o permette di fare affari la mafia non finirà mai. Se prende il boss di Bagheria, lo prende da solo, è un verme. Un cacasotto. Si fanno forza a comandare delle persone per fare del male. Si fanno forza con il gruppo.»

Lei non ha paura a vivere a Bagheria?

«La paura c’è, la mafia non dimentica. Io sono scritto nel libro nero della mafia. Me la farà pagare. L’ho messo in conto.»

Come vive a Bagheria?

«Non ho rapporti con nessuno. Sono totalmente emarginato. Non esisto. Vado a fare la spesa a 20 km da casa mia.»

Perché è rientrato a Bagheria?

«Ho chiesto di essere capitalizzato. Non funzionava niente all’interno del programma. Mi dovevano dare una somma e mi hanno dato meno del 50%.»

È rientrato a Bagheria per motivi economici?

«Sì.»

Lei oggi come vive?

«Non ho il reato per mafia, ma solo per aver agevolato Cosa nostra. Vivo con il reddito di cittadinanza in attesa di un lavoro. Oggi ringrazio lo Stato che mi dà la possibilità di dare a mangiare ai miei figli.»

Ha ricevuto minacce?

«È stata presa di mira di mia figlia. Si è dovuta ritirare da scuola. Sono dieci mesi che denunciamo, il PM dice che è semplice bullismo. E le minacce continuano. La chiamano ‘la pentita’, ‘la figlia del pentito’. Come può vivere una ragazzina? I genitori delle sue amiche non vogliono che mia figlia esca con loro. Anche mia moglie è stata avvicinata. Mia figlia una volta è stata fermata per strada e le hanno detto: ‘dici a tuo padre che in carcere a Palermo lo sanno tutti che è rientrato a Bagheria, appena escono gli devono staccare la testa’

Lei ha una tutela?

«Una sorveglianza attiva.»

Le persone che ha fatto arrestare stanno uscendo dal carcere?

«Sì. Sabato scorso mi incrocio con una persona, era con altri quattro soggetti. Mi sono ritrovato con il genero, che è già uscito, del boss di Bagheria che ho anche accusato. Ed è già uscito. Sono stati condannati tutti, dai sei anni ai dieci anni. A scala cominceranno ad uscire tutti.»

Per quanti anni è stato all’interno del programma di protezione?

«Sei anni. Sono uscito io, non sono mai stato buttato fuori dal programma. Dalla controparte non ho mai avuto una denuncia per calunnia.»

Perché ha deciso di uscire dal programma?

«Non funziona nulla. Vuole sapere l’ultima dimostrazione che ho fatto prima che uscissi dal programma?»

Prego, dica…

«Come fa un collaboratore sotto programma di protezione, in località protetta, senza documenti per l’espatrio, a partire dall’Italia per raggiungere Basilea, in Svizzera. Passare una settimana in quel posto e rientrare in Italia. Questo collaboratore sono io. Non funziona nulla. Ci sono collaboratori, posso fare anche nomi e cognomi, che appena hanno avuto gli arresti domiciliari hanno lasciato di nascosto la località protetta, sono rientrati nel proprio paese a fare reati. La questione è questa: se domani devo essere sentito dal PM arrivano le macchine blindate. Ma questa protezione serve solo per andare in Procura? Quando finisce tutto non c’è più protezione.»

Quindi il programma di protezione non funziona a livello di protezione?

«A livello di protezione. Poi ci sono degli operatori del NOP che discriminano, in senso che trattano pure male. Parliamo di persone che non sono nemmeno formate professionalmente. Ho dovuto sentirmi dire: ‘io prendo 1.300 euro al mese, me li devo sudare. Tu senza fare un cazzo…’. Ma come si permettono».

In passato ci sono stati degli episodi, come l’omicidio del fratello del collaboratore di ‘ndrangheta, inserito nel programma di protezione, ucciso sotto a casa a Pesaro. Secondo lei ci sono delle falle nel sistema?

«Sì, Bruzzese. Si parlava tanto del cognome scritto sul citofono. Ma gli operatori del NOP non si sono mai lamentati del cognome sul citofono. Ma ci andavano dal Bruzzese? A me è successo che, dopo i 180 giorni di collaborazione, in località protetta, spesso, mi sono incontrato con personaggi pericolosi, anche persone che ho fatto arrestare. Le falle ci sono, ma ne sono tante. Andrebbe tutto rifatto questo programma. È il PM che dovrebbe garantire la nostra protezione.»

Queste problematiche le ha comunicate?

«Sempre.»               

