il PROTOCOLLO FARFALLA

 

 

 

Protocollo Farfalla, “gli otto boss al 41 bis accettarono soldi per parlare con i Servizi”.
Dal 2004 i padrini fornirono informazioni agli 007 di Mario Mori in cambio di somme di denaro provenienti dai fondi riservati dei servizi segreti e devoluti a soggetti esterni alle carceri, indicati dagli stessi detenuti. Nella lista del patto Dap-Sisde compare anche Fifetto Cannella, condannato per la strage di via d’Amelio. Vicepresidente commissione antimafia Fava: “Intelligence ci ha sempre negato l’esistenza dell’accordo, convocheremo i vertici”  di Giuseppe Pipitone | 28 SETTEMBRE 2014 FQ

Una gestione separata e segreta dei boss detenuti, un accordo che portava denaro nelle casse dei padrini stragisti in cambio d’informazioni provenienti direttamente dal ventre molle di Cosa Nostra. È questo che va in scena nei penitenziari di massima sicurezza italiani dopo il 2004: rapporti borderline tra servizi segreti e detenuti in regime di 41 bis. Attività che viene sancita dal Protocollo Farfalla, l’accordo di sei pagine stipulato nel maggio del 2004 tra il dipartimento di amministrazione penitenziaria e il Sisde. A quell’accordo sono allegati due appunti: uno è l’elenco degli otto boss messi sotto osservazione dagli 007, analizzati e poi avvicinati con la proposta di diventare confidenti dei servizi in cambio di denaro.

E nel maggio del 2004, come racconta Repubblica, gli otto boss individuati dagli 007 fanno sapere di essere d’accordo: forniranno informazioni in cambio di somme di denaro provenienti dai fondi riservati dei servizi segreti e devoluti a soggetti esterni alle carceri, indicati dagli stessi detenuti. Quei soldi sarebbero finiti anche nelle tasche di persone indicate da Fifetto Cannella, uno degli stragisti di Paolo Borsellino, condannato all’ergastolo per la strage di via d’Amelio.

Quali siano le informazioni che Cannella fornisce agli agenti dei Sisde (in quel momento guidato da Mario Mori) non è ad oggi dato sapere, come un mistero rimane le modalità effettive con cui furono utilizzate in seguito quelle confidenze: cosa ne fanno gli agenti dell’intelligence dei racconti forniti dal boss di Brancaccio? Informazioni sicuramente interessanti dato che Cannella, che è un boss di primo livello, è inserito – secondo il collaboratore di giustizia Vincenzo Sinacori – nella cosiddetta SuperCosa, il gruppo riservato e segreto di uomini d’onore in seno a Cosa Nostra, creato all’inizio del 1991 da Totò Riina in persona. In quei mesi del 2004 accettano di diventare confidenti dei servizi in cambio di soldi anche il boss di Trabia Salvatore Rinella, quello di Porta Nuova Vincenzo Boccafusca, lo ‘ndranghetista Angelo Antonio Pelle (poi fuggito dal carcere di Rebibbia), i camorristi Massimo Clemente e Antonio Angelino, più il catanese Giuseppe Maria Di Giacomo, che in seguito deciderà di diventare un collaboratore di giustizia, fornendo ai pm racconti sui contatti con Faccia da Mostro, il presunto killer che si muove sullo sfondo delle stragi degli anni ’80 e ’90 (guarda).

I contatti tra boss e 007, regolati da quell’accordo tra Dap e Sisde privo di firme e timbri, rimangono top secret per alcuni anni: secondo la pista seguita dagli inquirenti ne hanno contezza soltanto Mori in persona e Salvatore Leopardi, capo dell’ufficio ispettivo del Dap, all’epoca guidato da Giovanni Tinebra, già procuratore capo a Caltanissetta all’epoca delle prime indagini sulla strage di via D’Amelio che poggiarono sulle dichiarazioni di Vincenzo Scarantino. Poi tra il 2006 e il 2007 scoppia una guerra interna al Dap, tra lo stesso Leopardi e il capo dell’ufficio detenuti Sebastiano Ardita, che è completamente all’oscuro dell’esistenza di quell’accordo tra amministrazione penitenziaria e Sisde, e si oppone ad alcune richieste per trasferire boss detenuti in regime di 41 bis. Della vicenda inizia ad occuparsi la Procura di Roma, che proprio dagli uffici del servizio segreto civile acquisisce copia del Protocollo. Sotto processo nel frattempo finiscono Leopardi e Giacinto Siciliano, ex direttore del carcere di Sulmona, accusati di falso e omissione per non aver avvertito l’autorità giudiziaria competente (ovvero la Procura di Napoli) delle dichiarazioni del camorrista Antonio Cutolo, che aveva manifestato l’intenzione di voler collaborare.

Il Protocollo Farfalla però non viene depositato al processo, e verrà girato alla Procura di Palermo soltanto anni dopo, quando i pm siciliani iniziano ad indagare sui rapporti borderline tra 007 e boss detenuti. A quel punto anche la Commissione parlamentare Antimafia inizia ad occuparsi della questione, chiedendo l’audizione di Giampiero Massolo e Arturo Esposito, rispettivamente a capo del Dis e dell’Aisi. “Ci hanno riferito che non esisteva un accordo scritto tra Sisde e Dap, che il Protocollo Farfalla non esisteva, adesso scopriamo esattamente il contrario” protesta Claudio Fava, vicepresidente della commissione antimafia. Che adesso, dopo la decisione del premier Renzi di desecretare il Protocollo, vuole vederci chiaro, richiamando Massolo ed Esposito. Nel frattempo anche la Procura di Palermo continua la sua attività d’indagine per verificare quante volte i servizi hanno pagato boss mafiosi detenuti in cambio di informazioni. E soprattutto per capire con quale scopo siano state utilizzate quelle confidenze provenienti direttamente da pezzi da novanta di Cosa Nostra. 28.9.2014 IL FATTO QUOTIDIANO


Protocollo Farfalla, scritto nero su bianco il testo dell’accordo Dap-Sisde sui detenuti L’esistenza dell’appunto è sempre stata negata, ma adesso il patto datato 2004 tra i Servizi, allora guidati da Mario Mori, e l’amministrazione penitenziaria è in possesso dei pm palermitani ed è inserito nel fascicolo aperto dopo le ammissioni del pentito Flamia. Allegato anche un elenco di una decina di detenuti appartenenti alle organizzazioni criminali che in quel momento si trovavano quasi tutti al 41 bis di Giuseppe Pipitone | 23 SETTEMBRE 2014 FQ

