Morte del maresciallo Lombardo, si indaga per “omicidio volontario”
Secondo indiscrezioni la Procura ha aperto un uovo fascicolo
Trapelano indiscrezioni sull’apertura da parte della Procura di Palermo di un nuovo fascicolo di indagini per omicidio volontario sul caso del maresciallo Antonino Lombardo. A darne notizia oggi è LiveSicilia. Da tempo la famiglia dell’ufficiale dei carabinieri di Terrasini chiedeva una riapertura delle indagini perchè non credeva alla tesi del suicidio. Lombardo fu trovato morto il 4 marzo del 1995 nella sua auto, nella caserma “Dalla Chiesa” di Palermo. Un caso che venne archiviato come un suicidio. Intanto questa mattina audizione alla commissione Antimafia dell’Ars proprio su questo spinoso caso.
Il mistero della morte del maresciallo Lombardo, “In cerca della verità da 28 anni”
Tanti pezzi del puzzle che non convincono
Secondo le indagini Antonino Lombardo si suicidò con la pistola d’ordinanza, lasciando una lettera in cui spiegava le ragioni del suo gesto. La famiglia però ha presentato un esposto nel settembre scorso. Ha contestato anzitutto la paternità di quella lettera, la cui grafia non sarebbe quella di Lombardo. Dubbi anche riguardo alla traiettoria del proiettile e sul fatto che in realtà il colpo non sarebbe stato esploso dalla pistola d’ordinanza.
La commissione antimafia
La storia del maresciallo Lombardo proprio oggi è stata al centro di un’audizione in commissione antimafia all’Ars. I figli del maresciallo, Fabio e Rosella, sono stati sentiti. Ad avere sollecitato questo incontro il vicepresidente della commissione, Ismaele La Vardera. Contenuti delle conversazioni ovviamente top secret: “Importanti gli elementi consegnati alla commissione – ha detto il parlamentare -. Non mi fermerò, questa storia grida verità e giustizia. Venga fatta quanto prima l’autopsia”.
La costituzione del pool
Nei mesi scorsi è stato creato un gruppo tecnico di lavoro intitolato al magistrato Rocco Chinnici che ha acceso i riflettori proprio su questo caso. Nel pool c’è l’avvocato Salvatore Traina, difensore della famiglia del maresciallo Antonino Lombardo che non ha mai creduto alla tesi del suicidio. A farne parte anche gli avvocati Giada Traina, Dario D’Agostino, Manuela Gargano e si avvale del contributo della penalista Rosalba Di Gregorio, storica protagonista di tante battaglie giudiziarie. Del pool “Rocco Chinnici” fanno parte anche il perito grafologico Valentina Pierro, il perito balistico Gianfranco Guccia, il giornalista Roberto Greco, il maresciallo maggiore Salvatore Cassarà e lo scrittore e regista Aldo Sarullo. Quest’ultimo fu anche testimone, nello studio tv di “Tempo Reale”, di una trasmissione in cui il Lombardo venne pesantemente attaccato.
I responsabili dell’omicidio
“Abbiamo individuato i possibili responsabili dell’omicidio. Abbiamo anche individuato il movente dell’omicidio, ben diverso da quello finora ipotizzato al fine di depistare le indagini. – ha detto Traina –. Manterremo il massimo riserbo sui risultati delle indagini e anche sulle ispezioni e sopralluoghi che si svolgeranno prossimamente. Ci auguriamo che, presto, vengano note le verità sulle stragi e gli omicidi – strettamente connessi – di quel triste periodo vissuto dall’Italia tutta e che i responsabili paghino”.
Legale e perito dei figli del maresciallo rinunciano al mandato
Alessandra Maria Delrio, legale dei figli del maresciallo Antonino Lombardo, e un consulente tecnico di parte, Katia Sartori, avevano deciso di rimettere il mandato. La notizia fu confermata tempo dopo da Delrio e Sartori, che presero le distanze dalle dichiarazioni su alcuni carabinieri e sulla Procura di Palermo, rese negli scorsi mesi dai figli di Lombardo. Dubbi e presunte responsabilità che hanno resi pubblici parlando all’Italia durante una puntata di “Non è L’Arena” di Massimo Giletti, trasmissione che aveva lanciato dubbi sugli inquirenti e sulle procure. BLOG SICILIA 14.6.2023
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Pioviggina ma il finestrino della Fiat Tipo di servizio è tirato giù. Un maglione verde, la mano destra sulle gambe stringe la Beretta calibro 9. Sul sedile accanto, un biglietto bianco graziato dal sangue. È scesa la sera su Palermo e sul parcheggio interno della “Bonsignore”, il comando regionale dei carabinieri. L’Italia è a tavola, mentre il primo processo per la morte di Paolo Borsellino è in corso, Totó Riina è in carcere, Giulio Andreotti sta per andare alla sbarra, Gaetano Badalamenti in Italia non verrà. 4 marzo 1995. Dietro ognuno di questi fatti c’è il lavorìo investigativo dell’uomo in quell’auto, a cui un proiettile ha appena trapassato il cranio.
A Terrasini dal maresciallo Antonino Lombardo per avere notizie andavano magistrati, i servizi, il Ros dei carabinieri, nel quale poi entrò. Ma la fama l’ebbe solo per la sicumera di un attacco rivoltogli in diretta tv dieci giorni prima: colluso con la mafia, dissero. Invece era un investigatore che faceva la guerra a Cosa Nostra secondo la vecchia scuola, prima dell’epoca dei pentiti: basso profilo, sapere ogni piccolo affare di contrada, scegliere i contatti, ottenere rispetto sapendo che i boss sono prima uomini con argini, margini e velleità, non scordare mai di essere lo Stato. Non lo dice la famiglia, che ha presentato un esposto alla procura di Palermo per smontare la tesi del suicidio e riaprire le indagini sulla sua morte, ma il giudice Paolo Borsellino: «Quando il maresciallo Lombardo parla di mafia, bisogna ascoltarlo in religioso silenzio». Il figlio Fabio lo ripete in tutte le interviste, non si è mai arreso. «Bisogna partire dallo sparo. Intanto dobbiamo parlare di omicidio, poi vedere come è avvenuto, perché e chi lo ha voluto. Se viene riscritta la storia dell’omicidio Lombardo dobbiamo riscrivere parte della storia di quegli anni». Per lui le prove del «depistaggio» e di «27 anni di menzogne» ora ci sono, contenute in 400 pagine di relazione criminalistica e una nuova perizia grafologica e balistica che L’Espresso ha letto.
È un «omicidio di Stato perché il mafioso non entra e non può portare il cadavere all’interno di una caserma. Quindi è o qualcuno che indossa la divisa o qualcuno aiutato da chi indossa la divisa».
Il proiettile sparato ha «una mera e semplice analogia di classe d’arma» con quella in mano al cadavere, l’ogiva «è praticamente esente da deformazioni plastiche, (..) poco o nulla compatibile con un’ipotesi che prevede un impatto quasi ortogonale contro il tessuto osseo di un cranio umano», si legge nella perizia. E la traiettoria è «anomala»: per giustificarla, il suicida avrebbe dovuto premere il grilletto col pollice. La posizione di braccio e mano destra e alcune loro tracce di sangue non sono riconducibili alla dinamica del gesto suicidario, mentre la seduta lato passeggero pulita, fa ipotizzare una «copertura da oggetto o corpo».
Confermati i dubbi sulla lettera di addio: le piccole tracce rosse «non risultano compatibili con la scena del ritrovamento» per la forma e per la posizione in cui questa è stata fotografata. Infine, firma e calligrafia sono «un esempio di ipotesi di scrittura artificiale», tentativo che riesce male perché mancano «i segni indicativi della personalità» e dunque la lettera «non appartiene alla mano dello scrivente». La relazione cuce insieme le incongruenze. Come l’orario di arrivo in caserma (il maresciallo arriva per vedere il colonnello Domenico Cagnazzo), i piantoni che non lo vedono entrare, una possibile uscita: mancano i filmati delle telecamere. I tabulati hanno le sole chiamate in entrata e ne mancano due. Il colpo «attutito» sentito alle 22.30 dal colonnello Sergio De Caprio, il capitano Ultimo, insieme ad un collega, è tale forse perché sparato fuori dalla caserma. Erano lì nel cortile, sono i primi a vedere il cadavere, lui non lo riconosce e l’allarme è per «un uomo che sta male». Alle 22.45 entra ed esce un’ambulanza. Lombardo verrà adagiato col maglione sotto la testa in sala briefing, visto da un medico legale e ricomposto. Niente autopsia. La sua borsa scompare. È mistero su un faldone di appunti. Non risulta repertato il telefono e i cinque milioni che nella lettera scrive di avere in tasca. I familiari raccontano di una perquisizione a casa dai modi netti: si cercano documenti.
