Mario D’Aleo(Roma, 16 febbraio 1954 – Palermo, 13 giugno 1983) Capitano dei carabinieri, comandante della Compagnia di Monreale , insieme ad altri due colleghi, Giuseppe Bommarito e Pietro Morici, viene ucciso da Cosa Nostra in un attentato a Palermo il 13 giugno 1983 in via Cristoforo Scobar, da un commando composto da tre persone che colpirono i militari mentre si trovavano a bordo della loro auto di servizio. D’Aleo a 26 anni aveva preso il posto a Monreale di Emanuele Basile, anch’egli nel 1980 ucciso in un agguato di mafia. Dopo la sua morte gli è stata conferita la Medaglia d’oro al valor civile.
Per la strage di via Scobar sono stati condannati all’ergastolo, in quanto mandanti, Michele Greco, Totò Riina, Bernardo Provenzano, Pippo Calò, Giuseppe Farinella e Nenè Geraci. Gli esecutori materiali sono invece stati individuati in Angelo La Barbera, Salvatore Biondino e Domenico Ganci.
Mario D’Aleo e l’eredità di Emanuele Basile
Mario D’Aleo aveva 29 anni quando venne ucciso da cosa nostra. Il capitano dei carabinieri e altri suoi due colleghi perirono sotto i colpi di arma da fuoco per mano della cosca corleonese il 13 giugno 1983.
D’Aleo e i sottufficiali Giuseppe Bommarito e Pietro Morici si trovavano nella loro auto di servizio in via Cristoforo Scobar, quando un gruppo di uomini aprì il fuoco contro di loro. Non ebbero il tempo di reagire e rendersi conto dell’accaduto, le loro pistole erano ancora nelle fondine. Palermo si tinse nuovamente di rosso.
Nel 1981, due anni prima, era stato assassinato Emanuele Basile, all’epoca capitano dei Crabinieri. Mario D’Aleo si trasferì in Sicilia il giorno dopo la morte del suo predecessore e si trovò a lavorare nei luoghi che videro nascere il sodalizio fra Totò Riina e i fratelli Brusca: Monreale e San Giuseppe Jato.
Basile stava indagando su alcune aziende edili legate alla mafia. Il settore dell’edilizia per la mafia, era all’epoca un terreno fertile e inesplorato, a differenza del traffico di droga ormai da tempo entrato nel mirino degli inquirenti. D’Aleo seguì quindi una pista a suo tempo avviata da Basile che vedeva indagata l’azienda “Litomix” la quale produceva calcestruzzi. Quest’ultima era fortemente legata agli interessi dei boss Giuseppe e Giovanni Brusca di San Giuseppe Jato, fedeli di Totò Riina.
Ma non solo. D’Aleo cercava la verità sulla morte di Basile e il collegamento con la mafia. Le indagini portarono il Capitano a far incarcerare i tre esecutori materiali dell’omicidio: Bonanno, Puccio e Giuseppe Madonia. Venne anche individuato Giovanni Brusca come mandante: un mafioso promettente figlio del capo della cosca Bernardo e che piaceva molto a Riina. Non rimase in carcere a lungo e la cronaca ci ricorda che, diversi anni dopo, fu per sua volontà che a Capaci morirono Giovanni Falcone, la moglie e la loro scorta.
Le indagini sui Brusca e Riina, furono fra le sue principali lotte che portarono alla luce come il sistema mafioso fosse radicato in maniera capillare sul territorio, come si evince dalla sentenza del 16 novembre 2001 per il suo omicidio e della sua scorta: “Il Capitano D’Aleo, al pari del suo predecessore, non si era limitato a ricercare quei pericolosi latitanti mediante un’azione pressante anche nei confronti dei loro familiari (come il giovane Brusca Giovanni), ma aveva sviluppato indagini dirette a colpire i ramificati interessi mafiosi nella zona. Nel portare avanti quest’attività, anche tramite fermi ed arresti, l’Ufficiale aveva dimostrato pubblicamente di volere compiere il suo dovere, senza farsi condizionare dal potere mafioso acquisito dai boss e dal pericolo delle loro ritorsioni”.