Processo Mori, “generale sapeva di strategia tensione e non avvertì istituzioni”  Protocollo Farfalla, “soldi ai boss per informazioni”. L’accordo segreto Dap-Sisde

Sono sei pagine, nessuna firma, nessuna intestazione e solo la dicitura “riservato” stampata in cima al primo foglio: è fatto così il Protocollo Farfalla, l’accordo segreto stipulato tra i Servizi e il Dipartimento di amministrazione penitenziaria per gestire le informazioni provenienti dai penitenziari di massima sicurezza. Il documento, insieme ad altri allegati che recano la generica intestazione di “appunto”, è stato acquisito dai pm della procura di Palermo che indagano sulla Trattativa tra pezzi dello Stato e Cosa Nostra e inserito nel fascicolo aperto dopo le ammissioni del pentito Sergio Flamia. L’uomo d’onore di Bagheria, che per anni ha avuto rapporti con i servizi, ha ammesso di avere ricevuto le visite in carcere di importanti agenti dell’intelligence anche dopo aver deciso di collaborare con la magistratura.

I pm Nino Di Matteo, Roberto Tartaglia, Vittorio Teresi e Francesco Del Bene hanno quindi aperto un nuovo fascicolo d’indagine a carico d’ignoti per omissione di atti d’ufficio: al vaglio, oltre alla natura dei colloqui tra gli 007 e Flamia, ci sono soprattutto i rapporti borderline tra l’intelligence e i detenuti in regime di 41 bis. Rapporti regolati da un accordo tra Dap e Sisde, che lasciano traccia in quel documento di sei pagine senza intestazione e firma. Appunto datato maggio 2004 (quando il direttore del Sisde era Mario Mori mentre Giovanni Tinebra dirigeva il Dap), in cui per la prima volta si mette nero su bianco “l’attività d’intelligence convenzionalmente denominata Farfalla”. Un nome in codice che i servizi prendono probabilmente in prestito da Papillon, il romanzo di Herni Charriére ambientato nella prigione dell’Isola del Diavolo: riferimento perfetto per l’operazione che punta a monopolizzare il flusso informativo proveniente dai penitenziari di massima sicurezza.

Il nodo cruciale del Protocollo Farfalla è tutto qui: in pratica, qualsiasi notizia proveniente dai detenuti in regime di 41 bis, sarebbe stata girata dall’amministrazione penitenziaria direttamente agli 007, senza informare i pm competenti, come invece previsto dalla legge. Ma c’è di più: nella documentazione acquisita dai pm è allegato persino un elenco di una decina di detenuti appartenenti a Cosa Nostra, ‘ndrangheta e Sacra Corona Unita, che sono in quel momento quasi tutti in regime di 41 bis. È su quei detenuti che i servizi nel maggio 2004 intendono estendere l’operazione Farfalla, già probabilmente pianificata e messa in azione in precedenza: stando ad alcuni appunti, i rapporti borderline tra Sisde e carceri risalirebbero addirittura all’inizio del 2003, e quindi già prima della stesura formale del documento.

Nel Protocollo si fa esplicitamente cenno alla clausola di “esclusività e riservatezza” di ogni dato emerso dall’operazione: le informazioni rivelate dai principali boss di Cosa Nostra, camorra e ‘ndrangheta sarebbero finite all’intelligence e non invece all’autorità giudiziaria. È per un caso molto simile che a Roma sono finiti sotto processo il direttore del carcere di Opera Giacinto Siciliano e il magistrato Salvatore Leopardi. Tra il 2005 e il 2006 il camorrista Antonio Cutolo, detenuto nel carcere di Sulmona, manifesta l’intenzione di collaborare, raccontando anche diverse vicende inedite sulla sua cosca: Siciliano, che dirigeva il penitenziario abruzzese, non avrebbe però avvertito l’autorità giudiziaria, limitandosi a girare quei verbali a Leopardi, all’epoca capo del servizio ispettivo del Dap. Secondo l’accusa neanche Leopardi avrebbe avvertito la competente Procura di Napoli, riferendo invece i contenuti di quei verbali al colonnello Pasquale Angelosanto, in forza al Sisde: per questo motivo i due sono finiti a processo per falso e omissione.

Secondo la Commissione Antimafia nel 2007 vengono emanate nuove norme per regolamentare i rapporti tra Dap e Servizi: le operazioni borderline degli 007 nelle carceri sarebbero però continuate fino ad oggi. È per questo che i pm palermitani continuano ad indagare sulla reale identità di Alberto Lorusso, l’uomo cimice che tra maggio e novembre 2013 riesce ad accattivarsi la fiducia di Totò Riina, raccogliendo il racconto dell’orrore del capomafia corleonese, denso di rivelazioni e rivendicazioni. A catalizzare l’attenzione dei pm è la profonda consapevolezza dimostrata da Lorusso su fatti di cronaca giudiziaria (come lo stesso Protocollo Farfalla), la conoscenza d’informazioni note soltanto agli stessi pm della procura e la spiccata capacità nell’utilizzo dei codici cifrati: caratteristiche che per un detenuto in regime di 41 bis sono più uniche che rare.

Trattativa, dal Protocollo Farfalla possibili verità sul 41bis di Riina e Provenzano Il governo ha tolto il segreto sull’accordo che, secondo diverse testimonianze, permetteva ai servizi di avere rapporti con i mafiosi in carcere. Un patto rievocato in relazione alle tante stranezze nella dentezione dei due grandi capi di Cosa nostra di Giuseppe Pipitone | 30 LUGLIO 2014 FQ


Per il presidente della Commissione Antimafia Rosy Bindi non esisteva. Per il suo vice Claudio Fava invece era di fondamentale importanza per ricostruire uno dei passaggi della trattativa Stato-mafia. Per anni l’esistenza del Protocollo Farfalla, ovvero l’accordo segreto siglato dai servizi segreti e dai vertici dell’amministrazione carceraria per gestire i detenuti in regime di 41 bis, è rimasta nell’ombra, circondata più da indizi che da prove. “Questo protocollo non esisteva, magari esistevano dei comportamenti che giustamente ad un certo punto si è sentito la necessità di regolare” diceva Bindi appena qualche mese fa. “Dobbiamo capire il perché sia stato creato un documento del genere, perché interessavano particolarmente i detenuti al 41 bis, con quale scopo si sarebbero dovuti incontrare certi personaggi, con quale obiettivo, e se si volesse in quel modo ottenere o proporre qualcosa” ribatteva invece Fava.