Lei ha ancora altre cose da dichiarare ai magistrati?

«Sì. Non le ho dichiarate subito perché non mi sono sentito tutelato. Parliamo di cose molto delicate.»

Molto delicate perchè riguardano solo Cosa nostra o anche gli apparati dello Stato?

«Anche gli apparati dello Stato.»  

Dichiarazioni mai fatte?

«No. Ho piena fiducia solo con Di Matteo.»

Lei lo sa che i personaggi dei Servizi che ha descritto potrebbero rientrare in altri “misteri” accaduti in questo Paese (stragi, omicidi, sparizioni, ect.)?

«Per questo ho paura. Anche se qualche soggetto non c’è più oggi, ci può essere qualche altro soggetto collegato a loro. E con la paura di arrivare a loro possono fare qualcosa.»

Quindi, lei teme più certi personaggi legati alle Istituzioni (deviate), rispetto ai mafiosi legati a Cosa nostra?

«Sì. Il personaggio che appartiene alle Istituzione è il classico mafioso con il “colletto bianco”. Ha più potere del mafioso di zona. Il vero mafioso è colui che è “colletto bianco”, il mafioso è colui che fa il lavoro sporco. Se oggi si deve parlare di mafia si deve parlare anche di politica. Se cosa mi ha detto un operatore del NOP?

«‘Ma perché tu pensi che se Matteo Messina Denaro, o qualche altro boss della Sicilia, vuole arrivare a te, anche se sei sotto programma di protezione, non ci arriva? Ci arriva’. Che significa questo?»

Perché non sono arrivati a lei?

«Provenzano diceva che un pentito fa più danno da morto che da vivo.»

Lei come la interpreta questa frase?

«Che se oggi vai a toccare un pentito, gli vai a sparare – faccio un esempio -, si alza un polverone. Se ci sono dei mafiosi che stanno facendo affari succede un terremoto, perché iniziano perquisizioni, indagini. Queste cose di solito si fanno quando si dimentica, dopo dieci anni, dodici anni. Ma sa come va a finire? ‘Ma quello è stato ucciso, ma sicuro Cosa nostra lo ha ucciso. O si è rimesso in qualche cosa, con qualche amante’. Cercano di non far collegare quello che è successo alla mafia.»

Vogliamo chiudere con un appello?

«A tutti coloro che sono in queste situazioni: collaborate, l’unica cosa è collaborare. E dare voce alle nuove generazioni, loro porteranno avanti questa cosa. Non bisogna abbassare la testa. Bisogna alzare la voce, solo parlando si può combattere la mafia. Non c’è cuscino più morbido di una coscienza pulita, vivendo onestamente. Pentitevi, dico ai mafiosi, pentitevi. Starete meglio, fatelo per le nuove generazioni e per i nostri figli. Un figlio che cresce in un ambiente mafioso diventerà un futuro mafioso. Per il bene dei nostri figli tronchiamo questa cosa con la mafia. Oggi sono felice di quello che ho fatto. Piano piano sto riacquistando la mia dignità, ci vuole tempo. Non si acquista in pochi giorni.»

Ma se avesse di fronte Messina Denaro cosa direbbe?

«Di parlare e far cadere lo Stato italiano. Matteo Messina Denaro sarebbe in grado di far cadere tutto, a cominciare dagli anni Sessanta, Settanta. Ma non gliele lascerebbero fare queste dichiarazioni.»

Potrebbe cadere dalla branda come Provenzano?

«Io penso che Provenzano è stato picchiato. Queste cose in carcere non esistono. Una persona di spessore non viene toccata. La guardia penitenziaria non si permette di toccare queste persone. A Sergio Flamia, ci sono le sue dichiarazioni, lo andavano a trovare in carcere con i tesserini di avvocati, che poi non erano iscritti all’Albo degli avvocati.»

Chi andava a trovarlo in carcere?

«Quelli dei servizi segreti. Hanno preso i tabulati e hanno verificato. È stato visitato da questi avvocati, con nomi falsi. Come fanno questi ad avere un colloquio in carcere con questi personaggi? Ci fu quella politica siciliana (Sonia Alfano, nda) che disse che Provenzano aveva lanciato dei messaggi. Però poi si fermò. E chi lo dice che qualcuno è andato la e lo ha fatto spaventare? Sono tanti i misteri. Oggi la mafia bianca è molto più pericolosa.»         

 

Io vivo nel territorio di Matteo Messina DenaroWordNews 19.8.2020

 

a cura di Claudio Ramaccini  Direttore Centro Studi Sociali contro la mafia – Progetto San Francesco