Luigi Ilardo, autorevole capomafia della provincia di Caltanissetta, aveva deciso di cambiare vita: per un anno e mezzo passò informazioni al colonnello Michele Riccio. Su mafia, politica e massoneria. Poi, il 10 maggio 1996, fu ucciso, a Catania. Il prossimo 1° ottobre al vaglio della Cassazione la Sentenza d’appello che ha confermato quella di primo grado.
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OMICIDIO ILARDO, SI TRATTÒ DI UN REGOLAMENTO DI CONTI INTERNO A COSA NOSTRA
L’8 marzo scorso è stata depositata in Cancelleria la sentenza della Corte Suprema di Cassazione – Prima sezione penale n.9307 che, di fatto, condanna in via definitiva Madonia Giuseppe, Santapaola Vincenzo, Cocimano Orazio Benedetto e Zuccaro Maurizio per l’omicidio di Luigi Ilardo.La sentenza in oggetto chiude il lungo iter processuale relativo all’omicidio di Luigi Ilardo che avvenne la sera del 10 maggio 1996 in via Quintino Sella a Catania. Il 21 marzo 2017 la Corte d’Assise di Catania, presieduta dalla dottoressa Rosa Anna Castagnola ritenne, “visti gli artt. 533 e 535 c.p.p. dichiara Madonia Giuseppe, Santapaola Vincenzo, Zuccaro Maurizio e Cocimano Orazio Benedetto colpevoli del delitto loro in concorso ascritto e li condanna alla pena dell’ergastolo”. I condannati erano imputati “del delitto p. e p. dagli artt. 110, 575 e 577 nn. 3 e 4 c.p., 7 D.L. n. 152/1991, perché, agendo in concorso tra loro, Madonia Giuseppe e Santapaola Vincenzo, quali mandanti, Zuccaro Maurizio e La Causa Santo (per il quale si procede separatamente) quali organizzatori, Cocimano Orazio Benedetto (unitamente a Signorino Maurizio e Giuffrida Piero successivamente deceduti) quale esecutore materiale, esplodendo numerosi colpi di arma da fuoco calibro 9 mm all’indirizzo di Nardo Luigi provocavano la morte del predetto”.Nel rigettare i ricorsi presentati dagli imputati, la Corte traccia percorsi e motivazioni che hanno determinato la volontà dell’omicidio dell’Ilardo e conferma le responsabilità già formulate nelle precedenti sentenze.Nello specifico, grazie alle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, è stato possibile ricostruire i tempi in cui è stata decisa la morte dell’Ilardo e le relative motivazioni. Si chiarisce il rapporto tra l’Ilardo e il Ros, il suo atteggiamento e la sua personalità stante che “alcune circostanze di fatto, relative alla personalità della vittima, possono ritenersi pacifiche. In particolare, è emerso – anche attraverso la deposizione dei testimoni col. Riccio Michele e col. Damiano Antonio – che Ilardo Luigi, esponente di spicco della famiglia Madonia di Caltanissetta (nonché cugino di Madonia Giuseppe) dopo un lungo periodo di detenzione aveva, dall’anno 1994 e sino al momento della morte, avviato una collaborazione informale con apparati investigativi ed in particolare con il colonello Riccio”. Di fatto Luigi Ilardo aveva il ruolo di confidente e come tale si è comportato nel periodo in cui è stato tale continuando a svolgere la sua normale attività essendo “un esponente di spicco della famiglia Madonia di Caltanissetta (nonché cugino di Madonia Giuseppe)”. Come confidente, l’Ilardo ha fornito informazioni che “al col. Riccio hanno consentito di procedere all’arresto di taluni latitanti di rilievo della organizzazione mafiosa e di avviare una complessa indagine sulle famiglie di Caltanissetta e Gela, poi sfociate in un processo celebratosi dopo la morte di Ilardo”. Durante la sua attività di confidente “Ilardo aveva altresì fornito al col.Riccio notizie di estrema rilevanza circa la latitanza di Bernardo Provenzano, soggetto con cui Ilardo intratteneva rapporti epistolari e, in una occasione (nell’autunno del 1995) personali diretti” ma “la mancata attivazione – all’epoca – di un idoneo servizio di polizia giudiziaria teso alla cattura di Provenzano Bernardo, da parte dei superiori del col. Riccio, in occasione dell’incontro tra il confidente Dardo e il noto latitante è stata oggetto di un giudizio penale conclusosi, peraltro, con l’assoluzione dei soggetti tratti a giudizio (essenzialmente per assenza di prova sulla finalità di agevolazione del latitante da parte degli imputati, ma con conferma del dato storico rappresentato dall’incontro tra l’Ilardo e Provenzano)”.Come evidenzia la Corte “Sta di fatto che la ricostruzione della genesi e della fase esecutiva del delitto è stata alimentata, in sentenza, dall’analisi di più contributi collaborativi succedutisi nel corso del tempo”. Nello specifico “Barbieri Carmelo, del gruppo gelese, in stretto contatto con Ilardo fino al giorno dell’omicidio, ha affermato di aver saputo – dopo il fatto – da esponenti di rilievo del clan Madonia che Ilardo era stato eliminato perché confidente delle forze dell’ordine”.Non solo. Relativamente alla posizione di Giuseppe Madonia “la Corte di Assise di Appello riteneva dimostrata la trasmissione del mandato omicidiario da parte di costui ai membri del clan Santapaola. Ciò in riferimento ai contributi dichiarativi resi, essenzialmente, da Di Raimondo Natale – le cui dichiarazioni vengono ritenute attendibili e circostanziate -, Brusca Giovanni, La Causa Santo e Cosenza Giacomo. Viene evidenziata la diversità e la autonomia delle singole fonti di conoscenza citate dai dichiaranti, con piena convergenza sul nucleo essenziale della narrazione”.Si afferma inoltre “che è pienamente verosimile che la reale motivazione della decisione di uccidere Ilardo fosse la intervenuta consapevolezza – in capo al Madonia ed ai suoi più stretti accoliti – della attività di confidente da Ilardo posta in essere ma tale ragione, come spesso è avvenuto nei contesti mafiosi, non venne in quel momento disvelata e si preferì ‘addossare’ ad Ilardo la responsabilità dell’omicidio Famà (fatto che appariva correlato all’omicidio della moglie di Benedetto Santapaola), sì da determinare la sicura adesione dei Santapaola al progetto omicidiario”. A supporto, inoltre, il fatto che “dopo l’omicidio di Ilardo, avvenuto in territorio catanese e ad opera di affiliati al clan Santapaola, non vi fu alcuna reazione da parte dei Madonia, famiglia di appartenenza della vittima”.Rispetto, invece, ai tempi in cui maturò la decisione di eliminare l’Ilardo già nella sopra citata sentenza del 21 marzo 2017 si legge che:“In particolare, dalla congiunta valutazione degli elementi acquisiti in atti si giunge alle seguenti conclusioni:a) dopo il 31 ottobre 1995 – data alla quale non si era ancora diffuso alcun sospetto sull’Ilardo nell’ambiente criminale, tanto che lo stesso incontrava Provenzano a Mezzojuso – erano giunte al Provenzano notizie circa il ruolo di informatore che il predetto stava svolgendo. Il Provenzano ne aveva quindi deciso l’uccisione, chiedendo al Giuffrè di occuparsene; b) nel medesimo periodo, missive anonime, giunte ad autorità e soggetti privati, accusavano Ilardo di “mire espansionistiche” (v. dichiarazioni del Riccio); Vaccaro Lorenzo diveniva esclusivo referente di cosa nostra nissena per le altre province (V. dichiarazioni di Vara, Giuffrè e Di Raimondo) e Madonia chiedeva l’eliminazione delPIlardo, che era stato nel frattempo isolato all’interno della compagine criminale di appartenenza e di fatto destituito dal ruolo di rappresentante provinciale (come ha affermato di Raimondo Natale per averlo appreso da Tusa Francesco e come si desume altresì dalle dichiarazioni di Vara e da quanto riferito dal Riccio in ordine all’inutilmente atteso secondo incontro di Ilardo con Provenzano; significativo è anche l’esame dei tabulati del traffico telefonico sulle utenze in uso all’Ilardo che segnano un rallentamento e poi, verso il marzo del ’96, una cessazione di contatti sia con Madonia Maria Stella che con i Tusa)”e che“la definitiva conferma sulla causale dell’omicidio è fornita, infine, da Barbieri, il quale ha affermato di averne avuto notizia dai familiari dell’Ilardo e, in particolare, da Francesco Lombardo, nonché da Sturiale e dalla Biondi che hanno riferito di avere appreso da Vacante Roberto che l’Ilardo era stato ucciso perché era divenuto “confidente”.Ricostruzione confermata dalla sentenza della Corte Suprema di Cassazione che ricorda come “Di Raimondo Natale, (detenuto al momento del fatto, esponente di spicco del clan Santapaola) nelle sue dichiarazioni affermava che già a marzo-aprile del 1996 in un colloquio avuto con Tusa Francesco (del clan Madonìa, anch’egli cugino di Ilardo) aveva appreso che i Madonia non ritenevano più Ilardo loro ‘referente esterno’ (..mio cugino è posato..), il che, secondo il dichiarante, era un chiaro preludio alla sua eliminazione, in virtù delle regole interne della organizzazione”. A questo si aggiunge quanto dichiarato da Antonino Giuffrè che nelle sue dichiarazioni “affermava che l’omicidio Ilardo, sulla base di sue interpretazioni di alcuni pizzini a lui indirizzati dal Provenzano, uniti alla considerazione delle regole interne di cosa nostra, era avvenuto per volontà del Provenzano (che aveva evidentemente scoperto la qualità di informatore dell’Ilardo) con l’assenso di Madonia Giuseppe. Se ne sarebbero occupati i catanesi, visto che lì risiedeva Ilardo”. Per la Corte è evidente che si sia trattato di una “azione delittuosa come ‘realizzata’ dal gruppo mafioso dei Santapaola in virtù di una richiesta proveniente dal vertice del gruppo Madonia (Madonia Giuseppe, con veicolazione dell’ordine curata da Vincenzo Santapaola) e non come iniziativa ‘autonoma’ della cellula mafiosa catanese”. La visione d’insieme degli accadimenti e la convergenza delle fonti, sia relativamente alla genesi sia al momento esecutivo, “consentono di ritenere pienamente logica e congruamente dimostrata – in sede di merito – la tesi per cui Ilardo ‘doveva’ essere eliminato in quanto confidente delle forze dell’ordine, con mandato proveniente da Giuseppe Madonia e veicolato tramite Santapaola Vincenzo” a cui si aggiunge che “la conoscenza dei fatti da parte del Brusca (sia pure de relato) ha trovato conferma nel rinvenimento del ‘pizzino’ indirizzato da costui al Provenzano, riferibile ai dubbi sorti sulla affidabilità dell’Ilardo”. La Corte conclude inoltre affermando che “la possibile esistenza di altri soggetti interessati ad evitare il consolidamento della attività collaborativa di Ilardo Luigi non si pone, sul piano logico, come fattore idoneo a ridimensionare il valore dimostrativo delle fonti raccolte nel giudizio, dotate di quei caratteri di specificità, autonomia e convergenza che consentono di ritenere validamente espresso il giudizio di responsabilità”.
Quest’ultima affermazione esclude definitivamente la possibilità che elementi esterni a Cosa Nostra possano aver suggerito, e ancor meno indicato, l’Ilardo come bersaglio e che, come più sopra indicato, la decisione relativa al suo omicidio risale al periodo marzo-aprile del 1996. Tutto ciò colloca, quindi, l’omicidio di Luigi Ilardo nell’ambito di un regolamento di conti interno all’organizzazione mafiosa di cui faceva parte a causa della sua attività di confidente. ROBERTO GRECO GLI STATI GENERALI 23 Marzo 2021
Il caso Ilardo Dalla fine del 1993, una volta uscito dal carcere, Luigi Ilardo, boss di Vallelunga e cugino di Giuseppe “piddu” Madonia, iniziò a collaborare con la DIA diventando confidente stretto del colonnello dei carabinieri Michele Riccio, con il nome in codice “Oriente“. La sua collaborazione consentì alle forze dell’ordine di catturare, nel corso di 3 anni, boss di “prima classe” appartenenti a diverse famiglie mafiose delle province di Messina, Catania e Caltanissetta. Tra questi anche il boss di Santapaola-Ercolano Enzo Aiello. Con il suo aiuto, insieme al colonnello Riccio, si sarebbe potuto catturare, il 31 ottobre 1995, il superlatitante Bernardo Provenzano 11 anni prima della sua cattura effettiva (l’11 aprile 2006). Ilardo era riuscito ad incontrarsi a Mezzojuso, in una masseria, con il capomafia corleonese. Nonostante l’informazione, però, i carabinieri del Ros, guidati dall’ex generale Mario Mori e dal colonnello Mauro Obinu, decisero di non effettuare il blitz. Per questo episodio venne istituito nei confronti di questi ultimi un processo a loro carico in cui vennero assolti “perché il fatto non costituisce reato”. Nel maggio 1996 Ilardo disse di voler intraprendere ufficialmente una collaborazione con la giustizia e a Roma incontrò anche i Procuratori capi di Palermo e Caltanissetta. Le sue dichiarazioni sarebbero state verbalizzate in un incontro successivo ma non vi fu il tempo. La sera del 10 maggio del 1996 Ilardo venne raggiunto da colpi d’arma da fuoco mentre si trovava sotto casa. Ad ordinare l’assassinio Giuseppe Madonia e Vincenzo “Turi” Santapaola. Secondo la ricostruzione dei giudici, dalle motivazioni della sentenza di primo grado del processo, emerge che sullo sfondo del delitto vi sono state false accuse, come il coinvolgimento di Ilardo nell’omicidio dell’avvocato Serafino Famà o il fatto che si fosse intascato i soldi dell’estorsione alle Acciaierie Megara, mentre la condanna a morte è stata emessa perché era un “confidente”. Quella notizia si era diffusa all’interno di Cosa nostra. Il collaboratore di giustizia Nino Giuffrè ha raccontato che la notizia fu portata anche a Bernardo Provenzano che “aveva deciso la sua uccisione, chiedendo a lui di occuparsene”. Anche di quel progetto parla la Corte d’assise evidenziando come non sia andato in porto in quanto, nel frattempo, era partito l’ordine dal carcere di Giuseppe Madonia. Il capomafia nisseno “chiedeva l’eliminazione di Ilardo, che era stato nel frattempo isolato all’interno della compagine criminale”. Pochi giorni dopo il suo assassinio Luigi Ilardo si sarebbe dovuto costituire in maniera ufficiale per diventare collaboratore di giustizia.
MANCATA CATTURA DI PROVENZANO A MEZZOJUSO, COSA SUCCESSE IL 31 OTTOBRE 1995 Ricostruiamo prologo, svolgimento e risoluzione di quel 31 ottobre 1995, il giorno in cui, secondo quanto indicato da Luigi Ilardo al colonnello Riccio, di cui era confidente, avrebbe dovuto incontrare il boss latitante Bernardo Provenzano.
Tutto inizia, come descritto dallo stesso colonnello Riccio nell’informativa “Grande Oriente” quando «la sera del 29 Ottobre 1995, lo scrivente veniva contattato telefonicamente dalla fonte che gli faceva comprendere di avere incontrato il FERRO Salvatore, il quale gli aveva dato appuntamento per le prime ore del Martedì 31.10.1995 al bivio di Mezzojuso, unitamente ed al VACCARO Lorenzo. Consigliava, pertanto, di raggiungerlo al più presto in quanto l’incontro poteva avere importanti sviluppi anche in direzione di PROVENZANO. Lo scrivente, rappresentata superiormente l’esigenza, si recava in Sicilia e la sera del 30 ottobre aveva modo di incontrare il confidente. La fonte gli confermava quanto già detto, ritenendo che l’appuntamento era propedeutico ad incontrare il PROVENZANO».
La circostanza è confermata dal generale Mori, nelle dichiarazioni spontanee rese dal Generale Mori il 7 giugno 2013, nel corso del procedimento che vedeva imputato, oltre allo stesso Generale Mori anche il Colonnello Mario Obinu, il quale afferma che «il 30 ottobre 1995, Riccio si presentò al ROS comunicandomi che la sera prima la sua fonte, denominata “Oriente”, da lui gestita a lungo e positivamente durante il periodo di permanenza alla DIA, lo aveva informato di essere stato contattato da Ferro Salvatore e Vaccaro Lorenzo, noti esponenti mafiosi, rispettivamente dell’agrigentino e del nisseno, che l’avevano convocata per un appuntamento, fissato per le prime ore dell’indomani 31.10.1995, presso il bivio di Mezzojuso, sulla strada di scorrimento veloce Palermo – Agrigento».
Quali azioni furono le azioni intraprese per quel 31 ottobre 1995 si evince sia dalle dichiarazioni di Mori «nel corso di una riunione estemporaneamente indetta, alla luce delle indicazioni disponibili, malgrado la sostanziale incertezza su partecipanti, terreno e modalità dell’incontro – fattori questi determinanti ai fini dell’efficace adozione di una qualsivoglia scelta operativa – preliminarmente mi orientai sull’ipotesi di approntare un dispositivo che potesse eventualmente procedere al pedinamento dell’Ilardo e dei suoi accompagnatori, dal luogo dell’appuntamento sino al successivo intervento, qualora in una delle fasi del servizio si fosse riscontrata la presenza del Provenzano.
Riccio, però, si mostrò decisamente contrario a tale soluzione, chiedendo un tipo di servizio mirato all’esclusiva documentazione dell’incontro al bivio di Mezzojuso, mediante l’osservazione a distanza dell’evento e la sua ripresa fotografica. Ciò anche in relazione all’indeterminatezza dei dati disponibili, con particolare riferimento alla località teatro dell’ipotizzato incontro ed alle modalità con cui il contatto si sarebbe potuto sviluppare. Tale soluzione, sollecitata a detta di Riccio anche dall’Ilardo, sarebbe servita a non fare sorgere sospetti sulla fonte, permettendogli, in prospettiva, di acquisire la piena fiducia degli interlocutori» ma e anche nell’informativa “Grande Oriente” a firma del colonnello Riccio in cui si legge che «dati i tempi ristretti di preavviso e non essendo pronto il materiale tecnico idoneo a garantire la cattura del latitante, in considerazione anche che l’incontro sarebbe avvenuto in territorio sconosciuto, in quanto in quel periodo il Provenzano si era allontanato da Bagheria, si decideva solo di pedinare il confidente. Servizio che veniva sospeso, allorquando, ci si accorgeva che i mafiosi, che proteggevano il latitante, stavano attuando manovre tese a verificare la presenza di eventuali servizi di pedinamento».
Illuminante, per capire cosa sia successo esattamente quel 31 ottobre 1995 è la “Relazione di servizio del 31.10.1995” del ROS redatta dal colonnello Riccio in cui si legge che «lo scrivente Ten. Colonnello RICCIO Michele, nelle prime ore della mattina del 31 ottobre 1995, si recava, con personale della Sezione Anticrimine di Caltanissetta, messogli alle sue dipendenze, presso il bivio di Mezzojuso, sito sullo scorrimento veloce Palermo – Agrigento. Lo scopo del servizio era quello di verificare se effettivamente si realizzasse quanto segnalato il giorno prima dalla “fonte”. Il confidente aveva riferito che si sarebbe dovuto incontrare FERRO Salvatore e VACCARO Lorenzo, per effettuare, probabilmente, un appuntamento con PROVENZANO Bernardo».
Per il servizio per il 31 ottobre 1995 veniva quindi predisposta «una aliquota di osservazione fissa, composto da due militari, dotati di attrezzatura fotografica» oltre a «un dispositivo dinamico, posto più lontano, pronto ad intervenire se si realizzavano le condizioni necessarie per effettuare un pedinamento senza che ne venisse pregiudicato l’esito e di conseguenza pregiudicata la tutela della “fonte” la cui identità era nota solo allo scrivente».
Lo svolgimento del servizio, sempre sulla base di quanto scritto dal colonnello Riccio nella succitata Relazione di Servizio fu il seguente:
- «Il servizio aveva inizio alle ore 5,00 del 31 ottobre 1995 ed aveva il seguente esito:
- – alle h. 7.55 giungevano sul luogo di interesse (bivio di Mezzojuso) due autovetture, una Fiat Uno tg. CL 17671O ed un fuoristrada Suzuki tg. SR 335003.
- Dalle macchine scendevano due persone, in particolare dal fuoristrada scendeva una persona anziana mentre dalla Fiat Uno una persona giovane, le quali assumevano posizione di attesa su una stradina sopra lo scorrimento, di fronte al bivio di interesse. Le due autovetture, condotte da altre persone, si allontanavano m direzione di Agrigento;
- – alle h. 8.05 giungeva un’autovettura Ford Escort, vecchio tipo, tg. PA, di color scuro, della quale non si riusciva a rilevare compiutamente il numero di targa. L’autovettura, proveniente da altra stradina di campagna, raggiungeva le due persone in attesa e, prelevatele, si immetteva sullo scorrimento veloce in direzione di Agrigento;
- – non veniva eseguito il pedinamento poiché si riteneva che vi fossero in atto tecniche di contro pedinamento, di fatti nella zona d’interesse erano presenti più macchine tra le quali una Lancia Prisma, tg. EN, di colore verde scuro, la cui targa non veniva rilevata, che, proveniente dallo scorrimento veloce direzione Agrigento, si fermava in mezzo al bivio;
- – alle h. 8.20 ritornava la Ford Escort che si fermava vicino al conducente della Lancia Prisma e dopo qualche minuto entrambi riprendevano lo scorrimento veloce in direzione Agrigento;
- – alle h. 8.30 venivano notate parcheggiate in un area di servizio ESSO, prossima al bivio di Mezzojuso, in direzione Agrigento, la Fiat Uno ed il Fuoristrada Suzuki in attesa;
- – alle h. 1000 veniva terminato il servizio».
Il Riccio, quindi, non accompagnò l’Ilardo al supposto incontro con Provenzano, così come l’Ilardo non aveva registratori o microspie nascoste nei suoi abiti, ma coordinò le operazioni di pedinamento dopo di ché attese, verosimilmente, in altro luogo il suo confidente tant’è che nell’informativa “Grande Oriente” si legge che «lo scrivente, alle ore 23,00 del 31 ottobre 1995, incontrava la fonte che riferiva di avere incontrato il latitante Bernardo PROVENZANO, in una casa con ovile posta lungo una trazzera che partiva sulla destra lungo il segmento stradale che collega i comuni di Mezzojuso e Vicari appartenente allo scorrimento veloce che porta da Palermo ad Agrigento».
L’incontro, sulla base delle dichiarazioni rese dall’Ilardo al Riccio e contenute nell’informativa “Grande Oriente”, era durato complessivamente otto ore, e si era articolato in due fasi, «una prima, in cui si erano affrontati problemi di carattere generale dell’organizzazione alla quale avevano partecipato sia la fonte, che il VACCARO Domenico ed il FERRO Salvatore» e «una seconda, nella quale singolarmente i tre avevano affrontate situazioni di carattere riservato e personale con il PROVENZANO».
Proprio sulla base di quanto scritto nell’informativa e nella relazione di servizio indicata dal Riccio, entrambe da lui redatte appare evidente che l’incontro tra l’Ilardo e il Provenzano avvenuto il 31 ottobre 1995 non è stato un incontro monitorato direttamente né dal colonnello Riccio tantomeno da altre forze di polizia se non in un fase preliminare che terminò poche ore e risulta altrettanto evidente che non era finalizzata ad un’operazione di repressione con conseguente arresto del boss latitante anche perché, lo scrive lo stesso Riccio, si trattava di «probabile incontro». GLI STATI GENERALI ROBERTO GRECO 7 Novembre 2021
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La perquisizione del covo di Riina Pignatone: “E’ una ferita aperta”. La mancata cattura di Provenzano“Nessuno mi parlò della possibilità di catturare Provenzano a Mezzojuso il 31 ottobre del 1995. Nè il colonnello Riccio, nè l’allora maggiore Obinu. Seppi solo nel 2003 del cosiddetto mancato blitz leggendone dalle cronache di stampa e ne rimasi molto colpito. Tanto da decidere di fare una relazione di servizio al mio capo dell’epoca, Piero Grasso”. A raccontare di un’indagine a suo avviso per molti versi anomala è Giuseppe Pignatone, capo della Procura di Roma, nel 1995 pm a Palermo. Il magistrato sta deponendo al processo sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia, atto d’accusa a ex ufficiali del Ros, politici e mafiosi, in corso davanti alla corte d’assise di Palermo. E l’impunità di Provenzano, secondo gli inquirenti, sarebbe stato uno dei punti al centro del patto che pezzi dello Stato, proprio attraverso i carabinieri, e Cosa nostra avrebbero stretto negli anni delle stragi mafiose.
Fu Giancarlo Caselli, che allora guidava l’ufficio inquirente del capoluogo, a delegare a Pignatone l’inchiesta che avrebbe dovuto portare al capomafia corleonese nata dalle confidenze del boss Luigi Ilardo al colonnello della Dia Michele Riccio. Un filone investigativo ritenuto importante che presentò da subito, agli occhi di Pignatone, diverse peculiarità. “Caselli – ha raccontato – mi disse di non parlare a nessuno di questa inchiesta: nè ai pm, nè agli aggiunti, ma di riferire soltanto a lui. Era certamente una anomalia per me e non mi è mai più capitata”. “A differenza delle inchieste sui latitanti che eravamo abituati a fare a Palermo – ha raccontato il teste – e che si basavano in larga parte sulle intercettazioni, in questo caso al centro di tutto c’erano i contatti tra Riccio e Ilardo, di quest’ultimo, peraltro, non sapevo e non volevo sapere neppure l’identità, essendo una fonte dell’ufficiale”.
“Riccio – ha proseguito Pignatone nella deposizione – veniva periodicamente a Palermo, allora era a Genova, incontrava il suo uomo e poi veniva da me ad aggiornarmi. In genere mi diceva che di lì a poco ci sarebbe stato un incontro con Provenzano e che era ottimista sulla cattura”. La Dia, secondo il teste, era riluttante a potenziare le intercettazioni. “Accampavano pretesti per non farle”, ha detto. Tanto che fu lo stesso Pignatone a un certo punto a pretendere che si mettessero sotto controllo alcune utenze. Il teste ha raccontato poi di avere ritrovato un appunto nel suo pc, datato 1 novembre 1995 e relativo al suo incontro con Riccio e Obinu. Nel frattempo Riccio dalla Dia era passato al Ros. “Cercai nel pc dopo avere appreso del mancato blitz – ha spiegato – e trovai l’appunto scritto il giorno dopo la presunta mancata cattura, quando vidi i due ufficiali. Nessuno dei due mi fece cenno all’episodio. Riccio si limitò a dirmi la storia dell’incontro imminente tra Ilardo e Provenzano e che avremmo preso il latitante entro Natale”. Ma il teste non fu molto colpito dall’ottimismo dell’ufficiale. “Non era la prima volta”, ha raccontato. Il filone investigativo nato dalle confidenze di Ilardo, che poi venne assassinato, e concentrato sui fiancheggiatori bagheresi di Provenzano, si “inaridì”, ha detto il magistrato, “e fui io stesso a chiedere l’archiviazione dell’inchiesta”. Anni dopo, l’11 aprile del 2006, fu proprio Pignatone, diventato aggiunto a Palermo nel frattempo, a coordinare l’inchiesta che portò all’arresto del boss di Cosa nostra.