Opinioni opposte che adesso potranno forse avvicinarsi, dato che il premier Matteo Renzi ha fatto cadere il segreto di Stato sulla delicata questione dei rapporti top secret tra 007 e Amministrazione penitenziaria. Spetterà ora alla commissione Antimafia acquisire la documentazione riservata per approfondire l’indagine già cominciata a Palazzo San Macuto. Una questione delicatissima, che rappresenta probabilmente la chiave di volta per riscrivere la storia degli ultimi anni, e che influenzerà direttamente alcuni processi in corso. Primo tra tutti quello che a Roma vede imputati Salvatore Leopardi, già funzionario del Dap e oggi sostituto procuratore a Palermo, e Giacinto Siciliano, in passato direttore del carcere di Sulmona: sono entrambi accusati di aver passato ai servizi informazioni sul pentito di camorra Antonio Cutolo, senza rivolgersi prima all’autorità giudiziaria.

Secondo diverse testimonianze il Protocollo Farfalla prevede proprio questo: la possibilità per i servizi di acquisire in via esclusiva le informazioni provenienti dalle carceri di massima sicurezza, più la garanzia che eventuali visite degli 007 nelle celle dei detenuti in regime di 41 bis rimangano fuori dai normali registri dei penitenziari. Ma perché i servizi d’intelligence dovrebbero avere la possibilità di gestire in maniera invisibile i detenuti? Domanda che poteva trovare una risposta nel processo contro Siciliano e Leopardi, dove però era stato invocato recentemente il segreto di Stato. Adesso la decisione del governo di desecretare gli atti relativi al Protocollo potrebbe dare un nuovo impulso al processo romano.

Ma non solo. Perché tracce dei rapporti borderline nelle carceri affiorano soprattutto nell’inchiesta sulla trattativa tra pezzi dello Stato e Cosa Nostra. È a Palermo che per la prima volta si cita in un’aula di giustizia l’esistenza del Protocollo Fantasma. A farlo, deponendo come teste al processo contro Mario Mori il 23 dicembre del 2011, è l’ex dirigente del Dap Sebastiano Ardita che raccontò di essere a conoscenza di un protocollo con quel nome, ma di non essere mai riuscito a prenderne visione perché coperto dal segreto di Stato. Ardita, durante la sua deposizione, fece cenno anche alle varie manovre di oscura origine attivate nel 2006 per spostare Bernardo Provenzano dal carcere di Terni.

È solo uno dei tanti misteri della detenzione del padrino di Corleone, uno dei registi della Trattativa, poi trovato più volte ferito alla testa nella sua cella di Parma, mentre le telecamere (che per un detenuto al 41 bis devono essere sempre attive) erano spente. “Qui mi vogliono male” sibilò Provenzano durante un incontro col figlio, quando ancora sembrava lucido. Chi gli vuole male? E perché?

L’ombra del protocollo Farfalla si è recentemente allungata anche su un altro boss corleonese, Salvatore Riina, che per mesi ha trascorso la sua ora di socialità nel carcere di Opera (dove il direttore è proprio Siciliano) con Alberto Lorusso, misterioso esponente della Sacra Corona Unita. Nei colloqui col pugliese, poi registrati dalla Dia di Palermo, Totò ‘U Curtu è stranamente loquace, si lascia andare a confidenze su trent’anni di stragi, e arriva ad emettere la sua condanna a morte per il pm Nino Di Matteo. Poi, quando i pm palermitani perquisiscono la cella di Lorusso, trovano decine di appunti scritti in codice, ancora oggi al vaglio dei periti.

A chi scrive in codice Lorusso? E come mai Riina si fida così tanto di lui? Il boss pugliese in carcere non è soltanto un ascoltatore delle confidenze di Riina. In certi casi gli racconta anche fatti inediti, sconosciuti ai più: come quando gli dice che i magistrati di Palermo volevano presenziare tutti insieme all’udienza sulla trattativa per manifestare solidarietà a Di Matteo, dopo le prime notizie delle minacce: proposta, questa, che è contenuta solo in alcune email circolate tra i pm palermitani, poi mai stata messa in pratica e nemmeno divulgata: chi è che la riferisce a Lorusso, che è detenuto al 41-bis nel carcere di Opera?

Una risposta avevano provato a darsela i pm, che quando lo vanno a interrogare gli chiedono di suoi rapporti con pezzi dei servizi, che magari erano andati a trovarlo in carcere. “È meglio non parlare di queste cose” risponde Lorusso, regalando l’ennesimo indizio sui rapporti borderline tra 007 e boss mafiosi. Rapporti regolati da un Protocollo, che da oggi non è più un segreto di Stato.

Trattativa e carceri, Commissione antimafia divisa sul “protocollo Farfalla”  L’accordo fra servizi segreti e amministrazione penitenziaria per poter far visita ai boss detenuti senza lasciare traccia? Per il presidente Rosy Bindi “non esiste”, per il suo vice Claudio Fava sì. Per il magistrato Ardita, c’è ma è coperto da segreto di Stato di Giuseppe Pipitone | 3 MARZO 2014 FQ


Il protocollo Farfalla? Non esisteva. Parola di Rosy Bindi, arrivata a Palermo per presiedere i lavori della Commissione Parlamentare Antimafia, e subito incalzata su uno degli oggetti più oscuri che avrebbe regolato i rapporti tra i servizi segreti e il Dipartimento Amministrazione Penitenziaria. Un vero e proprio accordo segreto per regolare, all’insaputa dell’autorità giudiziaria, il flusso delle informazioni provenienti dai boss mafiosi reclusi in regime di 41 bis: in pratica uno dei frutti della trattativa tra pezzi dello Stato e Cosa Nostra, ancora oggi oggetto d’indagine della procura di Palermo. “Per quello che ci riguarda abbiamo fatto un pezzo di strada, questo protocollo non esisteva, magari esistevano dei comportamenti che giustamente ad un certo punto si è sentito la necessità di regolare” è stata la risposta fornita dalla presidente della Commissione Antimafia.

