L’Operazione Duomo Connection, un’inchiesta coordinata dai giudici Ilda Boccassini e Giovanni Falcone, le cui indagini vennero condotte tra la fine del 1988 e il 1990 dalla squadra del capitano dei Carabinieri Sergio De Caprio. Scattata nella notte tra il 15 e il 16 maggio 1990 portò all’iscrizione nel registro degli indagati e all’arresto di 20 persone, tra cui Antonino Carollo, figlio di Gaetano, boss di Cosa Nostra ucciso a Liscate, in provincia di Milano, nel 1987, accusati tra le varie cose associazione a delinquere di stampo mafioso, traffico di stupefacenti, riciclaggio, corruzione e abuso d’ufficio.
Il bar Nat & Johnnym L’inchiesta nacque per caso alla fine del 1988, quando il gruppo capitanato da Sergio De Caprio iniziò una serie di appostamenti nei pressi del bar Nat & Jhonny di via Fratelli Rosselli, nei pressi delle case popolari di Cesano Boscone (MI), frequentato da Gaetano “Taninello” La Rosa, accusato dell’omicidio di tre carabinieri a Torino otto anni prima. Il “servizio di osservazione sul territorio”, come recita la sentenza di 1° grado, portò gli inquirenti a seguire i movimenti di altri personaggi come Antonino Zacco, il “Sommelier”, considerato una figura centrale nel narcotraffico dell’epoca, condannato a 17 anni di carcere per la conduzione di una raffineria di eroina ad Alcamo per conto di Cosa Nostra Interessati a smantellare l’intera organizzazione legata al narcotraffico, i carabinieri non eseguirono subito l’arresto: fu così che nacque l’inchiesta “Impegno Violino”, rinominata Duomo Connection dalla stampa due anni dopo.
Il Quadrilatero della droga Seguendo La Rosa, gli investigatori arrivarono a monitorare uno strano giro di persone nei pressi del Pio Albergo Trivulzio, storica casa di cura milanese per anziani, al centro anche della futura inchiesta Mani Pulite. Tra Via Anguissola, Via Cagnoni, Via Palma e Via fra’ Galgario vi era per ore un via vai di gente, tra cui spiccavano personalità come Luigi Bonanno, Francesco Sergi, Saverio Morabito e Antonio Papalia, questi ultimi esponenti di spicco della ‘ndrangheta, originari di Platì. Successivamente l’area venne ribattezzata il “Quadrilatero della droga”. Il 9 marzo la squadra di De Caprio fermò Domenico Palazzolo, ragazzo semilibero dal carcere che durante il giorno, durante la pausa pranzo, frequentava la via: gli ritrovarono nell’auto 2 kg di eroina. La svolta avvenne però il 28 aprile 1989 quando Zacco “portò” gli inquirenti in un vecchio fabbricato industriale sito in Via Salis 4 a Milano, nel quartiere della Comasina, il cui cancello venne aperto dal futuro protagonista assoluto dell’inchiesta, Antonino Carollo, figlio di Gaetano. Zacco e altri indagati rimasero all’interno dell’area per quasi tre quarti d’ora, poi uscirono, scortando una Volvo fino all’ingresso della tangenziale: poco prima Zacco e il suo accompagnatore si staccarono del corteo, mentre la Volvo continuò la sua strada finché non incontrò un blocco della Squadra Mobile (provocato dai Carabinieri) e dopo un breve inseguimento l’auto venne perquisita e i militari sequestrarono oltre 10 kg di eroina ad Antonio Arena. Tra il 9 marzo e il 23 maggio gli inquirenti eseguirono quattro sequestri tra stupefacenti e denaro: oltre a quello del 28 aprile, prima vi era stato il 24 il sequestro di 10 milioni di lire a Gaspare Girgenti, mentre il 17 maggio gli inquirenti avevano messo le mani su 248 milioni e 265mila lire in contanti posseduti dal trafficante jugoslavo Momcilo Nikolic. Dopo ben 4 sequestri in due mesi e mezzo, Zacco e i suoi capirono che non potevano trattarsi di semplici casi scollegati e, quindi, trasferirono il baricentro delle proprie attività al Bar Viviana di Via Zurigo 4, poco distante dal Quadrilatero, e fino a maggio tennero un basso profilo.