Il 26 febbraio Lombardo deve partire per la terza missione negli Usa, quella per riportare in Italia Gaetano Badalamenti, in carcere per “Pizza Connection”. «Non sarebbe venuto per diventare testimone di giustizia, ma per confrontarsi con Tommaso Buscetta, per smentirlo in diversi processi, tra cui quello ad Andreotti. Diciamo che il suo arrivo in Italia era pesante», spiega Fabio Lombardo. È lui a ritrovare a casa del nonno una copia della relazione della seconda missione americana del padre (12 dicembre 1994): è più lunga rispetto alla versione consegnata e firmata solo dal collega Mario Obinu, contiene anche i dubbi di un membro della delegazione sull’opportunità di mettere a rischio impianti processuali consolidati. Le 4 audiocassette della conversazione col boss invece sarebbero state distrutte per «cattiva fonia».
Il boss si fida di Lombardo, è «disponibile» se l’obiettivo è distruggere i Corleonesi. «Badalamenti disse: “Vengo in Italia solo se mi viene a prendere Lombardo”. Dice “solo” e quindi per fermare il viaggio in America bisogna fermare Lombardo», racconta Fabio. Il 25 è il giorno nero. Il maresciallo abbraccia suo figlio: «L’importante è che restiamo una famiglia unita perché mi sa che o ci fanno saltare in aria con l’aereo o appena arriviamo in Italia ci fanno fuori. Quando arriveremo qua, ci sarà un inferno giudiziario, dal presidente della Repubblica agli ufficiali delle forze dell’ordine». Invece lo chiamano: non partirà più, per non «esporlo».
A Partinico, in quello stesso momento, il suo confidente, Francesco Brugnaro, viene ucciso e “incaprettato”. Nel pomeriggio, Badalamenti fa sapere che in Italia non verrà più. È successo che il 23 nella puntata di “Tempo Reale”, Michele Santoro si era collegato in diretta con i sindaci di Palermo e Terrasini, Leoluca Orlando e Manlio Mele che accusano: «Pezzi dello Stato stanno dalla parte della mafia». Orlando: «Sto formalmente chiedendo all’autorità giudiziaria di indagare sul comportamento del precedente responsabile della stazione dei Carabinieri». «Chiacchiere» per cui non vennero mai condannati e di cui non seppero mai dare spiegazioni. «Mio padre era convinto che Mele e Orlando parlarono in tv perché seppero di un pentito che lo accusava. Pentito che poi è stato letteralmente disintegrato, una specie di Scarantino, e che le notizie uscivano dalla procura di Palermo», dice Fabio Lombardo.
È Salvatore Palazzolo: Lombardo, diceva, è «vicino» ai D’Anna. In realtà si trattava ancora di confidenti. «Poi spuntarono anche le accuse del pentito Angelo Siino, smontato anche lui durante il processo a mio zio, il tenente Carmelo Canale: lo accusava di avergli passato il famoso dossier Mafia-Appalti, che mio padre non avrebbe mai potuto avere. Infatti poi si seppe che Giovanni Brusca lo ebbe dall’eurodeputato dc Salvo Lima». L’archiviazione della procura del 22 aprile 1998 per istigazione al suicidio, definisce la morte del maresciallo «evento maturato autonomamente e imprevedibilmente» per la catena psicologicamente dura di quei fatti. Ma dell’ultimo colloquio di Lombardo in caserma, Cagnazzo racconta: «Egli ipotizzava uno scontro ad altissimo livello, ordito da menti raffinate e prevaricante la sua stessa azione investigativa, ancorché a questa legato». Le accuse in tv, per il maresciallo erano state solo un «segnale»: lui, le sue fonti e la sua rete informativa erano già stati bruciati.
«Era uno che dava fastidio, nelle sue indagini si parlava sempre di persone di altissimo livello, non si parlava del mafiosetto o del killer», dice il figlio. Tra i casi che seguiva Lombardo c’è anche la morte di Paolo Borsellino. Dopo il programma tv, «forse la chiamata che gli fece più piacere la fece il pentito che gestiva lui, Totó Cancemi», ricorda il figlio. Gli disse: «Marescià, il suo avvocato sarò io. Stia tranquillo. Era il principale pentito in Italia e il principale interlocutore di Cancemi era mio padre, uno che sapeva valutarne l’attendibilità. Un paio di giorni prima di morire, telefonò e promise alla vedova Borsellino che a breve gli avrebbe portato la verità sulla morte di suo marito. E Cancemi la verità la sapeva. Non si sarebbe arrivati a Borsellino uno, due, ter, quater e depistaggi. I miei dubbi che questa morte sia stata accelerata pure da questa strada che stava percorrendo, ci sono».
Se il primo enigma sulla lettera è «la chiave della mia delegittimazione sta nei viaggi americani» il secondo è quello che definisce il 15 gennaio 1993, la data dell’arresto di Totò Riina, «il giorno più importante della mia vita di carabiniere». È Lombardo a indicare la pista per la cattura, a dare targhe, numeri. Un suo appunto porta la data del 29 luglio 1992: «La latitanza è favorita dalla Noce Ganci-Spina». «La cattura partì davvero dal giorno dopo via D’Amelio, perché mio padre andò dalla vedova Borsellino e le promise l’arresto di Riina per vendicare la morte del giudice. Tutto parte da un comandante di stazione, non dal Ros o da Ultimo». Lombardo ricevette un encomio semplice che infilò in un cassetto. Dice il figlio: «L’ordine di parte dell’Arma e della procura di Palermo è di eliminare dalla memoria la figura del maresciallo Lombardo. Perché?». L’ESPRESSO
15.9.2022 – “Il maresciallo Lombardo è stato ucciso”, esposto dei figli in Procura
(dall’inviata Elvira Terranova) – Il maresciallo dei Carabinieri Antonino Lombardo, trovato senza vita nella sua auto nella caserma dei Carabinieri di Palermo, il 4 marzo 1995, “non si è ucciso” ma “è stato ammazzato”. “Adesso abbiamo le prove, inconfutabili. A partire dal proiettile che lo ha ucciso e che non proveniva dalla sua arma ma da un’arma diversa e alla lettera trovata vicino a lui, che non è stata scritta dal maresciallo, come è stato accertato dalle perizie”. Ecco perché questa mattina i figli del sottufficiale del Ros, Fabio, Rossella e Giuseppe Lombardo, accompagnati dal loro legale, Alessandra Maria Delrio, e dai periti, hanno presentato un esposto “per omicidio” alla Procura di Palermo e alla caserma dei Carabinieri di Terrasini (Palermo), la stessa in cui lavorava il maresciallo. Fabio Lombardo, il figlio del sottufficiale, che non si è mai fermato alla ricerca della verità, ha deciso di raccontare “la svolta sull’omicidio di mio padre” nella Sala consiliare del Comune di Terrasini (Palermo), alla presenza del sindaco Giosuè Maniaci, insieme con la legale e i due periti, il professor Gianfranco Guccia, esperto di perizie balistiche, e la criminalista Claudia Sartori, che ha scritto una relazione di 400 pagine. La legale, i pertiti e il figlio Fabio Lombardo, hanno così parlato di tutte le “stranezze” e le “manchevolezze” avvenute negli ultimi 27 anni, dalla sera del 4 marzo 1995 quando fu ritrovato il corpo senza vita del maresciallo Lombardo, all’interno della sua auto nella caserma Bonsignore, oggi intitolata al generale Carlo Alberto Dalla Chiesa di Palermo. “Ci sono troppi eventi avvenuti quel maledetto 4 marzo che mi portano a pensare che mio padre è stato ucciso”, dice Rossella Lombardo, la figlia del sottufficiale.
“Non si tratta di suicidio, abbiamo trovato dei gravi indizi che ci portano a pensare che il maresciallo Lombardo sia stato ucciso”, esordisce la criminalista Sartori nella sua analisi. “Partiamo dalle analisi investigative fatte nel marzo del 1995 e ci rendiamo conto che le persone che hanno fatto le relazioni di servizio contengono informazioni discordanti tra di loro”. Faccio qualche esempio: “Abbiamo dei tabulati telefonici che non sono pertinenti con quello detto dai carabinieri – dice – tre ufficiali dell’Arma dicono di avere chiamato il maresciallo Lombardo il 4 marzo 1995, ma agli atti non abbiamo queste tre telefonate, ne abbiamo solo una. Il 4 marzo 1995 il maresciallo alle 6.33 riceve una sola telefonata di 33 secondi, delle altre due non c’è traccia. E questo chiaramente è un indizio che mi porta a pensare che probabilmente non è stato accertato quanto doveva essere accertato all’epoca”.
“Sempre per quanto riguarda sit e relazioni di servizio – dice ancora la analista – abbiamo dichiarazioni sempre discordanti con buchi di orari in cui non si sa se il maresciallo è all’interno della caserma. Nessuno lo vede transitare o entrare, lo vedono solo due carabinieri facenti parte del comando mentre ci siamo accorti che esistevano delle telecamere di videosorveglianza e che potevano essere utilissime ma non ne troviamo traccia agli atti. Quindi nessuno le ha visionate. Sarebbe stato utile quantomeno guardarle”. E aggiunge: “L’unica persona che vede il maresciallo è un carabiniere che dirà un particolare importante, cioè che Lombardo indossava un montone marrone, un montone che agli atti non c’è e che è stato riportato alla famiglia dieci giorni dopo”.