Mafia, Bindi: “Protocollo Farfalla? Non mi sento di escludere che ci siano stati comportamenti impropri” di Giuseppe Pipitone e Silvia Bellotti VChe tipo di comportamenti? E messi in pratica da chi?. “Non siamo ancora in questa fase: siamo in grado di dire che non esisteva un protocollo scritto” ha replicato nettamente Bindi. Risposta che stona completamente con quanto dichiarato da Claudio Fava, vice della Bindi a Palazzo San Macuto. “Ho rivolto una specifica domanda al ministro della Giustizia e al ministro degli Interni – dichiara nel gennaio scorso l’esponente di Sel in un’intervista al direttore di AntimafiaDuemila Giorgio Bongiovanni  –  Tale domanda riguarda il contenuto di quel documento riservato, noto come Protocollo Farfalla, il quale avrebbe legato il dipartimento di polizia penitenziaria al Sisde, tanto che avrebbe previsto la possibilità da parte dli agenti del Sisde di incontrarsi con i detenuti sottoposti a regime di 41 bis senza lasciare alcuna traccia della propria visita. Ecco, sono fatti come questo, poco chiari, che lasciano una percezione opaca di questo Stato, che vanno assolutamente portati alla luce. Ed è altrettanto intollerabile che tutto ciò sfugga al controllo giudiziario. Dobbiamo capire il perché sia stato creato un documento del genere, perché interessavano particolarmente i detenuti al 41 bis, con quale scopo si sarebbero dovuti incontrare certi personaggi, con quale obiettivo, e se si volesse in quel modo ottenere o proporre qualcosa. Questo diventa un passaggio della trattativa da ricostruire e da svelare, sul piano penale e politico”.

Per Fava quindi non solo il protocollo scritto esisterebbe, ma disciplinerebbe anche la possibilità per gli 007 di visitare i boss mafiosi in carcere senza lasciare alcuna traccia di quei colloqui. A parlare per la prima volta pubblicamente del Protocollo Farfalla era stato l’ex dirigente del Dap Sebastiano Ardita, oggi procuratore aggiunto a Messina, che deponendo come teste al processo contro Mario Mori il 23 dicembre del 2011, raccontò di essere a conoscenza di un protocollo con quel nome, ma di non essere mai riuscito a prenderne visione perché coperto dal segreto di Stato. Ed è proprio il segreto di Stato ad essere stato invocato nel processo che a Roma vede imputati Salvatore Leopardi,  in passato funzionario del Dap e oggi sostituto procuratore a Palermo, e Giacinto Siciliano, già direttore del carcere di Sulmona: sono accusati di aver passato ai servizi informazioni sul pentito di camorra Antonio Cutolo. Siciliano è oggi direttore del carcere di Opera, dove il boss Totò Riina è stato intercettato dalla Dia di Palermo mentre emetteva la sua condanna a morte per il pm Nino Di Matteo, colloquiando con il boss pugliese Alberto Lorusso. Bindi però sul capitolo protocollo Farfalla è stata netta: non esisteva alcun protocollo scritto.

La Commissione Antimafia ha deciso di effettuare alcune audizioni a Palermo dopo le dichiarazioni del prefetto Giuseppe Caruso, direttore dell’agenzia per i beni confiscati, che aveva denunciato alcune anomalie nella gestione delle aziende che un tempo furono dei boss. “Ci siamo sentiti in dovere di conoscere la motivazione delle sue affermazioni” ha detto Bindi, mentre davanti la prefettura palermitana – che ospita i lavori della commissione antimafia – alcuni lavoratori di aziende confiscate ai boss manifestavano il loro dissenso per l’errata amministrazione che starebbe portando le società da cui dipendono sull’orlo della chiusura.

La Commissione Antimafia ha anche incontrato i pm della procura di Palermo che indagano sulla trattativa. “Assistiamo a degli attacchi nei confronti della nostra attività e, soprattutto, dell’impianto accusatorio del processo per la trattativa che riteniamo immotivati”, ha dichiarato il sostituto procuratore Nino Di Matteo, che insieme a Roberto Tartaglia, Francesco Del Bene e Vittorio Teresi rappresenta la pubblica accusa al processo sulla Patto Stato – mafia in corso davanti la corte d’assise di Palermo. Recentemente proprio la Bindi ha lanciato l’idea di utilizzare la Commissione Antimafia per promuovere alcuni dibattiti il 22 marzo, in occasione della giornata dedicata alle vittime della mafia da Libera. Oltre al regista Pif e al giornalista Lirio Abbate è previsto anche un dibattito con il giurista Giovanni Fiandaca, autore insieme allo storico Salvatore Lupo di un saggio in cui la Trattativa è considerata legittima,  perché “legittimata dalla presenza di una situazione necessitante”.

41 bis e “Protocollo Farfalla”: un’inutile ricerca di regie occulte  Avvocati penalisti attenzionati per il solo fatto di aver esercitato legittimamente il diritto alla difesa dei reclusi al 41 bis, monitoraggio dei movimenti di protesta all’interno e all’esterno delle carceri che predicavano l’abolizione del regime duro, tentativo di aggancio ( fallito) con alcuni reclusi al 41 bis per ottenere informazioni. Parliamo del cosiddetto “Protocollo Farfalla”, un’operazione fallimentare dei servizi segreti effettuata tra il 23 giugno 2003 ed il 18 agosto 2004 in collaborazione del Dap con l’allora capo Giovanni Tinebra. La denominazione “farfalla” prende ispirazione dall’ associazione “Papillon”, creata nel 1996 da un gruppo di detenuti comuni della casa circondariale romana di Rebibbia, con l’obiettivo di promuovere cultura nel carcere e intraprendere battaglie non violente in collaborazione dei movimenti politici sensibili alle tematiche carcerarie, come ad esempio i Radicali. Ma come mai proprio “Papillon”? Nell’agosto del 2002, al carcere di Novara nella corrispondenza di Andrea Gangitano, uomo d’onore di Mazara del Vallo detenuto in regime di 41 bis, fu ritrovato un volantino di ‘ Papillon Rebibbia Onlus’. Tutta materia ghiotta, in teoria, per il Sisde. In parole semplici, quell’operazione di intelligence nacque a seguito del sospetto che dietro le proteste contro il 41 bis ci fosse una regia mafiosa. Ancora meglio lo spiega la relazione del Copasir ( il comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica) redatta a conclusione di un approfondito lavoro: «Lo scenario storico, le pressioni nelle carceri, l’obiettivo prioritario indicato nella relazione al Parlamento del secondo semestre del 2003, suggerirono l’adozione di azioni informative tese anche a verificare eventuali saldature tra interessi criminali e aree politiche di matrice garantista». In sintesi, si era trattata di una sorta di “dietrologia di Stato” che intravvedeva le forze politiche garantiste in combutta con le organizzazioni criminali. Per capire meglio, bisogna inquadrare il contesto storico e la criminalizzazione mediatica delle proteste contro il 41 Le norme dell’articolo 41 bis furono inizialmente adottate con un carattere temporaneo per una durata limitata a tre anni ( fino al 1995). Il 41 bis fu prorogato per ben tre volte e il 31 dicembre 2002 fu reso ordinario.