Altri luoghi Oltre al quadrilatero, vi era anche l’assidua frequentazione di altri immobili milanesi, uno in via Creta 6, uno in via Ricciarelli 1, dove aveva sede la “Monti Immobiliare” e il cantiere della Novedil di Carollo a Lainate. I primi due erano adibiti a luoghi di occultamento e gestione dei carichi di stupefacenti, mentre gli altri due erano utilizzati per diverse riunioni tra gli indagati. In particolare, frequenti furono gli incontri con elementi di spicco della ‘ndrangheta come Papalia e Morabito, accertati in almeno nove occasioni. Il 31 maggio ci fu una “riunione operativa” nella baracca del cantiere della Novedil a Lainate, a cui parteciparono tutti i membri dell’organizzazione.
L’organizzazione Nella gestione del traffico di stupefacenti, centrale era la figura di Antonino Zacco, il quale seguiva personalmente l’operato dei soggetti incaricati delle azioni più rischiose, tenendo i rapporti con gli acquirenti e le “public relations” del gruppo. Nella gerarchia, subito dopo Zacco vi era Luigi Bonanno, a tutti gli effetti il suo braccio destro. Poi vi erano Antonio Panaia, Vincenzo Schiatterella e Gaspare Girgenti, che si occupavano della sorveglianza e della gestione dell’occultamento dei quantitativi di droga e della loro gestione. Un ruolo gregario era svolto da Domenico Palazzolo, nonostante la sua condizione di semi-libertà.
Gaetano La Rosa, da cui era partita l’inchiesta, svolgeva un ruolo di primaria importanza, sostituendo Zacco nel perfezionamento degli accordi per le forniture, anche se fu il primo ad essere arrestato, il 18 gennaio 1989. Ai vertici dell’organizzazione vi era Antonino Carollo, mentre Remo Meli gestiva il luogo di imbosco di Via Salis 4, collocato a pochi passi dalla sua casa e dalla gelateria gestita dalla moglie.
I colletti bianchi Una svolta nelle indagini è data dall’approvazione del nuovo Codice di Procedura Penale, entrato in vigore dal 24 ottobre 1989: da quel momento fu possibile utilizzare le intercettazioni ambientali ai fini delle indagini e De Caprio e i suoi furono tra i primi a cogliere l’opportunità. Dal 29 novembre al 15 febbraio 1990 i Carabinieri intercettarono i vari membri dell’organizzazione, piazzando una microspia nella baracca della Novedil, ma non solo. Oltre a pericolosi pregiudicati, vi erano anche imprenditori insospettabili come Gaetano Nobile e Sergio Coraglia.
Nobile era un ingegnere palermitano, massone, titolare di una serie di società immobiliare e finanziarie a Milano, Palermo e Firenze, alcune delle quali vennero individuate come lo “schermo” dietro cui Carollo manteneva la titolarità di un’area agricola a Ronchetto sul Naviglio.
Sergio Coraglia, invece, era il titolare della Monti Immobiliare, società che all’epoca aveva costruito palazzi in tutto l’hinterland milanese e che aveva affittato la villa di Liscate al padre di Carollo, Gaetano, fino al suo omicidio. Nella sede della Monti Immobiliare, in via Vincenzo Monti 55, si svolsero diversi incontri tra Carollo e Coraglia, intercettati dai Carabinieri, che li convinsero come i due imprenditori fossero di fatto al servizio del figlio di Don Gaetano.
