26 gennaio 1979, la cupola uccide MARIO FRANCESE

 

 


DEDICATO A MARIO E GIUSEPPE.
 
Onora il padre dice un comandamento. Con il mio non ho avuto molto tempo per farlo quando era in vita, ma ho cercato di farlo sicuramente ancora di più da quando è morto. Avevo dodici anni quando la sera del 26 gennaio 1979 ho sentito da casa quella tragica sequenza di colpi da arma da fuoco. Sei per l’esattezza. Da lì a poco scoprii che quei colpi avevano centrato il bersaglio e che il bersaglio era mio padre, il giornalista Mario Francese. Da quel tragico momento la mia vita è stata sconvolta, come se quel lugubre rosario di colpi avesse leso irrimediabilmente qualche punto nevralgico della mia esistenza. E man mano che crescevo, cresceva dentro di me, diventando sempre più grande, un immenso vuoto e un’incredibile ansia di giustizia. Ammetto che per un breve periodo la sete di verità si è trasformata in rassegnazione per una giustizia assai lenta ad arrivare. Ma la rassegnazione presto si è trasformata in rabbia. Già, «Castelli di rabbia» in questi anni ne ho costruiti e tanti.
Negli scritti che ci ha lasciato Giuseppe si parla poco della sua infanzia. E’ nato a Palermo il 9 settembre 1966. Aveva un carattere allegro, sempre pronto alla battuta, con cui nascondeva le ferite provocate dalla morte del padre. E tanti amici. A uno era particolarmente affezionato, Franz, l’ingenuone del gruppo:
Oggi ci vediamo molto raramente ma lo ricordo sempre con profondo affetto. In un periodo per me critico a causa della morte di mio padre, Franz è stato come la stella cometa: le risate che mi ha fatto fare credo fossero più efficaci di qualsiasi terapia esistente sulla terra. Ed anche per questo gli ho voluto e gli voglio bene.
Dopo il diploma di Ragioneria, la decisione di non proseguire gli studi all’Università, ma di lavorare subito, utilizzando la possibilità offerta dalla normativa per i familiari delle vittime della mafia. Una decisione che gli provocherà non poche amarezze (vedere in “Con i miei occhi”, il capitolo “Rientrando dalle ferie”).
Faccio parte di quella schiera di «fortunati», almeno così ci considerano in tanti, che hanno avuto un posto di lavoro presso la pubblica amministrazione in qualità di orfani di vittime della mafia. «Categoria fortunata», sì perché per entrare non abbiamo fatto alcun concorso, ma siamo stati assunti attraverso una legge nazionale. Ma c’è da chiedersi: quanti hanno fatto un concorso alla Regione? E quei pochi che lo hanno fatto non si sono rivolti a nessuno? I loro padri, magari: con le loro amicizie, a volte con le loro vere e proprie connivenze. Noi dobbiamo dire grazie solo ai nostri padri, morti da uomini in un mondo di «quaquaraqua». E se gli altri sono invidiosi, fanno bene ad esserlo, perché pochi hanno avuto la fortuna di avere padri come il mio.
Il suo percorso professionale si è svolto interamente all’assessorato Enti Locali. Meticoloso, attento, integerrimo, ha avuto un periodo tormentato quando si è occupato di Ipab: le sue segnalazioni, i suoi rilievi venivano spesso boicottati. Mi dicevano per favore, non sollevi problemi. E no, non sollevo problemi un cazzo. Alla fine gli altri venivano premiati e a me naturalmente calci in culo. L’esperienza di lavoro in quest’ufficio lo aveva tormentato, sentiva di andare a sbattere contro un muro di gomma e in qualche caso si sentì isolato. Arrivò il trasferimento ad altro settore e finalmente un po’ di serenità. Poi c’era la sua vita privata. Era un single, estroverso, brillante. Tante «avventure» femminili, solo una relazione tormentata, durata a lungo tra varie rotture. Ha viaggiato molto, spesso all’estero, ha frequentato intensamente la Palermo by night, i pub, amava la musica, i ritmi mediterranei. Poi questa vita lo ha stancato, ha sentito crescere il vuoto dentro, ha cercato argomenti più solidi, ha scoperto la scrittura. Voleva fare il giornalista, come suo padre. E poi c’era il suo impegno antimafia, la sua intensa partecipazione agli appuntamenti per ricordare le vittime, tutte le vittime di Cosa nostra.
Nella vita non ho soltanto cazzeggiato, qualcosa di serio l’ha fatto anch’io, almeno ai miei occhi. Ho scritto e scritto di mafia. Come mio padre, anche se non faccio il suo mestiere. Allora mi domando e vi domando: perchè lo faccio? Forse soltanto per sete di verità. Verità ancora sconosciute, verità da chi per oltre 20 anni è stato arso dalla sete di giustizia. Così qualche inchiesta l’ho fatta anch’io, in periodici poco conosciuti ma in cui ero libero di scrivere ciò che volevo. (Vedi «Con i miei occhi, il capitolo «Ricordo» e il link Gli articoli). Ho riletto molte verità ufficiali ma ai miei occhi, occhi da ingenuo o forse solo di un povero stupido, sono verità che non convincono. Questa è la terra dei misteri. A volta la verità mi sembra che sia come un immenso puzzle, ogni tanto incastoni un pezzo e cerchi l’altro per andare avanti. Ma il puzzle è infinito e, nonostante tutto l’impegno possibile, non sarà mai completato.
Alla ricerca delle verità sulla morte di Mario Francese, suo padre, Giuseppe ha dedicato tutte le sue energie. Articoli, foto, ricostruzioni, collegamenti: ha messo e rimesso insieme tanti pezzi, costruito un percorso, «spinto» col suo lavoro e la sua determinazione il processo, la sua «missione impossibile» per rendere giustizia a quel morto che a Palermo nessuno voleva e che lui si è caricato sulle spalle, con fatica ma immensa fierezza.
Papà, avevo quegli occhioni scuri quando bruscamente sei andato via. Ho ancora gli stessi occhi e con loro continuo a percorrere le impervie strade della vita. Senza di te, ma con te. Perché mi hai lasciato quella indelebile impronta. E così, con te dentro me, continuo a vivere mentre m’incontro e mi scontro con la vita.
Il processo si è concluso con sette condanne, l’intera cupola di Cosa Nostra e il killer, Leoluca Bagarella. Poi è toccato anche a Provenzano: per lui l’ergastolo. Giuseppe non ha voluto aspettare il processo di appello, né il suo trentaseiesimo compleanno. Ha considerato concluso il suo compito. Missione compiuta. Non sapremo mai cosa gli è passato per la mente. Possiamo solo immaginare quanta angoscia avesse nel cuore. Una sola cosa è certa: la mattina del 3 settembre se ne è andato. Forse ha raggiunto la sua spiaggia nel Paradiso dei giusti. A noi resta un grande vuoto. www.fondazionefrancese.org