Con l’approssimarsi dell’ultima scadenza, si riaccese il dibattito, anche politico, sul carcere duro. Ricordiamo ad esempio l’inchiesta sul 41 bis dei radicali Maurizio Turco e Sergio D’Elia che documentarono seri problemi di legittimità. Anche i detenuti al 41 bis si fecero parte attiva di questo dibattito e nel marzo 2002 il noto mafioso Pietro Aglieri inviò al procuratore antimafia Pier Luigi Vigna e al procuratore di Palermo Pietro Grasso una lettera sullo speciale regime carcerario; nella missiva si auspicavano «soluzioni intelligenti e concrete» al problema del carcere duro così come fino a quel momento applicato. Nel luglio 2002 Leoluca Bagarella, durante il processo presso la Corte d’assise di Trapani, rilasciò dichiarazioni spontanee nelle quali chiedeva una riconsiderazione, in termini politici, del regime previsto dall’articolo 41 bis. Nello stesso periodo, in una decina di istituti di pena in cui si applicava il carcere speciale, si verificarono iniziative di protesta e scioperi della fame dei detenuti. Il caso mediaticamente più eclatante fu, però, l’esposizione di due striscioni: il primo, “Uniti contro il 41- bis”, esposto allo stadio di Palermo e il secondo su iniziativa dei tifosi del Bologna in cui si esprimeva solidarietà ai tifosi palermitani per la libertà di parola. I media dell’epoca diedero risonanza a tali manifestazioni e alimentarono il dibattito. Al centro delle polemiche vi erano anche alcuni parlamentari, indicati dai criminali al carcere duro come traditori, poiché, una volta eletti, avrebbero cambiato il proprio pensiero sull’articolo 41 bis. Si ricordano, a tale proposito, le dichiarazioni del pentito Antonino Giuffrè in riferimento ai parlamentari Nino Mormino e Antonino Battaglia. Tali polemiche furono ribadite da una lettera firmata da alcuni detenuti di Novara, tra cui Francesco Madonia e Giuseppe Graviano ( oggi ritornato in auge per via delle intercettazioni), i quali rimproveravano avvocati penalisti entrati in Parlamento di aver cambiato posizione: «da avvocati avevano deprecato il 41 bis, da parlamentari invece non avevano combattuto il carcere duro».

È in questo contesto che si avviò l’operazione di intelligence. Non è ancora del tutto chiaro come si sia svolta tale operazione e se sia stata del tutto legale. Restano punti oscuri ancora non del tutto chiariti. Durante l’audizione del Copasir, c’è stata l’inquietante testimonianza del senatore Roberto Castelli, all’epoca dei fatti ministro della Giustibis. zia, che ha raccontato il seguente episodio: «Venni a conoscenza che all’interno del Dap era stata costituita, a mia totale insaputa, una centrale di ascolto che intercettava i mafiosi. Io ho sempre cercato di fare il ministro occupandomi anche dell’apparato, per cui la cosa non mi piacque assolutamente, perché poteva anche avere altri risvolti, magari a priori assolutamente legittimi. Ma volli vederci chiaro, anche per testimoniare un po’ il fatto che, se fossi stato informato su questioni di questa gravità, sarebbe stato meglio. Senza avvisare l’allora capo del dipartimento Tinebra del blitz, chiesi di fare il giro della palazzina e entrai in un reparto in cui c’erano non ricordo più se tre, quattro o cinque centrali di ascolto, con persone che indossavano delle cuffie e che ascoltavano non so chi». Prosegue il senatore Castelli: «Diedi incarico all’allora mio capo di gabinetto di svolgere indagini di natura puramente informale. Lui, dopo qualche tempo, mi disse che effettivamente era tutto regolare e che tutto avveniva sotto l’egida della magistratura. Non so se questa centrale sia ancora attiva o se sia stata smantellata; non me ne occupai più, anche perché ripeto che non è assolutamente compito del ministro della Giustizia occuparsi delle indagini». Sappiamo che l’operazione “Farfalla” si concluse con un nulla di fatto: non c’era nessuna regia occulta dietro le legittime proteste. Resta però un interrogativo: si dice che tale operazione si sia svolta fuori da ogni tipo di controllo, compreso quello della magistratura. Ciò però cozza con la testimonianza dell’ex ministro Castelli. Intanto la relazione del Copasir conclude che tale operazione non poteva che risultare fallimentare, così come poi è stata, con il coinvolgimento di uomini del Dap, del Sisde e probabilmente anche della magistratura che sono stati distolti da attività più utili e produttive per l’Italia e per i cittadini. Si legge nella relazione che l’assenza di riscontri documentali e la gestione poco trasparente dell’attività, ha giustificato ricostruzioni e letture dietrologiche di deviazioni, calibrate su una ipotetica trattativa tra lo Stato e la criminalità organizzata. IL DUBBIO Damiano Aliprandi20 Jun 2017

Oltre il segreto del Protocollo farfalla A Palermo il convegno sull’accordo tra Servizi e Dap di Aaron Pettinari – 28 novembre 2014  Un processo in corso a Roma, un’inchiesta aperta a Palermo per “omissione di atti d’ufficio”, un documento di sei pagine ed un allegato con un elenco di una decina di detenuti appartenenti a Cosa Nostra, ‘ndrangheta e Sacra Corona Unita, che sono in quel momento quasi tutti in regime di 41 bis, con cui iniziare una collaborazione. Il “Protocollo farfalla” non è più soltanto un “nome in codice” sussurrato tra le carceri ma è un documento nero su bianco con cui vengono regolati i rapporti tra Dap e Sisde firmato nel 2004 (quando il direttore del Sisde era Mario Mori mentre Giovanni Tinebra dirigeva il Dap). La prima volta che se ne sente parlare è in un inchiesta de “Il Manifesto”, nel 2006, a firma di Matteo Bartocci. Un articolo in cui emerge l’esistenza di una rete di intelligence che operava senza nessun controllo, nessun atto pubblico e in collaborazione direttamente con l’ufficio ispettivo. Quindi, il 23 dicembre 2011, è l’ex dirigente del Dap Sebastiano Ardita, oggi procuratore capo a Messina, a parlarne per la prima volta pubblicamente durante la deposizione al processo contro Mario Mori. Il magistrato raccontò di essere a conoscenza di un protocollo con quel nome, ma di non essere mai riuscito a prenderne visione perché coperto dal segreto di Stato.