Il 2 dicembre 1989 ai due imprenditori si aggiunse una terza persona, Adriano Cremascoli, per un periodo venditore di case per conto di Coraglia, in quel momento factotum della Monti Immobiliare. In quell’incontro, i Carabinieri intercettarono in particolare Carollo riferirsi a Nobile come “un uomo mio“, confermando le ipotesi investigative degli inquirenti. Poco dopo sempre Carollo spiegò a Cremascoli l’origine di 750 milioni di lire che erano entrati nel giro degli amici-imprenditori: erano seppelliti sotto due metri di terra da quattro anni, tenuti nascosti in attesa di un buon business su cui investire, che in questo caso era rappresentato dall’area agricola di Ronchetto sul Naviglio. Sempre conversando con Cremascoli, Carollo affermò: “Sono stato io ad aver voluto la Edilmoro“[8], cioè una delle società intestate all’imprenditore-prestanome, e sul terreno di Ronchetto sul Naviglio confidò al suo interlocutore di essere stato lui ad averlo venduto a Coraglia e che a breve vi sarebbe stata “la firma”, ma senza entrare nel dettaglio. Vi entra in una telefonata con Zacco intercettata a dicembre 1989: “Sto facendo una convenzione che è alla firma di Schemmari, sono andato a firmare la convenzione, ora ho chiesto protezione politica e l’ho trovata. Io là ho un contatto con Pillitteri, il sindaco di Milano, ci chiamiamo giornalmente per […] fissare […] accelerando questa pratica qua […] difatti è alla firma di Schemmari, e dovrebbe firmare oggi o domani, dovrebbe firmare. Ma nel giro di quattro o cinque anni verrebbero edificabili altri 5mila metri cubi, chiaramente con un prezzo politico, poi andremo a suddividere tra noi“.
I due nomi fatti da Carollo erano due pezzi da novanta della Milano dell’epoca: Paolo Pillitteri era il sindaco socialista della città, cognato di Bettino Craxi, mentre Attilio Schemmari era l’assessore all’Urbanistica, socialista della corrente dell’ex-sindaco Aldo Aniasi e indicato all’epoca come successore di Pillitteri alla carica di Sindaco.
Dalle intercettazioni emerse che gli interlocutori a cui Nobile si era rivolto per ottenere la firma da mezzo miliardi di lire di Schemmari erano Salvatore Spinello, gran maestro della Gran loggia di piazza del Gesù, detto “il professore”, in affari con il costruttore catanese Carmelo Costanzo (uno dei c.d. cavalieri dell’Apocalisse Mafiosa di cui parlò Pippo Fava), e compagno di Anita Garibaldi, pronipote dell’eroe dei due mondi e componente della direzione nazionale del PSI. Nonostante le pressioni, la firma tardava ad arrivare. Il 25 gennaio 1990 Nobile chiamò la Garibaldi a Roma, la quale precisò subito di non essersi dimenticata di lui, ma che la persona con cui lei aveva parlato non seguiva personalmente la cosa ed essendoci la campagna per le amministrative era preso da quella. L’identità del pezzo da novanta con cui la Garibaldi riuscì a parlare per appena 2 minuti e da cui dipendeva lo sblocco della faccenda venne identificato dalle indagini come Pillitteri.