Mario Francese (Siracusa6 febbraio 1925 – Palermo26 gennaio 1979) giornalista e vittima di mafia. Francese incominciò la carriera come telescriventista dell’ANSA, successivamente cominciò a collaborare come giornalista e scrisse per il quotidiano La Sicilia di Catania. Nel 1958 venne assunto dal ufficio stampa dell’assessorato ai Lavori Pubblici della Regione Siciliana e il 30 ottobre dello stesso anno sposò Maria Sagona, con la quale ebbe quattro figli, Giulio, Fabio, Massimo e Giuseppe. Nel frattempo intraprese una collaborazione con il Giornale di Sicilia di Palermo. Nel 1968 si licenziò dalla Regione per lavorare a tempo pieno nel giornale[1], dove si occupò della cronaca giudiziaria, entrando in contatto con gli scottanti temi del fenomeno mafioso.

Divenuto giornalista professionista si occupò della strage di Ciaculli, del processo ai corleonesi del 1969 a Bari, dell’omicidio del colonnello dei carabinieri Giuseppe Russo e fu l’unico giornalista a intervistare la moglie di Totò RiinaAntonietta Bagarella. Nelle sue inchieste entrò profondamente nell’analisi dell’organizzazione mafiosa, delle sue spaccature, delle famiglie e dei capi, specie del corleonese legata a Luciano Liggio e Totò Riina[2]. Fu un fervente sostenitore dell’ipotesi che quello di Cosimo Cristina fosse un assassinio di mafia.

Un certo costruttore, don Peppino Garda, presunto “boss” di Monreale, vendette frettolosamente molti degli edifici, costruiti in via Sciuti in società con Peppino Quartuccio, e si ritirò in eremitaggio. Dalla vendita degli edifici si ricavarono circa cento milioni e questi soldi furono reinvestiti in un latifondo nei pressi del Lago Garcia, andava a realizzare un progetto che, nel giro di dieci anni, avrebbe fatto intascare ai clan quasi un terzo dei 17 miliardi stanziati dallo Stato per la costruzione della ”faraonica” diga.

Così quando nel 1975, approvato il progetto dell’opera, cominciano le procedure per gli espropri, don Peppino e compagni vanno all’incasso: per i terreni pagati complessivamente due miliardi di lire, con i soldi della Cassa del Mezzogiorno ai nuovi e antichi proprietari, in tutto 240 possidenti, ne incassano diciassette, denaro che in gran parte finisce nelle casseforti mafiose in piccolissima parte agli altri proprietari e agli affittuari. Uno sfregio anche all’impegno di Danilo Dolci, che per la costruzione delle dighe si era battuto.

L’affare però non riguarda solo i terreni, ci sono tanti altri soldi da agguantare: subappalti, forniture di cemento, pietrame e quant’altro, posti di lavoro da distribuire, mezzi meccanici da affittare. Un intreccio di appetiti che lascia sul suolo una dozzina di morti e una scia di attentati. Francese indaga, annota e scrive sul Giornale di Sicilia, dove è cronista giudiziario, quel che accade nel territorio, facendo nomi e cognomi; è il primo a farlo ed è ancora il primo a rivelare l’ascesa dei Corleonesi e a chiamare “commissione” il vertice della cupola. Collega anche alcuni morti ammazzati alla guerra nelle cave e uno dei primi delitti eccellenti, quello del colonnello Giuseppe Russo nel 1977 a Ficuzza, a controversie per i subappalti.