Da oltre un anno il tema, oltre ad essere argomento del processo che si sta celebrando a Roma e che vede imputati Salvatore Leopardi, in passato funzionario del Dap e oggi sostituto procuratore a Palermo, e Giacinto Siciliano, già direttore del carcere di Sulmona, con l’accusa di aver passato ai servizi informazioni sul pentito di camorra Antonio Cutolo, è stato affrontato dalla Commissione parlamentare antimafia con una serie di audizioni che hanno visto come protagonisti proprio i vertici dei Servizi segreti. “Siamo in grado di dire che non esisteva un protocollo scritto” disse lo scorso marzo il Presidente della Commissione Rosy Bindi rispondendo ad una domanda specifica del nostro direttore, Giorgio Bongiovanni. L’inchiesta della Procura di Palermo ha però messo in mostra una nuova realtà dimostrando non solo l’esistenza dell’accordo tra il 2003 ed il 2004, ma anche che quei rapporti non si siano interrotti nel 2007 (quando vengono istituite nuove norme che regolano l’attività dei servizi all’interno dei penitenziari) e siano proseguiti fino ad oggi. Come mai si è cercato questo dialogo con i carcerati? A che scopo? E per quale motivo tra i vincoli sanciti dal protocollo doveva esserci quello di non avvisare l’autorità giudiziaria di questi colloqui? Di tutto questo si è parlato con la conferenza “Verità e menzogne sul Protocollo Farfalla”. Un incontro, moderato dal giornalista GiuseppeLo Bianco, che ha visto la partecipazione di Maurizio Torrealta, giornalista ed autore assieme a Giorgio Mottola del libro “Processo allo Stato”. Un intervento il suo che ha messo in evidenza “l’esistenza di un altro apparato interno alle istituzioni che lavora in maniera autonoma e parallela. Un organizzazione che è sopravvissuta al di la dei tempi della cadute delle repubbliche e che penso sempre più sia stato all’origine di tante strategie stragiste”. Un concetto ribadito nel libro in cui si parla di indagini insabbiate ed anche morti dimenticate come quella del mafioso presunto “suicida” Nino Gioé. Una morte strana dietro la quale si potrebbero nascondere davvero indicibili verità. “Secondo me non si è suicidato – ha detto – se Gioé collaborava usciva tutto perché lui è il cardine dove si organizza la trattativa. Ho trovato le foto scattate immediatamente dopo il suicidio di Gioé e si vede che se davvero si fosse ammazzato stringendo i lacci delle scarpe all’anello della grata avrebbe comunque toccato il tavolo. Gli stessi segni sul collo vanno verso il basso. Un tratto che fa ipotizzare che la stretta non sia avvenuta impiccandosi ma che sia stato strangolato da qualcuno. E poi come si spiegano le costole rotte?”.
Silenzi istituzionali  Per parlare del Protocollo farfalla sono intervenuti alla conferenza anche il vice presidente della Commissione antimafia ClaudioFava ed i membri dello stesso organo, Giuseppe Lumia e Giulia Sarti. Tutti e tre hanno sottolineato come su questa sorta di “Gladio delle carceri” vi siano stati imbarazzanti silenzi ed omissioni con rappresentanti delle istituzioni che hanno negato l’esistenza di documenti che poi sono stati rinvenuti dall’autorità giudizaria. Nei loro interventi hanno rappresentato la preoccupazione non solo per quanto avvenuto in passato, su cui si deve comunque fare chiarezza, ma soprattutto sul presente. “Fare luce sul protocollo vuol dire fare luce sulla propensione di certi apparati che hanno voluto costruire un corpo parallelo – ha detto Fava – C’è un’origine quando si pente il boss di Caccamo Giuffré. Lui è il primo che parla di certi rapporti tra la mafia e quella politica nascente che poi si è consolidata, quella di Berlusconi. E’ lui a fare il nome di Dell’Utri. A quel punto nasce l’esigenza di intervenire. Abbiamo anche il sospetto che certi rapporti siano poi continuati come ha raccontato Flamia che ha parlato di aver incontrato soggetti dei servizi quando ha iniziato la propria collaborazione. Un fatto gravissimo. Ci sono apparati altri che hanno agito per un altro interesse. Oggi anche Galatolo parla di mandanti esterni che vorrebbero la morte di Di Matteo e che guidano Matteo Messina Denaro ad agire”. Altra figura chiave è quella di Rosario Cattafi, boss di Barcellona Pozzo di Gotto e detenuto al 41 bis. Quando venne arrestato nel luglio 2012 questi fa sapere ai secondini di volere riferire alcuni racconti inediti sulla Trattativa tra Cosa Nostra e pezzi delle Istituzioni. Ma prima che Cattafi riesca a parlare con i magistrati di Messina, l’Aisi (il servizio segreto) si muove inviando a Giovanni Tamburino, allora capo del Dipartimento Amministrazione Penitenziaria, una richiesta “urgente” per conoscere la situazione carceraria del boss barcellonese, le persone con cui parla, i colloqui ottenuti da detenuto. Per quale motivo tanto interesse? Anche questo è uno degli aspetti su cui indaga la Procura di Palermo. Secondo il senatore Beppe Lumia “sono soprattutto le indagini in corso a creare fibrillazione ai vertici di cosa nostra, quello che non conosciamo dell’attività che stanno mettendo in piedi Di Matteo e i colleghi, loro sanno a cosa possono portare le indagini di questo tipo. Bisogna andare in profondità e capire se c’è stata un’interferenza esterna anche con il boss che dialogava con Riina nel carcere di Opera. Potremmo arrivare ad acquisire informazioni preziose, forse potremmo aprire le porte mai aperte, e avere degli strumenti mai avuti”. Sul perché si sia giunti a dover scrivere e mettere “nero su bianco” un protocollo simile hanno fatto chiarezza l’ex pm Antonio Ingroia, prima, ed il direttore Bongiovanni, poi.