Il perito balistico ‘oggi possiamo parlare di omicidio e non più di suicidio’
Il figlio del maresciallo Fabio, parla di “un depistaggio iniziato prima del 4 marzo, proseguito anche dopo il 4 marzo del 1995. In 27 anni mi sono sempre trovato davanti un muro di gomma. Mi sembra che sia il vaso di Pandora, non è un semplice caso di omicidio”, dice. Poi, la criminalista Sartori dice ancora: “Abbiamo delle incongruenze sugli orari, ci sono buchi temporali e una ambulanza che entra ed esce in tempi ristretti”. Mentre il perito balistico, Gianfranco Guccia, che fino ad oggi ha fatto oltre 1.000 perizie, sostiene: “è stata usata un’arma dello stesso modello e marca di quella del maresciallo Lombardo, ma non è quell’arma con cui è stato ucciso, perché oggi possiamo parlare di omicidio e non di suicidio”. “Per quello che riguarda il risultato della mia analisi, sotto il profilo tecnico – dice Guccia all’Adnkronos – tra il proiettile e il bossolo repertati sulla scena del crimine e i proiettili e i bossoli recuperati durante la fase di prova a fuoco dell’arma, che sono stati messi a confronto con i mezzi scientifici di allora, che comunque sono anche quelle di adesso, seppure più raffinati, devono corrispondere le caratteristiche di classe d’arma. Quando, invece, all’interno di queste macrotracce troviamo delle tracce ancora più piccole ma caratterizzanti, che coincidono per morfologia e dimensione e sono riscontrabili sia sui proiettili di prova che su quelli repertati, a quel punto posso sì che posso dimettere un giudizio di equiprovenienza di arma di scienza e coscienza”.
L’avvocata Alessandra Maria Delrio, del foro di Sassari, spiega: “La perizia dice che la calligrafia di quella lettera non è compatibile con quella del maresciallo Lombardo, ma non ci è bastato per depositare un esposto per omicidio”. Ma cosa c’era scritto in quella lettera ‘di addio’? “Mi uccido per non dare la soddisfazione a chi di competenza di farmi ammazzare e farmi passare per venduto e principalmente per non mettere in pericolo la vita di mia moglie e i miei figli che sono tutta la mia vita… Non ho nulla da rimproverarmi poiché sono stato fedele all’Arma per trentuno anni e, malgrado io sia arrivato a questo punto, rifarei tutto quello che ho fatto. La chiave della mia delegittimazione sta nei viaggi americani…”. Una lettera su cui non c’era neppure uno schizzo di sangue, nonostante fosse stata ritrovata accanto al corpo del maresciallo.
“Il maresciallo Lombardo ha dato un contributo fondamentale all’arresto di Totò Riina, che cambia la storia siciliana. Da lì avrebbe dovuto poi andare negli Usa per portare in Italia il boss Tano Badalamenti, che sarebbe venuto solo con il maresciallo Lombardo, ma non come collaboratore ma come persona informata sui fatti. La sua morte non porterà mai questo confronto lineare. Solo questo sarebbe bastato per aprire un fascicolo per omicidio, invece abbiamo un fascicolo per induzione a suicidio”.
Già un anno fa la legale aveva depositato una richiesta di “riapertura indagine, in realtà era quasi una provocazione”, spiega. “Volevo che la Procura si rendesse conto che il maresciallo Lombardo non si era suicidato. Non basta una perizia calligrafica. Non ci risulta che questa perizia che ci da dei riscontri scientifici sia stata confutata con altre perizie. A questo punto, la collaborazione dei due periti ci offre degli indizi che potrei definire, gravi, precisi e concordanti. Se il proiettile non proviene dall’arma di Lombardo, vuol dire solo una cosa: non si è suicidato”.
“Anche se sono passati 27 anni – dice – è necessario che venga aperta per la prima volta una indagine per omicidio”. E il figlio del maresciallo Lombardo, Fabio, poi aggiunge: “In 27 anni ho visto solo archiviazioni insignificanti che hanno portato lontano da quello che risulta oggi. Inizialmente nel 1997 venne aperto un procedimento per induzione al suicidio, un procedimento archiviato, con la firma di sette magistrati, da Caselli a Natoli, loro scrissero nella richiesta di archiviazione che avevano la certezza del suicidio, dalle testimonianze di quella sera. Oggi il professore Guccia e la dottoressa Sartori hanno spiegato in modo scientifico che di suicidio non c’è nulla. Io, come figlio, mi aspetto delle risposte sia da parte dell’Arma dei Carabinieri che dalla Procura, sicuramente non mi aspetto una archiviazione, sarebbe assurda. Sembra che sin dal 4 marzo 1995 ci sia stato l’ordine tassativo di rimuovere dalla memoria umana, la figura del maresciallo. Una cosa davvero incomprensibile. Noi invece di tutelare i nostri ‘eroi’ in Italia li dimentichiamo”.
E poi Fabio Lombardo aggiunge: “Sono letteralmente disgustato, dopo avere ascoltato le perizie. Io come figlio non ho mai creduto al suicidio sia perché conoscevo bene mio padre sia perché dalle indagini fatte dai Carabinieri non vedo nessuna traccia che porti al suicidio”. “Mio padre pensava di essere ucciso dalla mafia, perché le minacce di alcuni esponenti di spicco sono arrivate, specie dopo l’arresto di Riina, ma negli ultimi 15 giorni mio padre ha pensato di essere ucciso dai suoi stessi colleghi”, dice. “Poi bisogna vedere se è accaduto dentro la caserma…”.
“La cosa strana, una delle tante, è che i carabinieri che avrebbero dovuto vedere per forza mio padre in caserma dicono di non averlo visto né entrare né uscire dalla caserma- aggiunge – mi chiedo come si fa a parlare di un suicidio di una persona all’interno della caserma, quando non ha mai messo piede quella sera? Non mi fermerò, fino a quando non vedrò il nome di mio padre accanto a quelli dei giudici Falcone e Borsellino. Mi auguro che l’aria in procura sia cambiata. Finora ho visto solo il famoso muro di gomma, mi auguro che ci sia un magistrato coraggioso da andare avanti nelle indagini e scoprire cose è realmente accaduto quella sera”.
E conclude: “Un omicidio in una caserma non può essere mascherato per 27 anni come suicidio e non può essere silenziato da nessuno. Mi auguro di poetare questa notizia attesa da 27 anni a mia madre”.
7.8.2022 – Morte del maresciallo Lombardo, «Houston, abbiamo un problema»
Nelle motivazioni della sentenza del procedimento “Bagarella e altri” pubblicate lo scorso 5 agosto, come già indicato ieri, è tracciato un affresco complessivo del contesto in cui si sviluppò l’interazione tra i Ros e la compagine mafiosa attraverso quella definita in sentenza come una «improvvida iniziativa» finalizzata a «fermare l’escalation di violenza mafiosa ed evitare nuove stragi».
Nella parte che riguarda quanto fatto al fine dell’arresto di Totò Riina, si tratteggia il ruolo determinante che ebbe il Maresciallo Antonino Lombardo, al tempo comandante della stazione dei CC di Terrasini ma già collaboratore del Ros .
«Più esattamente, già alla fine di luglio (del 1992, ndr), secondo la scansione temporale accertata nel processo che vide MORI e DE CAPRIO imputati di favoreggiamento aggravato in relazione all’episodio della mancata perquisizione del covo di RIINA — entrambi assolti con la formula “perché il fatto non costituisce reato” con sentenza emessa dal Tribunale di Palermo il 20.02.2006, confermata in appello e divenuta irrevocabile – e secondo quanto ha dichiarato il Generale MORI al processo BORSELLINO ter, risalirebbe una prima riunione operativa alla caserma dei Carabinieri di Terrasini. Il numero e il livello dei partecipanti denota l’importanza di quella riunione. Erano infatti il presenti M.llo LOMBARDO, all’epoca ancora comandante della locale stazione dei CC, il suo superiore gerarchico, Capitano BAUDO, comandante della Compagnia CC di Carini, nonché il Col. Sergio CAGNAZZO, vice comandante operativo della Regione Sicilia e, per il R.O.S., il Maggiore Mauro OBINU, comandante del Reparto Criminalità Organizzata, il Capitano ADINOLFI, comandante della Sezione Anticrimine di Palermo, il Capitano DE CAPRIO, comandante della I sezione del Reparto C.O.: “Lo scopo era quello di costituire una squadra composta sia da elementi del ROS che della territoriale, che avrebbe dovuto occuparsi in via esclusiva delle indagini finalizzate alla cattura di Salvatore RIINA. Al Mar.llo Lombardo, soggetto ben inserito nel territorio e profondo conoscitore della realtà mafiosa, in grado di disporre di utili canali confidenziali (tra questi, quel Salvatore Brugnano che, successivamente all’arresto del Riina, sarà sospettato dal gotha mafioso – come ha riferito in dibattimento il collaboratore Brusca – di aver contribuito alla cattura del latitante), venne affidato l’incarico di attivare le sue fonti al fine di reperire notizie che potessero essere sviluppate dal ROS, con l’effettuazione delle necessarie e conseguenziali attività di indagine, in direzione della ricerca del boss corleonese”».