Pignatone ha poi parlato della mancata perquisizione del covo di Riina: “Dal 1993 nessuno di noi in realtà ha mai chiuso la vicenda della mancata perquisizione del covo di Riina. Diciamo che è una ferita rimasta aperta. L’aspetto istituzionale è comunque una cosa diversa – ha aggiunto – Il Ros ha continuato e continua a svolgere indagini di alto profilo istituzionale”. Il riferimento, giunto al termine di una lunga testimonianza su una delle indagini che avrebbero dovuto portare alla cattura del boss Bernardo Provenzano, è alla vicenda della mancata perquisizione dell’ultimo covo del capomafia corleonese a cui seguì un duro scontro tra la Procura, diretta allora da Giancarlo Caselli, e i carabinieri del Ros che arrestarono il padrino ma non perquisirono la villa dove viveva con la famiglia. La vicenda è anche costata all’allora colonnello del Ros Mario Mori e all’ex capitano Sergio De Caprio un processo per favoreggiamento aggravato alla mafia, conclusosi con l’assoluzione. Fu la stessa Procura, peraltro, pur sottolineando i tanti punti oscuri della storia, a chiedere che i due venissero scagionati. LIVESICILIA 14.1.2016
Caso Ilardo, il pm Pacifico: ”Per certe scomode verità serve un pentito di Stato”. L’intervista al magistrato che riaprì l’inchiesta sulla morte dell’infiltrato dei Carabinieri. “Forse Ilardo firmò la condanna a morte quando disse che molti dei delitti di mafia erano voluti dallo Stato” “Oggi in Italia si è più pronti a fare i conti con certe scomode verità, le attività di indagine continuano sia pure con tutte le difficoltà legate al decorso del tempo, tuttavia, bisogna sempre distinguere la verità storica dalla verità giuridica degli eventi. Perché l’accertamento richiede, ovviamente, prove inconfutabili che potrebbero, forse, essere raggiunte solo attraverso le rivelazioni di un “pentito di Stato””. A dirlo è Pasquale Pacifico, sostituto procuratore di Caltanissetta, intervistato da La Sicilia. Tema dell’intervista, molto ampia e dettagliata, è il caso Luigi Ilardo – ex reggente di Caltanissetta poi divenuto inflitrato dei carabinieri in Cosa nostra – e tutto ciò che è ruotato intorno alla sua uccisione avvenuta a Catania il 10 maggio 1996. Il magistrato Pacifico si è occupato a fondo della vicenda. E’ stato lui infatti ad aver riaperto l’inchiesta sulla morte del confidente 10 anni fa. Oggi nonostante possa “considerarsi del tutto completa la ricostruzione dei mandanti mafiosi e degli esecutori materiali del delitto (lo scorso 1° ottobre la Corte di Cassazione ha confermato le condanne all’ergastolo per Giuseppe Madonia, Vincenzo Santapaola, in qualità di mandanti, Maurizio Zuccaro come organizzatore, ed a Orazio Benedetto Cocimano, come esecutore materiale, ndr). – restano zone d’ombra sulle fughe di notizie e le colpevoli omissioni interne alle istituzioni che questo omicidio hanno, se non determinato, quanto meno agevolato”. “Zone d’ombra”, dunque, che hanno riguardato direttamente chi era chiamato a gestire la “Fonte Oriente” (nome in codice di Luigi Ilardo). I misteri sono presenti già nel momento in cui lo Stato era chiamato a proteggere una fonte come Ilardo che era riuscito a far arrestare decine di mafiosi di primo livello. “La mancata protezione di Ilardo fu senza dubbio un gravissimo errore – ha commentato Pacifico – soprattutto in rapporto all’importanza della sua collaborazione. La giustificazione ufficiale fornita sul punto fu che Ilardo chiese ancora qualche giorno per avvisare i suoi familiari della decisione di collaborare. Tuttavia è innegabile che in quel caso non fu rispettato nessuno dei protocolli previsti per la protezione dei testimoni”. Lo Stato avrebbe dovuto mettere sotto protezione l’infiltrato dei carabinieri specie in quei giorni in cui si attendeva l’ufficializzazione della sua collaborazione con la giustizia che avrebbe dovuto aver luogo tre giorni dopo quel tragico 10 maggio ’96. E invece così non fu. “La gestione di Ilardo subì notevoli difficoltà per la carenza di assistenza e di mezzi”, ha aggiunto il magistrato. Si registrò inoltre “una sistematica attività di ostruzionismo”, ha affermato Pacifico, da parte dei superiori di Michele Riccio, il colonnello dei carabinieri che raccolse le confidenze di Ilardo. Contro l’ex boss nisseno venne attivata anche una pesante macchina del fango. Vennero messe in giro voci che Ilardo era coinvolto nel delitto dell’avvocato Famà e della moglie di Nitto Santapaola. Un modo per screditare l’autorevolezza del suo dichiarato probabilmente. Ad ogni modo, ha affermato Pacifico, “si trattò di un depistaggio che si mise in moto già prima dell’omicidio Ilardo allorché una nota della Dia di Caltanissetta lo indicò quale autore dell’omicidio dell’avvocato Famà”. “La Squadra Mobile di Catania, infatti, – ha continuato il sostituto procuratore sulla questione – proprio per quest’ultimo delitto, avviò una serie di attività di indagine nei confronti di Ilardo, attività che furono fatte cessare solo pochi giorni prima dell’incontro a Roma tra Ilardo ed i magistrati. Il depistaggio proseguì anche dopo il delitto tanto che solo dopo qualche anno venne fuori il vero movente dello stesso”.
I segreti inconfessabili della “Fonte Oriente” Ma come mai questo “ostruzionismo”? Cosa avrebbe mai potuto raccontare ai magistrati Luigi Ilardo di così inconfessabile? Pasquale Pacifico si è detto certo che la collaborazione con la giustizia di Ilardo avrebbe avuto un impatto devastante al pari “di quella di Tommaso Buscetta”. Questo perché, ha spiegato, “Ilardo era uno dei pochi soggetti a conoscere i perversi intrecci tra mafia, massoneria e pezzi deviati dello Stato”. “Basti ricordare che, in occasione dell’incontro presso i Ros di Roma (al quale l’infiltrato partecipò pochi giorni prima della sua morte insieme a Riccio, Gian Carlo Caselli, Teresa Principato e Gianni Tinebra, ndr), Ilardo dichiarò al generale Mori che avrebbe riferito che molti dei delitti commessi da Cosa nostra erano stati fatti, in realtà, per volontà dello Stato. Forse con questa affermazione firmò la sua condanna a morte”. In quell’occasione Luigi Ilardo parlò anche di Marcello Dell’Utri, ex senatore e co-fondatore di Forza Italia condannato per concorso esterno in associazione mafiosa. “Su questo punto il colonnello Riccio è stato chiarissimo – ha riportato a La Sicilia Pacifico – gli fu imposto dai suoi superiori di non inserire quel nominativo nel rapporto finale. E’ evidente che le dichiarazioni di Ilardo su Dell’Utri potevano, all’epoca, avere una portata deflagrante, ove si consideri che nemmeno era ancora stato avviato il processo che poi porterà alla sua definitiva condanna per concorso esterno in associazione mafiosa. Addirittura ha raccontato il Riccio che durante il processo a Dell’Utri ci fu un tentativo di suo avvicinamento da parte dei legali dell’imputato perché non riferisse delle confidenze fattegli sul punto da Ilardo”. Eppure di queste clamorose rivelazioni non esistono registrazioni, verbali, appunti. “Questa è una delle tante anomalie riscontrate nella gestione di Ilardo, nella mia requisitoria per l’omicidio definii questo incontro con il termine di “surreale” perché non ne venne redatto alcun verbale ma vennero presi solo degli appunti dalla dottoressa Principato poi andati smarriti, né fu attivata alcuna forma di registrazione fonografica”, ha affermato. Anomalie riscontrate anche nel mancato rinvenimento nel fascicolo processuale delle fotografie che, pure, la polizia calabrese aveva scattato riguardanti gli incontri avuti da Ilardo con l’avv. Eugenio Minniti e alcuni dei più importanti esponenti di ‘Ndrangheta. “Anche in relazione all’ultimo incontro con l’avvocato Minniti – ha osservato Pacifico – intervenne l’ennesima attività di ostruzionismo da parte del generale Mario Mori che proibì al colonnello Riccio di registrare il contenuto dello stesso”.
Il mistero di “Mezzojuso. Il sostituto procuratore di Caltanissetta ha parlato anche del famoso mancato arresto dell’allora latitante Bernardo Provenzano. I carabinieri del Ros non solo non catturarono il capo mafia che uscì allo scoperto grazie a Luigi Ilardo, ma “nessuna comunicazione ufficiale dell’imminente possibilità di arresto del Provenzano sembrerebbe fosse stata fatta dai vertici del Ros alla Procura di Palermo”, ha spiegato il pm. “Certo è che Ilardo ha incontrato anche in altra occasione Provenzano. Come accertato da una fonte confidenziale gestita dalla Squadra Mobile di Catania in epoca successiva all’omicidio, tanto che detta fonte fu pure in grado di fornire un identikit del superlatitante, rimasto anch’esso per anni lettera morta”. I principali responsabili di quella mancata cattura furono gli ex ufficiali del Ros Mario Mori e Mauro Obinu che per quella vicenda vennero assolti in via definitiva per mancanza del “dolo” nonostante i giudici ermellini avessero sollevato “più di un dubbio sulla correttezza, quantomeno dal punto di vista professionale, dell’operato dei due”.
L’accellerazione dell’omicidio e la soffiata ai boss. Ad ogni modo una delle poche certezze nel caso Ilardo è l’accelerazione dell’ordine di morte che, ha detto Pacifico, “è processualmente acquisito e consacrato nella sentenza”. Domande, invece, permangono sulla presunta soffiata che qualcuno, appartenente alle istituzioni, avrebbe fatto a Cosa nostra sulla seconda identità di Luigi Ilardo. “Il primo a parlare di fughe di notizie fu Giovanni Brusca – ha ricordato Pacifico – che utilizzò l’espressione ‘è probabile che uno spiffero ci sia stato’; Brusca aveva chiesto al Provenzano istruzioni su come comportarsi con Ilardo poiché, all’interno di Cosa nostra, circolavano voci su un suo ruolo di infiltrato. La risposta del Provenzano, mediante un pizzino sequestrato all’atto dell’arresto di Brusca, arrivò, tuttavia, solo dopo l’omicidio stesso. Anche Giuffrè Antonino, seppur dopo anni, parlò di una fuga di notizie interna ad ambienti giudiziari di Caltanissetta”. Quanto alle recenti affermazioni del collaboratore Pietro Riggio, rese nel processo “trattativa”, secondo il magistrato, “vanno nella stessa direzione ed avvalorano la ricostruzione secondo cui una fuga di notizie ci fu”. AMDuemila 03 Dicembre 2020
‘‘Chi ha fermato la fonte Oriente?” Karim El Sadi 11 Novembre 2020.Su Rai News l’inchiesta sulla morte del confidente dei carabinieri Luigi Ilardo La sera del 10 maggio 1996 a Catania viene fermato per sempre il confidente dei carabinieri e della Dia Luigi Ilardo (nome in codice “Oriente”), freddato sotto casa dai colpi di pistola esplosi dagli uomini del clan Santapaola. Con sentenza definitiva sono stati condannati in Cassazione lo scorso 1° ottobreGiuseppe Madonia, Vincenzo Santapaola, in qualità di mandanti, Maurizio Zuccaro come organizzatore, ed Orazio Benedetto Cocimano, come esecutore materiale. Un passo importante certo, quello raggiunto con il pronunciamento dei giudici ermellini, ma molte domande sul caso restano aperte; presunte complicità istituzionali, soffiate, depistaggi. Di questo e molto altro parla l’inchiesta a firma di Pino Finocchiaro andata in onda ieri in prima serata su Rai News dal titolo “Chi ha fermato la fonte Oriente? Le ombre sul caso Ilardo”. Un nome, “Oriente”, che solo alcuni degli addetti ai lavori sapevano. Gli stessi che seguivano il percorso di Ilardo di collaborazione con la giustizia che avrebbe dovuto ufficializzare a Roma tre giorni dopo la sua morte. Eppure Dia e Carabinieri non erano gli unici a sapere di questa seconda identità del capo mafia. Anche Cosa nostra, in qualche modo, ne era al corrente. Ed è qui che sorge la domanda sulla quale Pino Finocchiaro costruisce l’intera inchiesta. Come faceva Cosa nostra ad essere a conoscenza di un’informazione di tale riservatezza? Si ipotizza che la soffiata sia arrivata da ambienti esterni ad essa, in particolare da fonti istituzionali del tribunale di Caltanissetta che poi le avrebbero girate ai carabinieri del Ros i quali avrebbero infine diffuso la notizia in giro, come ha dichiarato in aula il pentito Pietro Riggio la scorsa settimana. Così come si pensa che Cosa nostra lo sia venuto a sapere con largo anticipo senza però intervenire subito, come sostiene il pubblico ministero Pasquale Pacifico raggiunto dal giornalista Finocchiaro: “Probabilmente Cosa nostra era al corrente del ruolo di confidente di Luigi Ilardo già tre o quattro mesi prima dell’omicidio”, dice riportando le parole del collaboratore di giustizia Antonino Giuffrè. “Luigi Ilardo non viene ucciso perché faceva il confidente di Michele Riccio (il colonnello dei carabinieri con il quale Ilardo stava collaborando, ndr)”. Secondo Pacifico, il reggente di Caltanissetta viene eliminato “perché non si vuole che formalizzi la sua collaborazione con l’autorità giudiziaria”. Infatti, aggiunge, ci sarebbe stata “un’accelerazione dell’omicidio. E questo lo posso dire con cognizione di causa perché nella sentenza di primo grado, ripresa poi da tutte le altre sentenze, se ne parla specificamente”. Ma perché si temeva la collaborazione con la giustizia di Ilardo? Cosa avrebbe potuto raccontare il capo mafia di così dirompente ai magistrati? Sempre stando alle parole del magistrato che ha rappresentato l’accusa nel processo di primo grado, “Luigi Ilardo aveva parlato a Riccio di Marcello Dell’Utri. Un nome che all’epoca aveva certamente un altro peso rispetto ad oggi”, precisa Pacifico. Di fatti quelli erano gli anni in cui iniziavano a delinearsi i primi effetti della trattativa tra lo Stato e la mafia di cui l’ex senatore e fondatore di Forza Italia era uno dei più illustri protagonisti. Luigi Ilardo però parla anche dei rapporti dei servizi segreti deviati con la massoneria. Parla di un summit a Palermo tra boss e gran maestri delle logge massoniche. A Mezzojuso era riuscito a portare i carabinieri a un passo dalla cattura di Bernardo Provenzano (allora latitante). Fa nomi di peso, rivela dinamiche, cointeressenze e tanto altro. Insomma Luigi Ilardo era una mina vagante. Ecco perché un’eventuale collaborazione con la giustizia sarebbe stata devastante per quegli ambienti grigi e quelle “menti raffinatissime” che in quegli anni facevano il bello e il cattivo tempo in Sicilia, come in tutta Italia. “Quelle verità non potevano essere consacrate in un’aula di tribunale”, dice Pino Finocchiaro ricostruendo tutta la vicenda. Per questo Luigi Ilardo viene lasciato a sé stesso – viene rimandato in Sicilia senza alcuna protezione da Gianni Tinebra (al tempo procuratore di Caltanissetta) dopo una riunione segretissima nella sede del Ros avvenuta qualche giorno prima dell’omicidio – e per questo viene ammazzato. Ma i misteri avvolgono anche l’inchiesta che poi verrà riaperta da Pasquale Pacifico nel 2010. Il pm denuncia che agenti esterni hanno monitorato l’attività investigativa della procura: “Tutti abbiamo avuto questa sensazione, per questo – dice – abbiamo dovuto blindare l’inchiesta”. L’unica certezza in questa vicenda “è che Luigi Ilardo è stato lasciato da solo dallo Stato”, come afferma Aaron Pettinari caporedattore di ANTIMAFIADuemila, anche lui intervistato dal collega Finocchiaro. La stessa cosa che denuncia da anni la famiglia Ilardo, su tutti la figlia del confidente, Luana, che oggi chiede allo Stato di assumersi le proprie responsabilità sull’isolamento del padre e chiede alle istituzioni di rispondere delle presunte complicità nell’omicidio. Complicità sulle quali ancora oggi, a distanza di 24 anni, non è stata ancora detta l’ultima parola.
«ILARDO CHE PORTÒ A UN PASSO DA PROVENZANO. CONDANNE CONFERMATE PER IL GOTHA MAFIOSO» di Giuseppe Lo Bianco. Non era soltanto un capomafia di provincia, vicino ai corleonesi: con il contributo nascosto di Luigi Ilardo, confidente del colonnello dei carabinieri Michele Riccio, il 31 ottobre del 1995 lo Stato è arrivato ad un passo dal chiudere la partita con la latitanza di Bernardo Provenzano, arrestato solo 11 anni dopo, ma anche, probabilmente, da numerose verità scomode sulla stagione stragista. Sono arrivati prima i killer a chiudergli la bocca, pochi giorni dopo l’inizio della sua collaborazione con le procure di Palermo e Caltanissetta, alla presenza degli ufficiali del Ros, e la sentenza della Cassazione che ieri ha confermato i quattro ergastoli inflitti in appello al boss della Cupola Giuseppe Madonia, a Vincenzo Santapaola, cugino di don Nitto, a Maurizio Zuccaro e a Orazio Cocimano, i primi due mandanti, il terzo organizzatore e il quarto esecutore materiale del delitto, timbra le responsabilità del livello mafioso di un delitto che rientra a pieno titolo tra i misteri di mafia. “Dopo 24 anni abbiamo avuto giustizia, anche se ancora a metà – dice la figlia Luana Ilardo – è un momento importante ma non conclusivo. Mio padre non è stato protetto né da vivo né da morto, per anni siamo stati isolati e adesso mi aspetto che vengano individuate le altre responsabilità’’. E cioè quelle di chi tradì la fiducia del boss infiltrato nel cuore del vertice corleonese impegnato, negli anni del dopo stragi, a gestire la strategia della “sommersione mafiosa”, informando Cosa nostra della sua collaborazione e armando così la mano dei killer. Con il colonnello Riccio Ilardo aveva aperto i rubinetti della memoria parlando dei rapporti storici tra i boss ed esponenti della massoneria, del ruolo di “faccia di mostro” nell’omicidio dell’agente Agostino ed in quello del piccolo Claudio Domino, ed il suo contributo più noto si stava per realizzare a Mezzojuso, quando portò i carabinieri del Ros in un casolare dove incontrava Bernardo Provenzano, che in quell’occasione riuscì incredibilmente a sfuggire alla cattura. Ma prima di quel giorno furono quasi 50 i boss e i picciotti catturati in Sicilia grazie alle sue soffiate. Un contributo mai riconosciuto dallo Stato ai suoi familiari né ai (pochi) investigatori che in quegli anni erano impegnati nel contrasto a Cosa Nostra, uscita dalle stragi indebolita ma ancora appesa alle sue relazioni pericolose dentro le istituzioni, come racconta il libro di Giampiero Calapà “A un passo da Provenzano” (Utet). ( “Il Fatto Quotidiano” del 2 ottobre 2020)
TRASCRIZIONE INTEGRALE DELLE DICHIARAZIONI SPONTANEE RESE DA ILARDO LUIGI ALLA PRESENZA DEL T.COL. RICCIO MICHELEMi chiamo ILARDO Luigi, sono nato a Catania il 13.3.51. Attualmente ricopro l’incarico di Vice rappresentante provinciale di Caltanissetta, coprendo anche l’incarico di Provinciale in quanto il Provinciale VACCARO Domenico, attualmente si trova detenuto.
Ho deciso formalmente di collaborare con la giustizia dopo essermi reso conto di quello che effettivamente ho perduto durante questi anni passati lontano dai miei familiari e dai miei figli, nella speranza che il mio esempio possa essere di monito e d’aiuto a ragazzi, che come me, si sentono di raggiungere l’apice della loro vita entrando in determinate organizzazioni. Come fu allora per me, che sono arrivato a prendere il mondo nelle mani il giorno in cui fui fatto uomo d’onore, anche per alcuni ragazzi che credono in queste cose, spero che la mia collaborazione dia atto di quanto tutto ciò che fanno apparire è falso, e poi di vero non c’è niente se non tutte quelle scelleratezze che, purtroppo, alcune persone si sono macchiate facendo cadere nel nulla tutto quello che di buono c’era in questa organizzazione. “Cosa Nostra” oggi è diventata una macchina solamente di morte, di tragedie e di tante menzogne. Oggi, dopo tutto quello che abbiamo assistito, dato tutti i delitti cosi orrendi ed atroci che si sono macchiati certe persone che sono state ai vertici di questa organizzazione, facendo ricadere la colpa su tutti gli affiliati, perché ormai gli affiliati di “Cosa Nostra” portano dietro il marchio di essere tutti dei sanguinari e delle persone che non vedono nulla al di fuori del delitto, come me credo che ce ne sono già parecchi in “Cosa Nostra”, anche perché ho avuto modo di parlarne con queste persone, e, come me, non giustificano e non danno nessun credito a tutto quello che determinate persone hanno avallato con i loro ordini. Perciò credo che ancor, togliendo di mezzo tutte, solamente quelle persone che ormai non hanno più nulla da perdere, e quindi continuano nella loro condotta sanguinaria si potrebbe arrivare a chiudere definitivamente questo conto con ciò che rimane di “Cosa Nostra”, perché oggi come oggi molti sono quelli che cercano di arrivare ad una normalizzazione perché credevano in “Cosa Nostra”, non in quella di oggi ma quella che c’era allora che non era così sanguinaria e cattiva. Ho deciso di collaborare con la giustizia dando la mia disponibilità, anche perché voglio chiudere definitivamente con il mio passato ed avere la fortuna di passare ciò che mi rimane di vivere tranquillo vicino ai miei figli. L’unica cosa che mi ha spinto è stata effettivamente la ricerca della normalità della mia vita; della mia vita e di quella dei miei figli, perché sono stati i loro sacrifici, i loro disagi ed i loro dolori, in special modo l’ultimo periodo della mia carcerazione, in strutture speciali, a farmi capire i veri valori della vita, che io non ho mai trascurato, perché amo profondamente i miei figli ma, diciamo, in un certo qual modo ho trascurato, ed allora ho capito che è arrivato il momento di mettere in primo piano, al primo posto solamente ed esclusivamente i veri valori, che sono quelli della famiglia, principalmente e secondariamente tutto quello che viene dopo. Spero che da questo mio atto di buona volontà possa almeno ricavare quello che effettivamente cerco; possa ottenere questo beneficio di avere una tranquillità per me e per la mia famiglia. Sono pronto ad ammettere tutte le mie colpe, tutto quello che ho fatto, anche se in fondo all’animo sono sereno perché di tutto mi si può accusare al di fuori di aver, a tutt’oggi, commesso omicidi o fatto male a persone umane. Di tutto quello che ho fatto sono pronto a risponderne personalmente anche perché ormai il mio debito con la giustizia è quasi saldato, dopo quasi 10 anni di carcerazione sofferta, che significano molto per la vita di una persona. La mia decisione è stata, ed è solamente quella di collaborare solo per aver un po’ di tranquillità e ritbornare nell’anonimato e vivere tranquillo con i miei cari. Se riesco in quello che mi sono prefisso per me è una vittoria. Posso dire di aver raggiunto finalmente quello che per 10 anni ho sempre sofferto dentro il mio animo per l’affetto che ho sempre nutrito per le mie figlie, in particolar modo. Oggi mi trovo con 5 figli, di cui due appena nati e questa volontà di tagliare con il mio passato e molto più prepotente di prima e ho capito che l’unica strada che mi potesse ridare un po’ di tranquillità è questa della collaborazione. L’ho accettata volentieri e sono pronto ad andare incontro a tutto quello che questa mia decisione comporta. Confido solo nella sensibilità delle persone che mi dovranno condurre in questa strada, gestendo quello che è la mia volontà, e confido molto che queste persone prima di tutto mettono avanti le possibilità dei pericoli che possono correre i miei familiari; dopo di ciò io sono disponibilissimo a tutto quello che c’è da fare, sono pronto a parlare di tutto quello che concerne la mia vita dal momento in cui sono entrato in “Cosa Nostra” ad oggi che ho deciso di uscirne formalmente.
Omicidio Ilardo, la figlia Luana: “Dalla mancata cattura di Provenzano alle fughe di notizie: troppi punti oscuri” L’intervista con la figlia del boss, ucciso a Catania nel maggio del 1996, che aveva deciso di collaborare con la giustizia indicando un summit di mafia con il padrino Bernardo Provenzano. Nonostante i contatti con le istituzioni venne ucciso a pochi giorni dall’ingresso nel programma di protezione “Mi chiamo Luigi Ilardo e ho deciso di collaborare con la giustizia. Cosa Nostra è diventata solo una macchina di morte. L’unica cosa che mi spinge è la ricerca della normalità della mia vita e di quella dei miei figli, per sono stati i loro sacrifici, i loro dolori, a farmi capire i veri valori della vita…”. Con queste parole Luigi Ilardo, ex boss della provincia nissena, aveva aperto la sua collaborazione con le istituzioni dopo alcuni anni di carcere e dopo esserne uscito nel 1993. Il cugino di Piddu Madonia ha rappresentato per 3 anni una fonte preziosa e sterminata di informazioni per la giustizia e ha permesso di arrestare decine e decine di mafiosi. Ma per Luigi Ilardo, a un certo punto, non c’è stata alcuna protezione: il 10 maggio del 1996, a un passo dal suo inserimento in uno specifico programma per i collaboratori, è stato crivellato di colpi sotto casa sua, a Catania, in via Quintino Sella. E con la morte di Ilardo sono rimasti irrisolti tanti punti oscuri, alcuni dei quali sono i grandi misteri d’Italia: la mancata cattura di Bernardo Provenzano nel 1995 e il rapporto tra la mafia, istituzioni deviate e massoneria. Soltanto dopo 24 anni è stata scritta la parola fine alla vicenda giudiziaria con la sentenza della Corte di Cassazione che ha condannato all’ergastolo Giuseppe Madonia, Vincenzo Santapaola, Maurizio Zuccaro e Benedetto Orazio Cocimano per il concorso nell’omicidio di Luigi Ilardo. Ha pagato con la vita la “scoperta” da parte di Cosa Nostra della sua collaborazione, sino ai primi di maggio del 1996, “sotterranea” con le istituzioni. Una “scoperta” che deve avere avuto, secondo la famiglia Ilardo, dei referenti all’interno delle istituzioni. Il contatto di Ilardo – che aveva come nome in codice “Oriente” – era il colonnello dei carabinieri Michele Riccio. Quest’ultimo ebbe dal collaboratore una imbeccata che avrebbe potuto cambiare il corso della storia sull’isola: un summit di mafia a Mezzojuso con la presenza di Bernardo Provenzano nell’ottobre del 1995. Ilardo informò i carabinieri e si presentò, con tanto di microspie, all’appuntamento ma il blitz non scattò e la cattura del superlatitante non avvenne. Una mancata cattura a cui seguì anche un lungo processo per alti ufficiali dei Ros e che lascia un alone di mistero che è rimasto tutt’ora.