La sentenza dichiarò che il movente dell’omicidio era di stampo mafioso e molti dei colpevoli vennero condannati ed incarcerati. Ergastolo, in quanto mandanti, per Michele Greco, Totò Riina, Bernardo Provenzano, Pippo Calò, Giuseppe Farinella e Nenè Geraci. Gli esecutori materiali sono invece stati individuati in Angelo La Barbera, Salvatore Biondino e Domenico Ganci. Marta Bigolin – Cosa Vostra 10.6.2020
Il libro “Per sempre fedele” racconta il sacrifico del capitano dei carabinieri Mario D’Aleo – La mafia gli chiuse gli occhi – Che invece teneva aperti dalla sua caserma a Monreale di Stefano LorenzettoNella lettera ai genitori scritta il 24 ottobre 1973, tre giorni dopo essere entrato a 19 anni nell’Accademia militare di Modena, c’era uno scrupolo di coscienza che dice tutto di lui: «Chiedo scusa a papà se spendo un po’ troppi soldi per telefonare, ma sentire la sua voce familiare è davvero bello!». Poi un auspicio: «Spero che papà sia contento che mi abbiano messo nei carabinieri». Non poteva immaginare, Mario D’Aleo, che appena dieci anni dopo i mafiosi gli avrebbero fatto indossare per l’ultima volta, dentro una bara, la sua divisa di capitano dell’Arma. Quello che si può dire, è che da comandante della Compagnia di Monreale lo aveva messo sicuramente in conto, dopo che il suo predecessore, il capitano Emanuele Basile, era stato ammazzato mentre con la moglie e la figlioletta aspettava di assistere ai fuochi artificiali per la festa del Santissimo Crocifisso: il sicario di Cosa nostra gli sparò alle spalle sei colpi di pistola e lo finì con uno alla nuca.
«L’ultimo gesto di Basile, mentre stramazzava a terra, fu quello di fare scudo con il proprio corpo alla piccola Barbara, 4 anni, che stringeva fra le braccia. Invece a mio fratello la mafia non diede neppure il tempo di formarsi una famiglia», dice Antonino D’Aleo. «Tre killer lo uccisero il 13 giugno 1983 a Palermo, in via Cristoforo Scobar. Si stava recando a casa della fidanzata Antonella. Gli telefonai intorno alle 21. Non rispose. Avrei voluto tirargli le orecchie perché s’era dimenticato di farmi gli auguri per sant’Antonio, il mio onomastico. Lo seppi così che l’avevano appena ammazzato». Nell’agguato furono trucidati anche i due uomini della scorta, l’appuntato Giuseppe Bommarito e il carabiniere Pietro Morici, che era stato l’autista di Basile.
Antonino D’Aleo, il fratello maggiore del capitano assassinato, è nato a Roma nel 1950. Da 45 anni abita a Verona. Ci arrivò dopo aver vinto un concorso della Siae, la Società italiana autori e editori. Ma qualcosa del Dna di famiglia urgeva dentro di lui, perché nel 1978, appena laureatosi in Giurisprudenza, decise di partecipare ad altri due concorsi, uno per entrare in magistratura, l’altro per diventare funzionario di polizia. Superò il secondo e prese servizio nella questura scaligera, a quel tempo ubicata in lungadige Porta Vittoria. È stato capo di gabinetto e dirigente della Squadra mobile, distinguendosi in operazioni di rilievo nazionale, soprattutto contro i trafficanti di droga. In seguito è stato vicequestore vicario a Padova; dirigente del Compartimento di polizia ferroviaria del Piemonte e della Valle d’Aosta; questore di Sondrio e poi di Mantova. Oggi è un pensionato.
Il sacrificio di suo fratello è stato raccontato nel libro Per sempre fedele, scritto da Valentina Rigano, cronista lombarda di nera e di giudiziaria, e da suo marito Marco D’Aleo, uno dei due figli dell’ex questore, nato a Verona nel 1978, il quale ha seguito le orme dello zio: maggiore dei carabinieri, comanda la Compagnia di Busto Arsizio. Nella prefazione del volume, il magistrato antimafia Salvatore Bellomo spiega che il ruolo di pubblico ministero «ti dona un privilegio unico: quello di avere la possibilità di lavorare al fianco di uomini veri come Mario D’Aleo e la fortuna di portarti per tutta la vita i loro sguardi ardenti e affamati di giustizia, che ti trafiggono e ti spingono a dare il meglio di te».
Perché fu ucciso suo fratello? Perché non guardava in faccia nessuno. Non era disposto a chiudere un occhio in un territorio dove per lasciarti vivere la mafia vorrebbe invece che li chiudessi entrambi. Così hanno provveduto loro: glieli hanno chiusi per sempre.