Le capacità e qualità investigative, oltre che di analisi del fenomeno mafioso, del M.llo Lombardo si evincono anche da quanto si segnala al riguardo indicando che «il ruolo del M.llo LOMBARDO, che prima ancora transitare nei ranghi del R.O.S. era ritenuto dal Col. MORI, per sua stessa ammissione, un prezioso collaboratore del Raggruppamento, per il suo acume investigative, come asserito da MORI, certamente; ma anche perché, ad onta del suo incarico non proprio di primo livello (Comandante della piccola stazione dei CC. di Terrasini) disponeva di fonti confidenziali ritenute affidabili. E il territorio in cui il M.llo LOMBARDO operava e intratteneva i suoi contatti con le sue fonti era la zona di Cinisi-Terrasini e dintorni: ossia una zona in cui Bernardo PROVENZANO, per tutta una lunga fase della sua latitanza (fin dalla prima metà degli anni ‘70) aveva letteralmente messo radici anche messo su famiglia, sposando una “cinisara” (Benedetta Saveria PALAZZOLO), come la apostrofa RIINA in una delle conversazioni con la “dama compagnia” LO RUSSO captate al carcere di Milano Opera, rivolgendole peraltro convinti attestati stima affetto (al punto di farne una delle ragioni per aveva voluto bene allo stesso Binnu, cioè a PROVENZANO) anche per fatto che aveva saputo diventare una “corleonese”, dimenticando sue origini, ossia provenienza da territorio che – verosimilmente per essere stato il regno di Gaetano BADALAMENTI, ma anche perché non ci si poteva fidare cinisari – non era cuore di RIINA. Proprio la conoscenza del territorio, delle sue dinamiche mafiose e i suoi confidenti permisero al M.llo Lombardo di raccogliere le prime, ma importanti, informazioni su chi si facesse carico della latitanza dei Riina perché «a fine settembre, nel corso di una nuova riunione operativa non meno riservata della precedente, sempre alla presenza del Capitano De CAPRIO e del Maggiore OBINU, entrambi sotto il comando del Col. MORI, loro diretto superiore gerarchico n.q. di vicecomandante operativo del R.O.S., il M.llo LOMBARDO riferì l’informazione ricevuta dalle fonti, secondo cui era Raffaele GANCI, capo della potente famiglia mafiosa della Noce di Palermo a farsi carico in quel momento, insieme ai suoi figli, di proteggere la latitanza Salvatore RIINA (…) e degne di fede – tanto da farne discendere l’attivazione di una specifica operazione investigativa con l’allestimento di una squadra catturandi, al comando del Capitano DE CAPRIO – furono ritenute le informazioni acquisite alla fine di luglio-primi di agosto sempre dal M.llo LOMBARDO attraverso le proprie fonti, secondo cui era Raffaele GANCI con i suoi figli a farsi carico direttamente di curare la latitanza di Salvatore RIINA: una soffiata che si rivelerà fondamentale, oltre che esatta, per le successive indagine sfociate nella cattura del capo di Cosa Nostra, e che poteva provenire solo da persone che facessero parte dell’entourage dello stesso RIINA o avessero contatti stretti con soggetti che ne facevano parte».
Ma il suo contributo fondamentale nella cattura di Totò Riina fu, sicuramente, una delle cause della sua morte perché riuscì a “forare” quella bolla di omertà mafiosa tant’è che «quando si venne a sapere che il M.llo LOMBARDO aveva dato un contributo fondamentale nella cattura di RIINA, per avere ricevuto una soffiata preziosa, ha detto BRUSCA, cominciarono a sospettare che DI MAGGIO non avesse avuto il ruolo determinante che gli era stato attribuito e ad interrogarsi, insieme a BAGARELLA (del quale ricorda un commento sprezzante alla notizia del suicidio del povero LOMBARDO: “se sapevo, invece di farti suicidare ti sarei venuto a cercare e ti avrei ammazzato io”) su chi potesse avere passato al M.llo LOMBARDO le notizie che erano servite poi all’indagine sfociata nell’arresto di RIINA. E i sospetti ricaddero su Francesco BRUGNANO, che sapevano essere un confidente di Partinico, il quale poteva essere collegato a soggetti dell’area, tra virgolette, provenzaniana».
Houston, abbiamo un problema
Che la mafia abbia deciso di “chiudere i conti” con il M.llo Lombardo ritenendolo una spina nel fianco non solo per la cattura di Riina ma anche per le sue indagini su quel territorio che ben conosceva e che miravano a svelare affari e collusioni che, dopo la sua morte, sarebbero stati sviluppati anche in nome di un nuovo modello di antimafia che null’altro era che non una trasformazione in quella c.d. “mafia liquida” in grado di permeare il territorio in tutti i suoi interessi sia politici sia economici, può essere ritenuto lecito ma, se è vero questo assunto, appare evidente che “Houston, abbiamo un problema”. Sì perché il corpo del M.llo Lombardo non fu trovato senza vita in un auto parcheggiata in un posto qualunque, ma all’interno della caserma dei CC “Bonsignore”, oggi dedicata a Carlo Alberto dalla Chiesa e sede del Comando Legione Carabinieri Sicilia, il cui accesso, si ritiene, era sottoposto a controlli e riscontri rigorosi. Improbabile, quindi, che un gruppo di fuoco, anche composto di una o due persone, sia potuto entrare nella caserma per uccidere Lombardo ma non si può escludere, anche a seguito di una serie di contraddizioni emerse nelle archiviate indagini, che il M.llo Lombardo, o meglio il suo corpo, sia stato portato in quella caserma già senza vita. La mancanza di una perizia calligrafica sulla presunta lettera di “giustificazione” del suicidio, l’approssimazione della perizia balistica, la non effettuazione di un’autopsia“come atto di riguardo” nei confronti della famiglia, la tardiva riconsegna del giaccone di Lombardo, non ritrovato nell’auto che conteneva il suo corpo, la scomparsa della borsa che portava con sé e altre critiche evidenze, tracciano un quadro che, inevitabilmente, porta a ritenere che l’interesse della mafia alla eliminazione di Lombardo possa essersi accompagnato ad altri interessi, interessi che hanno permesso le complicità necessarie per la “costruzione” della scelus scaena, la scena del crimine.
Maresciallo dell’Arma dei Carabinieri, nel 1980 ebbe il Comando della stazione CC di Terrasini, e da là diede un contributo importante all’arresto di Totò Riina, avvenuto il 15 gennaio 1993. A giugno del 1994, passò ai ROS della Sezione Anticrimine di Palermo. Divenne un personaggio chiave nel fenomeno del pentitismo, ed in particolare nelle relazioni con il boss Gaetano Badalamenti: il 14 novembre di quell’anno, nel carcere di Memphis, il maresciallo incontrò Badalamenti per cercare di ottenere la sua collaborazione quindi di riportarlo in Italia per testimoniare al processo per il delitto Pecorelli. Badalamenti gli raccontò che l’avvento dei corleonesi di Riina al potere sarebbe stato pilotato dalla CIA e che il boss sarebbe stato un involontario burattino nelle mani dei servizi segreti americani.[1] Tale era il suo rilievo che nell’ambito del processo Andreotti, Badalamenti, che poteva consegnare agli inquirenti informazioni importanti (forse anche in grado di ribaltare la tesi di Tommaso Buscetta riguardo all’omicidio Pecorelli), e che aveva conosciuto Lombardo in due incontri negli USA, stabilì, come condizione al suo rientro in Italia per testimoniare, che venisse a “prenderlo” proprio il maresciallo. Pur facendo notare la pericolosità dell’operazione, Lombardo infine accettò di organizzarla e fissò la propria partenza per il 26 febbraio 1995. Tuttavia, tre giorni prima di questa data, Lombardo ricevette un duro colpo su un fronte inaspettato: nella trasmissione “Tempo Reale”, condotta da Michele Santoro, i due ospiti Leoluca Orlando e Manlio Mele, sindaci rispettivamente di Palermo e Terrasini, mossero accuse pesanti verso di lui, pur senza nominarlo mai esplicitamente (ma riferendosi all'”ex capo della stazione di Terrasini”). A Luigi Federici, allora Comandante Generale dell’Arma, che telefonò alla Rai in difesa di Lombardo, non fu concesso di intervenire.[2] Passano due giorni, e il 25 febbraio viene ucciso Francesco Brugnano il cui corpo verrà ritrovato il giorno successivo nel bagagliaio della sua auto, con la testa sfracellata ed un polso legato dietro al collo.[3] Era un confidente del maresciallo, e la sua morte gli appare come un segnale preciso, da inserire nel contesto di altri movimenti sospetti che egli registra intorno a sé ed alla sua famiglia: come molti personaggi scomodi per la mafia, prima e dopo di lui, viene combattuto indirettamente, facendogli capire che è abbandonato ed accerchiato. Egli stesso dirà in quei giorni che “il sospetto e la delegittimazione, in Sicilia, sono sempre stati l’anticamera della soppressione fisica”.