Protocollo farfalla e trattativa facce della stessa medaglia “Il protocollo farfalla e la trattativa sono due facce della stessa medaglia che si inseriscono dentro un problema politico e di politica criminale che lo stato italiano ha sempre avuto e cioè di controllo e di gestione dei poteri criminali. – ha detto il leader di Azione civile – Lo Stato italiano ha usato i poteri criminali. La mafia non è un corpo estraneo ed il rapporto mafia-Stato non è solo di contiguità e di collusione ma anche di penetrazione ed integrazione”. “Il protocollo farfalla – ha aggiunto l’ex pm – si è reso necessario per mettere fine a quel momento di crisi che era dato dal proliferare dei pentiti che avevano iniziato a parlare dei rapporti mafia politica e che fino a quel momento era stato contenuto. Si interviene per ripristinare quel ‘regime’ che c’era in precedenza. Era necessario controllare ed indirizzare nuovamente le strategie criminali così come era accaduto nel corso della storia sin dai tempi dell’unità d’Italia e di cui il 1992 è stata l’ultima appendice”. Bongiovanni invece ha focalizzato il motivo per cui “un sistema criminale vigente ha occupato il nostro Stato”. “Tutto quel mondo mafioso, tra colletti bianchi, massonerie, servizi deviati – ha spiegato il direttore di ANTIMAFIADuemila – cioè un gruppo di uomini di potere che con la mafia gestiscono un’immensa quantità di soldi. Le stime istituzionali parlano di oltre centocinquanta miliardi di euro l’anno, approssimati per difetto, frutto degli affari illeciti. Una potenza economica. E se la mafia dovesse entrare in borsa potrebbe comprarsi tutta la borsa di Milano e avrebbe una liquidità di 500 miliardi. Ecco perché lo Stato e i servizi segreti trattano con la mafia. E’ per questo che non viene fatta una lotta seria contro la criminalità organizzata. Del resto è un dato di fatto che in questo momento chi ci Governa è chi ha stretto un patto con il leader di un partito che è stato ideato da un mafioso come Marcello Dell’Utri”.

Superare la “deriva”  Per far fronte a questa “deriva” istituzionale una forte spinta deve arrivare soprattutto dalla società civile che deve acquisire sempre più consapevolezza per poter fare nuove scelte. Un concetto ribadito anche dalla deputata del Movimento 5 Stelle Giulia Sarti: “Ora come non mai c’è bisogno di prendere delle posizioni. Non è possibile demandare solo all’autorità giudiziaria l’accertamento della verità. Le istituzioni hanno un ruolo importante come i cittadini, l’informazione e la stampa. Tutti assieme dobbiamo collaborare per chiedere al premier di smetterla con questo silenzio imbarazzante. E mandare dei segnali chiari alle mafie e ai servizi deviati approvando leggi che agevolino la lotta alla criminalità organizzata”. ANTIMAFIA DUEMILA


Protocollo farfalla, praticamente la “Gladio delle carceri”  

Mentre i magistrati non erano stati informati, ho ragione di pensare che sia stato ben informato il presidente del Consiglio dell’epoca, Silvio Berlusconi”. Pochi giorni fa, il vicepresidente della commissione Antimafia Claudio Fava aggiungeva un dettaglio su quella che lui stesso ha definito la “Gladio nelle carceri”, ossia l’accordo tra servizi (Sisde) e direzione delle carceri (Dap) per gestire le informazioni fornite da alcuni mafiosi.

I nomi dei boss che hanno parlato con gli 007 sono finiti nel Protocollo Farfalla, che in realtà è stato trovato anni fa, nel 2006, durante una perquisizione al Sisde, disposta dai pm romani Maria Monteleone e Erminio Amelio che stavano indagano su Salvatore Leopardi, il magistrato di Palermo finito sotto inchiesta per aver rivelato le informazioni di un pentito al Sisde.

Nell’ambito di questo processo vengono sentiti alcuni 007, proprio per capire il circuito delle informazioni, ed è in questa fase che forse si concentrano i sospetti del vice presidente della commissione Antimafia: perché a confermare il segreto di Stato, opposto da uno 007 che avrebbe potuto chiarire questo aspetto, è stato proprio il governo Berlusconi il 7 marzo 2011.

Per capire questa storia, bisogna fare un passo indietro, ripercorrere le fasi del processo a Leopardi (ancora in corso in primo grado) e ricostruire il contesto.

Quando i pm romani trovano il protocollo Farfalla infatti è il 2006, anno di insediamento del II governo Prodi che resta in carica fino all’8 maggio 2008, quando ritorna Berlusconi. Con Prodi vengono rinnovati i vertici dei servizi segreti: al posto di Nicolò Pollari al Sismi viene chiamato l’ammiraglio Bruno Branciforte; mentre al Sisde lascia Mario Mori, direttore dal 2001, sostituito da Franco Gabrielli.

Gli inquirenti di Piazzale Clodio indagavano dopo le rivelazioni di Antonio Cutolo, condannato all’ergastolo e detenuto nel carcere di Sulmona. Cutolo, detto Tonino ‘mulletta , sosteneva di avere dettagli per arrestare Edoardo Contini, considerato il vertice dell’omonimo clan camorristico, e di aver fornito alcune informazioni a due agenti della Polizia Penitenziaria che a loro volta avrebbero riferito al direttore del carcere abruzzese, all’epoca Giacinto Siciliano. Questi avrebbe informato il capo del servizio ispettivo del Dap di quegli anni, appunto Leopardi, che a sua volta riferì al Sisde.

Questa “catena di Sant’Antonio” è costata a Leopardi e ad altri l’accusa di falsità ideologica e omessa denuncia di reato, ma il processo non è ancora conclusa. In fase dibattimentale, tra gli 007 convocati c’era il colonnello dell’Aisi (ex Sisde) Raffaele Del Sole, che non ha mai risposto ai magistrati, anche grazie a Berlusconi. Il 7 marzo 2011, infatti, l’ex premier ha confermato il segreto di Stato sulle informazioni che i magistrati volevano ottenere da Del Sole.