Francese paga con la vita, ad appena 54 anni, il suo coraggio e il suo fiuto di cronista. La sera del 26 gennaio 1979 venne assassinato a colpi di pistola[3] a Palermo da Leoluca Bagarella, davanti a casa sua.

Per il suo omicidio sono stati condannati: Totò RiinaLeoluca Bagarella (che sarebbe stato l’esecutore materiale del delitto), Raffaele GanciFrancesco MadoniaMichele Greco e Bernardo Provenzano[4]. Le motivazioni della condanna nella sentenza d’appello furono: «Il movente dell’omicidio Francese è sicuramente ricollegabile allo straordinario impegno civile con cui la vittima aveva compiuto un’approfondita ricostruzione delle più complesse e rilevanti vicende di mafia degli anni ’70»[5].

Il 3 settembre 2002 si suicidò il figlio trentaseienne Giuseppe[6], che per anni si era dedicato a inchieste sulla ricostruzione dell’omicidio del padre[7].

 


Gaspare Mutolo: «L’omicidio di Mario Francese deciso dalla Cupola». Il collaboratore di giustizia Gaspare Mutolo, in un interrogatorio del 15 dicembre 1993, confermò la matrice mafiosa dell’omicidio di Mario Francese e il sicuro coinvolgimento della “Commissione” di “Cosa Nostra”: «Lo definivamo “cornuto”, oltrepassò ogni limite quando osò attaccare pubblicamente padre Agostino Coppola per il suo coinvolgimento nel sequestro di Montelera»

La matrice mafiosa dell’omicidio di Mario Francese, ed il sicuro coinvolgimento della “Commissione” di “Cosa Nostra” nella deliberazione criminosa, sono stati affermati dal collaboratore di giustizia Gaspare Mutolo, il quale, nell’interrogatorio del 15 dicembre 1993, ha dichiarato quanto segue:

Come ho già riferito in precedenti interrogatori, secondo una regola fondamentale di Cosa Nostra tutti gli omicidi che per l’importanza delle vittime possono avere conseguenze negative per l’intera organizzazione in ragione delle prevedibili reazioni delle Forze dell’ordine devono essere decisi dalla Commissione, e perciò anche gli omicidi di giornalisti.

Con specifico riferimento all’omicidio del giornalista FRANCESE Mario, avvenuto in Palermo nel mese di gennaio 1979, posso dire che a quell’epoca mi trovavo ristretto presso il carcere dell’Ucciardone Sez. IV (infermeria), ove erano ristretti tutti gli altri uomini d’onore. Ricordo bene che già da molto tempo prima, e cioè da almeno due anni, tutti noi uomini d’onore commentavamo sfavorevolmente l’attività professionale svolta secondo noi con troppo zelo dal predetto giornalista, cronista del quotidiano “Giornale di Sicilia”. Ricordo in particolare che il FRANCESE non perdeva occasione per attaccare in qualunque modo la mafia ed i soggetti ad essa appartenenti. Se non erro si interessò molto delle vicende relative ai lavori di appalto e di subappalto realizzati nella Valle del Belice per la costruzione della diga Garcia ed a tal proposito pubblicò spesso articoli riguardanti anche numerosi omicidi che erano avvenuti in quel periodo nella zona del Trapanese e del Palermitano interessata proprio da tali lavori. Più volte ho commentato tali omicidi con AGRIGENTO Giuseppe, uomo d’onore della famiglia di San Cipirrello che è stato ristretto con me sia pure per breve periodo. L’AGRIGENTO c’era stato raccomandato da RIINA Salvatore perché venisse destinato all’infermeria.

Nei commenti che facevamo frequentemente il FRANCESE veniva definito “un cornuto”, ed uso proprio tale espressione perché a mio modo di vedere rende meglio il reale pensiero di chi tali parole pronunziava. In altri termini, è certo che il giornalista FRANCESE Mario non era per nulla benvoluto nell’ambiente mafioso e ricordo anzi che sembrò addirittura oltrepassare ogni limite consentito quando osò attaccare pubblicamente padre Agostino COPPOLA per il suo coinvolgimento nel sequestro di Montelera. Padre COPPOLA era notoriamente molto vicino ai corleonesi e a RIINA Salvatore in particolare, che chiamava addirittura fratello. Io stesso ho più volte visto Padre Agostino COPPOLA scrivere dei messaggi da far pervenire a RIINA Salvatore, nei quali lo stesso si rivolgeva a RIINA chiamandolo “caro fratello”. Diversamente si comportava con tutti gli altri,che chiamava semplicemente con il nome di battesimo. Ricordo tale particolare perché quasi sempre inviavo i miei saluti al RIINA scrivendo in calce alla stessa lettera scritta da Padre COPPOLA.

Quando si è avuta notizia in carcere dell’omicidio del FRANCESE quindi nessuno di noi si meravigliò, apparendo cosa assolutamente pacifica che detto omicidio fosse stato voluto e deciso dalla Commissione.