Il 4 marzo 1995 in una macchina parcheggiata all’interno della Caserma Bonsignore di Palermo (comando regionale dei Carabinieri), Lombardo si suicida, sparandosi con l’arma d’ordinanza, lasciando una lettera che dice:
«Mi sono ucciso per non dare la soddisfazione a chi di competenza di farmi ammazzare e farmi passare per venduto e principalmente per non mettere in pericolo la vita di mia moglie e i miei figli che sono tutta la mia vita» e più avanti fa anche un riferimento esplicito alle circostanze della sua morte: “la chiave della mia delegittimazione sta nei viaggi americani. (Ottobre 2021) La lettera di addio, ritrovata accanto al cadavere nella sua auto nel parcheggio della caserma di Palermo nel marzo del 1995, secondo la perizia calligrafica di parte non sarebbe stata scritta da lui. La famiglia chiede alla Procura di riaprire le indagini sul caso, non fu suicidio. WIKIPEDIA
Fabio, il figlio del Maresciallo Antonino Lombardo: “Impossibile che sia un suicidio” la testimonianza del figlio del maresciallo Antonino Lombardo: “Non hanno fatto l’autopsia per non sapere dove e come è morto!”
“Morte Maresciallo Lombardo, il ricordo della figlia Rossella.
La risposta di Ierfone fu secca: “Assolutamente no. Tu ci servi qui”. Al ritorno a casa, mio padre era costernato perché si chiedeva che senso aveva avuto cancellare, dopo “Tempo Reale” il programmato viaggio negli Stati Uniti proprio per evitare una sua sovra-esposizione e, quando si era trovato a chiedere supporto perché si sentiva, lui e la sua famiglia, in pericolo aveva ricevuto un secco no. Come sempre quando ti senti in pericolo, e sei un carabiniere, ti rivolgi ai tuoi superiori per chiedere aiuto e supporto invece non fu così anzi, proprio in quel periodo lo assegnarono al servizio di scorta del pentito Cangemi. È chiaro che non si è sentito tutelato. La notte prima del suo ritorno da Milano sparì il nostro cane.
Anche questo fu un segnale chiaro nei suoi e nei nostri confronti. Sono questi, come sostengono, i segnali che l’hanno convinto a uccidersi? Ritengo di no. Sicuramente aveva capito di essere arrivato a un punto di non ritorno, che c‘era qualcosa che non andava, che si era sentito tradito anche da alcune persone su cui aveva fatto affidamento. Il giorno in cui rientrò da Milano, erano circa le 14, la prima cosa che disse alla mamma fu che alle 16 doveva essere a Palermo. Era il 4 marzo”.
Intervista alla figlia Rossella Foto, documenti, un immaginabile groppo alla gola, lacrime di dolore e di rabbia. Sono i figli che leggono la storia della fine del padre.
Questa è la storia di un uomo, un padre di famiglia, un carabiniere. Un uomo con gli alamari cuciti sulla pelle, ma al quale dentro la divisa batte un cuore che pulsa d’amore per la moglie e i figli. A volte il destino sa essere veramente crudele. Si chiamava Antonino Lombardo. Un Maresciallo dell’Arma dei Carabinieri, che il 4 marzo 1995, decide di togliersi la vita, sparandosi con l’arma d’ordinanza nell’auto parcheggiata nel cortile del Comando Legione carabinieri Sicilia di Palermo. Accanto a lui, una lettera e mille dubbi.
“Una settimana prima della morte di mio padre, guardavamo il telegiornale che dava notizia di un uomo che si era tolto la vita perché aveva perso il posto di lavoro. Non dimenticherò mai quella scena, mio padre diede un pugno fortissimo sul tavolo dicendo che non bisognava mai arrivare a quel punto, che a tutto c’è un rimedio, a tutto c’è una soluzione”.
Eppure suo padre arrivò a quel punto… “No, è impensabile che una settimana dopo mio padre potesse fare un gesto simile… è follia pura. Io da subito ho urlato che secondo me mio padre non ha assolutamente compiuto quel gesto, proprio perché conoscevo mio padre. Di cosa avrebbe dovuto avere paura?”
Nel corso della trasmissione “Tempo Reale”, condotta da Michele Santoro, suo padre era stato accusato da Leoluca Orlando e Manlio Mele, rispettivamente sindaco di Palermo e sindaco di Terrasini, di “stare dalla parte della mafia”… “Le dichiarazioni di Orlando? Mio padre sapeva perfettamente che si sarebbe difeso da quelle assurde infamanti accuse. Sì, papà provò una grandissima delusione per il fatto che l’Arma dei Carabinieri non prese pubblicamente le sue difese, visto che a lui non veniva data la possibilità di farlo, così come avevano impedito al Generale Federici che immediatamente aveva provato a chiamare in trasmissione e gli venne negata la possibilità di intervenire. In procura non c’era nulla contro mio padre, al contrario di quello che diceva Orlando… non fu certamente questa la causa della sua morte. La sera stessa aveva scritto con il suo avvocato una querela…l’unica cosa che mi viene in mente per giustificare un gesto simile, il fatto che avevano detto che avrebbero toccato la sua famiglia?”
Poteva essere una forte motivazione… “Certo, papà era molto legato a noi, ai figli, a mia madre… ma in quel caso si dovrebbe parlare di istigazione al suicidio… Perché la Procura di Palermo ha avuto fretta di archiviare? Dopo la morte di mio padre, ci fu un’altra puntata della stessa trasmissione, nella quale intervennero ufficiali dei Carabinieri, ma a quel punto, per quanto mi riguarda, non serviva più a niente. Sarebbe servito prima, non dopo”
La voce di Rossella, si incrina un po’, tradisce un sentimento misto di dolore, delusione e rabbia, ma anche quel misto di angosce e dubbi che nascono da una mancata verità, una mancata giustizia come nel nostro Paese ce ne sono tante, troppe… “Perché è morto mio padre? Io ancora a distanza di 25 anni non lo so. Perché non è stata effettuata l’autopsia? Un carabiniere decide di togliersi la vita all’interno della caserma e non si ritiene importante l’autopsia? A noi viene detto che non è stata fatta per una questione di umanità, ma stiamo scherzando? Si ritiene di poter offendere l’intelligenza delle persone?”
Cosa sarebbe cambiato? Forse molto… ci sono troppe anomalie… Dalle fotografie di quella sera, delle quali siamo venuti in possesso da poco, ci sono tanti particolari che a tutto portano tranne che a pensare a un suicidio. Accanto al corpo di mio padre, sul sedile al lato destro, viene rinvenuta la presunta lettera nella quale scrive: ‘Mi sono ucciso per non dare la soddisfazione a chi di competenza di farmi ammazzare e farmi passare per venduto e principalmente per non mettere in pericolo la vita di mia moglie e i miei figli che sono tutta la mia vita’. Come si spiega che la lettera è pulita? Com’è possibile che all’esterno del sedile dov’è il corpo di mio padre, ci sono delle macchie di sangue, come nel solo bordo sinistro del sedile passeggero, mentre questa lettera non ha una macchia di sangue? Soltanto se si apre la lettera, c’è qualche schizzo di sangue qua e là…Un’altra stranezza da film hollywoodiano, è vedere questo corpo in macchina che impugna ancora la pistola, in grembo, con il dito sul grilletto. Io non sono un perito balistico, non sono un medico legale, ma con chiunque parlo tutti mi dicono che è impossibile che la mano possa ritrovarsi in quella posizione. Lo stesso rinculo dell’Arma porterebbe il braccio a cadere in perpendicolare… invece no, la posizione è completamente diversa…”
Faccio una breve pausa, ho l’impressione che lei stia rivedendo nella sua mente le immagini… quelle immagini che certamente l’hanno sconvolta, che sicuramente l’avranno fatta piangere le stesse lacrime di 25 anni prima. “Come è possibile che il PM che si è trovato là quella sera, abbia preso la decisione di non effettuare l’autopsia? Anche per quanto riguarda l’ogiva, doveva essere deformata… è integra, pulita… almeno quella che noi vediamo in foto. In un articolo di Attilio Bolzoni, pubblicato pochi giorni dopo la morte di mio padre, il giornalista aveva scritto che questa ogiva non si trovava. Un altro mistero, se non si trovava l’ogiva, quella in fotografia qual è? Dove l’hanno presa? Leggo dai verbali della Scientifica, che il proiettile viene ritrovato dietro la macchina. Che traiettoria ha fatto quel proiettile?”