Per i pm ciò incideva profondamente sulla possibilità di pervenire a una piena ricostruzione delle condotte contestate agli imputati, oltre violare l’articolo 39 comma 11 della legge 124 del 3 agosto 2007 (riforma dei servizi) che stabilisce che in “in nessun caso possono essere oggetto di segreto di stato notizie, documenti o cose relativi a fatti di terrorismo o eversivi dell’ordine costituzionale o a fatti costituenti i delitti di strage, associazione per delinquere e devastazione o saccheggio”.

Principio già affermato dall’articolo 204 del codice di procedura penale. E nel caso del processo Leopardi si stava lavorando proprio su personaggi gravitanti negli ambienti camorristici. Il 24 novembre 2011, la VI sezione del tribunale di Roma chiude la questione e stabilisce che il giudizio poteva “proseguire a prescindere, almeno per ora, dalla legittimità del confermato segreto di Stato”. La scelta di non far testimoniare lo 007 potrebbe quindi porre un ulteriore ostacolo al chiarimento almeno di un aspetto di quelli che erano i rapporti tra i servizi e i pentiti e che trova conferma nel Protocollo Farfalla.

Dopo averlo trovato, i pm hanno iniziato una serie di interrogatori. Sono stati sentiti sia Tinebra, all’epoca alla guida del Dap, sia Leopardi, che sono anche i due pm che chiesero l’archiviazione, poi ottenuta, di Berlusconi e Marcello Dell’Utri come mandanti delle stragi. Tinebra, sentito dai pm, smentisce la circostanza e nega di sapere dell’accordo, mentre l’ex capo del Sisde Mario Mori avrebbe minimizzato spiegando che si trattava di un progetto per gestire le informazioni, che però non si era mai concretizzato.

Dopo questi interrogatori, i magistrati romani presentano un ordine di esibizione al Dap ma di quel protocollo non c’è traccia. Così mandano a processo Leopardi e altri per una sola vicenda, e la faccenda si chiude senza il deposito delle carte del Sisde, compreso il Protocollo Farfalla. Fino a gennaio scorso quando il carteggio è stato mandato a Palermo, che ha ricevuto non solo l’accordo tra Sisde e Dap, ma anche gli interrogatori resi all’epoca, oggetto di una nuova indagine. Il Fatto Quotidiano 2.10.2014


PROTOCOLLO FARFALLA: I SOLDI DEI SERVIZI SEGRETI ALLA MAFIA

Dare soldi ai parenti di boss al 41 bis per ottenere informazioni: questo in poche parole il contenuto del cosiddetto Protocollo Farfalla, siglato dal Sisde (servizio segreto italiano) e dalla Direzione delle Carceri all’epoca in cui il generale Mario Mori, oggi 75enne e imputato nel processo sulla trattativa Stato-Mafia, tra 2003 e 2004.
Un accordo per raccogliere informazioni a pagamento dai detenuti per associazione mafiosa senza però far saper nulla ai magistrati del tutto. E quindi avendo la possibilità di sfruttare le informazioni fornite per scopi ancora non ben precisati. Racconta Giovanni Bianconi sul Corriere della Sera:
Passato dal servizio segreto militare tra il 1972 e il 1975, quando i vertici del Sid furono coinvolti in trame golpiste e depistaggi, nel 2001 Mori assunse la direzione del Sisde, il servizio segreto civile. E in questa veste attivò il Protocollo Farfalla, operazione «per la gestione di soggetti di interesse investigativo» che secondo il pg Scarpinato aveva un «punto critico»: «La mancanza di un controllo di legalità da parte della magistratura, unico organismo preposto alla gestione dei collaboratori di giustizia secondo severe e garantiste disposizioni di legge». Alla fine di luglio il governo ha annunciato di aver tolto il segreto di Stato dal protocollo. Ai magistrati di Palermo è giunto dalla Procura di Roma, alla quale l’aveva consegnato il successore di Mori al Sisde, Franco Gabrielli.


Un appunto del 1974 entrato nel processo Mori
Qualche tempo dopo altra documentazione fornisce un resoconto dell’attività:

Un appunto del Servizio datato luglio 2004 dà conto di una «avviata attività di intelligence convenzionalmente denominata Farfalla, attraverso l’ingaggio di preindividualizzati detenuti». Da mesi gli agenti segreti avevano verificato una «disponibilità di massima» a fornire informazioni da un gruppo di reclusi al «41bis», il regime di carcere duro, «a fronte di idoneo compenso da definire». L’elenco comprende una decina di nomi tra appartenenti alla mafia, alla ‘ndrangheta e alla camorra da cui attingere notizie. Con alcune particolarità: «esclusività e riservatezza del rapporto», nel senso che gli informatori non potevano parlare con altri, né altri dovevano sapere della loro collaborazione; «canalizzazione istituzionale delle risultanze informative a cura del Servizio», per cui solo il Sisde avrebbe deciso se e quando avvertire inquirenti e investigatori,e di che cosa; «gestione finanziaria a cura del Servizio», con pagamenti «in direzione di soggetti esterni individuati dagli stessi fiduciari». Familiari dei detenuti, presumibilmente.

LE TRAME DEI SERVIZI SEGRETI  Il Fatto Quotidiano ha invece un’apertura più immaginifica: Ma il quotidiano pubblica una parte della memoria del Pg:

Sui rapporti fra mafia, massoneria e servizi segreti deviati nonché su progetti di destabilizzazione e sul rilancio della strategia della tensione, peraltro, hanno riferito numerosi collaboratori di giustizia (…). L’inizio e l’esatto svolgimento di tale strategia della tensione furono peraltro anticipati in tempo assolutamente non sospetto con impressionante precisione da Ciolini Elio, ambiguo personaggio legato ai servizi segreti, ad ambienti massonici e all’eversione nera, con due lettere (…). In tali lettere anticipò che dal marzo al luglio 1992 si sarebbero verificati l’omicidio di un importante esponente politico e l’esecuzione di stragi. (…) . In perfetta consonanza si verificava l’omicidio di Salvo Lima, il 23 maggio la strage di Capaci ed il 19 luglio la strage di Via D’Amelio e, successivamente ,la strategia stragista veniva portata al Nordcon stragi rivendicate con la sigla Falange Arma

 

a cura di Claudio Ramaccini  Direttore Centro Studi Sociali contro la mafia – Progetto San Francesco