Ricordo anzi che ci fu qualche commento, sia pure generico, e che qualcuno pronunziò le parole “Così gli altri imparano”.

Già al tempo dell’omicidio del giornalista FRANCESE Mario la composizione della Commissione era tale per cui RIINA Salvatore ed i corleonesi avevano il maggior peso in termini di decisioni.

Ed invero mentre sino al 1978, quando cioè BADALAMENTI Gaetano non era stato ancora estromesso da Cosa Nostra, i corleonesi non avevano la maggioranza in seno a detto organismo di vertice, subito dopo, tenuto conto e di tale estromissione e del fatto che quasi contestualmente venne costituito il mandamento di Resuttana, il cui capo era MADONIA Francesco, RIINA Salvatore iniziò ad avere il sopravvento in Commissione.

MADONIA Francesco era infatti notoriamente uomo di fede corleonese ed il suo mandamento era stato creato a discapito di quello di RICCOBONO Rosario. Non a caso, del resto, proprio in quel periodo si sono registrati numerosi delitti cosiddetti eccellenti, peraltro avvenuti tutti nel territorio del MADONIA. Ricordo le uccisioni del giudice TERRANOVA Cesare, del giornalista FRANCESE Mario, di REINA Michele e di GIULIANO Boris. In epoca precedente invece l’unico omicidio di una certa importanza che è avvenuto è stato quello del Colonnello dei CC RUSSO Giuseppe, e non essendo ancora prevalsa in Commissione la nuova strategia introdotta essenzialmente dai corleonesi, l’omicidio stesso dovette essere commesso in territorio di Corleone, e non, ad esempio, a Palermo, ove pure sarebbe stato possibile proprio perché il Col. RUSSO viveva in questa città. Ricordo infatti che per quell’omicidio, secondo quanto ho sentito dire, non c’era stato il consenso di tutti i componenti della Commissione.

Ho ricordato prima che l’omicidio del giornalista FRANCESE Mario è avvenuto nel territorio del mandamento di Resuttana, e cioè in viale Campania. Ciò mi induce a dire che certamente l’omicidio stesso è stato commesso da MADONIA Francesco o da altro componente della sua famiglia. Quasi certamente a detto omicidio ha partecipato anche GAMBINO Giacomo Giuseppe, che tutti noi uomini d’onore sapevamo essere d’accordo con quella parte di Cosa Nostra che voleva cambiare volto all’organizzazione facendo ricorso ad una vera e propria strategia sanguinaria comprendente anche l’uccisione di uomini politici, di componenti delle forze dell’ordine e di altri personaggi delle istituzioni che con il loro lavoro cercavano di ostacolarne il nuovo corso.

Ho detto prima che FRANCESE Mario aveva pubblicato numerosi articoli riguardanti la realizzazione della diga Garcia. Al riguardo voglio precisare che ai relativi lavori di subappalto erano fortemente interessati tutti gli uomini d’onore, e soprattutto quelli operanti nella zona. Ricordo che io stesso venni invitato a quel tempo da altro uomo d’onore che era con me ristretto all’Ucciardone, tale LAMBERTI Salvatore, ad acquistare una pala meccanica che mi avrebbe consentito di realizzare facili e lauti guadagni, mettendola a disposizione per i lavori che si realizzavano nella Valle del Belice.

Ricordo anche che nel periodo in cui ero ristretto all’Ucciardone insieme a Padre COPPOLA venne tratta in arresto una persona di una certa età di cui non ricordo ovviamente il nome e che ci venne personalmente raccomandata da RIINA Salvatore. Il messaggio che abbiamo ricevuto era stato quello di fare in modo da farlo trasferire all’infermeria e di metterci a sua disposizione, soprattutto al fine di controllarlo per assicurarci che reggesse bene lo stato di detenzione. Ci fu detto infatti che tale soggetto, che probabilmente era un pubblico amministratore, si era interessato, non so a quale titolo ed in che misura, di alcuni appalti riguardanti la diga Garcia, ed il RIINA Salvatore era preoccupato che potesse riferire qualcosa. Ovvio quindi che proprio il RIINA era fortemente interessato a quei lavori per la realizzazione della diga Garcia sui quali aveva ampiamente scritto il giornalista FRANCESE Mario. Se non ricordo male quella persona anziana, che appariva distinta, lavorava presso il Consorzio di bonifica del Belice.

Null’altro posso riferire oggi in merito all’omicidio del giornalista FRANCESE Mario, anche se non escludo che sforzando un po’ i miei ricordi possano venirmi in mente fatti e circostanze di rilievo […].