Voi non avete nominato un perito balistico di parte? “Sì, per il nostro perito è pura follia. Lo è lo stato dell’ogiva, la traiettoria che espongono, la canna della pistola pulita senza neppure una goccia di sangue… poi, non si trova l’ogiva, non si trova la pistola… Fabio, mio fratello, in Procura ha chiesto sia l’ogiva che la pistola per farle analizzare al nostro perito balistico. Non esiste nè l’una e nè l’altra. Anche questo è possibile? Di stranezze ne sto vedendo e sentendo una marea…”
I dubbi sono tanti e certamente a dissolverli non aiuta il modo in cui sono state condotte le indagini, la fretta nell’archiviare il presunto suicidio. Un suicidio archiviato, ma i cui atti erano secretati., “Le sembra normale che tutta questa documentazione sia stata desecretata dopo tutti questi anni?– prosegue Rossella Lombardo – Perché tenerli secretati visto che era stato archiviato come suicidio, c’è forse qualcosa che porta a pensare che di tutto si tratta tranne di suicidio?”
Già, perché secretare gli atti inerenti un caso risolto e archiviato? “A me vengono in mente soprattutto gli ultimi giorni di papà. Ripensando a quei giorni non posso mai credere che mio padre abbia preso questa decisione… Sicuramente era molto amareggiato per quanto accaduto, questo sì, ma forse lo era ancora di più per l’essersi sentito solo, isolato… Papà doveva partire per andare negli Stati Uniti… Aveva incontrato due volte Badalamenti e questa terza volta sarebbe stata quella determinante perché Badalamenti potesse venire in Italia. Non sarebbe venuto come pentito, questo lo ha sempre detto, ma soltanto come testimone. A lui premeva soprattutto il processo per l’omicidio del giornalista Pecorelli…”
Non pensa che tutto questo avrebbe potuto mettere in discussione le attività svolte dai magistrati rispetto ai processi o talune ipotesi investigative e che dunque ci potesse essere anche qualche perplessità anche in ambito giudiziario? “Questo non posso affermarlo con certezza, ma credo che ci sarebbe stato un terremoto a livello giudiziario. Credo che il rientro di Badalamenti in Italia non avrebbe fatto piacere a molti. Poi le cose sono andate come sono andate… Il viaggio in America per portare Badalamenti in Italia non si fece più, papà è morto e Badalamenti non è più venuto in Italia… è come se qualcuno avesse voluto fermare questo viaggio, avesse voluto fermare mio padre. Badalamenti in Italia non doveva venire. L’unico modo per fermarlo qual era? non fare partire il Maresciallo Lombardo, perché lo sapevano tutti che Badalamenti in Italia sarebbe venuto soltanto con mio padre. Dopo la morte di papà, ci furono altre stranezze. Non si doveva venire a sapere che Badalamenti doveva venire in Italia con mio padre… sono scomparse relazioni a firma di mio padre… si è fatto di tutto per non fare sapere quello che era successo prima della morte di mio padre”
Perché? “Questo andrebbe chiesto a qualcun altro, non a me… Mio padre è morto e tutto è rimasto per com’era… Del viaggio americano che non si fece più nulla, l’Arma disse che volevano tutelarlo, che non volevano sovraesporlo. Non lo mandi in America per non sovraesporlo e me lo mandi a portare il pentito Salvatore Cangemi… non mi sembra una cosa meno pericolosa… Secondo me papà si aspettava qualcos’altro dai suoi superiori. Stava vivendo un periodo caldo. Una settimana prima, qui a Terrasini, era stato ucciso il suo confidente. Era stato un duro colpo per mio padre, un colpo devastante, ma non si spaventava mai per sè stesso, pensava alla sua famiglia. Pensava a noi figli, alla moglie… credo che vivesse quel periodo con la paura che potesse succedere qualcosa a noi. La notte prima che mio padre morisse ci hanno fatto pure scappare il cane che non si è mai più trovato. Tanti piccoli particolari che sicuramente ci hanno fatto preoccupare, ma non a tal punto da prendere quella decisione… a questo non ci crederò mai. Quando morì papà, io avevo 16 anni. Ero nel periodo più delicato della mia vita. Mio padre per me era tutto, era il punto di riferimento… lo era per tutta la famiglia, ma con me aveva un rapporto particolare… Per me è stato come morire con lui. Da allora si è continuato ad andare avanti, a vivere non lo so. Solo andare avanti… la mia vita si è fermata a quel maledetto 4 marzo 1995. Vederlo poche ore prima a casa, parlargli e poi vederlo dentro una bara con una fascia in testa sporca di sangue, non è stato un trauma, di più… Nessuno aveva avuto il coraggio di dirci come era morto. Ci diedero soltanto la notizia che era morto. Noi demmo per scontato che fosse stato ucciso visto il momento che si stava vivendo… L’abbiamo scoperto soltanto quando siamo arrivati al Comando Legione quello che era successo. La morte di papà è un dolore vivo che viviamo ogni giorno, perché a casa mia non c’è giorno che non si parli di mio padre. Ogni giorno lo ricordiamo e riviviamo quei momenti…”
Mentre ascolti la voce della figlia, il pensiero va alla figura del padre, non del Maresciallo Lombardo, ma di Antonio Lombardo, una moglie, i figli, le piccole e grandi gioie che la vita può regalarti. Morire quando hai solo 49 anni… e poi, morire in quel modo, senza un perché e senza che neppure si sappia con certezza come e perchè sei morto. Di ambiguità ce ne sono tante in questa storia di sangue, dolore, ma anche di tanto amore per la famiglia. “Dietro la morte di mio padre, ci sono delle cose molto pesanti che riguardano alcuni pezzi dello Stato. Che questa morte sia stata voluta, ne sono pienamente convinta. Da chi, mi piacerebbe scoprirlo. In questi 25 anni non ho mai parlato, sono stata sempre zitta, non ho mai detto nulla… Adesso sento il bisogno di parlare perché è una cosa che mi brucia molto. È inutile nascondere ancora dopo 25 anni certe verità che secondo me sono talmente palesi… Vogliamo fare finta ancora di non vederle, di non capirle? Che ci sia una responsabilità da parte di alcuni esponenti dell’Arma dei Carabinieri lo penso pure io, non è solo un pensiero di mio fratello. Mio padre per l’Arma ha dato la vita e per i suoi superiori avrebbe fatto qualsiasi cosa, perché mio padre era uno che diceva sempre ‘Comandi… Signorsì…’ e sono sicura che mio padre è morto dicendo ‘Comandi, Signorsì’. Papà aveva cercato un aiuto da parte dei tuoi superiori, un aiuto che non c’è stato. Una settimana prima di morire aveva chiesto di andare via per un po’ dalla Sicilia, perché aveva capito che il territorio era diventato pericoloso per la sua famiglia… Papà ne aveva parlato con noi, ci aveva chiesto se eravamo disposti ad andare per un po’ di tempo all’estero per fare calmare le acque… Noi ovviamente eravamo d’accordo, perché capivamo quello che stava succedendo. Dinanzi la sua richiesta ci fu un muro insormontabile, gli venne detto che lui serviva qui. Com’è possibile che non volete mandarlo in America per non esporlo, però mio padre vi chiede di andare via per un po’ di tempo e voi dite no, tu ci servi qui? Sapevano benissimo che qui il territorio scottava, che era stato ucciso il suo confidente… Per questo dico che in ogni caso ci sono delle responsabilità nella morte di mio padre. Un suo superiore, del quale non voglio fare il nome, che si riteneva molto amico di mio padre, anni fa venne casa mia e prima di andare via mi disse: ‘La verità, quella vera, vi farebbe ancora più male’.
Mi dici una frase del genere ma non mi dici il perché mi sta dicendo questa frase? Di quale verità stai parlando?” Nella voce si sente un moto di rabbia, quella rabbia che nasce dal non sapere, dal non aver ricevuto giustizia. “C’era anche una relazione del Sisde, questa relazione è stata mai analizzata da parte della Procura di Palermo? Qualcuno si è preso mai la briga di vedere e verificare quello che c’era scritto in quella relazione? La Procura di Palermo, che ha fatto? Perché non si è smosso niente, perché si è avuta la fretta di archiviare il caso come suicidio? Cos’è che fa pensare a un suicidio, una lettera e una pistola? Io ho visto quelle fotografie, quelle maledette fotografie, e ho letto le dichiarazioni di chi era presente quella sera…Mi viene da piangere… Com’è possibile che nessuno ha visto ne sentito niente?”