Luana Ilardo, figlia di Luigi, da anni lotta per chiedere verità sui tanti punti oscuri relativi alla vicenda del padre e per evidenziarne la figura di uomo che aveva creduto in un percorso di cambiamento e di collaborazione con la giustizia: “Mio padre non ci ha mai comunicato la scelta di collaborare, ma dalle trascrizioni dei colloqui con il colonnello dei carabinieri RIccio emerge quanto fosse stanco di quella vita e di come i sacrifici della nostra famiglia lo avessero spinto a cambiare vita”. I grandi occhi azzurri di Luana Ilardo sono colmi di malinconia ma anche di determinazione: chiede verità sui giorni di maggio del 1996 che portarono il padre alla morte proprio nel momento in cui, dopo diversi mesi, aveva “istituzionalizzato” la sua collaborazione. “Ci sono delle anomalie evidenti nella storia di mio padre – spiega -. Per un anno e mezzo aveva collaborato con il colonnello RIccio portando a diversi arresti, anche di grande calibro. Il 2 maggio si presentò al suo primo vero incontro istituzionale a Roma, nella sede dei Ros, non essendo più Oriente e diventando una persona con un nome e un cognome: dopo otto giorni venne ucciso. Cosa è successo? Si parla di una accelerazione dell’omicidio di mio padre. Basti pensare che a distanza di tre giorni dalla sua morte era prevista l’entrata del programma di protezione”.
Ilardo dopo essere stato sentito a Roma venne mandato a casa e tornò nella sua Catania, pronto per ripartire verso una località segreta. Ma perché quella leggerezza di farlo ripartire verso la Sicilia? E perché non c’è traccia di nessun verbale del suo incontro nella sede dei Ros?
Misteri che, assieme alla mancata cattura di Provenzano, ancora attanagliano la famiglia Ilardo. “Con la sentenza di Cassazione – prosegue ancora Luana Ilardo – non è stata scritta la parola fine. Anzi è un nuovo inizio per comprendere la figura di mio padre e le omissioni che vi sono state. Questo tipo di sentenze le definisco sentenze “comode”: il braccio sporco ha pagato le sue responsabiità. Sono stati assicurati i mandanti mafiosi ma ci sono state falle dal punto di vista istituzionale: mio padre non è stato protetto bene. Ci sono connessioni a livelli istituzionale e chi ha sbagliato deve assumersi le sue responsabilità, così come noi stiamo pagando con un enorme dolore”.
Sente di essere stata “abbandonata” dalle istituzioni Luana Ilardo: “Non sono state presenti nella nostra vita. Abbiamo subito un dramma e nessuno ci ha sostenuto. Soltanto Salvatore Borsellino si è attivato per sensibilizzare le istituzioni e per far conoscere la nostra storia”. Una storia che nonostante i processi, le sentenze e i colpi di scena presenta ancora tantissimi punti oscuri. Andrea Sessa14 ottobre 2020 PALERMO TODAY
Video | Le parole della figlia Luana
Caso Ilardo: «Lo Stato ha ucciso mio padre» L’INTERVISTA. In attesa della sentenza della Cassazione abbiamo raccolto la testimonianza di Luana Ilardo(figlia di Luigi, nome in codice “Oriente”): «Credo nello Stato, nelle Istituzioni, in quei magistrati che continuano a ricercare la verità. È chiaro che ci sia uno “spaccato” nello Stato. C’è una parte di Stato collusa e corrotta. Ma c’è anche una parte di Stato buona, onesta, legale che vuole far emergere queste verità. Oggi, purtroppo, ci sono tutte le carte in tavola per poter parlare di questa verità. Mio padre è l’ennesimo omicidio con dei mandanti istituzionali.»
«Lo Stato ha sempre utilizzato la criminalità organizzata. Il mandante esterno in questi omicidi di Stato c’è sempre. Poi c’è il contatto che dice a due picciotti: ‘andate ad ammazzare questo’. A Ilardo lo sparano sotto casa. L’ordine è arrivato dallo Stato. È successo per tutti gli omicidi eccellenti. Ilardo è uno degli omicidi eccellenti». Queste parole chiare, nette, incontrovertibili – raccolte da WordNews.it– sono state pronunciate dal colonnello dei carabinieri Riccio.
Michele Riccio e Luigi Ilardo avevano stretto un rapporto di collaborazione. Uno era l’ufficiale dei carabinieri, l’altro era il confidente infiltrato (nome in codice “Oriente”). In attesa di diventare, ufficialmente, collaboratore di giustizia. I due si fidavano l’uno dell’altro. Una partnership fruttuosa: Ilardo offriva gli spunti necessari alle indagini e Riccio chiudeva il cerchio investigativo. Innumerevoli latitanti di Cosa nostra scovati e sbattuti nelle patrie galere. Uno rappresentava lo Stato, l’altro (cugino del mafioso Piddu Madonia) aveva preso le distanze da quel mondo schifoso rappresentato dai cosiddetti mafiosi (con le giuste coperture istituzionali).
I due avevano un obiettivo preciso: togliere dalla circolazione Bernardo Provenzano, latitante da troppi anni. Una vergogna per uno Stato di diritto. Se fosse stato arrestato molte vite sarebbero state salvate. Ma l’obiettivo sfumerà miseramente. Come è sempre accaduto. È la storia di questo strano Paese. (Dov’è l’attuale primula rossaMatteo Messina Denaro? Perché non vogliono arrestarlo?). La partita iniziata dalla coppia Riccio-Ilardo (ma condotta dai pezzi deviati dello Stato) verrà annullata. Il pezzo (di merda) da novanta non potrà essere arrestato. Lo Stato deviato, rappresentato dai soliti personaggi indegni e miserabili, interverrà prima. L’accordo indicibile non si doveva e non si poteva rompere. Il Patto non andava frantumato.
E Provenzano continuerà la sua latitanza per altri 11 anni. Una vergogna. E Ilardo verrà ammazzato il 10 maggio del 1996, sotto la sua abitazione. Una vergogna di Stato. E il colonnello Riccio sconterà la reazione rabbiosa degli apparati deviati. Una vergogna istituzionale. E la Trattativa continuerà nell’indifferenza generale. Una vergogna italiana.
Sono passati 24 anni dall’omicidio dell’infiltrato Ilardo. Il prossimo 1° ottobre si pronuncerà la Cassazione per chiudere definitivamente la parte processuale. Ma la ferita resta ancora aperta. E lo sarà per sempre. Soprattutto per i familiari di un uomo che aveva deciso di mettersi alle spalle il suo passato.
Abbiamo raccolto il punto di vista di sua figlia Luana Ilardo, presente il 19 luglio scorso in via D’Amelio insieme a Salvatore Borsellino. («Dopo aver letto il suo percorso, la rivendicazione della verità e della giustizia sull’assassinio di Ilardo ho pensato che gli assassini di suo padre sono gli stessi assassini di mio fratello. E, quindi, ho ritenuto che fosse giusto, in quel giorno, averla sul palco insieme a me. Noi cerchiamo lo stesso tipo di giustizia, per me gli assassini di mio fratello non sono i mafiosi. Gli assassini di Paolo sono dentro lo Stato, gli assassini di Luigi Ilardo sono dentro lo Stato.»)
Signora Ilardo perché, secondo lei, per poter ricordare la vicenda di suo padre sono trascorsi tutti questi anni?«In questo ultimo anno è incominciata una vera e propria battaglia con una grande esposizione mediatica, in cui sono stata abbastanza polemica.»
Perché ha sentito la necessità di iniziare questa battaglia?«Era una cosa che ho sempre voluto. Per me è un atto dovuto. Ho atteso anche la maturazione dei tempi giusti.»
In che senso?«Le prime sentenze risalgono a qualche anno fa. E quindi questo, comunque, mi ha dato modo di poter dire la mia. Senza le sentenze, ovviamente, non avevo nessun punto di partenza. Nonostante avessi chiare le mie idee su tante situazioni.»
Tra qualche giorno, precisamente il 1° ottobre 2020, ci sarà la sentenza in Cassazione. Lei cosa si aspetta?«Siamo all’ultimo grado di giudizio, quindi, ragionevolmente la valutazione dell’operato dei giudici che hanno pronunciato la sentenza di secondo grado. Anche se non è quello che mi interessa.»
Il 10 maggio del 1996 a Catania viene ammazzato suo padre. Lei quanti anni aveva?«Sedici.»
Cosa ricorda di quei momenti?«Era la prima volta, da quando erano nati i miei fratelli gemelli, che papà portava a cena fuori la moglie e in quella occasione, era un venerdì sera e io e mia sorella eravamo solite uscire e proprio quel giorno, ci chiese la cortesia di tenere i bambini appena nati. Ovviamente io e mia sorella accettammo con piacere, per noi era una giornata particolare. Per la prima volta avevamo la responsabilità di tenere i nostri fratellini che amiamo immensamente ed eravamo contente per l’incarico.»
E cosa succede?«Pochi minuti prima di rientrare a casa riceviamo la sua telefonata con le varie raccomandazioni. Dopo una quindicina di minuti iniziamo a sentire la saracinesca del garage sotto casa e iniziamo a sentire quei rumori, quegli spari (nove colpi di pistola, nda). Non so perché, ma è come se lo sapessimo che erano per lui. Nell’immediato scende sua moglie Cettina, a ruota poi scendiamo io e mia sorella. Loro sono risalite e io sono rimasta, non me ne volevo andare. Non lo volevo lasciare.»
Chi è presente sul luogo del delitto?«Nessuno. C’era solamente il corpo di mio padre disteso a terra. Cercano di allontanarmi a fatica dal corpo di papà. Sono rimasta parecchio tempo lì sotto a guardarlo. Quando sono risalita ho distrutto, insieme a mia sorella, parte della mia abitazione con calci e pugni.»
Chi era Luigi Ilardo?«A differenza di quello che si può immaginare non mi stancherò mai di dire che era, per quanto mi riguarda, un uomo dolce, corretto. Ciò che ha insegnato a noi. Grazie a mio padre siamo delle figlie educate, a modo, rispettose di certi valori. Ci teneva molto alla nostra educazione, ai nostri studi.»
Luigi Ilardo era parte integrante di Cosa nostra?«Per come la storia ci conferma, sì. Non ho mai avuto chiaro tutto questo quadro, in quanto vivere certe situazioni era la normalità. Poi ho iniziato a comprendere che molte cose non andavano, crescendo abbiamo iniziato ad avere altri termini di paragone. Quando cresci in un contesto dove le persone fanno le stesse cose ti confronti con quell’ambiente e fai fatica a capire determinate situazioni. È chiaro che qualche domanda me l’ero posta quando ho iniziato a comprendere. A ricostruire tutto ci è voluto un po’ di tempo.»
Suo padre verrà arrestato per una partecipazione in un sequestro di persona. E sconterà tutta la sua pena detentiva. Negli ultimi mesi, prima di essere rimesso in libertà, scriverà una lettera riservata a De Gennaro per prendere le distanze da Cosa nostra. Il primo passo di una collaborazione con il colonnello Michele Riccio.«L’obiettivo era mettersi sulle tracce di Provenzano. Era il suo obiettivo principale.»
E, insieme a Riccio, porterà le Istituzioni a pochi passi dal casolare dove “viveva” il superlatitante di Stato.«Esatto, sì.»
Lei, in quel periodo, cosa ricorda di suo padre? Era preoccupato? Era sereno? «Non era assolutamente sereno. Percepivo che non era sereno. Poi c’era stato il discorso del furto dell’oro a casa mia.»
Può spiegare meglio?«Quello era stato un momento molto delicato. A casa mia, un paio di mesi prima della sua morte, sono inspiegabilmente entrati con mio nonno, molto anziano e con problemi di udito, che dormiva. Mio padre non c’era, il fine settimana solitamente era a Lentini dove aveva ristrutturato la nostra azienda agricola.»
Un furto fatto da qualche balordo o un vero e proprio segnale?«Nessuno si sarebbe permesso di entrare a casa. Non avevo chiarezza del ruolo che ricopriva mio padre, ma sicuramente aleggiava nella nostra vita che eravamo una famiglia rispettata, una famiglia attenzionata, non solo dalle forze dell’ordine. Ma anche dalle persone che stavano accanto a mio padre. Era improponibile che qualcuno venisse a casa mia, mentre mio nonno dormiva. Chi è entrato conosceva le nostre abitudini, entrarono con le chiavi di casa. Sapevano che io e mia sorella eravamo fuori. Potevano muoversi indisturbati.»
Un segnale per comunicare cosa?«Che qualcosa non andava nel verso giusto.»
Perché viene ammazzato Luigi Ilardo?«La prima sensazione l’ho legata a questioni di mafia, perché quel tipo di delitto poteva essere riconducibile a quell’ambiente.»
E poi?«In realtà quella teoria la confermarono, nei giorni a seguire, anche gli organi di informazione locali. Mi ero abituata a questa idea. Poi, dopo un paio di anni, improvvisamente si aprì un nuovo scenario. Sempre dai giornali. Un nuovo shock per tutti noi della famiglia. Apprendemmo che mio padre era stato ucciso per la sua collaborazione con i Ros, con le Autorità.»
E che idea si è fatta?«All’inizio non ci credevo. Ho avuto l’ennesimo periodo di turbamento, di smarrimento, di forte stress. Non mi capacitavo di una cosa del genere. Nell’immediato ho messo in discussione quello che apprendevo dai giornali. In realtà mi rifiutavo di crederci. Quando ho cominciato a leggere le sue dichiarazioni ho riscontrato subito nelle sue parole il suo modo di essere. E ho accettato questa situazione. Mi sembrava, inizialmente, un complotto. Non mi capacitavo di questa notizia.»
Ed oggi cosa pensa?«Dopo avere studiato e attenzionato certe situazioni ho affinato i miei pensieri. Quello che ha fatto lui non l’ha mai fatto nessuno, sino ad allora. Le sue scelte sono state coraggiose, per quanto si possa associare, giustamente, la sua figura alla mafia. In realtà è stato diverso anche in questo. Le sue scelte sono state fatte da uomo libero. La maggior parte dei collaboratori prende certe decisioni per avere degli sconti di pena…»
Perché, secondo lei, suo padre decide di collaborare? «Perché era stanco, voleva un’altra vita. Sono convinta che tutti quegli anni di galera lo hanno portato a ravvedersi. La sofferta lontananza da me e mia sorella e dalla famiglia lo hanno portato a comprendere che non stava facendo la scelta giusta. Non ne valeva la pena.»
Come definirebbe l’omicidio di suo padre? «Un omicidio per mano mafiosa, commissionato dallo Stato.»
Lo Stato, servendosi dei suoi rappresentanti, decide di eliminare Luigi Ilardo? «Oggi, purtroppo, ci sono tutte le carte in tavola per poter parlare di questa verità. Mio padre è l’ennesimo omicidio con dei mandanti istituzionali.»
Per quale motivo?«Sicuramente perché lui avrebbe interrotto la Trattativa Stato-mafia. Con le sue dichiarazioni si poteva interrompere quel Patto fatto per portare avanti le Trattative. Molte persone con cariche istituzionali avrebbero pagato a caro prezzo le dichiarazioni di mio padre.»
Qual è il giudizio che, in questi anni, lei ha maturato nei confronti dello Stato? «Credo nello Stato, nelle Istituzioni, in quei magistrati che continuano a ricercare la verità. Quelle persone che per pochi euro al mese rischiano la loro vita per cercare di tutelare la nostra sicurezza. È chiaro che ci sia uno spaccato nello Stato. C’è una parte di Stato collusa e corrotta. Ma c’è anche una parte di Stato buona, onesta, legale che vuole far emergere queste verità.»
In questi ventiquattro anni di attesa cosa l’ha delusa di più?«Sicuramente l’atteggiamento delle Istituzioni nei confronti di noi familiari. Nei nostri riguardi abbiamo vissuto un totale abbandono, come se non fossimo mai esistiti. Lasciandoci veramente in una sorta di agonia. È veramente raccapricciante. Questa mia battaglia mediatica ha fatto sì che la figura di mio padre ritorni ad avere quella dignità indebitamente sottratta. Ma è innegabile che ci sia stata una forte volontà di seppellire questa storia.»
Lo scorso 19 luglio Salvatore Borsellino, il fratello del giudice Paolo ucciso da Cosa nostra e dallo Stato, l’ha invitata sul palco in via D’Amelio. Cosa ha provato in quei momenti?«Infinito dispiacere ed infinita tristezza. Ma anche una grande soddisfazione personale e riconoscenza per la sensibilità che Salvatore ha avuto nei miei confronti. È stata la prima persona che mi ha teso la mano. Salvatore è diventato il punto di riferimento della mia nuova vita.»
Che cos’è la mafia?«Sofferenza, sangue, dolore.» WORD NEWS 29.9.2020
Il 1º Ottobre (2020) verrà celebrata la sentenza di Cassazione per l’omicidio di mio padre LUIGI ILARDOAncora una volta,oggi, parlo di sentenze e giustizie comode perché consapevole che saranno traguardi vissuti a metà… verità a metà ,vere giustizie a metà, vere soddisfazioni a metà … Ogni volta mi viene fatta la stessa retorica e stupida, per quanto dovuta domanda, quel giorno non sarà diversa ; “Signora Ilardo si sente soddisfatta…?”
Forse solo chi ha passato ciò che ho passato io capirà a pieno gli stati emotivi, confusi, sofferenti,turbati che si possano intersecare tra loro e provare in tali circostanze,che paradossalmente, io stessa, da buona scrittrice quale sono, fatico davvero a spiegare e renderli comprensibili a voi … dovrei gioire nel sapere carcere a vita per chi ha premuto quei grilletti che hanno letteralmente devastato e distrutto irrimediabilmente la vita mia e dei miei familiari… e invece so’ , come ogni altro giudizio udito che sentire quell’ultimo verdetto (che ragionevolmente e con ogni probabilità sarà solo conferma del precedente ) sarà. L’ennesima sofferenza perpetratami…
Per anni ho nutrito e coltivato fortissimi sentimenti di frustrazione, rabbia, desiderata vendetta…
In questi 24 anni però le cose sono cambiate, io sono profondamente cambiata,la vita mi ha profondamente cambiata e l’unica cosa che sente il mio stanco,deturpato,sofferente cuore è una grande,grandissima pena per tutti i personaggi coinvolti (compresi ovviamente i miei fratelli e me…). L’unica cosa che in questa penosa,struggente e vergognosissima storia vedo,sono decine di vite distrutte, decine di famiglie frantumate, decine di figli ai quali si è privata qualsiasi aspettativa di vita sana, normale, pregiudicandone oltre ogni ragionevole dubbio tutta l’esistenza a seguire … quello che provo e proverò come sempre sarà un amarezza infinita che nessun ergastolo mi allevierà mai perché comunque vadano le cose, mio padre non tornerà mai più , le sue possenti braccia non mi stringeranno più e quell’ odore che riconoscerei ancora oggi tra milioni non sentirò più .
Oggi l’unico vero conforto che possa alleviare i miei infiniti dolori, sarebbe quello di avere tutti i nomi dei veri colpevoli, i nomi di quelle persone che REALMENTE lo hanno tradito, lo hanno ammazzato ancora prima dei suoi veri esecutori materiali… quelle persone delle STATO MALATO e COLLUSO che mentre fissavo i suoi occhi color mare provati e stanchi dalle sofferenze e dei martiri subiti in carcere,ascoltando dalla sua voce le sue chiare,decise ,sentite e vere dichiarazioni che sapevano di redenzione, di desiderio di libertà,giustizia e di desiderio di una nuova vita che gli era dovuta, meritata lo hanno mandato al macello come la peggiore delle bestie con a seguito noi figli innocenti di una vita e di scelte che mai avevamo preso. Anche per loro non mi interessa ne un ergastolo ne saperli in un fondo di cella, perché io so’…. cosa sia il fondo di una cella … Ma l’unica cosa che chiedo e pretendo sia vedere i loro nomi scritti insieme ai soggetti di questa sentenza perché quella sarà la fine del mio conto amaro pagato e della sua dignità di essere umano restituita . Scrivendo questo mio ennesimo sfogo, con le lacrime che rigano il mio viso, il mio pensiero corre alla vedova di Schifani, che per sempre con quel dolore straziante a me tanto riconosciuto mai dimenticherò nelle sue parole pronunciate in chiesa davanti i resti del suo povero eroe marito …. Fonte: pagina FB di Luana Ilardo 24.9.2020
LUANA ILARDO: “Pezzi dello Stato hanno consegnato mio padre ai killer. Lui che aveva deciso di aiutare lo Stato per sconfiggere la mafia”. Lui, Luigi Ilardo, era il capomafia della Provincia di Caltanissetta, cugino di Giuseppe “Piddu” Madonia. Dopo 11 anni di carcere per mafia nel 1993 aveva deciso di cambiare vita e fece ciò che nessuno aveva mai fatto prima (e neanche dopo): continuò a far finta di appartenere a cosa nostra ma lo fece come “infiltrato”. Iniziò a collaborare con la Direzione Investigativa Antimafia (DIA), come confidente del colonnello dei carabinieri Michele Riccio, con il nome in codice “Oriente”. “Il gioco è iniziato, colonnello”. Disse Ilardo a Riccio, annunciando di esser stato reintegrato all’interno di cosa nostra, dopo aver ripreso i rapporti con i “picciotti”. E con la sua (rischiosissima) decisione, “consegno'” Provenzano agli inquirenti, peccato che – nei fatti – nessuno all’epoca lo volle arrestare. A raccontare all’AGI Luigi Ilardo, è la figlia, Luana. Dopo anni di silenziosa sofferenza, Luana vuole “riscattare” la memoria del padre. “La sua collaborazione ha consentito agli inquirenti di assicurare alla giustizia, nel corso di 3 anni – commenta Luana Ilardo – boss di primissimo piano appartenenti a diverse famiglie mafiose delle province di Messina, Catania e Caltanissetta”. Rivelò tutto quello che sapeva, “su mafia, politica e massoneria”. Poi, il 10 maggio 1996, fu ucciso, a Catania. “Una talpa nelle istituzioni – racconta Luana Ilardo – rimasta ancora oggi senza nome, aveva svelato il suo ruolo di infiltrato. Qualcuno, all’interno dello Stato, aveva paura delle verità che mio padre stava rivelando”. Tornando a Provenzano, grazie a Ilardo il 31 ottobre 1995 si sarebbe potuto catturare l’allora superlatitante. Catturarlo 11 anni prima del suo arresto, avvenuto poi l’11 aprile del 2006. “Mio padre era riuscito ad indicare agli inquirenti dove si sarebbe tenuto il summit di mafia con Provenzano, in una masseria di Mezzojuso. Accettò di partecipare con una cintura di microspie, rischiando la vita. Nonostante il rischio enorme che si era preso, però, i carabinieri del Ros, guidati da Mario Mori e da Mauro Obinu, decisero di non effettuare il blitz. E quindi, incredibilmente, di non arrestare Provenzano e gli altri”. Ilardo non si arrese e continuò a fare da confidente al colonnello Riccio, fino al giorno in cui disse di voler intraprendere ufficialmente la collaborazione con la giustizia. Siamo ai primi di maggio del 1996, pochi giorni prima della sua morte. Mio padre venne portato al Comando del R.O.S. a Roma dal colonello Riccio: fu a lui che aveva praticamente affidato la propria vita, tanto da dare il suo nome ad uno dei miei fratelli. Quel giorno erano presenti i magistrati Tinebra, Caselli e Principato. Disse tutto ciò che sapeva, ed era tantissimo ma si disse che le sue dichiarazioni sarebbero state verbalizzate in un successivo incontro a Palermo. Incredibilmente non vi fu il tempo”. La sera del 10 maggio del 1996 Luigi Ilardo venne ucciso brutalmente, mentre si trovava sotto casa. “Lo abbracciai – racconta Luana – da quel giorno non fu più niente uguale e fummo completamente abbandonati da quello Stato a cui mio padre si era affidato. Da tutti, anzi quasi da tutti. Devo dire grazie al magistrato Pasquale Pacifico, ad Alessandro Scuderi ed al signor Pippo. È grazie a loro che venne riaperto il processo”. Ad ordinare l’assassinio il cugino, “Piddu” Madonia e Vincenzo “Turi” Santapaola. Nella motivazione della sentenza emerge che, sullo sfondo del delitto, vi sono state le classiche false accuse, il tipico “mascariamento” siciliano, come il coinvolgimento di Ilardo nell’omicidio dell’avvocato Serafino Famà o il fatto che si fosse intascato i soldi di alcune estorsioni. È certo però che la condanna a morte di cosa nostra venne emessa quando quella “talpa” rivelò la collaborazione di Ilardo. Il collaboratore di giustizia Nino Giuffrè ha raccontato che la notizia fu persino recapitata a Bernardo Provenzano che “aveva deciso la sua uccisione, chiedendo a lui di occuparsene”. Luana Ilardo sa bene che suo padre fosse un “uomo della mafia, ma non ne aveva l’indole, lo divenne soltanto perché nacque in quella famiglia. Se avesse avuto la fortuna di nascere in un’altra famiglia, avrebbe studiato per diventare un professionista. Magari la sua passione per i cavalli sarebbe diventata la sua professione”. E per spiegare questo concetto, Luana precisa come “anche dal punto di vista delle imputazioni, mai mio padre venne accusato di omicidi o di altri feroci crimini. Mai”. E “nella sua unica deposizione scritta, disse di volersi totalmente dissociare da idee che portarono, ad esempio, alla morte del piccolo Giuseppe Di Matteo o della moglie di Nitto Santapaola”. Oggi Luana è una mamma che lotta per la memoria e la verità da raccontare alla figlia. “Credo nelle Istituzioni, nonostante tutto, perché ci sono tante persone per bene che ne fanno parte, di quelle veramente sane. A loro chiedo che a mio padre sia riconosciuto lo status di collaboratore. È assurdo che per la mafia sia il traditore e per lo Stato non sia collaboratore. Questo limbo, ad oggi infinito – spiega Luana Ilardo – non ha dato una giusta collocazione né a lui, né a noi figli, dando vita a infiniti pregiudizi con i quali ancora oggi conviviamo. Penso che le Istituzioni gli debbano almeno questo, un innegabile e documentato riconoscimento per ciò che ha fatto. Mentre a mia figlia voglio spiegare chi fosse realmente suo nonno e, con lei, voglio spiegarlo a tutti. Io amo mio padre più della mia stessa vita”. AGI 13.7.2020
Omicidio Ilardo, in appello confermate le condanne all’ergastolo per i bossdi Aaron Pettinari. Resiste in appello il giudizio di condanna all’ergastolo nei confronti dei capimafia Giuseppe Madonia e Vincenzo Santapaola, in qualità di mandanti, al boss Maurizio Zuccaro, come organizzatore, e a Orazio Benedetto Cocimano, come esecutore materiale, per l’omicidio del confidente Luigi Ilardo (ucciso la sera del 10 maggio 1996). La Corte d’Assise d’appello di Catania, presieduta da Elisabetta Messina, a latere Sabina Lattanzio, ha accolto la richiesta di conferma delle condanne di primo grado espresse dai sostituti procuratori generali Sabrina Gambino e Concetta Ledda. Secondo l’accusa, Cosa nostra sospettava che Ilardo, cugino del capomafia Giuseppe Madonia, fosse un ‘confidente’ e aveva l’intenzione di collaborare con la giustizia. Infatti è stato ammazzato a colpi di pistola il giorno prima che diventasse formalmente collaboratore di giustizia, dopo tre anni vissuti da confidente del colonnello dei carabinieri Michele Riccio. Tre anni durante i quali, sotto il nome di “fonte Oriente” aveva fatto arrestare boss di prima grandezza nelle province di Messina, Catania e Caltanissetta. Come è stato ricostruito in precedenti processi grazie alle sue rivelazioni si sarebbe potuti arrivare con undici anni di anticipo alla cattura di Bernardo Provenzano a Mezzojuso, il 31 ottobre 1995. Secondo la ricostruzione degli inquirenti all’omicidio avrebbero preso parte anche Maurizio Signorino e Pietro Giuffrida, entrambi poi deceduti. Per lo stesso delitto il 19 maggio del 2014 il Gup di Catania, Sebastiano Fabio Di Giacomo Barbagallo, ha condannato, col rito abbreviato, a 13 anni e quattro mesi di reclusione, il boss ‘pentito’ Santo La Causa, che aveva organizzato dei sopralluoghi per compiere l’agguato, ma che fu poi bypassato nella commissione del delitto a causa dell’improvvisa accelerazione.In attesa di leggere le motivazioni della sentenza d’appello restano le considerazioni di quella di primo grado in cui fu certificato come l’ordine di uccidere Ilardo arrivò dal carcere per bocca di Giuseppe Madonia. Il capomafia nisseno “chiedeva l’eliminazione di Ilardo, che era stato nel frattempo isolato all’interno della compagine criminale”. Ciò che ad oggi resta avvolto nel mistero è come cosa nostra catanese venne a sapere della volontà di Ilardo di collaborare. Il pentito Giuffrè nel 2014, parlò di una fuga da ambienti giudiziari nisseni, ed anche il colonnello Michele Riccio confermò la cosa parlando di una fuga di notizie. ANTIMAFIA DUEMILA 3.4.2019
“VI SVELO I RETROSCENA DELLA TRATTATIVA STATO-MAFIA” Conosce tanti retroscena della Trattativa Stato-mafia. Li ha vissuti direttamente come investigatore. Col ruolo di ispettore e di commissario della Polizia di Stato. Prima nella Criminalpol della Squadra mobile di Catania (Antiterrorismo), poi nella Direzione investigativa antimafia (Dia), nel cuore delle indagini su Cosa nostra e sulla Trattativa seguita alle stragi di Capaci e di via D’Amelio. Si chiama Mario Ravidàe dice: “Dopo trentacinque anni ho preferito andarmene per quello che ho visto e per quello che ho vissuto”. In questa intervista spiega perché. “La storia è lunga. Tutto parte dal maxiprocesso istruito da Falcone dopo le dichiarazioni di Buscetta, con condanne esemplari in primo e in secondo grado. In terzo grado la mafia tenta di inficiare il verdetto della Cassazione con l’omicidio del giudice Scopelliti (un omicidio passato in secondo piano, però secondo me quest’uomo è un eroe dell’antimafia). Per quelle condanne, Cosa nostra si sente tradita e improvvisamente saltano gli accordi fra i boss e la politica. Riina decide si sferrare un attacco senza precedenti allo Stato. Prima con i delitti politici di Salvo Lima e di uno dei cugini Salvo di Salemi (entrambi legati alla mafia), poi con le stragi. Lo Stato cerca un accordo. Il primo, come dice Massimo Ciancimino, viene stipulato fra l’ex sindaco di Palermo Vito Ciancimino (padre di Massimo) e Totò Riina, attraverso la consegna del famoso papello, nel quale si fanno delle richieste che non possono essere rispettate per intero. Alcune di queste, tuttavia, vengono accettate, a cominciare dall’abolizione del 41 bis (il carcere duro, ndr.)per più di trecento mafiosi. Oltre non si può andare. Riina non accetta e qualcuno (individuati dai magistrati negli ufficiali del Ros, Mori, Subbranni e Obinu) cerca un’altra via tramite un accordo con Provenzano, ma forse (forse…) anche con Matteo Messina Denaro. A un certo punto spunta il colonnello dei carabinieri Michele Riccio, che ha un confidente straordinario: Luigi Ilardo”.