LA “CANTATA” DEL PENTITO. Dall’esame delle predette deposizioni del Mutolo emerge una serie di circostanze di fondamentale importanza ai fini della ricostruzione dei fatti per cui è processo. In particolare, le dichiarazioni del collaborante evidenziano che:

  • secondo una regola fondamentale (ed in quel periodo sicuramente operante) di “Cosa Nostra”, gli omicidi di magistrati, uomini politici, soggetti appartenenti alle forze dell’ordine, avvocati e giornalisti – potendo provocare conseguenze negative per l’organizzazione, tenuto conto della rilevanza delle vittime e delle prevedibili reazioni dello Stato – dovevano essere deliberati dalla “Commissione”;
  • le sole eccezioni a questa regola furono rappresentate dagli omicidi del colonnello Giuseppe Russo e del Procuratore della Repubblica di Palermo Gaetano Costa, maturati in contesti assolutamente peculiari;
  • già al momento dell’omicidio di Mario Francese, Salvatore Riina aveva preso il sopravvento all’interno della “Commissione”, in virtù della estromissione (decretata nel 1978) di Gaetano Badalamenti dall’organizzazione mafiosa, e della quasi contestuale costituzione del “mandamento” di Resuttana, a capo del quale vi era Francesco Madonia, notoriamente legato ai “corleonesi”; non a caso, proprio in quel periodo si verificarono numerosi omicidi “eccellenti” (segnatamente, quelli di Cesare Terranova, di Michele Reina e di Boris Giuliano), tutti commessi nel territorio del predetto “mandamento”;
  • all’epoca dell’omicidio di Mario Francese, facevano parte della “Commissione” Francesco Madonia (capo del “mandamento” di Resuttana), Rosario Riccobono (capo del “mandamento” di Partanna Mondello), Giuseppe Calò (capo del “mandamento” di Porta Nuova), Bernardo Brusca (per il “mandamento” di San Giuseppe Jato), Antonino Geraci (capo del “mandamento” di Partinico), Salvatore Riina (capo del “mandamento” di Corleone, il cui sostituto era Bernardo Provenzano), Michele Greco (capo del “mandamento” di Ciaculli), Stefano Bontate (capo del “mandamento” di Santa Maria di Gesù); a questi soggetti il Mutolo nell’interrogatorio del 3 settembre 1992 ha aggiunto Giuseppe Bono, Salvatore Inzerillo, Salvatore Scaglione, Calogero Pizzuto; nell’interrogatorio del 22 aprile 2000 il Mutolo ha menzionato anche il Motisi (capo del “mandamento” di Pagliarelli), non indicato in data 3 settembre 1992;
  • per gli esponenti mafiosi detenuti presso l’istituto penitenziario dell’Ucciardone, era assolutamente pacifico che l’omicidio di Mario Francese (considerato da taluno anche come un monito rivolto agli altri giornalisti) fosse stato voluto e deciso dalla “Commissione”;
  • già da almeno due anni prima dell’omicidio, tutti gli “uomini d’onore” effettuavano commenti fortemente negativi (talvolta, con l’uso di espressioni che riflettevano una violenta avversione) sull’attività professionale svolta da Mario Francese, da essi considerata come un costante attacco a “Cosa Nostra” ed ai suoi componenti;
  • Mario Francese, tra l’altro, aveva pubblicato frequentemente articoli sulle vicende relative ai lavori di appalto e di subappalto realizzati nella Valle del Belice per la costruzione della Diga Garcia, ed a numerosi omicidi realizzati nella zona interessata dai lavori;
  • tutti i lavori di subappalto relativi alla diga Garcia erano stati affidati a mafiosi, secondo quanto il collaborante apprese da Salvatore Lamberti, esponente della “famiglia” di Borgetto, il quale gli propose di prendere parte a questa lucrosa attività impiegando una pala meccanica;
  • ai lavori relativi alla costruzione della diga erano fortemente interessati anche Bernardo Provenzano e Salvatore Riina;
  • Salvatore Riina si era persino preoccupato di “raccomandare”, perché fosse trasferito in infermeria e venisse trattato con riguardo, un pubblico amministratore piuttosto anziano, in servizio presso il Consorzio di Bonifica del Belice, il quale si era interessato di alcuni appalti riguardanti la suddetta diga ed era stato tratto in arresto; l’intento del Riina era quello di assicurarsi che il medesimo individuo sopportasse bene lo stato di detenzione e non collaborasse con l’autorità giudiziaria;
  • la suddetta raccomandazione era stata impartita da Salvatore Riina mediante un messaggio inviato a padre Agostino Coppola, avvalendosi delle agevoli possibilità di comunicazione tra i detenuti e l’esterno, in quel periodo riscontrabili nell’istituto penitenziario dell’Ucciardone;
  • ai mafiosi, era sembrato che Mario Francese oltrepassasse ogni limite consentito quando aveva attaccato pubblicamente padre Agostino Coppola (legato da rapporti fraterni con Salvatore Riina) per il suo coinvolgimento nel sequestro di Rossi di Montelera;
  • dopo l’omicidio di Mario Francese, che possedeva e manifestava una profondissima conoscenza del fenomeno mafioso, gli “uomini d’onore” detenuti esternarono la loro contentezza;
  • il luogo dove fu ucciso Mario Francese ricadeva nel territorio del “mandamento” di Resuttana;
  • ciascun “capo-mandamento” doveva avere preventivamente conoscenza degli omicidi che sarebbero stati commessi all’interno del proprio territorio.[…].