Gli arresti Il 5 febbraio 1990 Antonino Zacco venne arrestato dai Carabinieri, dopo 17 anni di latitanza, in una casa di proprietà della Monti Immobiliare di Coraglia, in zona Sempione. La notizia creò scompiglio nella baracca della Novedil, con Carollo che sospettò una soffiata, ma non da persone interne al gruppo, e si lasciò andare a uno sfogo che avrebbe provocato un gran terremoto politico, una volta resi noti i verbali delle intercettazioni: “No, lascia stare che Schemmari è l’assessore e non fa un cazzo, perché schemmari lo conosco. Se non passa alla commissione Grandi opere il progetto, Schemmari non può fare nulla. Schemmari da me ha già preso 200 milioni, Schemmari da me, per il progetto di Ronchetto sulle rane. Schemmari ha preso 200 milioni di lire da me, è un progetto fermo da due anni. Schemmari da me, personalmente da me, c’ero andato con 200 milioni, io resto ancora fermo da due anni. Adesso, perché ho avuto l’incontro con Pillitteri e con Schemmari, forse andiamo alla firma dell’intera convenzione in questi giorni. Cosa vuole, io le strade le ho. Poi però arriva il pirletto di questo qua e ci blocca. E poi, meno male, ci hanno fatto richieste del cazzo, ci hanno chiesto 20 milioni. Meno male che hanno chiesto solamente 20 milioni. Per dire che non è un discorso politico, è un discorso che loro dicono: qui mangiano tutti. Dice: con 1,2 milioni di lire al mese noi andiamo avanti? Hanno parlato chiarissimo“].
Il 1° marzo arrivò la firma attesa e il 20 dello stesso mese il piano di lottizzazione per il Ronchetto passò anche in Consiglio Comunale, nel corso dell’ultima seduta prima dello scioglimento per le elezioni di maggio. Nella notte tra il 15 e il 16 maggio scattò l’operazione, coordinata con Palermo, che portò all’arresto di tutte le persone coinvolte nell’inchiesta.
Il Processo Il 31 maggio 1991 si aprì il processo, che si concluse dopo 144 udienze il 9 aprile 1992. Durante il processo Ilda Boccassini venne estromessa dal pool antimafia milanese dall’allora procuratore capo Francesco Saverio Borrelli, per incomprensioni con altri colleghi, in particolare Armando Spataro, con l’accusa di essere poco disponibile al lavoro di gruppo, individualista, soggettivista e passionale. Subito dopo, in un’udienza del processo, la Boccassini chiese, ma non ottenne, l’esonero dalla pubblica accusa per il venir meno dei requisiti di “onorabilità”, vista la sua estromissione dal pool.
La sentenza di primo grado Il 25 maggio 1992, due giorni dopo la Strage di Capaci, venne emessa la sentenza di primo grado, che condannò tutti e 20 gli imputati[
Nello specifico,
- Antonino Carollo venne condannato a 27 anni di carcere e 300 milioni di multa;
- Antonino Zacco a 25 anni e 250 milioni di multa;
- Gaetano Nobile a 21 anni e 150 milioni di multa;
- Luigi Bonanno a 21 anni e 150 milioni di multa;
- Remo Meli a 20 anni e 140 milioni di multa;
- Vincenzo Schiattarella a 19 anni e 130 milioni di multa;
- Antonio Panaia a 19 anni e 130 milioni di multa;
- Domenico Coraglia a 15 anni e 120 milioni di multa;
- Gaspare Girgenti a 14 anni e 90 milioni di multa;
- Davide Lazzari a 11 anni e 60 milioni di multa;
- Gaetano La Rosa a 9 anni e 40 milioni di multa;
- Domenico Palazzolo a 6 anni e 6 mesi e 30 milioni di multa, quale aumento rispetto alla pena inflitta con la sentenza del 12 dicembre 1989, così determinando la pena complessiva in 14 anni di reclusione e 39 milioni di multa;
- Giovanni Francesco Malu a 3 anni e sei mesi e 2 milioni di multa;
- Vito Totaro a 3 anni e 2 mesi;
- Giuseppe Maggi a 3 anni;
- Pietro Pradella a 3 anni;
- Adriano Cremascoli a 2 anni e 4 mesi;
- Renzo Tresoldi a 2 anni e 4 mesi;
- Attilio Schemmari a 1 anno e 8 mesi.
Il commento a caldo di Ilda Boccassini, tra le lacrime per la morte dell’amico e ispiratore dell’indagine Giovanni Falcone fu: “è la dimostrazione che non sono invincibili, che se si lavora con cura, con attenzione, con pazienza si possono raggiungere questi risultati“.