Chi è il colonnello Michele Riccio? “Il comandante della Direzione investigativa antimafia di Genova. Nell’ambito dell’antiterrorismo e dell’antidroga aveva maturato una grossa esperienza anche con la mitica quadra del Generale Dalla Chiesa”.
E chi è Luigi Ilardo? “Un mafioso di grande spessore, il capo della Famiglia mafiosa di Caltanissetta, colui che aveva preso le redini della Famiglia Madonia, con cui Ilardo era imparentato. Riccio lo intercetta per un traffico di stupefacenti e Ilardo, dopo essersi fatto quindici anni di galera, non vuole rientrare in carcere. E si affida all’ufficiale: la sua compagna ha da poco partorito due gemelli e lui vuole cambiare vita”
E che succede? “Riccio e Ilardo fanno un accordo, assieme a Gianni De Gennaro (a quel tempo responsabile nazionale della Dia). Ilardo non vive a Caltanissetta, ma a Catania, quindi Riccio si vede con Ilardo nel capoluogo etneo e chiede l’ausilio di personale della Dia di Catania per condurre le sue indagini. Conosco tutti questi particolari direttamente, poiché allora ero alla Dia di Catania”.
Lei dunque ha conosciuto il colonnello Riccio? “Certo, ci ho lavorato. Io e altri due colleghi gli davamo gli appoggi logistici necessari, lo accompagnavamo, assieme a lui facevamo i sopralluoghi per catturare i latitanti. Ilardo dava notizie incredibili a Riccio, Riccio veniva in ufficio, ci diceva qual era l’appartamento dove si nascondevano latitanti come Aiello, Fragapane, Lucio Tusa ed altri, e noi li catturavamo. Contemporaneamente Ilardo ci dice che il reggente di quel momento a Catania è tale Aurelio Quattroluni (riferimento del clan Santapaola), arrestato fra il 1994 e il 1995, quando, con l’operazione ‘Chiaraluni’, con una cinquantina di arresti, abbiamo quasi azzerato Cosa nostra catanese”.
Perché Ilardo è importante? Perché ci avrebbe portato a catturare Provenzano. Ilardo era in contatto con Provenzano attraverso i pizzini: il boss corleonese gli chiedeva delle cose e Ilardo, come rappresentante provinciale di Caltanissetta, le faceva. L’opportunità di incontrare Provenzano non era facile, si doveva costruire, ed era quello che si stava facendo, mentre a Catania, grazie al colonnello Riccio (su confidenze di Ilardo) catturavamo dei latitanti importanti della mafia etnea”.
Quindi che succede? “Ilardo incontrò Provenzano a Mezzojuso, in provincia di Palermo e riferì questa circostanza a Riccio”.
Cosa gli riferì precisamente? “Che doveva esserci un summit, sempre a Mezzojuso, di tutto il gotha di Cosa nostra, al quale avrebbe partecipato Provenzano”.
A quel punto che fa Riccio? “Informa immediatamente il generale Mario Mori, il quale gli dice di rivolgersi a due ufficiali dei carabinieri di Caltanissetta e di coordinarsi con loro per le eventuali operazioni. Riccio arriva a Caltanissetta, incontra questi due ufficiali, ma questi dicono di non sapere niente dell’operazione. Riccio chiede mezzi, uomini, supporti di elicotteri. Stiamo parlando di una cosa importantissima, che avrebbe portato alla sconfitta Cosa nostra”.
E quindi che succede? “A Riccio non viene dato alcun supporto. Alla fine l’ufficiale chiede un semplice Gps da piazzare nella macchina o in una cintura di Ilardo, in modo da individuare il luogo del summit (dato che la riunione si sarebbe svolta in aperta campagna), scendere con gli elicotteri, circondare la zona ed arrestare tutti. Di questo, non viene fatto niente, perché non arrivano ordini. Mori dispone di fare delle foto e basta. Questa cosa sconvolge Riccio”.
E cosa dimostra? “E’ l’ulteriore conferma che Provenzano non si è voluto prendere. E siamo fra il 1995 e il 1996”.
Dopodiché? “Di colpo la Dia rompe con Riccio senza un motivo plausibile. Questa cosa ci sconvolge. Malgrado questo, continuiamo a mantenere i contatti con l’ufficiale dei carabinieri: con lui, oltre ai rapporti di lavoro, era rimasta un’amicizia consolidata”.
Che tipo è il colonnello Riccio? “Uno che crede fermamente nello Stato e nel lavoro, una persona leale, onesta, pulita, insomma un ufficiale tutto d’un pezzo”.
Com’è che la Dia rompe con Riccio? “Un giorno Tuccio Pappalardo, alto dirigente della Dia (che conoscevo perché precedentemente era stato mio dirigente alla Criminalpol di Catania), ci chiude in una stanza e ci dice: ‘Dovete rompere con Riccio. È un criminale, merita di essere arrestato: quando era all’antiterrorismo ha ucciso quattro terroristi nel sonno’. Noi lo contrastiamo: Riccio ci ha fatto fare un sacco di brillanti operazioni, ci ha fatto arrestare Quattroluni e diversi mafiosi, era arrivato alla cattura di Provenzano e non gli è stato consentito. Quando sente questa cosa, Pappalardo si irrigidisce e dice: ‘Questo Mori non me l’ha detto”.
Dunque, secondo questa testimonianza, da un lato Mori è al corrente della localizzazione di Provenzano, dall’altro non informa i vertici della Dia – che però rompono con Riccio – con cui sta collaborando per la cattura dei latitanti. “Esattamente, ma dopo succede anche di peggio”. L’INFORMAZIONELuciano Mirone
Ilardo, una storia unica ed eccezionale Apriamo la nostra rubrica “La trattativa. Ieri e oggi’’, raccontando l’uccisione, avvenuta nel ’96 a Catania, del confidente Luigi Ilardo. Questa vicenda, che non sempre ha trovato spazio, presenta una serie di elementi che permettono di avvalorare la tesi secondo la quale uomini dello Stato hanno trattato con Cosa Nostra. Su questa vicenda il pm Di Matteo, durante il processo Mori-Obinu, si esprimeva così: “Quella di Ilardo è una storia unica ed eccezionale nella storia del nostro Paese”. di Manfredi Cavallaro
Chi è Luigi Ilardo?‘’E’ come se ci fossi sempre stato. Non avevo bisogno di entrare in Cosa Nostra. Io vivevo di mafia, respiravo di mafia, da bambino, da sempre”. Questa è la frase che Ilardo riferisce al colonnello Michele Riccio, prima di pentirsi e collaborare con la giustizia, una frase che ci fa riflettere molto sul suo passato.
Nasce a Catania, all’interno di un ambiente familiare particolare, dal momento che il padre, i cugini e gli zii erano già uomini d’onore; in realtà la sua famiglia di appartenenza è quella dei Madonia di Caltanissetta. Ilardo entra a far parte di Cosa Nostra grazie allo zio “Piddu” Madonia, dato che era il suo autista personale. Successivamente si avvicinerà a Pietro Rampulla (uomo d’onore con trascorsi nella destra extraparlamentare) e Nuccio Turro (uomo della destra extraparlamentare). Nel ’83 verrà arrestato con l’accusa di aver partecipato ad un sequestro di persona e così inizierà a scontare la sua pena in un carcere pugliese. Nella primavera del ’93 a Ilardo mancano ancora tre anni per saldare il debito con la giustizia. In Italia però la situazione è particolare: Cosa Nostra ha dichiarato guerra allo Stato italiano, tramite una serie di attentati dinamitardi che verranno organizzati a Palermo, per uccidere Falcone e Borsellino, e nel resto del Paese (Firenze, Roma, Milano), ma nello stesso tempo il numero dei collaboratori di giustizia inizia a farsi sempre più notevole. Ilardo, stupito dalla violenza dell’attacco mafioso allo Stato, si rende conto di non condividere più gli ideali e il modo di agire di Cosa Nostra. L’idea di uscirne è sempre più forte, a tal punto da decidere di affidare la propria vita nelle mani della DIA.
La seconda vita di IlardoNel settembre del ’93, Ilardo conferma al colonnello Riccio la sua intenzione di operare sotto copertura all’interno di Cosa Nostra per agevolare lo Stato nell’arresto di Provenzano. Qualche mese dopo, Ilardo viene scarcerato e da questo momento in poi inizierà la sua nuova vita; da adesso in poi si chiamerà Oriente. “Il gioco è iniziato, colonnello’’. Con questa frase Ilardo comunica a Riccio di esser stato reintegrato all’interno di Cosa Nostra, dopo aver riallacciato i rapporti con i suoi “picciotti”. Le informazioni che, man mano Oriente passerà a Riccio nei diversi incontri, permetteranno alla polizia di Stato di decimare i vertici di Cosa Nostra orientale e di ricostruire i diversi orientamenti che si sono venuti a creare al suo interno dopo l’arresto di Riina.
Ilardo e Provenzano: scacco al re? Ilardo per avvicinarsi a ‘zu Binnu riesce ad attuare un piano che si dimostrerà ben presto efficace e decide, così, di sfruttare una questione che a Provenzano, come a tutti i mafiosi, sta a cuore: i soldi. Si parla di 500 milioni di lire che si sono volatilizzati senza mai essere versati alle famiglie che ne avevano diritto. Ilardo dovrà ottenere la funzione di paciere per risolvere la vicenda e per questa ragione decide di scrivere direttamente al boss. In pochi mesi, i due instaurano un rapporto abbastanza stretto, a tal punto che Provenzano richiede di incontrarlo.
I complessi rapporti tra Riccio e i RosNel frattempo il colonnello Riccio, referente di Ilardo, è stato trasferito ai Ros. Sin da subito, Riccio riscontra una serie di problemi. Gli viene ordinato di non redigere più alcun verbale sugli incontri con Ilardo e viene privato anche di quella libertà di azione che gli era stata riconosciuta da De Gennaro. Nell’ottobre del ’95, Riccio informa il suo superiore, il colonnello Mario Mori, dell’imminente incontro tra l’infiltrato Ilardo e Provenzano, notizia che non lo scalfisce per nulla.
I due si incontrano in una riunione dove si dovrà decidere il da farsi, per catturare Provenzano; sullo svolgimento di questa riunione operativa ci sono due versioni tra loro inconciliabili. Mori dice che fu Riccio a non voler intervenire. Riccio invece afferma che il suo superiore aveva deciso per un controllo a distanza.
Il mancato arresto“Colonnello tutto bene, iddu (ndr lui) era lì”. Questa è la prima frase che Ilardo riferisce al colonnello Riccio dopo l’incontro con Provenzano, una frase in cui traspare tranquillità come successivamente confermerà Riccio, ma nello stesso tempo dimostra, come durante il summit tra Provenzano e Oriente, nessuno degli uomini dei Ros aveva fatto irruzione per catturare ‘zu Binu.
Gli uomini incaricati delle indagini, De Caprio e Obinu non trovano il luogo in cui Provenzano ha incontrato Oriente; Riccio così insieme ad Ilardo decide di recarsi nel casale dove si è svolto l’incontro, raggiungendo il posto con estrema facilità. Riccio è furibondo: non si capacita dell’inettitudine dei colleghi. Anche l’atteggiamento dei superiori lo irrita, infatti da diverso tempo si sente rispondere ad alcune sue domande: “Non sono fatti che ti riguardano. Bada a gestire Ilardo”.
Durante la campagna elettorale del 1994 In piena campagna elettorale, Ilardo decide di tirare fuori la storia di un insospettabile esponente del partito di Berlusconi in stretto contatto con la mafia, però senza fare alcun nome, per il timore di qualche ritorsione. Successivamente il discorso viene ripreso da Riccio e stavolta Ilardo lascia intendere quale sia questo personaggio politico.
“Per caso l’uomo dell’entourage di Berlusconi di cui mi parlavi è Dell’Utri?”,domanda Riccio ad Ilardo. “Colonnello – gli risponde – ma se lei le cose le capisce, che me lo chiede a fare?”.
Un nome che scotta soprattutto in quel periodo. Difficilmente qualcuno prima di Ilardo aveva fatto quel nome o aveva informato di possibili rapporti tra Forza Italia e la mafia siciliana. Sappiamo che attualmente Marcello Dell’Utri, fondatore di Forza Italia, si trova in carcere a Parma, dove sta scontando una pena a 7 anni per concorso esterno in associazione mafiosa. Questa è un’altra storia, ma tutto ciò ci dimostra l’attendibilità delle informazioni che Ilardo passava al colonnello Riccio.
Ilardo collabora? Sono i primi mesi del ’96, manca poco affinché Ilardo entri a far parte del programma di collaborazione. Giorno che non arriverà mai, perché qualcuno riuscirà ad ucciderlo prima che scompaia da Catania insieme alla sua famiglia.
“Molti attentati addebitati a Cosa nostra non sono stati commessi da noi, ma dallo Stato. Voi lo sapete benissimo”. Questa è la frase con cui Ilardo si presenta per la prima volta al colonnello Mario Mori e che anticipa il suo incontro con Caselli, Tinebra e il giudice Principato. Anche questo confronto viene preceduto da un gesto e da una frase di Oriente, che faranno riflettere molto; Ilardo prende la sedia che si trova di fronte ai tre magistrati e si sistema davanti a Caselli dicendo: “Signor giudice, io di lei mi fido completamente”. Caselli non dice nulla ma Tinebra si innervosisce. Dopo l’incontro Caselli affida a Riccio il compito di registrare i prossimi colloqui con Ilardo prima che diventi collaboratore di giustizia. Tra queste registrazioni, una frase di Oriente merita di essere riportata per intero: “Molti misteri siciliani, ad esempio la maggior parte dei delitti politici in Sicilia, non sono stati a favore di Cosa nostra, ma Cosa nostra ha avuto solamente danni da questi omicidi, ma quelli che ne hanno tratto vantaggi sono solamente politici, incominciando dall’uccisione di Mattarella, Insalaco, di Pio la Torre e compagnia bella. […] quando un onorevole dava una battuta ad un uomo d’onore con cui era in confidenza e diceva, possibilmente: quello mi sta rompendo le scatole, detto in un certo modo, già significava che quello era un pericolo”.
Ilardo e Riccio si salutano, per sempre‘’Stia attento al suo ambiente. […] Subranni è uno di quegli ufficiali di cui dovrò parlare’’. Ecco le ultime parole, a detta di Riccio, che Ilardo pronunciò. Qualche ora dopo Riccio si incontra con il capitano Damiano che gli riferisce la seguente notizia: “Colonnello sono preoccupato. Dalla procura di Caltanissetta è trapelata la voce che Ilardo sta collaborando”. Riccio va su tutte le furie ma ormai non può far più nulla, Ilardo qualche ora dopo viene ucciso per le vie di Catania mentre si trovava vicino la sua abitazione. Muore tradito da una talpa istituzionale, il cui obiettivo era evitare che l’infiltrato potesse mettere a verbale le rivelazioni fatte al colonnello Riccio. Muore perché avrebbe potuto svelare le commistioni fra apparati dello Stato, imprenditoria e mafia. La conferma che Ilardo sia stato ucciso perché stava per pentirsi e non per una guerra di mafia, come si era detto, arriverà da una serie di intercettazioni ambientali operati dal Ros.
Grande Oriente Per onorare la morte di Ilardo, Riccio decide di redigere un lungo rapporto denominato “Grande Oriente” col quale riferisce ogni passo dell’infiltrato durante la missione sotto copertura. Riccio riferirà successivamente all’autorità giudiziaria di aver avuto anche in questa occasioni una serie di problemi con Mori, il quale si era opposto affinché in quella relazione non finissero i nomi di politici, soprattutto quello di Marcello Dell’Utri. IL GIORNALE DI ISOLA 13.2.2015
di Luana Ilardo LA LETTERA A nessuno fa piacere condividere ricordi intimi e privati che solo per esso dovrebbero rimanere tali . Ma oggi nella mia battaglia per ridare dignità all’uomo che ho amato di più in vita mia , farò anche questo . Tutti devono sapere chi era , ed è Gino Ilardo , un uomo , che oltre le foto segnaletiche e gli articoli di giornali dove puntualmente gli veniva sottratta la sua reale dimensione e caratura umana era tanto, molto di più … Spesso quando parlo di dissociazione accosto la parola “redenzione “ questa è L’ esatta spiegazione , a mio avviso , di cosa spinge un essere umano a camminare verso di essa … tutti devono sapere come stavano le cose davvero , spazzando via ogni dubbio riguardo quanto si è detto e si è scritto …
era il 1992 , aveva scontato gia’ allora 11 anni di galera e come si evince da quanto scritto di suo pugno , si legge un uomo provato e sofferente che con immensa dignità e rassegnazione continuava a scontare la sua pena per gli sbagli commessi.
A volte , In tanti , fanno fatica a capire perché io abbia amato e ami ancora così follemente questo uomo , la motivazione sta proprio in queste righe ..
il suo nobile animo ,i suoi elevati principi morali che spesso sono stati resi opinabili per le sue vicende giudiziarie, che tengo a ribadire ancora una volta, non hanno mai macchiato il suo animo di reati contro essere umaniMio padre era diverso da molti, tanti,troppi … Fottutamente orgogliosa di avere avuto la fortuna di conoscere un uomo del genere in vita mia ma ancora più fottutamente orgogliosa di essere tua figlia … A te amore mio grande , che mi hai reso e fatto diventare la donna che oggi sono ..
“MIO PADRE L’INFILTRATO FU UCCISO DA UNA TALPA DENTRO LO STATO” Il boss “quasi” pentito fu eliminato 23 anni fa dalla mafia: uscì la notizia che si era fatto “sbirro” Luana mi ha scritto su WhatsApp qualche sera fa: “Su Rai2 la fiction di mio padre (era in onda il film La Trattativa di Sabina Guzzanti, ndr). Sono scioccata”. Luana è la figlia di Luigi Ilardo, l’unico mafioso della storia a essersi infiltrato dentro Cosa Nostra per collaborare con lo Stato. Un’operazione durata tre anni, tutti sul filo del rasoio. Ilardo, nome in codice “Oriente”, gestito dal colonnello Michele Riccio, fece arrestare decine di mafiosi, e IL 31 OTTOBRE 1995 PORTO’ I ROS A MEZZOJUSO, NEL COVO DI BERNARDO PROVENZANO. MA IL GENERALE MARIO MORI DECISE DI NON INTERVENIRE, E PROVENZANO RESTO’ UCCEL DI BOSCO PER ALTRI 10 ANNI. IL 10 MAGGIO 1996, POCHI GIORNI PRIMA DI ENTRARE NEL PROGRAMMA DI PROTEZIONE, ILARDO FU AMMAZZATO SOTTO CASA, A CATANIA, CON 9 COLPI DI PISTOLA. Qualcuno aveva fatto uscire la notizia che si era fatto sbirro. Solo qualche giorno prima, Ilardo è a Roma, accompagnato dal colonnello Michele Riccio, nella sede dei Ros: ad attenderli, il generale Mori e, seduti in una stanza, attorno a un tavolo, i magistrati Giovanni Tinebra, Gian Carlo Caselli e Teresa Principato. È davanti a loro che Ilardo parlerà per ore e ore. Quella fotografia in bianco e nero – col padre a terra, coperto da un lenzuolo bianco, e lei accovacciata che si dispera – Luana l’ha rivista nel film La Trattativa, l’altra sera. È una di quelle foto di mafia, sporca e potente. Gli hanno sparato alle spalle a Luigi Ilardo, come si fa coi traditori. Dal lenzuolo, si intravedono i pantaloni scuri, e una camicia a quadri con una chiazza di sangue sulla schiena. Sulla camicia un giubbino, ancora sangue. Sangue che scorre, forma una pozza sull’asfalto e riflette il volto straziato di una ragazzina coi capelli corti. Luana è rannicchiata davanti a un’auto dei carabinieri, un uomo la abbraccia: ha le ginocchia imbrattate del sangue di suo padre. “Doveva andare a cena con Cettina, sua moglie. Era la loro prima serata dopo la nascita dei gemelli. Papà aveva voluto chiamarne uno Michele, come il colonnello Riccio. Ma allora nessuno di noi aveva capito perché. Cettina era in bagno, si stava truccando. Io e mia sorella Francesca saremmo rimaste in casa a guardare i bambini, c’era anche il primo figlio di Cettina, un bimbo di 4 anni. Abbiamo sentito la macchina di papà, il bambino è corso sul balcone, poi all’improvviso tutti quei colpi di pistola. Sono scesa di corsa, urlavo, piangevo. L’ho tirato a me, l’ho stretto forte. Ho sentito sul petto il suo ultimo respiro”. “Quel giorno la mia vita è cambiata per sempre. Al tempo non avevamo idea della scelta che aveva fatto papà. Era un personaggio importante, mi ha concepita mentre era latitante e ho vissuto con lui in clandestinità. Alto, bello, elegante, la sua Alfetta rossa, i cavalli: mi sembrava invincibile”. Il dopo: figlia di mafioso, poi figlia di pentito Luana e sua sorella Francesca sono sconvolte e impaurite, scappano di casa. Si rifugiano in campagna, da un’amica. Due materassi a terra, un fornellino a gas, un bagno fatiscente. Si lasciano andare: “Non volevo più vivere”. Verranno anni difficili: i beni di Ilardo all’asta, l’azienda agricola di famiglia, l’appartamento di Catania. “Una sera io e mia sorella torniamo a casa e troviamo sulla porta i sigilli e un catenaccio. L’avevano venduta. Divento una furia: il lucchetto l’ho spaccato a martellate. Poi è arrivata la Polizia: dovete andarvene, questa non è più casa vostra. Eravamo due ragazzine di 16 anni, disperate e sole. Scoppiamo in lacrime: non sappiamo dove andare. Il poliziotto ci guarda in silenzio. Poi se ne va: io non vi ho mai viste. È l’unico gesto di umanità che ricordo di quel periodo”. Il tempo per la verità non è ancora arrivato. I giornali cominciano a scrivere che Ilardo lavorava per lo Stato. Luana non ci crede. Poi sente la voce registrata nei nastri: “Mi chiamo Luigi Ilardo e ho deciso di collaborare con la giustizia. Cosa Nostra è diventata solo una macchina di morte. L’unica cosa che mi spinge è la ricerca della normalità della mia vita e di quella dei miei figli, perché sono stati i loro sacrifici, i loro dolori, a farmi capire i veri valori della vita che non ho mai trascurato…”. Si apre un capitolo nuovo, ma per Luana è un’altra tragedia. “Non ero più solo la figlia di un mafioso. Ero anche la figlia di un pentito. Adesso so che lo ha fatto per noi. E ha scelto di passare dalla parte dello Stato dopo aver scontato interamente la sua pena. Ha fatto bene? Sì. Lo ha fatto nel modo giusto? No. Si è fidato delle persone sbagliate. Mio fratello Michele porta il nome del colonnello Riccio. Quando ha capito che papà era in pericolo Riccio non avrebbe dovuto lasciarlo solo neppure un istante. E invece lo ha abbandonato al suo destino. In 23 anni non mi ha mandato neppure un telegramma di condoglianze. Né lui, né Mori, né nessun altro. Tutti spariti”. Luana oggi ha quasi quarant’anni e una bambina. “I lavori che trovo durano 48 ore, poi con scuse risibili mi mandano a casa. Sono sempre la figlia del mafioso, la figlia del pentito. Era mio padre, mi manca ogni giorno che Dio manda in terra, ma a volte mi incazzo con lui. Io vivo a Catania e tanti mi dicono: chi te lo fa fare? Ma io sono orgogliosa di mio padre. Il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede è siciliano: vorrei chiedergli se lo Stato è riconoscente per quello che Luigi Ilardo ha fatto. Ha lavorato per lo Stato, si è giocato la vita per questo. I mafiosi lo hanno ammazzato, ma sono le mele marce dello Stato che gliel’hanno consegnato. Questa è la cosa che mi fa più rabbia da figlia, da donna, da cittadina che vuole, nonostante tutto, credere ancora nelle istituzioni. Chi lo ha mandato al macello se ne deve assumere la responsabilità”. di Walter Molino Il Fatto Quotidiano | 23 Giugno 2019
Colonnello Riccio: ”Istituzioni deviate mandanti di delitti eccellenti e di stragi’‘Colonnello Riccio, ad un certo punto della sua attività investigativa, Luigi Ilardo, suo confidente, Le riferì notizie sullo scenario politico che andava delineandosi. Lei le ha rese note deponendo al processo trattativa: “Nel ’94, nel corso di una riunione a Caltanissetta, fu comunicata ai capimafia locali la strategia di Bernardo Provenzano: tornare a un vertice unitario di Cosa nostra, far cessare la violenza e appoggiare Forza Italia con cui si era stabilito un contatto tramite un personaggio insospettabile che era nell’entourage di Berlusconi. In cambio Cosa nostra avrebbe avuto dei vantaggi anche normativi”. Ritenne subito attendibili quelle parole? E in seguito, si ritrovò a riflettere sull’incredibile risultato elettorale riportato da quel partito e da quel leader di partito proprio in Sicilia e sulla promozione di determinate leggi palesemente d’ostacolo per la lotta alla mafia?