LE “CONFERME” ALLE INTUIZIONI DI FRANCESE. Si è già avuto modo di osservare come Mario Francese avesse scritto, dal 1974 in poi, numerosi articoli giornalistici su don Agostino Coppola, mettendone in luce gli stretti rapporti con Salvatore Riina, l’inserimento nell’ “anonima sequestri” capeggiata da Luciano Liggio, il coinvolgimento nel sequestro di Luigi Rossi di Montelera. L’avversione manifestata da don Coppola nei confronti di Mario Francese è stata ricordata dal suo collega Franco Nicastro nelle dichiarazioni rese in data 10 aprile 1998, precedentemente riportate.

Nel capitolo IV, è stata pure presa in esame l’approfondita serie di articoli che Mario Francese, sin dal 1977, iniziò a scrivere sui molteplici interessi mafiosi connessi alla costruzione della diga Garcia, esplicitandone le connessioni con numerosi episodi di omicidio verificatisi nella zona e con l’assassinio del colonnello Russo, ed illustrando le singolari operazioni immobiliari realizzate dalla società Zoosicula RI.SA., che veniva ricondotta a Salvatore Riina. Tra le iniziative giudiziarie su cui Mario Francese si soffermò nel descrivere le indagini espletate in relazione all’uccisione dell’ufficiale dei Carabinieri, vi era l’emissione di un mandato di cattura, per il reato di favoreggiamento, a carico di Biagio Lamberti (autotrasportatore di Borgetto), e l’invio di una comunicazione giudiziaria, per il reato di associazione a delinquere, nei confronti del padre del medesimo soggetto, Salvatore Lamberti, indicato come individuo “implicato, insieme a don Agostino Coppola, nel tentato omicidio dell’allevatore Francesco Randazzo” e detenuto, per tale motivo, presso l’istituto penitenziario dell’Ucciardone.

Lo spessore mafioso dei Lamberti era stato posto in evidenza nel rapporto giudiziario riguardante il duplice omicidio del colonnello Russo e dell’insegnante Filippo Costa, redatto il 25 ottobre 1977 dal Comandante del Nucleo Investigativo del Gruppo di Palermo dei Carabinieri, Magg. Antonio Subranni; in tale atto Salvatore Lamberti era stato definito come “pregiudicato mafioso, già latitante”, si era illustrata la “personalità mafiosa” di Biagio Lamberti, e si erano descritte le singolari modalità del suo ingresso nei lavori affidatigli dalla società Lodigiani presso la diga Garcia, precisando altresì che Biagio Lamberti svolgeva tale attività con l’impiego di diversi mezzi meccanici, tra cui una pala meccanica, e riceveva dalla società Lodigiani il doppio del compenso normale.

Nel medesimo rapporto si era compiuta una ricostruzione delle vicende relative alla costruzione della diga Garcia che risulta perfettamente coerente con le indicazioni fornite dal Mutolo, oltre che con il quadro tracciato da Mario Francese nelle sue inchieste giornalistiche.

Il rapporto giudiziario, in particolare, aveva esplicitato quanto segue: «la costruzione della diga suscitava ovviamente una disordinata corsa per accaparrarsi le forniture dei materiali occorrenti, per offrire il noleggio dei mezzi meccanici per i movimenti di terra e per aggiudicarsi i sub-appalti delle opere minori, provocando una incrinatura nei rapporti e negli equilibri dei gruppi mafiosi delle zone interessate. Ben presto, però, anche la mafia del “corleonese”, non insensibile certo rispetto ai cospicui interessi emergenti emergenti, allungava le sue rapaci ed avide mani sulla “valle del Belice”, e, stabilendo e rafforzando i suoi legami con la mafia di Roccamena e del trapanese, e ricorrendo al delitto, instaurava un nuovo stabile equilibrio, assicurandosi il monopolio delle forniture e dei sub-appalti. Così, facendo leva sul prestigio mafioso dei vari Riina, Provenzano, Bagarella e sulla forza che gli deriva dall’allargamento dei suoi quadri, questo gruppo mafioso è riuscito ad imporre elementi di sua fiducia, attraverso i quali si è garantito il totale controllo delle forniture e dei sub-appalti relativi alla costruzione della diga Garcia, che nella zona rappresenta al momento il più immediato settore di sfruttamento. In questa lotta per il predominio sugli interessi suscitati dalla costruenda diga, vanno interpretati il triplice tentato omicidio di Napoli Rosario, Napoli Fedele e Montalbano Vincenzo (19.7.1977) e l’omicidio di Artale Giuseppe (30.7.1977)». Nell’ambito di questa ricostruzione delle vicende connesse alla costruzione della diga Garcia, si era sottolineato: “in tale contesto va collocata anche l’uccisione del ten. Col. Russo Giuseppe” (pagg. 36-37 del rapporto), formulando le seguenti osservazioni:

  • l’ufficiale annoverava tra i suoi amici più intimi l’imprenditore Rosario Cascio, cui l’ing. Ero Bolzoni (dirigente della società Lodigiani, con funzioni di direttore tecnico dei lavori della diga) aveva assicurato l’assegnazione della fornitura dei materiali inerti per la realizzazione dell’intera opera;
  • nei mesi di giugno e luglio 1976 si erano però verificati alcuni attentati dinamitardi contro la società Lodigiani, «compiuti dalla mafia del “corleonese” per assicurarsi il totale controllo di ogni settore produttivo legato alla diga Garcia e, tra l’altro, per indurre i titolari della Lodigiani a sostituire Cascio Rosario con il geometra Modesto Giuseppe, uomo di paglia della mafia “corleonese”, nella fornitura esclusiva di inerti; operazione questa da realizzare – per come poi è stata realizzata – mediante la preventiva sostituzione degli ingg. Bolzoni e Gazzola, che avevano assunto l’impegno con Cascio, con altri due tecnici, che erano invece esenti da impegni con chicchessia e che quindi, al momento dell’inizio dei lavori per la costruzione della diga, avrebbero potuto conferire la fornitura a Modesto Giuseppe»;
  • con questa azione la mafia si riprometteva, tra l’altro, di assoggettare definitivamente ai propri voleri la volontà della società Lodigiani;
  • Rosario Cascio, dopo essere stato estromesso dalla fornitura degli inerti (affidata, invece, alla società IN.CO., di pertinenza del Modesto), si era rivolto al colonnello Russo, il quale aveva rivolto la sua attenzione contro la mafia del “corleonese” e si era adoperato per raccogliere gli elementi necessari per imbastire una denuncia penale, al fine di “colpire con successo la mafia ormai dominante di Leggio – Riina e Coppola” smascherandone l’ingerenza nella valle del Belice;
  • il Modesto, presidente del consiglio di amministrazione della società IN.CO., era «“l’uomo di fiducia” del gruppo di mafia facente capo a Riina Salvatore, Provenzano Bernardo e Bagarella Leoluca», e quindi “lo strumento ed il rappresentante di interessi mafiosi”;
  • i dirigenti della Lodigiani avevano cooperato ad un preciso piano criminoso del più pericoloso gruppo mafioso, capeggiato da Salvatore Riina, Bernardo Provenzano e Leoluca Bagarella, e composto da varie cosche, i cui elementi maggiormente rappresentativi erano Gioacchino Cascio (qualificato come “noto capo-mafia di Roccamena e da vari anni residente a Monreale”), Bartolomeo Cascio (indicato come “l’elemento di maggior spicco della cosca di Roccamena, dopo suo zio Cascio Gioacchino”), Giuseppe Giambalvo, Vincenzo Giambalvo, Leonardo Diesi, Salvatore Lamberti, Biagio Lamberti, Giovanni Armato;
  • il piano criminoso in questione era diretto ad eliminare ogni possibile concorrenza alla società IN.CO. di Giuseppe Modesto ed alla ditta Lamberti.[…].

UN COLLABORATORE CREDIBILE. Appaiono pienamente credibili le indicazioni del Mutolo in ordine al contenuto ed al tempo delle conversazioni intercorse tra lui ed altri “uomini d’onore” in ordine all’attività giornalistica di Mario Francese, al monopolio mafioso sui lavori di subappalto riguardanti la diga, ed alla possibilità di conseguire rilevanti guadagni mettendo a disposizione di Salvatore Lamberti una pala meccanica per gli stessi lavori. Un univoco riscontro a tali dichiarazioni è, infatti, offerto dalla codetenzione del Mutolo insieme a numerosi esponenti mafiosi (tra i quali Tommaso Buscetta e Salvatore Lamberti) presso l’infermeria della Casa Circondariale dell’Ucciardone in un periodo in cui:

  • Mario Francese aveva già pubblicato sul “Giornale di Sicilia” diversi articoli riguardanti gli interessi mafiosi relativi alla costruzione della diga Garcia, i connessi omicidi verificatisi nella zona circostante, il convolgimento di don Agostino Coppola nel sequestro di Luigi Rossi di Montelera;
  • si era già in presenza di un totale controllo esercitato dal gruppo mafioso capeggiato da Salvatore Riina sulle forniture e sui sub-appalti relativi alla costruzione della diga;
  • la società Lodigiani aveva affidato proprio al figlio di Salvatore Lamberti, a condizioni eccezionalmente favorevoli, alcuni lavori che costui svolgeva con l’impiego di diversi mezzi meccanici, tra i quali una pala meccanica.

La sentenza in questione è quella della Corte di Assise di Palermo, presidente Leonardo Guarnotta, contro Salvatore Riina +9. DOMANI 17.2.2021

Note

  1. ^ Particolari biografici citati in Copia archiviata, su marioegiuseppefrancese.it. URL consultato il 12 agosto 2009 (archiviato dall’url originale il 21 dicembre 2008).
  2. ^ secondo  fu il primo a citare Riina come capo mafia
  3. ^ Memoria Mario Francese in Ossigeno per l’informazione, su notiziario.ossigeno.info. URL consultato l’11 luglio 2016 (archiviato dall’url originale il 1º agosto 2015).
  4. ^ Come riportato da  Archiviato il 21 dicembre 2008 in Internet Archive.
  5. ^ Come riportato da almanaccodeimisteri.info
  6. ^ Suicida il figlio del cronista Francese, vittima di mafia, in Corriere della Sera, 4 settembre 2002, p. 16 (archiviato dall’url originale il 13 luglio 2012).
  7. ^ come riportato da centroimpastato.it Archiviato il 24 agosto 2011 in Internet Archive.