Appello Nel processo d’appello il quadro venne fondamentalmente confermato con la sentenza dell’31 gennaio 1994 con alcuni sconti di pena: Carollo passò da 27 a 24 anni, Zacco da 25 a 22, Bonanno da 21 a 18, Coraglia da 15 a 11, mentre Nobile, che decise di collaborare con gli inquirenti, passò da 21 a 12 anni. Per i funzionari all’Urbanistica le pene vennero ridotte da 3 a 2 anni, mentre la condanna di Schemmari venne confermata.
In particolare, Nobile affermò che Carollo fu costretto dai Madonia a mandare avanti un affare di droga avviato dal padre nell’ambito dell’operazione Big John, una delle più grandi importazioni di cocaina (600 kg) mai organizzate in Italia[].
Cassazione Il 14 novembre 1995 la Corte di Cassazione annullò la sentenza, ordinando un nuovo processo d’appello, ritenendo illegale l’uso delle intercettazioni ambientali utilizzate durante le indagini e sollevando eccezioni sulle deposizioni del pentito Saverio Morabito.
Il presidente della Corte d’Appello Vincenzo Salafia accusò i giudici della Cassazione di avere azzerato il processo travisando platealmente i fatti e il CSM avviò un’indagine sui giudici della Cassazione. Questi fatti portarono i legali degli imputati a chiedere (senza ottenerlo) il trasferimento del processo a Brescia.
Secondo processo d’Appello L’11 novembre 1996 la sentenza del secondo processo d’appello confermò le condanne del primo, con lievi sconti: 24 anni a Carollo, 22 a Bonanno, 21 a Zacco, 15 a Meli, Schiattarella e Panai, 10 anni a Girgenti, 9 a Nobile, mentre Coraglia viene condannato solamente per corruzione a 2 anni e 4 mesi. Confermata la condanna a Schemmari[].
L’ultimo verdetto della Cassazione L’iter giudiziario della Duomo Connection si concluse definitivamente con la sentenza della Cassazione del 23 dicembre 1997: confermate le condanne a Carollo e Nobile, prescrizione per Schemmari, Totaro e Maggi e assoluzione per Coraglia.
PER LA DUOMO CONNECTION 20 ACCUSATI, 20 CONDANNE Era il 16 maggio 1990: “Concludendo un’ inchiesta coordinata dai giudici Giovanni Falcone e Ilda Boccassini, i carabinieri del nucleo operativo hanno arrestato Antonino Carollo, Antonino Zacco…”. Da quell’ annuncio sono passati due anni. Il primo di quei giudici è morto, straziato dall’ esplosivo di Cosa nostra; la seconda è stata esclusa dal pool antimafia, processata e poi assolta dal Csm. I carabinieri che hanno condotto quell’ indagine sono stati trasferiti. Ma alle 11,35 di ieri mattina la sentenza del tribunale di Milano ha dato ragione agli uomini che hanno condotto l’ inchiesta Duomo connection, portando per la prima volta a Milano sullo stesso banco degli imputati gli uomini del grande Triangolo, quello che per la Procura unisce i ras del narcotraffico ai loro terminali nell’ economia pulita, irreprensibile, e che da qui arriva ai piani più alti del potere politico, che compra e corrompe. Tutti colpevoli, tutti condannati. Antonino Carollo detto Toni, 33 anni, paga con ventisette anni di carcere l’ accusa di essere il capo dell’ organizzazione, lui, geometra dalla faccia pulita e le mani callose, figlio di un boss ammazzato in clandestinità alle porte di Milano. Condanne severe anche per i manager trascinati a processo: 21 anni per l’ ingegner Gaetano Nobile, presidente della Roller Caravan di Firenze, l’ uomo che aveva trovato un filo diretto con la direzione nazionale del Psi. Quindici anni per Sergio Coraglia, il re della Montimmobiliare, imprenditore e costruttore, anche lui con solidissime relazioni nel firmamento politico