“Giudicai attendibile Ilardo sin dal nostro primo incontro. Mi parlò subito di Rampulla, amico dai tempi dell’università di Messina frequentata assieme ai vari Romeo Paolo, Aldo Pardo e Rosario Cattafi. Rampulla dopo aver militato per un certo tempo nella destra extra parlamentare, sviluppò una vera e propria passione per gli esplosivi che in breve tempo lo condusse ad essere un esperto nel realizzare sofisticati ordigni esplosivi con attivazione anche a distanza.
Era certo che lui fosse uno degli artificieri della strage di Capaci. Lo aveva presentato tempo prima ai vertici di Cosa nostra a Palermo, dove aveva dato dimostrazioni delle sue capacità. Ma quando fece un accenno all’esistenza di quel connubio di ambienti politico – istituzionali deviati che con il supporto dei servizi segreti, della massoneria e della destra eversiva aveva negli anni Settanta promosso le stagioni dei golpe e ora con l’apporto della criminalità organizzata di tipo mafioso le stragi e gli attentati degli anni novanta, destò ancora di più la mia attenzione. Fece un nome, quello del gran maestro Savona Luigi, quale anello di congiunzione tra questi mondi, ed allora ebbi la certezza di trovarmi di fronte a qualcosa di veramente importante che stentai a credere si fosse davvero materializzato. Savona Luigi, il potente massone torinese, era già stato oggetto di mie indagini condotte con l’allora ten. col. Bozzo Nicolò mio superiore nei nuclei speciali anticrimine che avevamo avviato su incarico particolare del gen. Carlo Aberto dalla Chiesa. Indagini nei confronti di quegli ambienti deviati istituzionali ed alle loro strategie criminali di cui lo stesso Generale ne parlò in seguito ai magistrati di Milano, Turone e Colombo nel maggio 1981. Dopo aver informato dei risultati di quel primo incontro Gianni De Gennaro, mio direttore alla DIA che, mi aveva dato l’incarico di gestire Ilardo, nei parlai successivamente anche con Bozzo il quale disse: “comandante finalmente ci siamo”. Quando alle elezioni politiche del 2001 Forza Italia con i suoi alleati, realizzò una vittoria senza precedenti, 60 seggi a zero, ebbi l’ulteriore conferma che Provenzano era riuscito nel suo compito di compattare Cosa nostra e indirizzarla ad appoggiare quel nuovo soggetto politico, ma solo nell’apparenza, con il quale aveva stretto un patto di reciproco sostegno. Provenzano ormai libero dell’ingombrante figura di Riina, Bagarella e compagni aveva finalmente condotto l’organizzazione, verso acque più tranquille, un ritorno all’antico, più colloquiante con quei settori amici, propri di quell’apparato istituzionale deviato. Ambienti politici di riferimento, come mi confidò Ilardo, che sin dagli inizi degli anni Novanta gli avevano consigliato di aspettare con pazienza tempi migliori vista l’incertezza politica di quei tempi e di non seguire la strategia, sempre più antagonista con lo Stato, che stava prendendo Riina che poi lo avrebbe condotto a compiere le stragi e gli attentati degli anni Novanta. In realtà era stato proprio Provenzano a strumentalizzare con abilità la parte violenta dell’azione di comando del compagno, in modo da far rinascere come la fenice dalle sue ceneri una nuova Cosa nostra più moderna, più colloquiante con le Istituzioni, più affaristica e meno nota agli inquirenti”.
Di pochi mesi fa, la sentenza del processo che l’ha vista protagonista fra i testimoni; Mario Mori condannato a 12 anni e con lui Antonio Subranni, l’uomo che Luigi Ilardo avrebbe indicato fra i collusi semmai fosse arrivato a formalizzare la sua collaborazione con le forze dell’ordine. Non ci arrivò. Forse per l’Italia non ci sarà mai una vera giustizia riguardo questi fatti che raccontano molto più di quel che viene colto dall’opinione pubblica, ma almeno per lei che vide vanificare e minimizzare le sue fatiche investigative proprio da questi individui, c’è la dovuta giustizia in queste condanne?
“Questa prima sentenza, anche se è un primo passo importante, è ancora lontana per rendere giustizia a quanti hanno creduto e dato tutto, alcuni anche la vita a questo Stato ancora ostaggio di poteri oscuri. E i loro servi prima millantando visioni risorgimentali ed interessi atlantici hanno dato vita ad un unico piano criminale reiterato negli anni con un sistematico innalzamento del livello di “tensione” per assicurare il potere agli ambienti politici di riferimento e poi dopo stretto intese famigerate con Cosa nostra. Intese e patti che avevano poi visto quelle istituzioni deviate essere, in alcuni casi, i mandanti di delitti eccellenti e di stragi di cui la Mafia era stata indotta ad esserne l’autore ed a pagarne poi le conseguenze”.
Il mancato arresto di Provenzano a Mezzojuso è qualcosa di sconcertante; l’Italia intera attendeva quel momento; le bombe e il sangue delle stragi di tre anni prima erano ancora nell’aria e per quanto fosse ovvio come le lunghe latitanze dei boss corleonesi fossero frutto di patti sporchi, nessuno poteva davvero immaginare cosa stesse accadendo. Lei fu il primo a vivere lo sconcerto dinanzi alle scuse pretestuose dei suoi superiori che impedirono quell’arresto. Provi a raccontare come visse quei momenti. Ricordiamo che oltre a non intervenire, le fu chiesto di non fare relazioni di servizio in merito alle confidenze di Ilardo sul casolare occupato da Provenzano…
“Non potrò mai dimenticare il senso di frustrazione e di amarezza che seguì dopo che avevo individuato il casolare di Mezzo Juso dove Provenzano organizzava gli incontri con gli affiliati a lui più vicini. L’imbarazzo e il disagio che provavo ad ogni incontro con Ilardo nel dover affrontare le sue domande se avevamo già visto Provenzano nel luogo che ci aveva indicato e se era stata già programmata la sua cattura, mentre io dovevo chiedergli invece di ripercorrere ancora il tragitto fatto nei giorni precedenti per recarsi a Mezzo Juso. Ciò perché gli ‘specialisti’ del ROS di Mori non avevano nemmeno individuato la strada che conduceva al casolare, che era di una facilità sconcertante, e nonostante avessi riconfermato più volte le indicazioni date. E con Ilardo fummo costretti a ripetere ben due volte il tragitto con il timore di essere scoperti. La situazione non cambiò nemmeno quando provai a propormi nell’eseguire io quel lavoro e i successivi appostamenti ricordando che già in altre occasioni e con i medesimi scenari operativi con l’ausilio di pochi uomini della DIA, avevo sviluppato con successo le indicazioni di Ilardo giungendo all’arresto di più latitanti di livello dell’organizzazione. La risposta fu sempre la stessa da parte di Mori, quello non era un mio compito, ma dei suoi ‘specialisti’ Gli “specialisti”, ovvero De Caprio che non faceva altro che lamentarsi del superiore che non gli dava a suo dire né i mezzi né il personale per questo lavoro. Ero sconcertato, allibito ad assistere a queste scene. Che dire: Maschere. Silenzio assoluto era la risposta che avevo quando chiedevo l’esito dello sviluppo delle indagini in merito alle indicazioni precise date sempre da Ilardo nei confronti dei favoreggiatori del boss latitante, come targhe, nomi, numeri di telefono da porre sotto controllo. Questo stato di inefficienza e di omissione proseguì per tutta l’indagine. Gli esempi sarebbero tanti, molti riportati nel mio rapporto Grande Oriente. Avrei voluto che qualcuno avesse chiesto spiegazioni punto su punto su quanto era stato fatto in merito alle informazioni riportate nel referto. Input investigativi nessuno. Invece ebbi la richiesta di non fare relazioni scritte, disposizione che ovviamente non esegui e produssi 20 relazioni a Mori lungo tutta l’indagine che come al tempo della DIA erano poi inoltrate all’AG di Palermo referente dell’indagine. Nonostante l’evidenza dei riscontri, come l’esistenza di altri referti in cui si faceva menzione e riferimento a queste relazioni, Mori ha negato l’esistenza di questi importanti documenti. E come quel detto popolare che dice: “Il diavolo fa le pentole ma non i coperchi” il collega non si ricordò che altro suo dipendente fortunatamente mi aveva dato copia su floppy disk delle relazioni, su mia richiesta con la scusa che mi sarebbero servite quando un domani sarei stato chiamato in qualche aula di tribunale a testimoniare sul lavoro svolto. Fatto grave non solo nei confronti dell’AG, ma ancor più del dipendente che, quale fiducia potrà mai avere del superiore quando si troverà ad affrontare contesti investigativi delicati e le relazioni di servizio costituiscono tutela e testimonianza del lavoro svolto? La vicenda che considero ancor più inaccettabile fu poi la richiesta di pilotare la collaborazione formale di Ilardo solo nei confronti dell’AG di Caltanissetta dott. Tinebra escludendo l’AG di Palermo con la quale era stata sin dall’inizio avviata l’indagine. Ovviamente non eseguii la disposizione, lasciando che Ilardo incontrasse le due AG e facesse autonomamente le sue scelte.Pochi giorno dopo quell’incontro Ilardo a Catania veniva ucciso a colpi di arma da fuoco da killers di Cosa nostra”. L’ombra dei servizi segreti aleggia su tutti i casi relegati alla voce “misteri italiani”. Il rapimento di Moro, i legami con la banda della Magliana, Cosa nostra, le telefonate della Falange armata dagli uffici del Sismi, sono solo alcune delle vicende che hanno interessato la presenza dei servizi in posizioni tutt’altro che chiare. Come immaginava questo apparato dello Stato quando decise di diventarne servitore e cosa pensa oggi? “Pur provenendo da una famiglia di ufficiali dell’esercito, negli anni trascorsi all’accademia militare e poi alla scuola di applicazione, non mi posi mai domande sulla esistenza dei Servizi Segreti. Le mie conoscenze si fermavano ai libri di avventure e quanto visto al cinema. La prima conoscenza l’ho fatta quando ero al comando della tenenza di Muggia un cittadina attigua a Trieste e posta proprio sul confine jugoslavo, erano gli anni ’72-’75. Erano anni in cui si addensavano con maggior frequenza nubi minacciose sul panorama nazionale e l’instabilità delle nazioni ad Est era sempre più crescente con frequenti problematiche ai confini. Da quella prima conoscenza non ebbi una grande impressione di efficienza, tutt’altro. Giudizio che ho confermato anche in seguito nei tantissimi contatti e le tante conoscenze avute, specialmente a partire dall’ottobre 1978 quando entrai a far parte dei Nuclei speciali Lotta al Terrorismo del gen. dalla Chiesa mio superiore dal 1975 e per il quale avevo già svolto più incarichi investigativi. Da quegli ambienti non ho mai ricevuto una informazione degna di nota, il loro compito era evidentemente altro. Parlare di inquinamenti, depistaggi, delegittimazione non basterebbe un libro, credo che la migliore e sintetica risposta sia nelle parole di un mio vecchio amico: “Quantunque incapaci, i servizi segreti italiani si presentarono per quello che volevano essere: ladroni, ladri, ladruncoli. Certamente non erano al servizio dello Stato”.
Per restare in tema di servizi segreti, Faccia da mostro, è morto di morte naturale? “Faccia da mostro, come lo definì sinteticamente Ilardo era. secondo le sue descrizioni, una persona alta, magra e di brutto aspetto. Questi faceva parte o era al soldo dei Servizi Segreti ed ebbe un ruolo nelle morti di Claudio Domino il bambino ucciso a Palermo nell’ottobre del 1986, così negli omicidi sempre avvenuti a Palermo dell’agente di PS Agostino Antonino, della moglie Castelluccio Giovanna nell’agosto 1989 e poi dell’altro agente di PS e collaboratore del SISDE Piazza Emanuele del marzo 1990. Giovanni Aiello ritenuto faccia da mostro nell’agosto 2017 è morto d’infarto. Le morti sospette nei servizi segreti e negli ambienti collaterali non sono state affatto una rarità e sono state sempre provvidenziali per il Potere”
Cosa pensa delle incredibili carriere che accomunano uomini dell’arma “distratti” – nella migliore delle ipotesi definiti “negligenti” – e come se le spiega? “Senza affrontare lunghi discorsi, desidero solo riportare alcuni avvenimenti. Nel 1986 Mario Mori assume il comando del gruppo centro dei carabinieri di Palermo e l’allora colonnello Antonio Subranni quello della legione carabinieri di Palermo. Incarichi che ricopriranno fino ad ottobre del 1989. Capo della squadra mobile di quella città in quegli anni è Arnaldo La Barbera a doppio servizio tra la PS e il SISDE (nome in codice Rutilius). Bruno Contrada è tra i vertici di comando al SISDE. Nella mia informativa Grande Oriente verrà indicato secondo le dichiarazioni di Ilardo ‘l’uomo dei misteri’ e trait-d’union fra Cosa nostra e istituzioni. Mori sarà teste della sua difesa dopo la consegna del mio rapporto alle AG siciliane. Il 7 ottobre 1986 un killer tuttora sconosciuto uccise con un colpo di pistola nel quartiere San Lorenzo un bambino Claudio Domino. Nel maggio 1989 il vice questore Arnaldo La Barbera arresta Salvatore Contorno nei pressi di Palermo. Nei primi dell’estate 1989 giunsero le lettere del “corvo” con le quali iniziò la delegittimazione del giudice Falcone accusato di aver organizzato in combutta con Gianni De Gennaro il rientro in Sicilia di Contorno per favorire la cattura o la eliminazione fisica dei capi corleonesi di Cosa nostra. Il 20 giugno 1989 il fallito attentato all’Addaura; viene rinvenuto un ordigno esplosivo composto da un timer e 58 candelotti di dinamite, che doveva colpire Falcone e alcuni magistrati svizzeri riunitisi per esaminare i canali del riciclaggio dei proventi illeciti di Cosa nostra. L’artificiere dei carabinieri il maresciallo Tumino, distrugge maldestramente il timer dell’ordigno esplosivo, limitando l’opera di verifica dei periti che dimostrano ugualmente la pericolosità distruttiva della bomba. Iniziarono presto a circolare voci che si trattava di un finto attentato e che addirittura fosse stato organizzato dalla stessa vittima. Nel processo poi celebratosi a Caltanissetta emerse che vi fu una colpevole operazione indirizzata a sminuire l’enorme gravità dell’attentato, riportando un semplice atto minatorio, ciò anche a seguito delle deposizioni del l dott. Domenico Sica, capo dell’Alto commissariato antimafia, del dott. Francesco Misiani altro magistrato e collaboratore di Sica e del ten col. Mori Mario al tempo comandate del gruppo di Palermo. La sentenza emessa dalla Corte di Cassazione del 19 ottobre 2004 riporta: “Resta il dato sconcertante che autorevoli personaggi pubblici investiti di alte cariche e di elevate responsabilità, si siano lasciati andare in una vicenda che, per la sua eccezionale gravità, imponeva la massima cautela, a così imprudenti dichiarazioni tali da fornire lo spunto ai molteplici nemici di inventare la tesi del falso attentato”. Nell’agosto 1989 in Palermo avveniva l’omicidio dell’agente di PS Agostino Antonino, e della moglie Castelluccio Giovanna. Seguito poi nel marzo 1990 dall’omicidio avvenuto sempre nel medesimo capoluogo dell’agente di PS e collaboratore del SISDE Piazza Emanuele. Questi omicidi collegati al fallito attentato dell’Addaura, furono oggetto da parte di numerosi depistaggi posti in essere, in parte, anche dagli stessi organi investigativi. Ilardo nel corso della sua collaborazione mi rappresenterà che avrebbe fatto luce su tutti questi avvenimenti nel corso della sua collaborazione ufficiale con l’AG, notizia che riportai ai miei superiori documentandola anche per iscritto. Mai nessuno di loro, visto che riguardavano avvenimenti accaduti nel corso del loro comando in Sicilia, mi chiese solo per curiosità notizie in merito. Certo è che prima di incontrare i magistrati di Palermo e Caltanissetta a Roma presso il comando ROS, nel presentare Ilardo a Mori alle dure e improvvise parole del collaboratore dirette frontalmente al collega: ‘Molti attentati che erano stati addebitati esclusivamente a Cosa nostra, in realtà erano stati commissionati dallo Stato…’, questi preferì non rispondere, come mi sarei aspettato che facesse, ma preferì, contrariato, allontanarsi precipitosamente dall’ufficio. Tempo dopo Mori quale direttore del Sisde, nominato nel 2001 dal governo Berlusconi, si occupò della posizione di Dell’Utri e Previti, con due informative del Sisde, anticipate da La Repubblica del 7 settembre 2002, che rivelava che un’informativa del Sisde indirizzata alla presidenza del consiglio aveva segnalato che Dell’Utri e Previti (già ministro della difesa) si trovavano a rischio di attentati da parte di Cosa nostra, in considerazione del fatto che essi erano stati “mascariati”, ovvero ne era stata infangata l’immagine. Il dott. Tinebra nello stesso periodo e dallo stesso governo fu nominato al vertice del D.a.p.. Il gen. Subranni è stato consulente del presidente della Regione Siciliana Provenzano (Forza Italia). Prof. Provenzano che, in qualità di commercialista della famiglia dell’allora latitante Provenzano, fu arrestato dall’Ufficio istruzione di Palermo negli anni Ottanta e successivamente prosciolto. In quel procedimento emerse, comunque, pacificamente che il prof. Provenzano era stato fiduciario di Saveria Benedetta Palazzolo, notoriamente compagna di Bernardo Provenzano.”
Cosa sente di dire pubblicamente al magistrato Nino Di Matteo dopo quel processo e dopo quella sentenza?“Ancora oggi chi cerca effettivamente la libertà, chi tenta di farlo viene duramente combattuto, osteggiato, messo all’angolo per poi essere calunniato, a secondo il momento e le convenienze. Si accorgerà di essere sempre più solo, con il supporto di pochi, non farà parte di alcuna squadra e la sua voce avrà sempre meno eco, per lui niente sconti, nessun favore e tutto ciò accadrà nell’indifferenza più totale. Quando molti conoscono la verità e tacciono o per viltà o nella convinzione di trarne un vantaggio. Ambiguità, ipocrisia, rinuncia alla propria identità ed al proprio dovere sono compromessi per la costruzione di una comoda e finta democrazia. Un male che ha radici antiche. Parlare, ricercare la verità, comprendere la storia è un atto di libertà”. 1.10.2018 ANTIMAFIA DUEMILA
Processo Ilardo, parla il colonnello Riccio: “Fuga di notizie sull’inizio della collaborazione di Ilardo” Inefficienze e mancati interventi da parte dell’Autorità Giudiziaria e dei suoi superiori nell’Arma, ma anche i legami di Cosa Nostra con la politica: è questo il bilancio della deposizione di oggi di Michele Riccio, il colonnello dei Carabinieri cui Ilardo faceva riferimento come informatore. Cosa Nostra lo voleva morto, ma forse anche qualcun altroParla per quasi cinque ore Michele Riccio ed è come un fiume in piena: il suo unico intento è che rimanga traccia dell’attività che ha svolto per anni sotto copertura a fianco di Luigi Ilardo.Lo dice subito, in premessa, prima che il Pubblico Ministero inizi a condurre l’esame: “Volevo lavorare con Ilardo con l’intento di far emergere i mandanti esterni alle cosche mafiose. Così, dopo aver letto una sua lettera nella quale si diceva disponibile a collaborare per far emergere i legami tra Cosa Nostra, la Massoneria e il potere di certe aree dell’estrema destra ho accettato di buon grado”.Colonnello dei Carabinieri, membro dei corpi speciali, Michele Riccio aveva lavorato con il generale Dalla Chiesa. Poi, dal ’93 al ’96, diventa il collante tra l’Autorità Giudiziaria e Luigi Ilardo: sarà tra le ultime persone ad averlo visto vivo quel 10 maggio del 1996.Referente diretto di Riccio era il dott. De Gennaro, a capo della Dia di Roma. Fu proprio De Gennaro a farlo incontrare con Ilardo, quando questi si trovava ancora in carcere a Lecce.“Ilardo non voleva diventare collaboratore di giustizia – racconta Riccio – ma si era mostrato propenso a diventare informatore”.Ottenuta una sospensione della pena per motivi di salute, Ilardo rientra a Catania nell’estate del ’93: iniziano, per Michele Riccio, tre anni di fitti dialoghi e confidenze con Luigi Ilardo.“Aveva ripreso subito tutti i suoi contatti con Cosa Nostra, era ben voluto e si fidavano di lui” dichiara Riccio nel corso della sua deposizione.“Mi chiamava dalle cabine telefoniche ogni volta che pensava di avere qualche novità di rilievo e concordavamo un incontro: in quegli anni ho imparato a conoscere tutte le trazzere di Lentini” racconta ancora.Si incontravano nelle campagne: Ilardo raccontava a Riccio dei suoi incontri con Madonia, dello scambio di pizzini con il boss Provenzano, all’epoca latitante, dei suoi continui contatti con i Santapaola, con Aiello, con Galea.Il nome in codice di Ilardo era “Oriente”: nessuno conosceva la sua vera identità, fatta eccezione per Riccio, De Gennaro e il capo dell’autorità giudiziaria di Palermo il dott. Caselli.Grazie alle soffiate di Ilardo avvengono gli arresti di Vincenzo Aiello, Lucio Tusa, Salvatore Fragapane, Giuseppe Nicotra e di altri nomi noti di Cosa Nostra. “Ci dava descrizioni molto dettagliate dei luoghi degli incontri, ci riferiva numeri di telefono e targhe dei veicoli, così che le operazioni di pedinamento erano semplici: molte operazioni le seguivo e coordinavo io in prima persona solo per garantire la copertura ad Ilardo”.Alla fine di ogni incontro o di ogni operazione, Riccio relazionava alla Dia di Roma e all’Autorità Giudiziaria Palermitana.“L’arresto di Domenico Vaccaro, a fine ’94 aveva dato una svolta all’operazione Oriente” continua Riccio. “Aver eliminato Vaccaro ci avevano consentito di avvicinare sempre di più Ilardo a Provenzano, tanto da pensare che presto sarebbe avvenuto un incontro fra i due. Lo stesso Ilardo, che aveva ricevuto alcune lettere di Provenzano dal postino Simone Castello, me lo confermava”.Riccio ha la squadra pronta, le attrezzature idonee alla localizzazione gps e ha anche fatto alcune prove in esterna per verificarne l’efficacia: “L’ambasciata americana ci aveva messo a disposizione un localizzatore che avevamo posizionato in una cintura. Un semplice cambio di passante faceva diventare il segnale da intermittente a continuo: in questo modo Ilardo avrebbe potuto sengalarci l’arrivo di Provenzano e solo allora saremmo intervenuti”.Il cambio al vertice alla Dia di Roma sconvolge le cose: “Dopo il trasferimento di De Gennaro – prosegue Riccio nel suo racconto – mi sentivo sempre più solo. Sia la Dia di Palermo e che quella catanese erano visibilmente irritati dal fatto che fossi io a gestire una fonte così importante e trovavo difficile tenere i rapporti. Così chiedo il rientro”.Quella stessa estate del 1995, però, viene contattato dal Colonnello Mori che gli chiede di rientrare nei Ros. “Lavoravo nei corpi speciali da 30 anni, ero stanco, ma sapevo dell’importanza dell’incontro tra Ilardo e Provenzano per l’arresto di quest’ultimo così chiesi a Mori di poter lavorare come aggregato solo ai fini dell’arresto del boss Bernardo”. Da questo momento le cose cambiano, c’è qualcosa nella gestione delle indagini, delle operazioni, che lasciano Riccio perplesso.“A fine ottobre, rientrato ai Ros ricevo una chiamata da Ilardo il quale mi comunica dell’imminente incontro con Provenzano. Quando lo comunico a Mori lui non sembra avere nessun entusiasmo. Gli dico che ho la squadra pronta e perfettamente equipaggiata, ma lui mi dice che non vuole coinvolgere altri e che comunque non vorrebbe procedere subito all’arresto ma aspettare, avviare un pedinamento e attendere una situazione più gestibile. Detto ciò mi invia a Catania dandomi come referente il capitano Damiano”.“Arrivato a Catania – continua Riccio – mi accorgo che Damiano non ha nessuna idea dell’operazione che stiamo andando a svolgere e anche quando gli spiego l’importanza dell’operazione mi rendo conto che non saranno in grado di avviare un pedinamento senza mettere in pericolo la copertura di Ilardo”. La cosa innervosisce Riccio e lo comunica a Mori che però cerca solo di tranquillizzarlo.L’incontro, come noto alla cronaca, avvenne al bivio di Mezzojuso e Mori avrebbe avuto la possibilità di arrestare il super latitante Bernardo Provenzano e non lo fece. “Ilardo mi raccontò dell’incontro e mi diede tutti i dettagli come suo solito: io girai tutte le informazioni a Damiano e al dott. Caselli che era a capo dell’Autorità Giudiziaria di Palermo. Feci anche un sopralluogo seguendo le indicazioni di Ilardo e una volta ricostruito il luogo dove era avvenuto l’incontro tra i due diedi indicazioni a Damiano così da poter effettuarre gli appostamenti”.“Lo contattai diverse volte: non erano riusciti a trovare il posto e mi sembrò assurdo, era semplice, in una zona piana, il casolare si vedeva addirittura dal bivio. allora proposi a Mori di fare io l’osservazione, tanto ero abituato, ma Mori si rifiutò, mi disse che non era compito mio”.E non fu l’unico episodio che lo insospettì. Quando si capì che il secondo incontro con Provenzano non sarebbe arrivato a breve, si prospettò la possibilità di far costituire Ilardo. “Cominciarono ad arrivare lettere anonime che definivano Ilardo come un mafioso che aveva ripreso la sua attività e che stava espandendosi con arroganza. Si avvicinava anche il tempo della fine della sospensione della pena ed era chiaro che non gliel’avrebbero rinnovata”. Ma non è Cosa Nostra che non vuole più tra i piedi Ilardo: “Lui continuava tranquillamente a sbrigare le faccende dell’organizzazione e la corrispondenza con Provenzano non si era mai interrotta, quindi non avevo motivo di sospettare per la sua incolumità”. Avviata la procedura per farlo diventare collaboratore di giustizia però qualcosa non torna: “Mori mi disse che per competenza territoriale sarebbe stato giusto far collaborare Ilardo con Caltanissetta, ma io sapevo bene che Ilardo aveva grande fiducia in Palermo e che stimava particolarmente il dott. Caselli. Però non dissi di no: sapevo che Ilardo avrebbe trovato il modo di porre le sue condizioni. Contattai il dott. Tinebra a Caltanissetta, comunicandogli la volontà di Ilardo a diventare collaboratore: lui in un primo momento mi disse che non ci sarebbero stati problemi a collaborare con Palermo, ma poi ci ripensò”. In quello stesso periodo Ilardo parlando con Riccio, fece capire al Colonnello che avrebbe raccontato fatti particolari e delicati: “Un giorno mi chiese se mi fidassi dei miei vertici: c’era un nome che non voleva farmi perché se io l’avessi riferito si sarebbe capito che lui stava collaborando. Voleva parlare con Palermo perché si sentiva più sicuro, aveva certezza di un presidente del Tribunale di Caltanissetta che era legato a Cosa Nostra ed era pronto a raccontare dei legami delle cosche con i Tribunali di Catania e Caltanissetta”. Fu allora che ci fu una fuga di notizie: mentre preparano tutto per la trasferta di Ilardo a Roma per incontrare i magistrati di Palermo e Caltanissetta, qualche funzionario del Tribunale di Caltanissetta lascia capire che è ormai noto che Ilardo vuole collaborare. “Questa notizia mi turbò parecchio” riferisce Riccio. Qualcuno sapeva e aveva parlato. Ilardo non era preoccupato, perché la sua vita all’interno di Cosa Nostra proseguiva come sempre, “ma sapeva che le cose sarebbero cambiate non appena fosse iniziata la sua collaborazione“. Ilardo sapeva di non essere un pentito qualsiasi, faceva parte della “vecchia scuola” di Cosa Nostra, quella dei legami con i politici e con gli imprenditori. “Più volte, ricostruendo la spaccatura interna a Cosa Nostra, mi aveva parlato di come a Provenzano non piacesse Riina: Provenzano preferiva i vecchi metodi di dialogo ee stava tentando di ricucire la ferita aperta con la politica che per colpa di Riina si era allontanata da Cosa Nostra”. In particolare, Ilardo parla dell’avvocato Minniti, esponente della nascente Forza Italia: “Minniti aveva assicurato a Provenzano che con l’elezione di Berlusconi sarebbero arrivati atti che avrebbero favorito Cosa Nostra”. L’incontro con i magistrati si fece: i primi di maggio del 1996 fu proprio Riccio ad accompagnare Ilardo. “Prima dell’incontro con Tinebra e Caselli, lo presentai a Mori. La scena mi colpì: Ilardo si avvicinò di getto a Mori e gli disse ‘Guardi che molti attentati attribuiti a Cosa Nostra sono stati voluti dallo Stato’. Mori si irrigidì, strinse i pugni, abbasso lo sguardo e se ne andò. Non lo rividi più”. Nel corso dell’incontro con i magistrati Ilardo si rivolge solo a Caselli, ignorando Tinebra: “prima di sedersi spostò la sedia che era posta davanti a Tinebra e la mise davanti al dott. Caselli. Vidi subito che Tinebra non era soddisfatto. Nell’incontro Ilardo fu un fiume i piena: raccontò del suo ingresso in Cosa Nostra, di Rampulla e dei nuovi ordigni preparati. Fu Tinebra a bloccarlo, dicendo che si sarebbero rivisti a breve”. E l’incontro fu fissato per il 15 maggio del 1996: Ilardo a quell’incontro non arrivò mai. “Su richiesta di Caselli scesi a Catania e feci una decina di giorni di incontri con lui nei quali registrai le nostre conversazioni: Caselli voleva avere già materiale sul quale lavorare. Tinebra mi disse che non c’era bisogno di registrare, ma io non lo ascoltai e mi feci dare da Damiano il registratore e le cassette, quelle che si usano per le deposizioni giudiziarie. Ilardo mi parlò degli attentati di Firenze e Roma, dei legami di Cosa Nostra con Forza Italia, con Dell’Utri, ma anche dei senatori Sudano e Grippaldi, delle ombre sull’arresto di Riina, di Bruno Contrada “l’uomo dei misteri” (ex capo della mobile e numero 3 del Sisde, ndr)”. I colloqui vanno avanti fino alla mattina del 10 maggio, quando Ilardo accompagna Riccio all’aeroporto di Catania, dove lo aspetta Damiano. “Era sereno, sarebbe venuto a Roma con la famiglia e io dovevo occuparmi di sistemarli al sicuro. Ci salutammo e fu l’ultima volta che lo vidi”. Riccio incontra Damiano prima di partire per Genova: “Era cadaverico in viso, visibilmente preoccupato: a Caltanissetta si sapeva ormai che Ilardo voleva collaborare. Prontamente accesi il registratore che avevo in mano e di nascosto registrai quello che mi stava dicendo. Dei funzionari del Tribunale lo avevano riferito alla moglie di Madonia. Chiamai subito Mori, era inaccettabile”. Ilardo venne ucciso quella stessa sera: “Fu un accelerazione, avevano timore di quello che avrebbe potuto dire”. “Nonostante mi dissero che non fosse necessario io feci lo stesso la mia relazione: mi avevano chiesto un rapporto asettico, solo i nomi degli affiliati e le date, senza fare riferimento al contesto politico che invece Ilardo descriveva minuziosamente. Io non lo feci, scrissi tutto: feci il resoconto dei miei appunti e dei racconti di Ilardo e consegnai tutto a Di Matteo e Ingroia dell’Autorità Giudiziaria di Palermo”. 13.3.2015 PRESS SUD
Dalle motivazioni sentenza processo trattativa Stato-mafiaLe DICHIARAZIONI del col MICHELE RICCIO Michele Riccio, in qualità di indagato in procedimento connesso, è stato esaminato nelle udienze del 5, 19 e 20 novembre 2015, allorché, in sintesi, ha riferito:
- di avere svolto indagini, sin dall’inizio delle sua carriera e sotto la guida del Gen. Dalla Chiesa, sui legami tra ambienti massonici con ambienti di destra e con la criminalità organizzata
- che nel corso delle dette indagini erano emersi anche collegamenti con ambienti delle Istituzioni ed in particolare dell’Arma dei Carabinieri
- che già durante il servizio prestato a Genova si era imbattuto in indagini che coinvolgevano esponenti mafiosi della provincia di Caltanissetta
- che “llardo scrisse una lettera direttamente al Direttore della DIA De Gennaro, nella quale rappresentò la sua disponibilità a fornire indicazioni per ricostruire quelle dinamiche eversive stragiste che avevano indotto Cosa Nostra a perpetrare le stragi del 92 e del 93 e disse che era in grado di dare indicazioni molto probabilmente, e fu il primo in assoluto ad individuare in Pietro Rampulla uno degli esecutori dell’attentato, disse che lui era in grado, esaminando il congegno esplosivo, di potere stabilire chi lo avesse adoperato, proprio perché Rampulla era stato uno degli artificieri della famiglia dei Madonia e lo conosceva direttamente, e mi raccontò che Rampulla gravitava in ambienti della destra eversiva.