Una caserma, un sabato sera, quando il silenzio è assordante. Due piantoni, uno al comando Battaglione e uno al comando Legione, non vedono entrare quest’uomo. Possibile che nessuno lo abbia visto, che nessuno senta il colpo di pistola? Troppi interrogativi irrisolti. Tanti dubbi, nessuna certezza. “Solo uno lo sente, dice di sentire un tonfo. Dai verbali risulta che l’allora Capitano Ultimo dice di aver sentito un tonfo alle 22:30 e pensa che arrivi dall’ufficio dove si trovano le armi. Lo sente lui che si trova a 70 m di distanza e non il piantone che si trova a 20 m di distanza? L’auto di papà era un’auto di servizio, possibile che nessuno registrò l’ingresso di quell’auto, che nessuno lo vide? Non hanno visto entrare l’auto e hanno saputo della sua morte la mattina successiva. Uno dei piantoni parla di un’ambulanza che all’improvviso si presenta lì al Battaglione. Lui la ferma e chiede dove stia andando e cosa sia successo. L’autista risponde che c’è un uomo che sta male… che sono stati chiamati perché c’è un uomo che sta male. Il piantone fa entrare l’ambulanza che fa il giro del cortile ed esce immediatamente. Perché arrivò l’ambulanza, cosa ha fatto, chi era che stava male? Il Capitano Ultimo dichiara che un Brigadiere gli riferì che c’era un uomo in un’auto che stava male… Un uomo sta male e te ne vai? Non chiami aiuto, non chiami i soccorsi, non fai nulla? Non ti avvicini per vedere che cos’ha, per vedere chi è? Cosa hai visto per dire che c’è un uomo che sta male? Guarda caso, tutti vengono interrogati tranne questo Brigadiere. non c’è nessuna dichiarazione da parte sua… nessuno ritiene importante chiedere al Brigadiere cosa avesse visto, chi avesse visto, chi è che stava male…”
Ma le stranezze non finiscono qui. Quella sera, al Comando Legione, il Maresciallo Lombardo s’incontrò con il Generale Cagnazzo, l’ultimo che lo vide vivo. Cosa si dissero? Questo non è dato saperlo. Il Generale riferì che Lombardo era tranquillo e sereno, addirittura rideva. Era talmente tranquillo e sereno da scendere in cortile e decidere di suicidarsi? Non fu quello l’unico incontro della giornata. “Il Capitano Baudo, riferisce che incontra papà via Belgio, a Palermo, intorno alle 18:00 e di avergli detto di non andare assolutamente al Comando Legione e di non rispondere per nessun motivo al Generale Cagnazzo se lo avesse cercato per telefono. In Procura qualcuno ha chiesto al Capitano Baudo perché ha dichiarato questo? Perché il Capitano Baudo dice a mio padre di non andare assolutamente al Comando Legione e di non rispondere alle chiamate del Generale? Qualcuno se lo dovrebbe chiedere come mai… non mi sembra normale che tu consigli a mio padre di non andare al Comando e dopo poche ore viene trovato morto proprio lì…”
Sono tante le anomalie e a distanza di 25 anni diventa sempre più difficile far chiarezza. Ma Fabio e Rossella, i figli del Maresciallo Lombardo, non demordono, vogliono la verità, costi quel che costi. “Le dico una cosa molto forte, preferirei sapere che mio padre è stato ucciso… conoscendo mio padre sono convinta che quella non fu una sua decisione, non fu un atto voluto da mio padre. Mia madre era la persona che viveva più direttamente la situazione… Papà si confidava con mamma, parlava di tutto con lei. Con noi figli certe cose non le affrontava, magari perché eravamo ancora dei ragazzi e non voleva metterci tensione. Di molte cose però ce ne parlava. Soprattutto negli ultimi tempi, in particolare con mio fratello Fabio… Mamma ricorda sempre che negli ultimi periodi lui era molto teso, molto in tensione. Anche quando uscivano magari per andare a cena fuori, la mamma notava che papà aveva degli atteggiamenti che di solito non aveva. Tendeva a proteggerla, anche in macchina… e lei capì che era un periodo particolarmente delicato. Una notte mio padre scoppiò a piangere all’improvviso. Una cosa che non aveva mai fatto. L’abbracciò fortissimo e le disse che se fosse successo qualcosa a lei o a noi figli non avrebbe potuto vivere senza di noi… Mamma chiese perché stesse dicendo così, se avesse saputo qualcosa o se avesse scoperto qualcosa. Papà le fece solo capire che c’era qualcosa che non andava, che era un periodo troppo ‘caldo’ e che aveva paura per la nostra incolumità. Mia madre ricorda questo particolare che la porta a pensare che mio padre avesse saputo qualcosa che la preoccupava molto. Mamma ha sempre raccontato anche un altro particolare. Fino ai primi di gennaio del 95, abitavamo in caserma a Terrasini. poi andammo a stare in una casa nostra, perché papà aveva lasciato la stazione dei Carabinieri per andare al Ros. Papà prima di lasciare la caserma disse mia madre che voleva portarla all’archivio per farle vedere una cosa e così un giorno andarono in caserma e la porto nella stanza dell’archivio e disse a mia madre ‘Vedi questo faldone? Se mi succede qualcosa, qua troverai la verità sul perché mi hanno ammazzato’…”
Rossella fa un’altra breve pausa, quasi a rimarcare con il suo silenzio quel ‘perché mi hanno ammazzato’ pronunciato da suo padre. Poi riprende…. L’auto dove venne rinvenuto il corpo “Ovviamente sentirsi dire queste cose non fa piacere… ma davanti a lui mamma si fece coraggio e gli disse di non preoccuparsi, che avrebbe tenuto bene a mente quello che gli aveva detto. Mia madre viveva quei momenti pesanti, pesanti dal punto di vista della paura. Sicuramente c’era la paura che qualcosa potesse accadere. Mamma l’aveva percepito e in casa non si viveva più quella serenità che avevamo sempre avuto in famiglia. Anche il fatto stesso che papà si volesse allontanare dalla Sicilia per un po’ di tempo, ci portava a pensare che ci fosse qualcosa. Credo che per lui il colpo peggiore sia stato l’omicidio del suo confidente… Il suo terrore era quello che potesse succedere qualcosa a noi… Quando muore papà, a mia madre viene immediatamente in mente il faldone in archivio. Si fa accompagnare in caserma per cercare questo faldone, ma stranamente non si trova più. La stessa sera che mio padre muore, era stata fatta una perquisizione a casa nostra. Io vorrei capire chi avuto la premura quella notte di andare a cercare non so cosa… sono venuti a casa, penso siano andati anche in caserma…”
Suo padre teneva tutto in caserma? “No. Papà aveva una valigetta 24h che portava sempre con sé. Anche quella mattina uscì con la sua 24h che conteneva documenti dai quali non si staccava e ci perquisiscono casa… i documenti di mio padre spariscono… io non so più cosa pensare…A volte si pensa che dopo tanti anni il dolore si lenisca. Purtroppo n giustizia potrei dimenticare, ma sicuramente servirebbe a dare una maggiore serenità alla mia vita. Finché non ci sarà giustizia questo non sarà possibile. L’amore nei confronti di mio padre era ed è immenso. Mi hanno privato dell’amore più grande che avessi nella vita. Io rinunciavo a uscire con le amiche per stare con mio padre. Amavo stare con lui, amavo ascoltarlo, guardarlo, parlare con lui… Avevamo una sintonia particolare. Credo che il rapporto t figlia sia veramente un rapporto unico. Non tutti hanno la fortuna di averlo… io ho avuto la fortuna di averlo e mi è stato tolto. Ma continuo a volerlo sentire sempre vicino… con lui parlo, piango… con lui rido… lui, in un modo o in un altro, devo sentirlo accanto a me…”
La voce di Rossella ha perso pure quella punta di rabbia che aveva. Sento il dolore, le lacrime che a breve scenderanno lungo il suo viso. Non pongo altre domande. A chi chiedono aiuto Fabio e Rossella, a quello Stato assente 25 anni fa come lo è oggi? Chi risponderà alle tante domande e ai tanti perché di un suicidio con tante anomalie? È meriggio. Il sole è alto e quest’estate sembra ancora più calda di quelle passate. Eppure, ripensando a quanto mi ha raccontato Rossella Lombardo, alla sua voce, ora stizzita di rabbia, ora roca di pianto, sento un brivido gelido attraversare il mio corpo… Gian J. Morici LA VALLE DEI TEMPLI 31.8.2020
Tra i servitori dello Stato che hanno contributo all’arresto di Totò Riina, molti hanno pagato un prezzo alto. Infangati, processati, additati come traditori. Qualcuno, però, a quella stagione di bombe di mafia e veleni non è sopravvissuto. Il maresciallo Antonino Lombardo era il comandante della stazione dei carabinieri di Terrasini, e collaborò alle indagini che portarono all’arresto del boss, prima di entrare nel Ros, dove arriva con il suo bagaglio di contatti e confidenti creati lavorando sul territorio. Diventa peraltro l’unico carabiniere con cui il boss Tano Badalamenti, in prigione negli Usa, è disposto a parlare a proposito del processo Andreotti. Nel 1995 il mafioso acconsente a tornare in Italia per testimoniare, ma vuole che a «scortarlo» ci sia Lombardo. Lui accetta, ma non partirà mai. Pochi giorni prima del volo per gli Usa, il maresciallo finisce sotto attacco in tv. A sparare accuse pesantissime, definendo «l’ex capo della stazione dei carabinieri Terrasini» – mai nominato per nome – un «colluso con la mafia» è il sindaco di Palermo Leoluca Orlando. E quando Santoro si collega con Terrasini e dà la parola al sindaco della cittadina, Manlio Mele, quest’ultimo conferma. Santoro, invece, non lascia parlare il comandante generale dell’Arma, Luigi Federici, che chiama in trasmissione e chiede invano di intervenire a difesa di Lombardo. Che non regge l’onta. E il 4 marzo si spara un colpo in testa nel cortile della caserma. «Mi sono ucciso per non dar la soddisfazione a chi di competenza di farmi ammazzare e farmi passare per venduto». IL GIORNALE
15 GENNAIO 1993, IL MARESCIALLO LOMBARDO E LE MANETTE PER TOTÒ RIINA
Il maresciallo aveva fonti affidabili che hanno potuto non solo far iniziare le indagini ma indirizzarle a colpo sicuro e fu solo grazie alle sue precise informazioni che la CRIMOR ha potuto mettere a segno l’arresto
Di chi fu il merito della cattura di Totò Riina? Del prefetto Mario Mori e del colonnello Sergio De Caprio o del maresciallo Antonino Lombardo, il comandante della caserma di Terrasini?