milanese. Entrambi, per i giudici, sono colpevoli non solo dell’ associazione a delinquere ma anche di spaccio, anche se dalle loro mani non è passata nemmeno una “bustina”. Cadono sotto la mannaia dei magistrati i destini dei colonnelli e dei gregari, quando il giudice Renato Caccamo legge l’ elenco degli anni e dei decenni di galera. Venti imputati, venti condanne. Le ultime sono per gli uomini del Comune di Milano: colpevoli i funzionari che aprirono la strada ai progetti edilizi del clan. Colpevole Attilio Schemmari, uno dei personaggi più in vista del socialismo milanese, che da assessore all’ Urbanistica firmò la delibera per la lottizzazione di via Martinelli, nella zona del Ronchetto. Dietro quella lottizzazione per i giudici c’ è la mano di Carollo e ci sono i soldi del narcotraffico. Schemmari paga anche lui: un anno e otto mesi per abuso d’ ufficio, con la sospensione condizionale e non menzione. E resta sotto inchiesta per i 200 milioni di tangente che Carollo si vantava, in una conversazione intercettata, di avergli versato. Sono condanne che si fermano appena al di sotto di quanto i pm Boccassini e Fabio Napoleone avevano chiesto. Un anno di udienze, iniziate il 31 maggio 1990, per i magistrati dell’ accusa aveva confermato per intero la verità offerta alla Procura dal lavoro dei carabinieri della Quinta sezione: a Milano, alla fine degli Ottanta, ha agito – secondo questa verità – un’ organizzazione legata direttamente a Cosa nostra. Legami storici e di parentela, che per Toni Carollo passano non solo attraverso suo padre Gaetano ma anche suo zio Giuseppe Ciulla, morto latitante in Cile, e suo suocero Nenè Geraci, indicato dai pentiti come il capomandamento di Partinico e che, terreo, ha presenziato a due delle ultime udienze: “Geraci è nella commissione, nella Cupola, e quando è venuto qui sapeva già che Falcone doveva morire”, ha detto Ilda Boccassini dopo la sentenza. Legami che passano per personaggi come Antonino Zacco e Luigi Bonanno, palermitani, navigatori non sempre incolumi di tanti processi. Ma anche legami più concreti e operativi con gli uomini del riciclaggio internazionale, e con i manager in grado di trasformare i miliardi di narcolire in quote azionarie e affari inappuntabili. Sulla sua strada il processo alla Duomo connection ha stritolato una giunta comunale e molti destini politici. Paolo Pillitteri, l’ ex sindaco, è stato indagato e prosciolto in istruttoria: lo ha salvato la sua assenza dalla riunione di giunta che ratificò la delibera del Ronchetto. Fabio Treves, consigliere comunale verde, indicato da Pillitteri e Schemmari come la “talpa” del clan, non è stato inquisito: ma lo sarà forse adesso, dopo che il tribunale ha restituito il suo verbale di interrogatorio alla Procura perchè proceda contro di lui per falsa testimonianza. Stesso destino per Anita Garibaldi, dirigente psi (passata dopo la bufera nel Psdi), per il suo compagno Salvatore Spinello e per suo figlio Francis Hibbert, tutti sospettati di avere coperto colpe illustri. Solo le motivazioni della sentenza spiegheranno quale sia stata la prova che ha reso vane la battaglia del folto collegio di difesa: se le intercettazioni che hanno raccontato agli affari del clan e il volto meno presentabile del potere politico milanese; o se l’ interrogatorio di Francesco Marino Mannoia, il pentito che marchiò Carollo come uomo d’ onore, raccontando di avere raffinato centinaia di chili eroina insieme a lui. Ma la battaglia non è terminata, la macchina delle difese sta già preparando la bordata dei ricorsi. LA REPUBBLICA 26.5.1992