E mi disse: guardi che questi attentati sono stati sì perpetrati da Cosa Nostra, questa strategia stragista è stata perpetrata da Cosa Nostra, ma trova riferimento ed ispirazioni in settori deviati delle istituzioni, della massoneria, dell’estrema destra, quello stesso ambiente che nel 1970, nei primi anni ’70 aveva perpetrato la serie di attentati in Italia, che poi erano entrati nella definizione dell’ottica della strategia della tensione. E fece il nome di Savona Luigi” - che Ilardo in quel momento era detenuto ed era stato incontrato la prima volta dal Col. Di PetriIlo che aveva accertato la volontà dell’Ilardo a collaborare e, pertanto, il Dott. De Gennaro aveva a quel punto incaricato il Col. Riccio di occuparsene.
- che egli pertanto si era recato nel carcere di Lecce per incontrare Ilardo il quale gli aveva confermato la sua disponibilità a collaborare spigandogliene le ragioni:
Da quello che era successo al dottor Falcone, non si riconosceva più in Cosa Nostra e fa presente che questa sua disponibilità non tendeva ad avere vantaggi dal punto di vista giudiziario personale, in quanto gli mancava un anno per essere definitivamente scarcerato, ma questa sua volontà di riesamina della sua, diciamo, esperienza in Cosa Nostra, che non si riconosceva, perché aveva perso quei valori tradizionali.
- che in quella fase Ilardo “dà la sua disponibilità come nostro confidente, come nostro collaboratore. E mi rappresenta: guardi, io appena uscirò sicuramente, come è già stato in passato, verrò cooptato dalla struttura di Cosa Nostra, essendo ai vertici della famiglia di Caltanissetta. Per cui io vi posso fornire non solo conferme e ulteriori informazioni su quei mandanti esterni, ma darvi in diretta, chiamiamola così, le evoluzioni strategiche politiche – criminali di Cosa Nostra, essendo io cugino di Piddu Madonia, rappresentante della famiglia proprio dei Madonia”
- che Ilardo era stato scarcerato per motivi di salute nel gennaio 1994 ed egli, poi, aveva scritto una lettera al magistrato di sorveglianza di Genova per rappresentare che Ilardo stava collaborando con la DIA, mentre De Gennaro aveva deciso di informare comunque il Dott. Caselli:
“siccome tu operi in Sicilia con il confidente Ilardo, perché è giusto che sia così, è bene che l’autorità giudiziaria sia informata della collaborazione quale confidente di Ilardo e della tua attività sul territorio.”
Al dott. Caselli era stata comunicata anche l’identità dell’Ilardo tanto più che in quel medesimo periodo erano stati acquisiti riscontri su messaggi indirizzati o provenienti da Provenzano e, quindi, sul fatto che questi fosse vivo.
Ilardo mi disse: lui è il vero capo dell’organizzazione e non Riina.
Appena mi dava delle informazioni ne facevo oggetto di relazioni e poi li confrontavo, specialmente in quel periodo, costantemente con il dottor De Gennaro - che Ilardo aveva iniziato a parlargli anche delle stragi e della frattura interna che si era creata in “cosa nostra” con un’ala più moderata che faceva capo a Provenzano, confermandogli anche lo spessore e il ruolo di Savona Luigi quale esponente della massoneria.
“Mi dice: gli attentati, questi attentati stragisti hanno trovato supporto e ispirazione in ambienti deviati dello Stato, parte politica, parte istituzionale, parte dei Servizi Segreti, parte imprenditoriale, destra eversiva, frangia destra eversiva e dalla massoneria in diretto contatto con la criminalità organizzata siciliana e mi parla anche di quella calabrese perché lui era stato il referente di Cosa Nostra in Calabria e anche la parte calabrese aveva avuto un ruolo”
- che Ilardo gli aveva riferito di una riunione cui egli aveva partecipato a Caltanissetta dopo essere stato scarcerato, “alla quale hanno partecipato anche i palermitani che hanno dato delle disposizioni. Cosa Nostra prima aveva cercato di portare avanti un progetto autonomo, dopo di che questo progetto autonomo, politico era abortito e c’era stata la disposizione di supportare la nascente Forza Italia, anche perché i vertici di Cosa Nostra avevano stabilito un contatto con un personaggio insospettabile dell’entourage di Silvio Berlusconi
- che Ilardo gli aveva nominato anche Giovanni Ghisena, uomo di fiducia di Luciano Liggio e anche un appartenente a quella struttura parallela dei Servizi Segreti.
Ghisena è l’uomo che permette la discesa in Sicilia di Savona Luigi e di lì l’ingresso poi di Cosa Nostra nelle strutture massoniche, nella massoneria ufficiale, diciamo, nelle varie logge massoniche in Sicilia. “..Ilardo ha partecipato insieme al Ghisena a degli incontri con Agenti dei Servizi Segreti, con i quali si è recato anche presso la base navale di Sigonella dove hanno portato fuori con l’aiuto di alcuni Agenti Segreti delle borse, delle valigie contenenti esplosivo, che poi sono state consegnate parte all’organizzazione di Cosa Nostra e parte poi sono transitate in Calabria. Ha avuto altri incontri con esponenti dei Servizi Segreti a Roma, al quale hanno consegnato insieme al Ghisena somme di denaro provenienti dai sequestri di persona. Perché non lo sapeva… Altre volte ha spalleggiato il Ghisena negli incontri che faceva il Ghisena sui traghetti che servivano la tratta Reggio Calabria – Messina perché lungo quella tratta il Ghisena aveva i contatti con funzionari dei Servizi Segreti. Si incontravano nel traghetto, da una parte c’era chi accompagnava l’esponente dei Servizi Segreti, dall’altra parte c’era !lardo e sorvegliavano che l’incontro andasse, diciamo, si svolgesse in perfetta tranquillità”
- che nell’aprile del 1994 Ilardo gli aveva prospettato la possibilità di giungere alla cattura di Provenzano, cosa di cui aveva informato subito il Dott. De Gennaro che aveva, a sua volta, informato l’A.G.
- che egli stesso aveva incontrato il Dott. Caselli al quale doveva fare riferimento e il Dott. Pignatone, “che mi indicò Caselli, che avrebbe seguito l’indagine con il Magistrato di riferimento. Io avrei fatto le relazioni di tutte le informazioni che ricevevo direttamente alla Direzione di Roma della Dia, le quali le avrebbe trasmesse direttamente all’Autorità Giudiziaria.
Parlando poi con il dottor Pignatone vidi subito che era un preparatissimo nella materia e che mi poteva dare un grandissimo supporto, per cui per ogni iniziativa io mi riferivo sempre al dottor Pignatone” - che egli incontrava Ilardo nell’assoluto anonimato
- che Ilardo gli aveva parlato degli schieramenti che facevano capo rispettivamente a Riina e Provenzano e che la contrapposizione riguardava la strategia stragista
- che in tale contesto Ilardo gli disse anche quale fosse lo scopo di quella strategia:
“Mi disse perché dovevano ritornare a dialogare con lo Stato come lo avevano fatto in precedenza. …Perché gli attentati erano finalizzati a stabilire un contatto con gli ambienti istituzionali.. ..Perché con le stragi si erano interrotti i contatti con lo Stato e allora dovevano ritornare ad essere colloquianti come lo erano stati fino ad allora, perché il contatto con lo Stato c’è sempre stato.
- che Ilardo gli disse che era stato raggiunto un accordo tra Provenzano ed un esponente di Forza Italia che aveva assicurato, in caso di successo elettorale, interventi legislativi favorevoli a “Cosa Nostra” e in più avrebbero favorito anche le attività economiche dell’organizzazione, con la concessione dei soliti appalti, i finanziamenti e ci sarebbero state normative di Legge più garantiste nei confronti dell’organizzazione… … Come ho scritto nel rapporto, era sui termini di custodia cautelare… fece riferimento anche a legislazione sui pentiti o a legislazione carceraria.
- che successivamente aveva avuto modo di scoprire chi fosse queI soggetto dell’entourage di Berlusconi di cui aveva parlato Ilardo:
- “Mi ricordo che su il Giornale della Sicilia c’era qualcosa che faceva riferimento a Dell’Utri e io mi rivolsi a Ilardo e gli dissi: Non è questo l’insospettabile? E lui mi fece, facendo la solita smorfia che era solito fare, perché era un pezzo di (parola incomprensibile). Dice: Colonnello, c’ha messo tanto per capire. E mi diede la conferma che era l’allora Senatore Dell’Utri, che mi segnai il nominativo nella mia agenda che portavo sempre al seguito.. …è stato nella fine del 95-primi del 96.
- che egli faceva le prime annotazioni delle informazioni che riceveva da Ilardo in alcune agende verdi e poi la sera riportava il contenuto più esteso nelle agende grandi
- che il Col. Manenti cui indirizzava poi le relazioni di servizio era il suo referente alla DIA
- che IIardo gli parlò anche dell’arresto di Riina:
“Mi disse che dietro l’arresto di Riina aleggiavano molte ombre. In maniera abbastanza criptica, come lui parlava, che diciamo era stata agevolata la cattura di Riina, facendo riferimento a Provenzano e mi disse che in fondo anche Provenzano, e infatti ho già prima riferito, aveva i suoi rapporti con le istituzioni e fece la battuta: in Sicilia o si vendono o si ammazzano, non ci sono altre, diciamo altre vie per eliminare il concorrente mafioso”… …
Mi fece comprendere che superiormente a me c’erano miei superiori collusi con gli ambienti di Cosa Nostra.
Infatti lui mi disse: si fida del suo ambiente? E poi diciamo mi fece comprendere abbastanza chiaramente che nel mio ambito c’erano delle collusioni, per cui spesse volte lui chiudeva il discorso.
- che dopo l’incontro coi magistrati del maggio 1996 Ilardo gli aveva detto che avrebbe parlato anche del Gen. Subranni:
“Terminato l’incontro con i Magistrati, il dottor Caselli mi aveva dato la disposizione di scendere nuovamente in Sicilia e di iniziare a registrare Ilardo per fare un primo quadro di intenti.
All’uscita dalla riunione, incontro il Generale Subranni e il Dottor Tinebra. Erano sotto braccio. Il Generale Subranni mi dice: ah, non registrare, è inutile. E il dottor Tinebra ne conferma la disposizione, tanto non serve. Ho detto: no, io registro, io ho avuto questa direttiva e la faccio. Mi incontro poi con !lardo, e Ilardo quando riferisco questa discussione, dice che avrebbe fatto delle dichiarazioni nei confronti del Generale Subranni”
- che “GRAZIE ALL’INDICAZIONE DI ILARDO, CHE POI IO SFRUTTAVO” ERA STATO POSSIBILE PERVENIRE ALL’ARRESTO DI NUMEROSI LATITANTI, tra i quali, nel periodo in cui egli era rimasto alla DIA, Aiello Vincenzo, Nicotra Giuseppe, Vaccaro Domenico, Tusa Lucio, Fragapane Salvatore.
- che in quell’epoca, giugno 1995, egli già da qualche mese, essendo andato via il Dott. De Gennaro, aveva deciso di lasciare la DIA e, quindi, poi, da agosto-settembre successivi aveva iniziato a lavorare col ROS alle dipendenze del Col. Mori, pur continuando a mantenere i rapporti con l’A.G. di Palermo con l’obiettivo finale di giungere alla cattura di Provenzano: “andavo poi dal dottor Micalizio e dal dottor Pappalardo, a Roma, guardate, io ho anche l’autorizzazione del Pubblico Ministero, dottor Pignatone, possiamo procedere all’arresto.
Per cui li arrestavo … poi Ilardo non vuole nulla, per cui arrestiamo direttamente il latitante.
Perché propedeutico, perché così Ilardo si avvicina sempre di più, perché era tutto finalizzato di portare !lardo dal Provenzano, perché !lardo mi disse: Colonnello, lei non mi metta fretta nell’arrivare a Provenzano, deve essere lui che mi chiama, se mi propongo io diventa pericoloso.”
- di avere sempre informato i suoi superiori degli sviluppi investigativi a partire dalla prima lettera attribuita a Provenzano:
“E in queste lettere c’erano diciamo disposizioni che dava Provenzano a Ilardo e che lui, per conto di Provenzano, doveva tradurre in attività operativa sul territorio di Caltanissetta, di Catania, di Enna e di Messina, cioè la parte orientale della Sicilia ed erano interventi sia di carattere organico ai rapporti con gli altri mafiosi, oppure di supporto alle attività economiche, assegnazioni di lavoro, risoluzioni di appalti, di dispute all’interno, cioè tutta l’attività di Cosa Nostra.
E queste attività io le riferivo in tempo reale sia a voce che per iscritto ai miei superiori e molte volte li ho anche discussi con il dottor Pignatone
- che le copie di alcune lettere le aveva esibite sia al Dott. De Gennaro che al Dott. Pignatone
- che Ilardo gli parlò anche dei contatti tra l’On. Andò e l’organizzazione mafiosa di Catania
- “anche Cosa Nostra in quel periodo aveva avuto l’ordine di votare Andò solo per la Sicilia Orientale e Martelli per la parte occidentale….
- che egli, alla DIA, aveva già addestrato il personale a sua disposizione ed aveva portato il materiale tecnico, già utilizzato a Genova, necessario per catturare Provenzano
- che Ilardo gli aveva dato la disponibilità ad indossare la cintura con il segnalatore allorché si sarebbe recato all’incontro con Provenzano
- che dopo che De Gennaro era andato vIa dalla DIA egli aveva avuto divergenze con i superiori e per tale ragione aveva deciso di rientrare nei Carabinieri
- che rientrando nei Carabinieri, informò subito i suoi superiori della fonte di cui disponeva:
“E però Ilardo dice io voglio collaborare, avere il rapporto solamente con lei.
Per cui quando vado al Comando Generale io dico: ho una fonte che mi deve dare una notizia molto importante, mettetemi in grado a chi posso transitarla. E invece poi vengo chiamato da Mori che mi dice Verrai convocato dal Generale Subranni che ti inquadrerà.
Volevo giungere che Ilardo iniziasse la collaborazione e anche la gestione di Ilardo non me ne volevo occupare io perché immaginavo i contenuti, sapevo che sarebbe stata diciamo molto stancante ed ero abbastanza già preso, diciamo, io di tutto… Tre anni che stavo passando appresso a Ilardo, con una famiglia lontana, con i problemi familiari che ho, per cui era già un impegno notevole il mio”
- che, lasciata la DIA, ancor prima di una collocazione formale nei Carabinieri, aveva iniziato a collaborare col ROS e, più specificamente, con il Col. Mori con il quale, peraltro, aveva avuto contatti già nei primi mesi del 1995
- che egli aveva svelato la fonte a Mori soltanto a settembre 1995.
A settembre del 95 il Colonnello Mori è informato di tutta l’attività che aveva fatto alla Dia “e gli do copia dei miei tre CD, che sono quei tre CD su cui poi trasfondono loro le relazioni di servizio che io vado a fare nei mesi a seguire. Sono gli stessi tre CD che ho consegnato al Tribunale. …E spiego ciò che avevo fatto, perché sennò non aveva senso fare delle relazioni di servizio parlando dei contatti attuali e dei discorsi contestuali che faceva Ilardo presso i referenti.
- che era stato Mori a contattarlo nel mese di agosto 1995:
“Mi dice guarda, sarai chiamato dal Generale Subranni, che con lui discuterai la tua collocazione, per cui è un dato di fatto che dovevo collaborare con loro.”
- che tutti i successivi sviluppi furono seguiti anche da Subranni, che espressamente gli aveva detto che egli avrebbe dovuto rapportarsi con Mori, il quale, a sua volta, lo aveva poi inquadrato come aggregato senza dargli alcun mezzo e indicandogli come referente dell’operazione il Cap. Damiano
- di non avere detto a Ilardo che dal settembre 1995 avrebbe iniziato a lavorare con Subranni
- che fu avvisato il 28 ottobre 1995 da Ilardo dell’incontro che avrebbe avuto con Provenzano il successivo 31 ottobre:
“Fu una telefonata abbastanza criptica, veloce, che mi rimandò all’indomani mattina, in quanto mi diceva che mi avrebbe dato delle notizie importanti. Il mattino dopo mi chiama e mi dice: Colonnello, ci siamo finalmente. Aveva un appuntamento con Provenzano. E mi dice: guardi, per la mattina del 31, quando poi ci vediamo a Catania le sarò ancora più preciso. Mi dice che doveva andare a questo bivio di Mezzojuso dove molto probabilmente ci sarebbe stato anche Ferro Salvatore, che li avrebbe portati da Bernardo Provenzano.”
- che egli informò immediatamente il Col. Mori
“Rimango notevolmente sorpreso perché (Mori) non mi dice di raggiungerlo, perché a fronte di questa notizia io pensavo che dicesse vieni subito, organizziamoci, parlamene.
Non ha nessuna reazione e per cui sono io che dico: ti raggiungo a Roma. Le ripeto, questo mi lascia abbastanza diciamo basito”
- che egli, tuttavia, la mattina di lunedì 30 ottobre si recò al ROS ove incontrò Mori, Obinu ed altri informandoli che il giorno successivo vi sarebbe stato l’incontro con Provenzano e rappresentandogli che egli avrebbe avuto la possibilità di servirsi della strumentazione necessaria per l’operazione “se vuoi posso anche chiamare il mio personale, perché io ero rimasto anche d’accordo che potevo utilizzare il personale anche della Dia”
- che Mori gli rispose “No, no, facciamo tutto noi, non vogliamo nessuno.”. Dopo di che mi dice chiaramente che non ha la strumentazione tecnica, i tempi sono ristretti, cerchiamo di fare il pedinamento e semplicemente seguiamo la localizzazione di Provenzano.
Tu nel frattempo dici al tuo confidente di creare i presupposti per un secondo incontro, cioè come diceva le altre volte di raccogliere più elementi precisi per individuare la localizzazione di Provenzano, del rifugio di Provenzano, e poi interverremo successivamente. - che egli aveva già informato Mori sia del luogo in cui sarebbe avvenuto l’incontro, Mezzojuso, sia dell’identità di un altro di coloro che sarebbero stati presenti, Salvatore Ferro
- che egli aveva insistito per potere organizzare subito la cattura di Provenzano
- che egli aveva proposto di avvisare l’A.G., ma “Mori mi dicono no, tu non devi avvisare nessuno perché questa qui è una attività di P.G…. La cattura dei latitanti è di competenza della Polizia Investigativa e l’autorità giudiziaria non deve essere informata, per cui i contatti con l’autorità giudiziaria li terremo noi. Erano presenti anche Ganzer e Obinu e mi sembra anche De Caprio.
Già in quell’occasione parliamo di non fare le relazioni di servizio, di non relazionare.
Io insisto, ho detto guarda, io alla Dia ho fatto sempre relazioni di servizio. Io andavo a incontrare, quello mi parlava dell’incontro di Provenzano e non facevo una relazione di servizio?
.. Mi dicono di non contattare nessuno, di andare a Catania, che sarei stato raggiunto all’aeroporto di Catania dal Capitano Damiano, il quale loro lo avevano già avvertito della modalità operativa.
- che egli non conosceva ancora il Cap. Damiano e si stupì perché Mezzojuso, in realtà, ricadeva nella competenza della Sezione Anticrimine di Palermo e non di Caltanissetta.
- che tutte quelle decisioni operative furono prese da Mori
- che egli, di seguito a quella riunione, si era recato in Sicilia ove aveva incontrato il Cap. Damiano, il quale, tuttavia, mostrò di non essere informato di nulla riguardo alla operazione da compiere
- che dopo avere spiegato ciò che occorreva fare la mattina successiva, il Cap. Damiano gli aveva detto che era in grado di organizzare soltanto un servizio di pedinamento e appostamento
- che la mattina successiva si era incontrato prima con Ilardo e poi con il Cap. Damiano per dare inizio al servizio
- che ad Ilardo egli aveva detto di comportarsi come sempre e di creare l’occasione comunque per un successivo incontro con Provenzano perché al momento si sarebbe deciso se intervenire o meno
- che il Cap. Damiano organizzò il servizio di modo da occupare la zona con proprio personale prima dell’arrivo di Ilardo.
- che quando egli lo raggiunse nei pressi di Mezzojuso, il Cap. Damiano gli disse che non era stato possibile effettuare il pedinamento perché secondo loro avevano notato dei movimenti molto sospetti. Mi spiegò che aveva, pertanto, sistemato alcuni sottoufficiali in due diversi punti di osservazione: due sottufficiali su una collinetta che dominava il bivio di Mezzojuso, altri due li aveva sistemati, che poi dopo anche andammo, e mi fece vedere che dall’altra parte della strada c’erano degli alberi che erano un gruppo di alberi, gli unici, che erano di fronte al bivio di Mezzojuso, da dove si poteva anche fotografare. Ma che secondo lui c’erano state attività di contro pedinamento, per cui non si era potuto svolgere il pedinamento.