Come sempre gli atti processuali, ma non solo, mettono sulla giusta strada. Nelle motivazioni della sentenza del procedimento “Bagarella e altri” pubblicate il 5 agosto dello scorso anno, a questo proposito, è scritto:
«Più esattamente, già alla fine di luglio (del 1992, ndr), secondo la scansione temporale accertata nel processo che vide MORI e DE CAPRIO imputati di favoreggiamento aggravato in relazione all’episodio della mancata perquisizione del covo di RIINA — entrambi assolti con la formula “perché il fatto non costituisce reato” con sentenza emessa dal Tribunale di Palermo il 20.02.2006, confermata in appello e divenuta irrevocabile – e secondo quanto ha dichiarato il Generale MORI al processo BORSELLINO ter, risalirebbe una prima riunione operativa alla caserma dei Carabinieri di Terrasini. Il numero e il livello dei partecipanti denota l’importanza di quella riunione. Erano infatti il presenti M.llo LOMBARDO, all’epoca ancora comandante della locale stazione dei CC, il suo superiore gerarchico, Capitano BAUDO, comandante della Compagnia CC di Carini, nonché il Col. Sergio CAGNAZZO, vice comandante operativo della Regione Sicilia e, per il R.O.S., il Maggiore Mauro OBINU, comandante del Reparto Criminalità Organizzata, il Capitano ADINOLFI, comandante della Sezione Anticrimine di Palermo, il Capitano DE CAPRIO, comandante della I sezione del Reparto C.O.: “Lo scopo era quello di costituire una squadra composta sia da elementi del ROS che della territoriale, che avrebbe dovuto occuparsi in via esclusiva delle indagini finalizzate alla cattura di Salvatore RIINA. Al Mar.llo Lombardo, soggetto ben inserito nel territorio e profondo conoscitore della realtà mafiosa, in grado di disporre di utili canali confidenziali (tra questi, quel Salvatore Brugnano che, successivamente all’arresto del Riina, sarà sospettato dal gotha mafioso – come ha riferito in dibattimento il collaboratore Brusca – di aver contribuito alla cattura del latitante), venne affidato l’incarico di attivare le sue fonti al fine di reperire notizie che potessero essere sviluppate dal ROS, con l’effettuazione delle necessarie e conseguenziali attività di indagine, in direzione della ricerca del boss corleonese”».
Il maresciallo Lombardo, si legge, «disponeva di fonti confidenziali ritenute affidabili. E il territorio in cui il M.llo LOMBARDO operava e intratteneva i suoi contatti con le sue fonti era la zona di Cinisi-Terrasini e dintorni: ossia una zona in cui Bernardo PROVENZANO, per tutta una lunga fase della sua latitanza, (fin dalla prima metà degli anni ‘70) aveva letteralmente messo radici anche messo su famiglia, sposando una “cinisara” (Benedetta Saveria PALAZZOLO), come la apostrofa RIINA in una delle conversazioni con la “dama compagnia” LO RUSSO captate al carcere di Milano Opera, rivolgendole peraltro convinti attestati stima affetto (al punto di farne una delle ragioni per aveva voluto bene allo stesso Binnu, cioè a PROVENZANO) anche per fatto che aveva saputo diventare una “corleonese”, dimenticando sue origini, ossia provenienza da territorio che – verosimilmente per essere stato il regno di Gaetano BADALAMENTI, ma anche perché non ci si poteva fidare cinisari – non era cuore di RIINA. Proprio la conoscenza del territorio, delle sue dinamiche mafiose e i suoi confidenti permisero al M.llo Lombardo di raccogliere le prime, ma importanti, informazioni su chi si facesse carico della latitanza dei Riina perché «a fine settembre, nel corso di una nuova riunione operativa non meno riservata della precedente, sempre alla presenza del Capitano De CAPRIO e del Maggiore OBINU, entrambi sotto il comando del Col. MORI, loro diretto superiore gerarchico n.q. di vicecomandante operativo del R.O.S., il M.llo LOMBARDO riferì l’informazione ricevuta dalle fonti, secondo cui era Raffaele GANCI, capo della potente famiglia mafiosa della Noce di Palermo a farsi carico in quel momento, insieme ai suoi figli, di proteggere la latitanza Salvatore RIINA (…) e degne di fede – tanto da farne discendere l’attivazione di una specifica operazione investigativa con l’allestimento di una squadra catturandi, al comando del Capitano DE CAPRIO – furono ritenute le informazioni acquisite alla fine di luglio-primi di agosto sempre dal M.llo LOMBARDO attraverso le proprie fonti, secondo cui era Raffaele GANCI con i suoi figli a farsi carico direttamente di curare la latitanza di Salvatore RIINA: una soffiata che si rivelerà fondamentale, oltre che esatta, per le successive indagine sfociate nella cattura del capo di Cosa Nostra, e che poteva provenire solo da persone che facessero parte dell’entourage dello stesso RIINA o avessero contatti stretti con soggetti che ne facevano parte».
A questo si aggiunge quanto dichiarato, durante processo relativo alla mancata perquisizione del covo, invero l’abitazione, di Totò Riina dopo il suo arresto, dal generale Domenico Cagnazzo, ora in pensione ma nel ’93 vicecomandante operativo della Regione Carabinieri in Sicilia «L’individuazione del covo di via Bernini fu merito esclusivo del maresciallo Lombardo, che portò le prime notizie sui Sansone, e di De Caprio, che le trasformò in indagini operative sul campo. Lombardo era un profondo conoscitore della storia di mafia, e aveva buoni agganci per arrivare alla cattura di Riina».
A riprova esiste una nota del maresciallo Lombardo, datata 29 luglio 1992, quindi successivo alla riunione citata dal Generale Mori, in cui scrive «Fonte confidenziale di comprovata attendibilità ha riferito che in atto la latitanza del noto mafioso Riina Salvatore viene favorita dalla famiglie mafiose della Noce Ganci-Spina e dai fratelli Sansone dell’Uditore». Confermato ancora una volta da Cagnazzo, che partecipò alla riunione, e che nello stesso dibattimento indicato ha ricordato che a Lombardo fu dato l’incarico di attivare le sue fonti. E ha detto che fu lui a dare gli input che poi si concretizzarono nello storico arresto.
Input non di poco conto, tenuto conto che nella nota viene indicato Sansone, il costruttore mafioso che realizzò il residence di via Bernini e fornì la villetta per la latitanza del boss. Per la cronaca, la famiglia Sansone è di nuovo assurta ai (dis)onori della cronaca lo scorso anno quando, scrisse l’ANSA, furono perquisiti «l’abitazione e gli uffici del costruttore Agostino Sansone, arrestato oggi (8 giugno 2022, ndr) insieme al suo collaboratore Manlio Porretto, e a Pietro Polizzi, candidato di Forza Italia al Consiglio Comunale di Palermo, impiegato di Riscossione, accusati di scambio elettorale politico-mafioso. La perquisizione ha riguardato alcuni immobili che si trovano nel complesso residenziale di Via Bernini, lo stesso in cui i Sansone, storici alleati dei boss corleonesi, ospitarono Totò Riina prima dell’arresto».
Una cosa è certa: il maresciallo aveva fonti affidabili che hanno potuto non solo far iniziare le indagini ma indirizzarle a colpo sicuro e fu solo grazie alle sue precise informazioni che la CRIMOR ha potuto mettere a segno l’arresto, anche se rimangono alcune domande cui non si è mai data risposta. Ad esempio se avessero lasciato proseguire il tragitto dell’auto con Riina e l’avessero seguita per alcuni chilometri, dove sarebbero potuti arrivare? Si sarebbero trovati a una riunione della Cupola cui era atteso il Riina e avrebbero consegnato allo Stato un bottino maggiore? E perché diversi ufficiali dell’Arma, tra questi De Caprio e il generale Delfino, hanno fatto di tutto per attribuirsi il merito esclusivo della cattura? A chi faceva comodo la delegittimazione del maresciallo Lombardo anche a fronte di evidenze inoppugnabili?