La lunga storia della Duomo Connection Per inquadrare dall’origine il legame di Cosa Nostra con Milano servono quattro tappe. Il primo anno da guardare è il 1958. Nel mondo oscuro del crimine milanese emergono due storie, una eclatante, l’altra taciuta. A fine febbraio le «tute blu», come chiamarono la banda dei rapinatori composta, tra gli altri, da Ugo Ciappina, Arnaldo Gesmundo e Luciano De Maria, realizzano la prima rapina all’americana della storia d’Italia, speronando un furgone bancario in movimento e razziando una cifra iperbolica. E, poco dopo, a poche centinaia di metri dal Duomo, in via Albricci, si sistema Giuseppe Doto, detto Joe Adonis, cacciato dagli Stati Uniti in quanto indesiderabile, uomo di Cosa Nostra. Vive in quell’appartamento con una ragazzina, che finirà a fare la valletta nelle bische clandestine, e si occupa di supermercati e «macchinette da bar», flipper e biliardini. Dodici anni dopo, Adonis è in ottima compagnia. Un posto di blocco al quartiere Corvetto ferma una macchina, dentro ci sono cinque uomini: Tanino Fidanzati, uno dei capimafia storici palermitani a Milano, Tommaso Buscetta, il boss dei due mondi, futuro pentito del maxi processo, il capomafia Salvatore Greco, il catanese Giuseppe Calderone, fratello di un altro futuro pentito, poi Gaetano Badalamenti, uomo che s’è portato nella tomba molti segreti mafiosi, e Gerlando Alberti, che viveva dietro piazzale Loreto e gestiva sia le cooperative dei lavoratori, sia il traffico internazionale dell’eroina. Accanto a loro, a Milano, ci sono i fratelli Bono, considerati i numeri uno, e «Robertino» Enea. Ad Arcore, alla villa del nuovo ricco Silvio Berlusconi, a occuparsi dei cavalli, ma anche della security (allora non si diceva così) c’è Vittorio Mangano, assunto grazie a Marcello Dell’Utri, segretario di Berlusconi. Milano sta per diventare la capitale dell’Anonima Sequestri. Un pentito calabrese, Saverio Morabito, dirà con ammirazione: «Quando i siciliani cominciarono i sequestri di persona, per noi fu come quando gli americani sbarcarono sulla luna, ci volevano andare tutti, ma loro erano stati i primi». Nel 1974 all’ultimo piano di un appartamento in via Ripamonti bussa la guardia di finanza. Ha un ordine di perquisizione firmato dal giudice istruttore Giuliano Turone, cercano un presunto ingegnere, non sanno esattamente chi sia. Lo trovano che dorme. E’ Luciano Leggio, detto Liggio, il capo della mafia corleonese che ha conquistato Palermo, il boss carismatico e gran divoratore di libri i cui luogotenenti erano Totò Riina e Bernardo Provenzano. Non c’è mai stato un arresto di mammasantissima lontano dalla Sicilia, tranne questo. E avviene a Milano, nella Milano anni ’70, dove Cosa Nostra investe.
Ultima tappa di questo viaggio, la Duomo Connection. L’allora sostituto procuratore Ilda Boccassini, avvalendosi della squadra dei carabinieri del capitano “Ultimo”, che arresterà nel 1993 Totò Riina, inquadra un cantiere gestito da mafiosi palermitani. Costoro, per costruire con i loro soci lombardi e toscani alcune palazzine, hanno pagato la tangente ai socialisti. Era la fine degli anni Ottanta, quelli della “Milano da bere”, e il potere politico aveva le sue regole sulle mazzette: tanto che persino gente che sparava, sequestrava, trafficava droga, moriva ammazzata, aveva dovuto pagare. 19 giugno 2017 di Piero Colaprico La Repubblica
a cura di Claudio Ramaccini Direttore Centro Studi Sociali contro la mafia – Progetto San Francesco