- che egli era sopraggiunto sul luogo poco prima dell’incontro per dare eventuale supporto a Ilardo. “L’ho detto a Ilardo, non sono molto distante.
L’Ilardo già la sera prima mi aveva dato i suoi orologi, i suoi bracciali che erano di valore, mi ha detto: se io non torno più, almeno li fa avere alla mia famiglia, perché sono quegli incontri che si va, ma non è detto che si ritorni. - che allorché si era accorto che l’incontro dell’Ilardo con Provenzano si protraeva aveva deciso di informare l’A.G. e, pertanto, già lungo la strada di ritorno verso Catania, si era fermato ad un autogrill ed aveva telefonato al Dott. Pignatone prendendo appuntamento per il giorno successivo al fine di spiegargli l’accaduto dopo avere avuto conferma dall’Ilardo della presenza di Provenzano (pag. 3019)
- che le modalità del servizio erano state decise esclusivamente dal Cap. Damiano
“Le ripeto che io non potevo incidere assolutamente sul servizio. lo ho rappresentato le esigenze in una, non dico una, ma miliardi di volte fino alla nausea ho detto faccio io. Poi non avevo nemmeno la possibilità di dare un ordine, con tutto che il Capitano è inferiore di grado, ma io non potevo dare ordini al Capitano perché non da me, il Capitano dipendeva dal Maggiore Obinu e nemmeno io al Maggiore Obinu, che è inferiore di grado a me, potevo dare degli ordini.. Ero aggregato. - che quello stesso pomeriggio Ilardo aveva telefonato e poi, in serata, si erano, quindi, incontrati e gli aveva descritto il luogo dell’incontro dandogli i punti di riferimento per individuare agevolmente l’ovile e la casa ove secondo l’Ilardo abitava Provenzano:
“Mi dice che il luogo dell’appuntamento era questo ovile, che per lui abitava nella casa di fronte… …all’incontro del pomeriggio partecipa lui e Lorenzo Vaccaro.”
“Era di una facilità sconcertante, lui mi disse che partendo dal bivio di Mezzojuso per andare in direzione di Agrigento, dopo circa un chilometro e mezzo sulla destra avrei trovato un distributore di benzina della Esso, superato il distributore di benzina, dopo poco la strada faceva una curva. All’imbocco della curva, c’era una trazzera, una stradina di campagna sterrata, che si doveva imboccare. Questa stradina per un primo tratto correva parallela alla strada dello scorrimento veloce in direzione Palermo. Percorrendola per circa due chilometri, avrei trovato questi due casolari che io già potevo individuare dallo scorrimento veloce perché è una pianura lì, è piatto, non ci sono alberi davanti. Poi avendo diciamo individuato su per giù l’altezza… Poi erano le uniche due case, non è che ce ne fossero… Cioè uno anche non volendo ci andava a sbattere contro, ripeto, di una facilità sconcertante e questo lo dico a ragion veduta, perché a parte che l’ho riscontrato… Per cui, diciamo, mi diede queste indicazioni e mi disse anche il colore, una se non sbaglio è colore grigio dai mattoni del tetto e l’altro un colore più rossastro” (pag. 3024)
- che Ilardo gli indicò la persona cui Provenzano era affidato, un certo Cono, proprietario di un fuoristrada di colore verde
“E questo gli aveva cucinato, perché poi avevano mangiato altresì, la carne senza sale perché Provenzano soffriva di prostata….Tutta la questione della cura, io già mi ero interessato, diciamo, nella parte iniziale delle indagini… la famiglia Madonia gli procurava… Stella gli portava anche i medicinali… Per cui davo anche indicazioni alla Direzione per le medicine, dico è importante fare anche una analisi, lo studio delle medicine e tutto, delle farmacie, quando pensavamo che si nascondesse a Bagheria. - che Ilardo gli descrisse anche la persona di nome Giovanni che lo aveva prelevato al bivio di Mezzojuso e lo aveva accompagnato da Provenzano, fornendogli anche il numero di telefono e quello della targa dell’autovettura utilizzata:
“Mi dà non solo la targa della sua macchina, mi dà anche il numero di telefono che veniva utilizzato per fare gli appuntamenti con Provenzano. E poi gli dicono a Ilardo quando tu la prossima volta vuoi venire, devi venire ad un nuovo appuntamento, vieni direttamente, non c’è bisogno che mi contatti, puoi venire direttamente e becchi lì Provenzano. E gli danno questo numero di telefono che Ilardo la sera stessa mi dà”
- che la mattina successiva, pur essendo un giorno festivo, si era recato col Cap. Damiano ad incontrare il Dott. Pignatone, cui riferiva dell’incontro di Ilardo con Provenzano.
- che ritornato a Roma aveva redatto una relazione di servizio nonostante Mori ed Obinu lo avessero invitato espressamente a non farla ed a riferire soltanto a voce
- che egli consegnò quella relazione di servizio a Mori e a Obinu
“Ogni relazione io la protocollavo… lo ho saputo che davanti al Tribunale hanno negato le venti relazioni che io ho fatto. La fortuna è che ho salvato e dopo anni mi sono accorto… hanno nascosto, hanno distrutto queste relazioni. lo fino ad un paio di anni fa pensavo che queste relazioni esistessero… …fino al 2009, fin quando non è iniziato il processo mancata cattura di Provenzano, io pensavo che esistessero, perché io le consegnavo tutte.
…La mia fortuna è che me le sono nascosti i floppy disk dietro un quadro, poi me ne sono dimenticato. La mia fortuna che poi rimettendo a posto casa mia, ho trovato ‘sto quadro che avevo messo sopra l’armadio, ho visto che era scollato dietro, l’ho aperto e ho trovato le relazioni perché già avevano dichiarato il Maggiore Obinu… (inc.) avevano dichiarato alla Corte che non ne avevo fatto nessuna…”
- che egli si era proposto per effettuare il servizio diretto a catturare Provenzano nei giorni immediatamente successivi, ma il Col. Mori gli disse di non occuparsene, mettendolo, peraltro, in difficoltà anche nei confronti di Ilardo che ogni giorno gli chiedeva perché ancora non si procedeva. Mori mi diceva No, tu non devi fare nulla, io c’ho De Caprio e Damiano, vedrai, sono loro che se ne devono impegnare.
- che dopo circa una settimana, però, gli fu detto, nonostante i dati che aveva fornito, che non erano riusciti a localizzare il nascondiglio di Provenzano e gli chiesero, quindi, di fare un sopralluogo con Ilardo, che egli, pertanto, eseguì, riscontrando che le indicazioni già in possesso consentivano di individuare il luogo con assoluta facilità
“Se non sbaglio in data 8 novembre, quella volta andiamo di sera tardi, verso la notte andiamo… …A Ilardo ovviamente non dico che non hanno trovato la casa: guarda, per una migliore localizzazione anche del territorio, andiamo insieme. Lo faccio coricare disteso nella macchina, perché lui era fuori territorio, per cui doveva giustificare, comunque aveva un passamontagna in testa, di notte andiamo e rifacciamo la strada”
- che aveva riferito subito a Mori l’esito di questo sopralluogo, confermandogli ancora la propria disponibilità ad operare, tuttavia rifiutata da Mori
- che dopo ancora una settimana gli dissero che, nonostante le riprese aeree non avevano individuato l’ovile “Dico allora mi stanno prendendo in giro. E mi dicono di rifare un altro sopralluogo con Ilardo”
- che egli, quindi, fece questa volta di mattina presto con grande imbarazzo nei confronti di Ilardo e dando ulteriore conferma a Mori, Obinu, Damiano e De Caprio delle pregresse indicazioni
“Per cui rifaccio il servizio e faccio l’ennesima conferma al Colonnello Mori e al Maggiore Obinu e al Capitano Damiano e al Capitano De Caprio dicendo questo è il posto… Anzi io incontro anche De Caprio, ‘ma hai visto qualcosa?’ E quello come al solito, come fa sempre comincia a prendersela con i superiori: non mi danno i mezzi. Lo stai facendo il servizio, sì o no? A me che ti danno i mezzi… …Perché me l’ha detto il Colonnello Mori che dalla parte di Mezzojuso dal punto di vista tecnico, doveva operare De Caprio. Lo sviluppo delle informazioni dovevafarlo il Damiano, che dovevano lavorare loro due con il coordinamento di Obinu. De Caprio un bravo ragazzo che però l’hanno fatto, l’hanno vestito di pelle non sua.
- che egli continuò ad insistere con il Col. Mori affinché gli affidasse l’incarico senza tuttavia ottenerlo
- che, nel frattempo, il Cap. Damiano lo informò che era pervenuto un anonimo riguardante Ilardo … “Una lettera anonima su Ilardo, che era arrivata anche al Tribunale di Caltanissetta e a delle altre autorità e che era stata data a Damiano per accertamenti. Tanto è vero che poi io quella sera stessa io chiamo anche Mori e parlai con Obinu, perché non trovai Mori. È una pagina, comunque si parla di Ilardo che è uscito dal carcere e che si sta muovendo grazie alla complicità, alla compiacenza di medici corrotti, per ricostituire la sua organizzazione sul territorio. Dice guardate che lui sta rimodernando la sua villa, la sua villa bunker.. … Allora, la busta è indirizzata al signor Giudice Tinebra, Caltanissetta, e poi per conoscenza al Giudice di Sorveglianza di Catania, al Comandante dei Carabinieri di Piazza Verdi di Catania.
Questa è la lettera. Dottor Tinebra, che poi la consegna al dottor Leopardi, che la dà al Capitano Damiano per accertamenti e Damiano me ne dà una copia la sera del 7 e io chiamo il Maggiore Obinu che mi dice che già l’ha avuta, perché Damiano eventualmente via fax… …
Il sottoscritto porta a conoscenza le Signorie Vostre un fatto molto increscioso che si verifica solo in Italia. Un illustre pregiudicato, tale Ilardo Luigi, detto Ginetto, già accusato di appartenere al noto clan mafioso, circa due anni fa è stato scarcerato in pena sospesa per motivi di salute da un Giudice compiacente di una certa città che alle Signorie Vostre non è difficile individuare. Ciò non so se per essere corrotto o per compiacenza. Certo è che questo signore, dalla sua uscita, non si è fermato un solo giorno, né una sola notte, senza essere disturbato dalle forze dell’ordine per riorganizzare il clan che fu del cugino Piddu Madonia, nelle zone di competenza di detto clan, cioè Enna, Caltanissetta, Riesi e tutte le zone adiacenti, con forti agganci con tutti i capi clan di tutta la Sicilia. Molte riunione sono state tenute e si tengono nella vecchiafattoria del padre, che questi nel giro di pochi mesi ha trasformato in un villa bunker – non è vero – spendendo centinaia di milioni. Da detta villa passa di tutto, dalle piccole e grosse merci, ad esempio le macchine di grossa cilindrata che lo stesso guida senza patente in barba alla Legge. Dette macchine, sicuramente ribattute. Quanto sopra detto è facilmente accertabile da controlli fatti da agenti esperti. Per quanto riguarda la salute, con una semplice visita fiscale vi accorgerete che i certificati sono stati fatti da medici compiacenti e corrotti. Potrei elencarvi molte altre cose, ma una cosa è certa, che è un elemento molto pericoloso. Vorrei anche farvi un cenno su qualche riciclatore dei miliardi di Madonia, tale Nuccio Reitano, il quale dà i soldi ad usura, viaggia su macchine di grossa cilindrata, ristruttura ville nella zona di Picanello spendendo vari miliardi. Una grossa costruzione a Mister Bianco, società commerciali al nord, socio (inc.). Tanto dovevo. Distinto saluto. Pizzugoni Carlentini. Nota bene: la fattoria si trova in contrada San Buci di Lentini—
- che Mori gli disse di essersi rivolto alla base aerea di Ghedi (Brescia) per ottenere le riprese fotografiche dall’alto della zona in cui ha avuto l’incontro l’llardo Luigi con Provenzano, senza, tuttavia, riuscire a localizzarlo.
- che egli chiese anche se fossero stati attivati servizi di intercettazione, ma gli risposero di non interessarsene e di limitarsi a raccogliere le notizie da Ilardo.
- che ad un certo momento Mori e Ganzer gli dissero di suggerire a Ilardo di darsi alla clandestinità, di darsi latitante “Perché non vorremmo che la Dia di Catania o la Polizia di Catania gli faccia qualche scherzetto.”
- che egli riferì ai suoi superiori dell’incontro con il Dott. PIGNATONE, anche perché era a conoscenza del rapporto di amicizia tra quest’ultimo ed il Gen. SUBRANNI
- che ad un dato momento gli dissero di far iniziare ad IIardo la formale collaborazione con l’A.G. “Con il dottor Caselli ne parlammo e ne parlavo con il Colonnello Mori. Ilardo mi dà la completa disponibilità a collaborare con la giustizia… … …Siamo, se non ricordo male, nell’aprile del 95……. del 96…….. E io la decisione di Ilardo l’ho riferita al Colonnello Mori e poi diciamo all’Autorità Giudiziaria di Palermo”
- che il Col. Mori gli aveva rappresentato che Ilardo avrebbe dovuto collaborare con la Procura di Caltanissetta, ma poi anche il Procuratore Caselli, informato, aveva chiesto di partecipare agli interrogatori
- che sarebbe stato lui a decidere con chi collaborare
- di avere riferito a Mori quanto appreso da Ilardo riguardo ai rapporti di Cosa Nostra con ambienti esterni, tacendo, però, soltanto il nome di Dell’Utri essendo a conoscenza dei RAPPORTI SIA DI MORI CHE DI SUBRANNI CONI VERTICI DI FORZA ITALIA.
Rimase solamente tracciato nelle mie agende, che poi l’Autorità Giudiziaria mi ha chiesto e gli ho spiegato il motivo, quando ho consegnato le mie agende.
ANCHE PERCHE’ AVEVO AVUTO QUELLA FAMOSA DIRETTIVA DI NON NOMINARE I POLITICI - che sin dalla sua istituzione al ROS non erano ben visti i C.D. “PENTITI”
- che secondo Ilardo la collaborazione più temuta era quella di CANCEMI, il quale, tuttavia, era gestito dal ROS in modo non del tutto lineare
“Una volta ho sorpreso addirittura Obinu che parlava di Ilardo con Cangemi. Stava chiedendo valutazioni di Ilardo al Cangemi… Un’altra volta ho visto il capitano Sinico e un altro Capitano si baciavano con Cangemi dandosi… Eh… E scherzando. Tante volte Cangemi andava a telefonare dalle cabine del Ros - che nel referto informativo datato 11 marzo 1996 consegnato al Col. Mori per uso interno del ROS sono riportati i nomi dei politici che gli aveva fatto Ilardo
“Io ho riferito i nomi che fino a quel momento lui mi aveva dato, ed era Occhipinti, avvocato (inc.) Raimondo, Madaudo Dino, Coco Enzo, D’Acquino Saverio, Santalco, Andò Salvo, Mannino, La Russa Vincenzo, Crippaldi Roberto, Sudano Domenico, Campione Pippo, Gioia Giovanni, Lima.
Ilardo mi aveva detto che Mannino era controllato strettamente dalla famiglia di Agrigento. - che Ilardo aveva conosciuto Provenzano già precedentemente all’incontro di Mezzojuso
“Aveva già conosciuto Provenzano e Riina e anche altri, li aveva già conosciuti ai tempi dell’omicidio di Ciccio Madonia. Con Piddu Madonia, il figlio, erano andati a Palermo proprio per affrontare diciamo la situazione.
Provenzano d’altra parte, già frequentava anche il padre dell’Ilardo.
Ilardo mi diceva ‘A casa mia ci stava sempre Leggio, Provenzano, per dire, io sono nato con loro. lo all’inizio vedevo tutte queste persone… Che c’era un grande rispetto tra di loro e la gente nutriva anche verso questi un rispetto diverso e sembrava di avere uno Stato nello Stato.” - che Mori gli disse di far venire IIardo il 2 maggio 1996 al ROS per farlo incontrare ai fini della sua collaborazione con l’Autorità Giudiziaria di Caltanissetta e di Palermo.
- che il 2 maggio 1996, quindi, Ilardo venne al ROS
- che mentre attendevano era passato il Col. Mori ed egli ne aveva approfittato per presentargli Ilardo
- che appena Mori era entrato in quella stanza, però, Ilardo era subito scattato in piedi ed avvicinandosi a Mori si era a lui rivolto “dicendogli, senza alcun preambolo:
‘MOLTI DEGLI ATTENTATI CHE COSA NOSTRA HA COMMESSO IN REALTA’ LI AVETE ISPIRATI VOI, CIOE’ LO STATO.” - che Mori “stringe i pugni, non lo guarda nemmeno in viso, si guarda la punta delle scarpe, si gira e se ne va, e scompare. Da allora non l’ho più visto.
- che poco dopo erano arrivati i magistrati Dott.ri Caselli, Tinebra e Principato dinanzi ai quali egli accompagnò Ilardo trattenendosi nella stanza
- che Ilardo aveva spostato la propria sedia verso il Dott. Caselli e si era a lui rivolto ed aveva iniziato a parlare riferendo subito di avere incontrato Provenzano mentre il Dott. Tinebra manifestava il suo disappunto per l’atteggiamento dell’Ilardo
- che dopo qualche ora di dichiarazioni senza che fosse redatto alcun verbale, il Dott. Tinebra aveva interrotto Ilardo dicendo che si sarebbe proseguito nei giorni successivi
“Ho visto la dottoressa Principato che aveva un block notes dove prendeva degli appunti. Poi si è detto ‘dopo formalizziamo tutto, nel prossimo incontro formalizziamo tutto… ‘ - che a quel punto Ilardo aveva chiesto qualche giorno di tempo per potere sistemare la sua situazione familiare prima di iniziare la collaborazione e, pertanto, l’incontro per la formalizzazione di questa venne fissato per la settimana successiva
“Ilardo aveva una settimana di tempo per risolvere i suoi problemi familiari relativi alla casa, parlare con la moglie della sua decisione. Sicuramente le figlie più grandi non lo avrebbero seguito nella collaborazione, per cui voleva sistemare anche e non abbandonare le sue figlie sotto un cielo senza nulla. Per cui fu stabilito che ci saremmo incontrati dopo… Lui è morto il 10, il 12, il 13 a Roma ci saremmo visti e in quell’istante lì lui doveva già portare la famiglia al seguito e sarebbe entrato nel programma di protezione.”
- che il Dott. Caselli gli disse di iniziare nel frattempo a registrare le prime dichiarazioni di Ilardo, , ma, uscendo, dall’ufficio, aveva incontrato il Dott. Tinebra sotto braccio con il Gen. Subranni, i quali gli dissero di non fare quelle registrazioni perché sarebbe stato inutile
- che egli decise, però, di effettuare ugualmente le registrazioni ed a tal fine si fece consegnare l’apparecchiatura necessaria dal Cap. Damiano.
“Me ne ha dati una decina di quei nastri per poter fare le registrazioni a Ilardo e poi io iniziavo a fare le registrazioni a Ilardo” - che quando aveva raccontato quell’incontro con Subranni a Ilardo, questi gli aveva anticipato che avrebbe reso dichiarazioni anche sul medesimo Subranni:
“Ilardo mi disse che avrebbe parlato di alcuni miei superiori. …Lui mi ha riferito che AVEVA DEI RAPPORTI, PROVENZANO, CON VECCHI ESPONENTI DELLE ISTITUZIONI.
Ho cercato di scavare, lui mi ha sempre chiuso, che poi ne avrebbe parlato.
Perché lui dice i suoi rapporti erano pregressi. Gli unici due nominativi erano quello di Gresti e Gardini. Quello mi ha detto allora e quello ho segnato… … …Che erano due imprenditori.
…Mi disse poi ne vedremo delle belle, vedrà quante ce ne faranno passare.”
- che nei giorni successivi si era incontrato più volte con Ilardo ed intendeva iniziare a registrare i colloqui, ma era stato dissuaso da Mori
- che, comunque, alcune registrazioni che aveva effettuato le aveva, poi, consegnate al Cap. Damiano.
“Il Capitano Damiano le ha messe su un nastro, me ne ha dato poi anche successivamente una copia e anche una copia delle trascrizioni che lui ha fatto. E poi noi le abbiamo date all’autorità giudiziaria di Messina, Genova, Palermo e Caltanissetta… … …e Catania.” - che già da circa venti giorni il Cap. Damiano gli aveva detto che al Tribunale di Caltanissetta era trapelata la notizia della collaborazione di Ilardo ed egli si rivolse immediatamente al Dott. Tinebra e al Col. Mori che lo rassicurarono:
“Tinebra mi disse No, no, persone di completa fiducia, stia tranquillo. lo in quel momento lì ho detto: va bè, se è tranquillo il Procuratore, stiamo tranquilli. Poi il Capitano Damiano me le rappresenta il giorno in cui lascio Ilardo a Catania e rientro a Genova, che sarebbe il giorno della sua morte, ci saremmo poi ritrovati il lunedì mattina a Catania… mi rappresenta che queste preoccupazioni erano aumentate in maniera esponenziale”
- che il giorno 10 maggio 1996 si era incontrato con lIardo che lo aveva, poi, lasciato all’aeroporto di Catania, ove lo aveva raggiunto il Cap. Damiano, il quale, in un colloquio che egli aveva registrato, gli manifestò grandissima preoccupazione per la diffusione di notizie sulla collaborazione di Ilardo:
“E vedo che il Capitano Damiano è bianco in faccia. Al che dico che sta succedendo? E mi dice: mi sa che si stanno accorgendo della collaborazione di llardo, stanno uscendo voci al Tribunale. … E io ho registrato tutto. E lui dice: mah, sono stati poco accorti”
- che egli aveva allora telefonato immediatamente a Mori ed Obinu per incontrarli e chiarire la situazione e, poi, invano, anche a Ilardo per dirgli ‘prenditi la famiglia, comincia a partire, che ci vediamo giù a Roma’ ma aveva staccato i telefoni, perché di solito era la sera tardi che mi telefonava lui.”
- che all’arrivo a casa, a Genova, aveva appreso dell’uccisione di Ilardo:
- “… Vedo mia moglie seduta davanti al televisore con questa notizia della morte di Ilardo. Mi fa mia moglie: hanno ammazzato Gino.
- che, quindi, aveva subito telefonato al ROS e preso appuntamento per il giorno successivo con Mori e Subranni.
“Al Colonnello Mori subito feci la battuta generalizzata: l’avete ammazzato voi, nel senso come gestione. Mori disse: sì, l’hanno ammazzato, per non farlo parlare.
Quello che mi diede invece fastidio invece fu la battuta del Generale Subranni, che vedendomi notevolmente colpito dalla situazione se ne uscì sorridendo dicendomi: EH, TI HANNO AMMAZZATO IL CONFIDENTE.
E adesso dissi, con modi aggressivi, che a quel punto avrei messo per iscritto tutta l’attività sino ad allora svolta.
C’era stata una sottovalutazione, loro che erano al vertice dell’indagine e potevano meglio di me analizzare anche le informazioni che arrivavano dal Capitano De Caprio, l’effettivo stato di cose.
– che la sua decisione di redigere un rapporto giudiziario su tutta l’attività svolta sulla base delle confidenze di Ilardo fu osteggiata da Mori e Obinu e poi anche da altri colleghi che mi hanno avvicinato consigliandomi di non fare quel rapporto perché sarebbe stato diciamo pericoloso per me…
– che poi, resosi conto della sua determinazione, Mori, Obinu e Damiano gli chiesero a più riprese di non inserirvi la relazione sulla vicenda di Mezzojuso.
Scrivendo il rapporto, analizzando tutti gli elementi, allora MI SONO CONVINTO CHE NON C’ERA STATA ASSOLUTAMENTE LA VOLONTA’ DI ARRIVARE ALLA CATTURA DI PROVENZANO…
- che tale richiesta gli fu reiterata più volte
- che il rapporto aveva una parte introduttiva redatta dal Magg. Obinu seguita da tre capitoli in cui egli riferiva di tutte le attività svolte (relazione pag. 3072)
- che egli aveva in quel frangente firmato la relazione di servizio sui fatti di Mezzojuso redatta dal Cap. Damiano
- che nella relazione non si faceva riferimento alla targa della autovettura ed al numero di telefono che gli erano stati riferiti da Ilardo e di cui, però, egli aveva dato conto nel rapporto, avendoli, comunque, già riferiti la stessa sera del fatto al Cap. Damiano e contestualmente, telefonicamente, anche a Mori e Obinu, nonché, poi, anche con una relazione scritta
- che egli nel rapporto aveva voluto dare conto dell’estrema semplicità di individuare il luogo in cui Provenzano trascorreva all’epoca la latitanza e che, tuttavia, inspiegabilmente, non era stato asseritamente individuato dal ROS
- che già il 14 gennaio 1998 aveva riferito alla Procura di Catania che gli erano stati negati i mezzi per catturare Provenzano
- che al momento della redazione del rapporto egli non disponeva più delle relazioni di servizio a suo tempo redatte e copia delle stesse, quindi, gli furono consegnate dal Cap. Damiano che le aveva ricevute a sua volta dal ROS centrale
- di avere personalmente consegnato il rapporto, in data 31 luglio 1996, alla Dott.ssa Principato ma che in bozza era stato già anticipato sia alla Procura di Caltanissetta, ove il Dott. Condorelli, tramite il Cap. Damiano, aveva chiesto di omettere l’incontro a Roma del 2 maggio 1996, sia alla Procura di Palermo, ove la Dott.ssa Principato gli aveva detto di sfumare l’episodio medesimo.
- che in quel periodo, per quel che gli era stato possibile comprendere, vi erano rapporti non buoni tra il ROS e la Procura di Palermo
- di avere incontrato a Roma gli Isp. Arena e Ravidà in relazione alle indagini che questi stavano continuando a Catania (pag. 3093)
- che Arena e Ravidà in più occasioni gli chiesero di verificare con Ilardo l’esito di accertamenti investigativi
- che in quel medesimo periodo delIa stesura del rapporto il Gen. Subranni aveva qualche volta alIuso ad indagini giudiziarie in corso a Genova anche a carico di Riccio
- di avere avuto, poi, notizia dell’indagine a suo carico da un avvocato di Genova alla fine del 1996
- di essere stato arrestato nel giugno 1997
- di essere stato arrestato e poi condannato per una vicenda svoltasi nell’ambito di una indagine milanese (pag. 3099)
- che dopo il suo arresto venne effettuata dal ROS una perquisizione a casa sua in occasione della quale furono ricercati anche i documenti relativi alla attività siciliana di Riccio, ma non trovati perché quest’ultimo li aveva consegnati ad un notaio
- che dopo il suo arresto la moglie si era recata a Catania per consegnare le agende e le registrazioni a quella A.G., ma, poi, accortasi di essere seguita da personale del ROS si era impaurita ed aveva consegnato soltanto una agenda
- che in data 16 ottobre 2001 aveva inviato una lettera alla Procura di Palermo indirizzata al dottore Antonino Di Matteo chiedendo di essere sentito
- che egli faceva annotazioni sulle agendine pressoché quotidianamente
- che la stessa sera del 2 maggio 1996 aveva annotato quanto accaduto quel giorno allorché Ilardo al Ros aveva incontrato prima Mori e poi i Magistrati:
“Oriente a Mori, prima di essere interrogato, ha detto che molti attentati addebitati a Cosa Nostra, non erano stati… commessi da loro, ma bensì dallo Stato: ‘Siete stati voi a commissionare certi attentati’ ha detto a Mori.”