Loro chi? I mandanti furono sei fra i più spietati boss della Sicilia: Totò Riina, Bernardo Provenzano, Michele Greco, Pippo Calò, Giuseppe Farinella e Nenè Geraci. Ma nel processo, conclusosi con 22 ergastoli, sono entrati un po’ tutti gli esponenti di spicco di Cosa nostra, da Salvatore Lo Piccolo a Pietro Aglieri.
Suo fratello doveva rappresentare per loro una grave minaccia se lo condannarono a morte. Pochi giorni dopo il suo insediamento a Monreale, aveva arrestato Giovanni Brusca, condannato per oltre un centinaio di omicidi, anche se lui personalmente se n’è attribuito addirittura 200, fra cui quelli del giudice Giovanni Falcone, della moglie Francesca Morvillo e dei tre agenti della scorta. Fu Brusca ad azionare il telecomando dell’esplosivo nella strage di Capaci. E fu sempre lui a strangolare il piccolo Giuseppe Di Matteo, figlio di un pentito, e a scioglierlo in una vasca piena di acido. La Cassazione ritiene che mio fratello sia stato assassinato per decisione di Riina come ritorsione proprio per «l’incalzante attività condotta contro la famiglia Brusca».
Mario aveva ricevuto minacce? È probabile, ma con noi non ne parlò mai. Né con me, né con Fausto, il mio fratello gemello, né tantomeno con i nostri genitori, Salvatore e Gabriella. Mio padre era stato maresciallo dell’esercito e lo aveva messo in guardia più volte. Conosceva bene quelle terre, essendo originario di Palazzo Adriano, a un’ottantina di chilometri da Monreale.
I suoi sono ancora vivi? No, entrambi morti. Papà di crepacuore, tre anni dopo l’uccisione di Mario.
Che cosa ricorda del suo lungo periodo in questura a Verona? A parte i 12 anni da vicecapo e poi capo di gabinetto con i questori Francesco Mirabella e Pasquale Zappone, è impossibile dimenticare i cinque trascorsi alla guida della Squadra mobile. Non fu facile raccogliere l’eredità di Vittorio Vasques e Armando Zingales, due investigatori straordinari. Si lavorava in perfetta simbiosi con magistrati di grande valore, come Guido Papalia, Mario Giulio Schinaia, Antonino Condorelli e Angela Barbaglio, che oggi ha preso il posto di Papalia alla guida della Procura scaligera.
Lei e Papalia portaste a termine la famosa operazione Arena. Fu un’indagine complessa, culminata con l’arresto di 103 narcotrafficanti, operativi in varie province. Di lì a poco dovemmo ribattezzarla operazione Arena 1, per distinguerla dalle operazioni Arena 2 e Arena 3. In tutto vennero assicurati alla giustizia circa 200 malviventi.
Verona negli anni Ottanta era conosciuta come la «Bangkok d’Italia», una definizione giornalistica di cui porto la responsabilità. Dove sono finiti i tossicomani che si bucavano in piazza Erbe e gli spacciatori che tagliavano l’eroina con la polvere grattata via dai muri di tufo del volto che porta nel Cortile Mercato Vecchio? Dei primi, una parte sono morti, purtroppo: lei consideri che in 17 anni, a partire dal 1975, si contarono 235 decessi per overdose, con una punta massima di 33 nel 1992. I secondi hanno dovuto prendere atto che Arma dei carabinieri, polizia e Guardia di finanza avevano riconquistato il pieno controllo del territorio ed era consigliabile per loro cambiare aria. Aggiunga la prevenzione, che ha fatto passi da gigante, in ambito scolastico e sanitario. Quella della droga è una piaga che è stata per lungo tempo sottovalutata. È triste che oggi stia passando la teoria secondo cui si tratterebbe di una libera scelta individuale.
A che cosa si riferisce? Ai negozi che vendono la cosiddetta cannabis light. Una moda molto pericolosa, perché induce le giovani generazioni a ritenere che lo sballo sia socialmente accettabile. Invece non possono esistere né droghe leggere né erbe legali. Qualsiasi forma di dipendenza è un male in sé. Ha fatto bene la Cassazione a interrompere questa attività, sulla base del ragionevole dubbio che fosse in atto lo smercio di sostanze dall’«effetto drogante». Del resto, se i clienti non cercassero proprio tale effetto, non si spiegherebbe l’enorme successo riscosso da un’attività commerciale fino a ieri mai esercitata in Italia.