E’ un bravissimo giornalista, uno di quelli che vede e sente tutto, che riesce a capire le cose prima ancora che accadano, si chiama: Mario FRANCESE. Per lui il giornalismo è una passione da sempre, per quella passione, ha lasciato un posto fisso alla regione, comodo e ben pagato come capo ufficio stampa di un assessorato, e si è fatto assumere al giornale di Sicilia, uno dei quotidiani di Palermo di cui è diventato responsabile della cronaca giudiziaria. Mario FRANCESE ha un pallino, come una specie di ossessione: i corleonesi. In quegli anni sta succedendo qualcosa nella mafia e lui lo ha capito, e i corleonesi sono i protagonisti. Sono diversi i corleonesi, sono più pericolosi degli altri. Totò RIINA, Bernardo PROVENZANO, Leoluca BAGARELLA. Mario Francese non aveva pregiudizi. Era un osservatore attento, rovistava tra i fatti più minuti, della cronaca palermitana. Si identificava talmente con il suo lavoro da accorrere sulla scena di un fatto di sangue anche se non era “in servizio”. E, dicono, aveva una memoria formidabile che gli consentiva di operare collegamenti, capaci di fare emergere imprevedibili squarci e inedite ricostruzioni che sulla carta diventavano “storie”. Usava quello che gli storici chiamano “paradigma indiziario” l’apparato conoscitivo tipico del sapere venatorio. Affastellava dati, elementi, testimonianze, indizi, spie, lapsus e, ogni tanto, tirava le somme. Oggi non sono in tanti a ricordarlo. Forse è un altro genere di giornalismo che va di moda. Un giornalismo da cui la mafia non ha nulla da temere.
(L’INCHIESTA SULLA DIGA GARCIA)
La diga Garcia, interamente finanziata dalla Cassa del Mezzogiorno su progetto del Consorzio di bonifica dell’alto e medio Belice, a che cosa servirà? E perché attorno alla diga si è creato un deserto di mafia, in cui oscuri interessi hanno scatenato contrasti, appetiti e una corsa quasi piratesca per l’aggiudicazione degli appalti di opere che dovranno convogliare le acque del serbatoio di Garcia verso Trapani e Agrigento? (Dal più arido latifondo la mafia sa cavare l’”oro”, in <> 4 settembre 1977).
Iniziava così l’inchiesta di Mario FRANCESE. Usciva a puntate sul Giornale di Sicilia il 4, il 6, il 9, il 13, il 18 e il 21 settembre 1977. Mario FRANCESE scriveva mentre era in fase di approvazione il progetto per una delle più grosse opere mai realizzate nell’isola: il progetto della diga Garcia. Un affare che riguardava l’irrigazione di ventunomila ettari di terreno, per un costo di centodieci miliardi di lire. Si trattò di un’inchiesta di cui il cronista poteva andare fiero, perché era il racconto della più grossa operazione economica mai realizzata dalla mafia. (Da uomini contro la mafia di Vincenzo CERUSO)
Mario FRANCESE intuiva tutto e scriveva: la frattura all’interno di Cosa Nostra, gli interessi dei corleonesi in alcune opere pubbliche come la diga Garcia vicino a Corleone, i cui territori venivano comprati da imprenditori vicino alla mafia per due miliardi, e poi rivenduti al comune per diciassette miliardi. Anche gli interessi dei corleonesi in società immobiliari come la RI.SA. iniziali di Riina Salvatore.
“E’ un rompiscatole quel giornalista” a Totò Riina i suoi articoli così ben scritti e ben documentati, non sono piaciuti. E’ bravo, così bravo che un giorno durante un processo a un sacerdote, don Agostino COPPOLA parroco Di Carini, implicato in vicende oscure di sequestri e di mafia, (durante quel processo) Mario FRANCESE si avvicina al Pubblico Ministero in difficoltà, e gli suggerisce le domande da fare. Don Agostino se ne accorge e gli sussurra <> <>. E’ anche testimone di un delitto Mario FRANCESE. Un giorno, si trova in una taverna vicino al mercato della Vucciria a Palermo, quando entrano alcune persone che si mettono a sparare e uccidono tre uomini, Mario FRANCESE ha il coraggio di uscire fuori a chiamare il 113 e poi racconta anche tutto alla polizia e lo scrive anche sul giornale. “Cosa vuole quel giornalista, perché non si fa gli affari suoi, perché si ostina a scrivere la verità?” Il 26 gennaio 1979, è sera, e Mario FRANCESE sta uscendo dal giornale, ha salutato tutti nel solito modo: “uomini del Colorado, vi saluto e me ne vado”.Sta tornando a casa e vicino alla sua abitazione si accosta una macchina, scende un uomo, è Leoluca BAGARELLA che gli spara quattro colpi di pistola in testa con una calibro 38, poi si avvicina, guarda se lo ha colpito, torna alla macchina e si allontana, lentamente, come se non avesse nessuna paura di essere visto o riconosciuto da qualcuno. Così muore Mario FRANCESE. (Da Lucarelli racconta)