– Della RESPONSABILITA’ DI UOMINI DELLO STATO Ilardo gli aveva già in precedenza fatto cenno, riservandosi, però, sempre di parlarne quando avrebbe iniziato la collaborazione.
“A me rappresentò il caso di Mattarella, Insalaco e Pio La Torre, più le vicende del bambino di Domini e l’omicidio dell’Agente di ps. e di sua moglie e dell’altro Agente di Polizia, si parlava del collaboratore Piazza, e dell’attentato… Che lui diciamo mi fece comprendere che anche l’attentato dell’Addaura era strumentale, per cui disse poi io darò spiegazioni. Gli ispiratori erano ambienti… quei famosi ambienti con cui Cosa Nostra si relazionava e operava su input…
Mi spiega: tante volte non c’era bisogno di andare fino a Roma. Quando si parlava con il nostro referente sul territorio una battuta, un ammiccamento per noi era sufficiente… . (pag. 3126)
- che il giorno 10 maggio 1996, il giorno dell’uccisione di Ilardo, aveva annotato i timori che riguardavano Ilardo per la diffusione della notizia della sua collaborazione
“E’ la conferma che lui ha di quei timori che ha già percepito quindici, dieci giorni prima” (pag. 3128) - che il 28 giugno 1996 aveva annotato un incontro con la Dott.ssa Principato cui aveva consegnato una bozza del rapporto che stava preparando
- che il 13 febbraio 1996 aveva annotato, invece, una CONFIDENZA FATTAGLI DAL CAP. SINICO RIGUARDO AI RAPPORTI TRA SUBRANNI, GUAZZELLI E L’ON. MANNINO:
… “Sinico mi dice che quando avviene la morte di Guazzelli, il Generale Subranni si è spaventato moltissimo, tanto è vero che hanno fatto rientrare di corsa dalla Sicilia De Donno perché avevano paura che anche a De Donno poteva succedergli qualcosa.
Siccome Ilardo mi aveva detto, come ho scritto poi nelle relazioni che Mannino era strettamente controllato dalla famiglia di Agrigento, il discorso aveva, con questi fatti, per me, una connotazione diversa. Guazzelli era un Maresciallo vicino a Mannino, questo me l’ha detto il Capitano Sinico…
In sostanza Ilardo mi chiarì che l’omicidio Guazzelli era una cosa molto più grave di quella che poteva apparire e mi rappresentò che successivamente ne avrebbe parlato più diffusamente… …A quell’epoca ILARDO MI AVEVA GIA’ PARLATO DEL FATTO CHE L’ONOREVOLE MANNINO ERA NELLE MANI DI COSA NOSTRA, così come successivamente scrissi nel rapporto Grande Oriente…
- che i floppy disk contenenti copia delle relazioni datigli dal Cap. Damiano egli li aveva nascosti e ritrovati molto tempo dop
In sede di controesame, quindi, Riccio ha aggiunto e precisato:
- che, quanto a Riina, Ilardo gli aveva detto soltanto che non era più il vero capo dell’organizzazione e che dietro il suo arresto vi erano molte ombre
- che il RIINA AVEVA AVUTO ANCHE, l’ho scritto nel rapporto, DEI CONTATTI CON ESPONENTI DELLE ISTITIZIONI… … …Questo è quello che mi dice !lardo
- che non aveva mai assunto a verbale le dichiarazioni di Ilardo: “lo non dovevo assumere a verbale Ilardo, io non ho avuto questa disposizione”
- che il contenuto dei PIZZINI DI PROVENZANO che gli mostrava Ilardo era da lui annotato, anche se una volta era riuscito a fare di uno di essi una fotocopia
“però li rivoleva poi subito dopo lui in mano perché dovevano essere mostrati, se non già mostrati o eventualmente rimostrati alle persone dell’organizzazione con le quali si rapportava.” - di avere, poi, consegnato alla Dott.ssa Principato, il 24 giugno 1995, le copie di tutte le lettere di Provenzano
- che ILARDO PARLO’ ANCHE DI MAGISTRATI APPARTENENTI ALLA MASSONERIA
“Mi parlò solo di un Magistrato di Caltanissetta… mi parlò anche di uno di Catania, perché poi era un argomento
che preferiva affrontare nella sede della sua collaborazione. Anche dottor Moschella originario di Messina, ed era iscritto alla massoneria, anche questo mi disse … Ed era stato il Pubblico Ministero nel primo processo storico al Brigate Rosse a Torino …Ed era in rapporti con il Ghisena e loro lo avevano diciamo avvicinato”
- che egli il 30 ottobre 1995, infine, condivise la decisione di Mori di attendere un secondo incontro di Ilardo con Provenzano una volta preso atto che non vi era la disponibilità delle attrezzature tecniche necessarie “Tanto è vero che io mi trovavo in imbarazzo con Ilardo perché Ilardo dice: Colonnello, allora l’avete visto, l’avete preso? Ho detto: no, guarda, dobbiamo fare ancora il sopralluogo, dobbiamo farne ancora un altro”
- che nel rapporto fu inserita, riguardo al fatto di Mezzojuso, la relazione di servizio redatta dal Cap. Damiano, diversa da quella che egli aveva a suo tempo redatto e consegnato a Mori
- che l’identità di Ilardo era nota ai magistrati, anche se nelle comunicazioni ufficiali, per ragioni di riserbo, si diceva il contrario
- che egli non inserì il nome di Dell’Utri né nel rapporto, né nelle relazioni di servizio e ne ebbe a parlare per la prima volta ai magistrati di Firenze nel 1998
“Sulla base delle mie agende, delle annotazioni che avevano fatto, mi chiesero spiegazioni sull’incontro con Ilardo, dove c’era scritto sotto Dell’Utri” - che Ilardo avrebbe preferito che Provenzano non fosse arrestato in sua presenza, ma di ciò egli, se vi fosse stata la possibilità di procedere all’arresto, non ne avrebbe tenuto conto
“Ilardo mi disse se è possibile non me lo catturate davanti perché siccome lo conosceva, era il capo dell’organizzazione, ne aveva un timore reverenziale, per cui se mi fate allontanare due metri quando esco da questa ipotetica località, porta, casa, dove l’avrebbe incontrato, mi date almeno la condizione di non arrestarmelo davanti ai miei occhi, sentirmi un traditore, in quell’istante si sarebbe sentito così
- che tra i pizzini di Provenzano consegnati da Ilardo ve ne era uno nel quale si faceva riferimento alla Ditta Aiello
- che Ilardo aveva riferito notizie apprese da Ciro Vara riguardo alle stragi di Milano, Roma e Firenze.
“Disse che erano attentati che rientravano in quella strategia mafiosa che era stata portata avanti dal gruppo Riina, Bagarella e concordi anche a Brusca. con quelle finalità … riuscire a riproporre QUEL CONTATTO CON LE ISTITUZIONI CHE C’ERA SEMPRE STATO, cioè arrivare a poter, diciamo, ritornare a condizionare le istituzioni come avveniva anche in passato.
Il capo mafioso, cioè Bagarella in questo caso, sicuramente operava seguendo le direttive di un personaggio di un ambiente a lui superiore e sconosciuto. Ma se vuoi comprendere questi di oggi, deve comprendere bene qualunque del passato, perché la tecnica è sempre la stessa e gli ambienti sono sempre gli stessi.
(*) indagato in procedimento connesso – specificamente procedimento per falsa testimonianza – iscritto a suo carico a seguito della trasmissione degli atti ex art. 207 c.p.p. da pag. 2.957 a pag. 3166 Bruna Bovo – Luana Ilardo
TRADITO DA CHI AVREBBE DOVUTO DIFENDERLOLa redazione del Quotidiano dei Contribuenti ha intervistato Luana Ilardo, figlia di Luigi Ilardo, capo mafia della provincia di Caltanissetta poi divenuto confidente del colonnello Michele Riccio ed ucciso da Cosa Nostra il 10 maggio 1996 appena prima di diventare definitivamente collaboratore di giustizia.
LA RICERCA DELLA VERITÀ SULL’OMICIDIO “Tutto quanto quello che ruota attorno all’ omicidio di papà oggi è abbastanza chiaro e se prima c’era qualche dubbio relativamente a questo gravissimo fatto che ha stravolto completamente la mia vita e quella dei miei fratelli, oggi il quadro è sempre più limpido e definito. Condannero’ sempre la mano armata che ha ucciso mio padre ma non posso che ammettere la loro coerenza nell’eseguire gli ordini impartiti dall’alto confermando Il protocollo usato nei confronti di chi decide di dissociarsi dalla logica mafiosa e intraprendere la strada della collaborazione con la giustizia . Venire a conoscenza che le informazioni riservate relative alla collaborazione di papà e che poi hanno, di fatto, portato ad una rapida accelerazione della pianificazione della sua morte siano uscite fuori dalla Procura di Caltanissetta, per me è stato come dovermi confrontare con una amara verità. La procura di Caltanissetta rappresentava lo Stato e lo Stato, non mi stancherò mai di dirlo, avrebbe dovuto tutelare mio padre nella sua scelta di dissociarsi dal contesto mafioso e proteggerlo. Quello che mi resta, oltre all’immenso dolore, è un grande amaro in bocca nel sapere che mio padre è stato tradito da chi avrebbe dovuto difenderlo in virtù di una scelta coraggiosa e delicata da lui fatta con coscienza e consapevolezza, come quella della collaborazione”.“Mio padre certamente sapeva che collaborando con lo Stato nella battaglia contro Cosa Nostra avrebbe rischiato di diventare un obbiettivo sensibile della mafia, ma mai avrebbe immaginato di essere lasciato,abbandonato e TRADITO dalle Istituzioni. Io oggi, a fronte di tanta, tantissima sofferenza vissuta, mi aspetto che finalmente venga fatta la “vera” giustizia; per il suo omicidio sono state emesse sentenze di fine pena mai , infliggendo ergastoli a chi ne aveva già . Mio padre non tornerà più qualsiasi sentenza sia emessa ma il mio augurio è che per il suo omicidio vengano puntiti indistintamente tutti i colpevoli ,non solo coloro che ne sono stati gli esecutori materiali ma anche coloro che ne sono stati i veri mandanti, cioè quella parte marcia delle istituzioni colluse”
SULLA MAFIA“La Mafia è un fenomeno che va certamente combattuto con forza sparge dolore, sangue e distrugge vite e generazioni di famiglie intere. Ci si augura che queste immani scelleratezze che la Mafia ha generato e continua a generare possano trovare un giorno fine ma questo accadrà realmente solo quando verranno eliminate tutte quelle figure colluse e corrotte che fanno parte dello Stato e delle Istituzioni fallate ; diversamente, se Mafia e Stato continueranno ad andare a braccetto non so davvero come si potrà combattere questa guerra pretendendo di vincerla. Tengo molto a sottolineare che la scelta di mio padre di collaborare con la giustizia è maturata durante la detenzione e non è mai stata finalizzata a ricevere alcun beneficio in cambio infatti aveva scontato per intero il suo debito con la giustizia con 14 anni di detenzione”.
RICORDI DI SUO PADRE“Il ricordo più bello che rimane di mio padre è l’infinito amore che ha donato a me ed ai miei fratelli. Con ogni probabilità le sofferenze inflitte a noi di riflesso causate dalla sua lunga detenzione hanno contribuito a fargli maturare la voglia di dissociarsi da Cosa Nostra e poter sperare in una nuova vita. Consapevole di questo non mi fermerò mai in questa battaglia alla ricerca della verità e della giustizia che oltre alla sua morte hanno coinvolto decine e decine di innocenti vite umane; tra queste mio padre aveva preannunciato di voler parlare alla magistratura della tragica morte del piccolo CLAUDIO Domino, un bambino di appena 11 anni ucciso ufficialmente dalla Mafia ma con presumibile riconduzione al mandante istituzionale come fu’ per il povero D’Agostino. Avevo cominciato una battaglia per ragione e sete di giustizia personale ma incontrando i familiari di altre vittime come me e vedere le loro lacrime, i loro dolori, le loro immense sofferenze identiche alle mi, oggi penso che questa non è più solo una guerra personale ma un dovere mio e di ogni onesto cittadino che vuole avere uno stato pulito in cui credere. Sarebbe bello pensare che attraverso il mio piccolo contributo e quello di chi come me ha avuto distrutta la vita a causa della Mafia, i ragazzi comprendessero quanto siano pericolose la collusione, la connivenza ed anche il silenzio”
PENSIERO SU SALVATORE BORSELLINO“Ci tengo a sottolineare e ringraziare infinitamente Salvatore Borsellino che è stata la prima persona, intesa anche come Istituzione, in tanti anni mi a rendermi la sua mano. Nessuno prima di lui ha mai mostrato alcun segno di vicinanza a me, alla mia famiglia ed alla mia lotta. Abbiamo vissuto questi anni circondati dalla totale assenza ed indifferenza, da parte delle istituzioni. Salvatore Borsellino, persona di grande moralità ed empatia avvicinandosi a me, senza riserve o preconcetti mi ripete sempre “le persone che hanno ucciso tuo papà sono quelle che hanno ucciso mio fratello”. Sono queste parole che mi fanno comprendere che non sono più sola in questa difficile battaglia per la verità”.
PENSIERO FINALE“Mi auguro che una volta per tutte ci sia una profonda pulizia in questo Stato fatto di collusione; uno Stato che dovrebbe tutelare i suoi cittadini e non invece abbandonarli, decidendo a tavolino della loro vita o morte. Io confido ancora oggi nelle persone che lottano e che rappresentano le buone istituzioni, mi riferisco ai bravi magistrati che mettono ogni giorno a rischio la loro esistenza per cercare la “verità”, una verità che tutti conosciamo ma che attende ancora di ricevere giustizia”.Per l’omicidio di Luigi Ilardo sono state, in sede di appello, confermate le condanne all’ergastolo per gli esecutori materiali e mandanti; si attende, adesso, la pronuncia della Cassazione che appare, ormai, dal contenuto quasi scontato. Di certo la verità giuridica non sempre rispecchia in modo assoluto ed integrale la verità dei fatti; ricercarla è, forse, anche un dovere nel rispetto di chi ha perso la vita per mano della Mafia e di quella parte di Stato deviata.
Luana Ilardo chiede giustizia e verità per suo padre Luigi e sulla sua morte: un uomo che, da ex mafioso realmente passato dalla parte dello Stato, contro il proprio stesso interesse, cercò di infliggere un colpo potenzialmente mortale a Cosa Nostra e fu abbandonato dallo Stato. Uno Stato che mostrava e mostra ancora oggi troppo spesso il volto della sua parte collusa in perenne connubio con i sistemi criminali. Riprendiamo l’intervista di Luana alla rivista “Paesi Etnei” del settembre 2019, facendola precedere da queste parole inequivocabili e pesantissime pronunciate dal magistrato Antonino Di Matteo il 26 gennaio 2018, nel corso della requisitoria del processo trattativa Stato-mafia: «Il nome “Oriente” fu attribuito in codice all’infiltrato Gino Ilardo: un soggetto che nello stesso momento in cui ricopriva all’interno di Cosa Nostra cariche apicali – la reggenza delle provincie mafiose di Caltanissetta ed Enna – SVELAVA IN DIRETTA al Colonello Riccio gli assetti, i segreti antichi, le dinamiche in divenire di Cosa Nostra. E – per favore non dimenticatelo mai – NON SOLTANTO CON RIFERIMENTO ALLE VICENDE DI ORDINARIA CRIMINALITÀ MAFIOSA MA ANCHE IN RIFERIMENTO AI RAPPORTI PIÙ ALTI E PIÙ INCONFESSABILI DI COSA NOSTRA CON LA POLITICA, CON LA MASSONERIA, CON SOGGETTI DEVIATI E DEVIANTI DEI SERVIZI DI SICUREZZA. NON ESITO A DEFINIRE, PERCHÉ NE SONO DOPO TANTI ANNI CONVINTO, QUELLA DI ILARDO COME UNA STORIA UNICA, più unica che rara certamente, nel panorama delle vicende di mafia ed antimafia nel nostro paese. Una vicenda incredibile, UNA VICENDA ECCEZIONALE, UNA VICENDA VERGOGNOSA, UNA VICENDA TRAGICA NELL’EPILOGO CHE HA AVUTO INTANTO NEI CONFRONTI – NON DIMENTICHIAMOLO MAI – DEL SUO PROTAGONISTA PRINCIPALE, GINO ILARDO, ucciso a Catania il 10 maggio 1996, 8 giorni dopo aver incontrato 3 magistrati delle procure distrettuali di Palermo e Caltanissetta, il Colonnello Mori e altri ufficiali del Ros presso la sede centrale del Ros a Roma e 5 giorni prima rispetto al momento in cui l’Ilardo, con il suo primo interrogatorio formale innanzi all’a.g. fissato per il 15 maggio, avrebbe assunto formalmente la veste di Collaboratore di Giustizia e sarebbe stato sottoposto al programma di protezione riservato ai Collaboratori di Giustizia. Quella “Grande Oriente” è una vicenda che certamente ha prodotto l’effetto immediato e più tragico nei confronti del suo protagonista principale Gino Ilardo, un effetto tremendo nel momento in cui Cosa Nostra, uccidendo Ilardo, ha dimostrato di potere stoppare sul nascere UNA COLLABORAZIONE DI ALTISSIMO LIVELLO CHE SAREBBE STATA DEVASTANTE PER L’ORGANIZZAZIONE E PER TUTTI COLORO I QUALI COLLUDEVANO CON L’ORGANIZZAZIONE MAFIOSA. […] LA VICENDA ILARDO È IL FRUTTO AVVELENATO DELLA TRATTATIVA. È Il frutto avvelenato della condotta, in particolare, del Comandate Operativo del Ros di allora – Mori – del Comandante del Ros di allora – Subranni. In quel momento storico in cui si sviluppò la collaborazione informale di Ilardo, dall’inizio del ’94 fino a tutto il ’95 e ai primi mesi del ’96, la verità è una sola: PROVENZANO NON POTEVA ESSERE CATTURATO. NON POTEVA ESSERE CATTURATO PERCHÉ ERA IL GARANTE DA PARTE MAFIOSA DI QUEGLI ACCORDI CHE ERANO SCATURITI DALLA TRATTATIVA».
«IO SONO LA FIGLIA DI GINO» – Intervista a Luana Ilardo di Laura Di Stefano da “Paese Etnei” – settembre 2019 Un battesimo. Due bimbi vestiti di bianco abbracciati a un uomo alto e poderoso. Uno scatto che immortala un giorno felice di 23 anni fa. Una foto che Luana Ilardo non riesce a toccare. La guarda e ci riporta nel passato, mentre i suoi occhi blu diventano tristi e lucidi all’improvviso. «Papà è morto a maggio, i gemelli qui avevano tre mesi. Quindi questa foto è stata scattata tre mesi prima che fosse ucciso». Luana è la figlia di Luigi Ilardo, ammazzato il 10 maggio del 1996 a Catania. Quel sangue in via Quintino Sella si incrocia con il processo sulla cosiddetta Trattativa Stato-Mafia. Con un pezzo di storia repubblicana densa di misteri rimasti irrisolti. Ilardo non era un mafioso qualsiasi: ma non solo per il sangue Madonia che gli scorreva nelle vene. Luigi Ilardo è l’uomo che il 30 ottobre 1995 ha portato i carabinieri a un passo dal covo di Bernardo Provenzano, a Mezzojuso nel palermitano. Ma, per un motivo ancora da decifrare, il Ros quel passo non lo fece. Lo zio Binnu rimase nel suo nascondiglio. Ilardo ha lavorato dall’interno, da infiltrato, gestito dal Colonello Michele Riccio, prima alla Dia e poi al Ros. Per gli investigatori era “la fonte Oriente’’. Una fonte confidenziale preziosissima che ha permesso di sbattere in galera i latitanti e boss di primo piano. Tutti meno uno: il più pericoloso. Una mancata cattura, quella di Bernardo Provenzano, che ha ancora tanti punti oscuri, al di là delle sentenze di assoluzione. Forse nemmeno Ilardo seppe spiegarsi il perché di quel blitz interrotto. Il 30 ottobre 1996 poteva diventare una data storica per il Ros. E invece hanno fatto dietrofront. Ma nonostante questo Luigi Ilardo ha continuato a collaborare. A dare informazioni. Soffiate. E arrivano i risultati. Poi decide di fare il grande salto. Di entrare nel programma di protezione. Luigi Ilardo è stato ucciso pochi giorni prima l’incontro con cui avrebbe ufficializzato la decisione all’autorità giudiziaria a Roma. Era stata fissata la data dai pm di Caltanissetta e Palermo durante un appuntamento romano. Di quell’incontro non c’è un verbale, un pezzo di carta. Doveva esserci un appunto scritto a penna finito perso per un trasloco. Luigi Ilardo vuole collaborare con l’autorità giudiziaria e quello che si fa è fare due scarabocchi su un foglio? Interrogativi, ombre, misteri. Gli stessi che martellano da oltre due decenni Luana Ilardo, che da qualche mese ha deciso di uscire allo scoperto. Perché il ferito cerca, anzi pretende giustizia. Per l’omicidio di suo padre sono stati condannati all’ergastolo, già in secondo grado, alcuni dei boss più famigerati di Cosa nostra nissena e catanese: lo zio Giuseppe Madonia, Vincenzo Santapaola (figlio di Turi), Maurizio Zuccaro e Benedetto Cocimano.«Avevo sedici anni», racconta Luana. Le dita intrecciate mentre cerca nella memoria le immagini di quella notte infernale del 1996. Ricorda ogni istante. Sono tatuaggi nella mente. L’orologio segnava le 8.45. «Erano le nove meno quarto», dice. Prende una pausa, un respiro e poi gli occhi fissi nei miei. Il racconto inizia, tutto d’un fiato. Come se non vedesse l’ora di rimettere quel ricordo in un cassetto. E richiuderlo a chiave. Il più in fretta possibile.«Era la prima sera dopo la nascita dei gemelli che papà aveva deciso di portare a cena fuori la moglie. Ed era anche la prima occasione che lasciava Giuliano e Giancarlo a me e mia sorella Francesca. Papà ce lo aveva chiesto: ‘Ragazze per favore fatemi andare a mangiare una pizza con Cetty. Questa sera, tenetevi i bambini’. Noi eravamo contente, noi eravamo innamoratissime dei bambini. Così Cettina si era preparata. Io e mia sorella c’eravamo organizzate per gestire al meglio i gemelli.È arrivata anche l’ultima telefonata: ‘Amori di papà mi raccomando, fate le brave. Noi mangiamo una pizza e rientriamo a casa’. Io e mia sorella eravamo nel bagno e abbiamo sentito i colpi di pistola. Ne ho sentiti parecchi. Poi ho saputo dagli atti processuali che con esattezza sono stati nove. Sono scesa di corsa, sapevo già cosa avrei visto. L’ho capito appena ho sentito gli spari. Ho pensato subito a papà. E, purtroppo, avevo ragione». E dopo? «Siamo rimasti a casa, in via Quintino Sella, con la badante e il nonno». Per giorni e giorni Luana si è svegliata in quella casa sperando che fosse stato un incubo. Ma anche se ancora il profumo di papà si percepiva, la sua voce era sparita. Come tante cose portate con l’alibi delle indagini.«L’ho visto per anni entrare e uscire da carcere, ma non ho mai pensato potesse accadere una cosa del genere. Era fuori ormai da un anno e mezzo prima, ci aveva detto che eravamo a buon punto. Ci tranquillizzava sempre: ‘A papà non lo tocca nessuno’. Per noi era intoccabile. E credo anche lui si sentisse intoccabile. Si è sopravvalutato e, soprattutto, ha sopravvalutato le persone che gli stavano accanto», dice con amarezza.In quelle ore convulse però Luana, appena sedicenne, ha capito una cosa: «Che non mi sarei arresa fino a quando non avessi avuto la verità». Ma intanto la vita è andata avanti. Gli studi, il primo amore, la gioia di diventare mamma. Una felicità mai completa. L’unico conforto sono i gemelli. «L’eredità più bella di papà». Quando è nata la sua bambina avrebbe voluto poter vedere suo padre abbracciare la nipotina. E invece tutto questo le è stato negato. “Se lo Stato avesse fatto quello che doveva fare papà sarebbe ancora qui», è il suo grido di dolore.Il processo che si è svolto a Catania ha dato solo delle risposte a metà. Alla sbarra c’erano i killer materiali, ma gli altri? Quelli che lo hanno fatto morire. La giovane figlia ha seguito ogni udienza, seduta sulla panca di legno dell’aula Serafino Famà. Silenziosa e attenta. E sono state tante le volte che si è sentita impotente davanti alle inesattezze, ai non ricordo.Ed è lì che ha visto per la prima, ed unica volta, il Colonnello Michele Riccio.Gino Ilardo ha deciso di dare come secondo nome Michele ad uno dei suoi figli. «Non è un nome che amo tanto», ammette Luana. «Michele Riccio era l’uomo che non solo doveva gestire ma lo doveva anche proteggere. Abbiamo avuto modo di scambiare due battute, pochi secondi, quando è venuto a Catania per l’audizione nel processo. Ha tentato di giustificarsi, naturalmente. Ma avrebbe potuto comportarsi in modo diverso anche dopo la morte di mio padre. Potevano esserci dei comportamenti che avrebbero fatto la differenza. Io, invece, da quest’uomo non ho ricevuto nemmeno una chiamata di condoglianze. Ha avuto 20 anni per fare quella telefonata».In quella sentenza, che deve ancora passare al terzo grado della Cassazione, manca un pezzo di verità. Quella riguardante le Istituzioni. Istituzioni latitanti. «Lo Stato ha abbandonato mio padre». Luana è convinta di questo. E questa convinzione a dominare la sua anima piena di cicatrici. Pensi che si sia fidato delle persone sbagliate? «Mio padre si è fidato dello Stato. Ha fatto una scelta coraggiosa». Ma sai cosa lo ha spinto in questa scelta? «Io le intuisco le motivazioni. Dodici anni di detenzione sono pesanti. E solo un essere umano che le ha scontate può sapere cosa si prova». Ti ha mai raccontato qualcosa? «Sì, cose brutte. Cose che vengono fatte. Quella è un’altra battaglia, quella dei diritti dei detenuti, che magari quando mia figlia è più grande vorrei iniziare. Certe cose non dovrebbero mai accadere».Sul tavolino è poggiata la foto di Luigi Ilardo mentre stringe la mano a papa Wojtyla. «Qui erano a Rebibbia, durante una visita del Santo Padre al carcere», spiega. Luana da qualche anno ha deciso di metterci la faccia. Di non nascondersi più. Perché non è lei che deve vergognarsi, ma altri. «Voglio dare un po’ di dignità a mio padre. E voglio anche togliere tutto questo polverone che c’è sulla sua figura». Polvere, cenere e immondizia. Tanta.«Papà è stato dimenticato, così come siamo stati dimenticati noi». In questi anni, in cui lo Stato l’ha lasciata sola, ha cercato di vivere. O almeno di sopravvivere. Di dare un futuro a lei e alla sua bambina. Ma non è semplice. «A Catania per molti sono la figlia di un mafioso, per altri sono un pentito». Etichette che uccidono. E allora chiariamolo una volta per tutte: «Io sono la figlia di Gino». Semplicemente. FONTE: Noi sosteniamo i testimoni di giustizia
NOTA: le immagini di Luigi Ilardo sono tratte dalla pagina FB della figlia Luana
a cura di Claudio Ramaccini Direttore Centro Studi Sociali contro la mafia – PSF