Quale fu il giorno più nero vissuto in questura a Verona? Sicuramente il 21 dicembre 1979, quando in via Pigafetta la malavita uccise Fabio Maritati, il figlio diciottenne di Antonio, maresciallo di polizia, secondo la qualifica in uso a quell’epoca. I criminali puntavano a uccidere il padre, colpevole di troppo zelo nelle indagini sul narcotraffico. Ma quella sera il nostro collega aveva lasciato che fosse Fabio a parcheggiare l’auto in garage, mentre lui risaliva in casa con alcuni pacchi. Il giovane fu crivellato di colpi.
Per quale motivo ha deciso di abitare per sempre a Verona? Perché è una piccola Roma, con l’Arena al posto del Colosseo e il lago di Garda al posto del Lido di Ostia. La vivibilità è eccellente, i servizi funzionano. La famiglia l’ho sempre tenuta qui, anche quando i miei incarichi mi portavano in giro per l’Italia. Negli ultimi anni ho avuto la fortuna aggiuntiva di abitare ad Avesa, un borgo incantevole. Dove – lo sanno in pochi – aveva la casa anche Arnaldo La Barbera, che da questore di Palermo gestì le indagini sulle stragi di Capaci e di via D’Amelio, in cui persero la vita i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino e altre nove persone. Ad Avesa abitavamo porta a porta. Forse scelse di fissare la residenza in questa località quando comandava la Squadra mobile di Venezia e poi la mantenne per motivi di sicurezza anche dopo essere diventato questore di Napoli e di Roma e infine capo della Direzione centrale della polizia di prevenzione.
Da quanto è in pensione? Dal 2013. Per raggiunti limiti di età. Fosse dipeso da me, sarei rimasto. Ma avrei potuto farlo solo se da Mantova mi avessero promosso questore in un capoluogo di regione. In quel caso, sarei andato a riposo a 65 anni, anziché a 63.
Bizzarro, visto che gli altri cittadini ci vanno a 67. Dipenderà dal fatto che il lavoro di poliziotto è considerato usurante. Io non sono stato affatto contento di andare in pensione. Per una vita ho lavorato nelle questure dalle 8 di mattina alle 8 di sera, sette giorni su sette. Il primo impatto è stato durissimo. Ho sistemato un po’ di carte e poi mi sono chiesto: e ora che faccio? Le mie giornate sono diventate improvvisamente vuote. So che lei, dopo essere uscito dalla polizia, si offrì come civil servant alla Fiera e al Comune. A titolo gratuito. Mi sarebbe piaciuto rendermi utile.
Che cosa avrebbe voluto fare? Vigilare sulla legalità e sulla sicurezza degli enti pubblici, senza nulla togliere alla polizia municipale, che ha già il suo bel daffare sul fronte traffico.
Nel giugno 2015 fui io a presentarla al sindaco Flavio Tosi. Da allora, più risentito. Eppure i motivi per controllare non mancavano, visto che l’anno prima era stato arrestato il suo vice. Ma capisco che vi sono anche difficoltà procedurali per affidare incarichi ai pensionati. Michele Rosato, questore di Verona poi trasferito a Piacenza, avrebbe voluto fare la stessa cosa, quando nel 2013 lo misero a riposo, ma l’unico incarico che rimediò fu quello di presidente della Croce bianca.
Poteva tornare alla carica con il sindaco Federico Sboarina. A che serve insistere se manca la volontà politica? Quand’era questore, le è mai capitato di rimanere senza benzina per le volanti? Senza benzina no. Ma senza carta per le stampanti sì. Ricordo che un imprenditore di Viadana, Alessandro Saviola, venuto a conoscenza delle nostre ristrettezze, ne regalò un intero furgone alla questura di Mantova. Se avessimo aspettato Roma, le risme sarebbero arrivate dopo sei mesi.
Che cosa pensa delle molte interdittive antimafia emesse negli ultimi anni dai prefetti contro aziende del Veronese controllate dalle cosche calabresi? I soldi seguono i soldi. Non esistono oasi felici. Mafia e ‘ndrangheta sono ovunque. Investono in immobili, alberghi e attività commerciali per riciclare i capitali sporchi. Ma lo Stato c’è. C’è sempre stato, se mi passa il gioco di parole. Anche prima di Matteo Salvini. L’Arena
a cura di Claudio Ramaccini Direttore Centro Studi Sociali contro la mafia – Progetto San Francesco