PIETRO RIGGIO: “EX POLIZIOTTO A CAPACI”
- Audio deposizione al processo trattativa Stato-mafia
- IL SUO RUOLO E QUEL PIZZINO DI PROVENZANO
- Mafia, l’ultima verità sulla strage di Capaci: “Un ex poliziotto mise l’esplosivo sotto l’autostrada”
- Estorsioni a tappeto. Scatta la retata é ci rimane impigliato PietroRiggio
STRAGE DI CAPACI, C’È UNA NUOVA TESTIMONE: “IL MIO EX ERA A CAPACI PER CONTO DEL SISDE. NEL FINE SETTIMANA DELLA STRAGE SPARÌ DA CASA”Come racconta Repubblica a parlare coi pm di Caltanissetta la fidanzata di Giovanni Peluso, l’ex poliziotto ed ex 007 indagato per la strage del 23 maggio del 1992,. Ad accusarlo è stato il pentito Pietro Riggio.
Tra i misteri della strage di Capaci spunta un nuovo superteste. Si tratta di una donna che ha raccontato cosa ha sentito dal suo ex fidanzato. “Nel 1997, passando dall’autostrada, mi fece vedere il punto esatto dell’esplosione mi spiegò che si era trovato lì perché aveva fatto dei rilievi per conto del Sisde, dopo la strage“, ha messo a verbale la donna, che è la fidanzata di Giovanni Peluso, l’ex poliziotto ed ex 007 indagato per la strage di Giovanni Falcone, della moglie Francesca Morvillo e di tre uomini della scorta. “Quel fine settimana me lo ricordo, sparì il venerdì e tornò il lunedì pomeriggio a casa”, ha spiegato la donna, come riporta l’edizione locale di Repubblica. Il 23 maggio del 1992, giorno della strage di Capaci, era infatti un sabato.
Da più di un anno e mezzo la procura di Caltanissetta indaga su Peluso con l’accusa di aver ricoperto il ruolo di “compartecipe ed esecutore materiale della strage di Capaci”.Un passato in servizio a Napoli e Roma, è finito sotto inchiesta dopo le dichiarazioni del pentito Pietro Riggio. “Un ex poliziotto mi ha confidato di aver partecipato alla fase esecutiva della strage Falcone – raccontò il collaboratore di giustizia – si sarebbe occupato del riempimento del canale di scolo dell’autostrada con l’esplosivo, operazione eseguita tramite l’utilizzo di skateboard”. Frasi smentite durante un confronto col pentito dallo stesso Peluso. Riggio collabora dal 2009, ma ha fatto il nome di Peluso solo molti anni dopo. “Fino ad oggi – ha spiegato – avevo avuto paura di mettere a verbale certi argomenti, temevo ritorsioni per me e per la mia famiglia. Ma, adesso, credo che sia venuto il momento di parlare”.
Adesso ad accusare Peluso arrivano le parole della sua ex compagna, messe a verbaledavanti al procuratore aggiunto Gabriele Paci, e ai sostituti Pasquale Pacifico e Matteo Campagnaro. La donna parla anche di uno strano incontro avvenuto sull’autostrada Palermo- Catania, allo svincolo di Resuttano. “Mi fece accostare sul sedile posteriore entrò un amico di Giovanni, che aveva lavorato nella polizia. Aveva un cicatrice sulla guancia, l’ho riconosciuto di recente in foto, anche se è di molto invecchiato rispetto ad allora”. Quella foto restituiva l’immagine di Giovanni Aiello, un altro ex poliziotto accusato di essere “faccia da mostro”,cioè il killer col tesserino dei servizi in tasca al servizio di Cosa nostra negli anni delle stragi. “Il mio ex lo chiamava Filippo, mi diceva che era soggetto legato ad ambienti mafiosi, in un’occasione mi disse che era protetto dalla famiglia mafiosa di Provenzano, mentre le altre famiglie lo volevano ammazzare, ma non mi ha mai spiegato il motivo”. Aiello è morto nel 2013 su una spiaggia della Calabria: su di lui indagavano diverse procure. IL FATTO QUOTIDIANO 22 ottobre 2020
STRAGI, UNA SUPERTESTIMONE PARLA CON I PM. “SO CHE IL MIO EX ERA A CAPACI“ E’ stata la compagna dell’ex poliziotto Giovanni Peluso, indagato dopo le dichiarazioni del pentito Pietro Riggio. “Diceva di essere un agente dei servizi segreti e incontrava Faccia da mostro”
C’è una super testimone nelle ultime indagini sulle bombe del 1992. È stata la compagna dell’ex poliziotto Giovanni Peluso, attualmente indagato per la strage Falcone dopo essere stato chiamato in causa dal pentito Pietro Riggio. La donna ha raccontato ai pubblici ministeri di Caltanissetta che il compagno diceva di lavorare per i servizi segreti, ogni tanto partiva, nei giorni dell’attentato di Capaci andò via da Roma per un viaggio in Sicilia: «Nel 1997, passando dall’autostrada, mi fece vedere il punto esatto dell’esplosione – ha messo a verbale la testimone – mi spiegò che si era trovato lì perché aveva fatto dei rilievi per conto del Sisde, dopo la strage». Poi, ha aggiunto: «Quel fine settimana me lo ricordo, sparì il venerdì e tornò il lunedì pomeriggio a casa». Nel racconto della donna, che è stata ascoltata dal procuratore aggiunto Gabriele Paci, dai sostituti Pasquale Pacifico e Matteo Campagnaro, ci sono tutti i misteri di Giovanni Peluso che assieme a Riggio, ex agente della polizia penitenziaria ed ex mafioso, avrebbe fatto parte di una struttura non ben identificata dei Servizi per la ricerca dei latitanti. È stato Riggio, che collabora dal 2009, a chiamare in causa Peluso: «Fino ad oggi avevo avuto paura di mettere a verbale certi argomenti, temevo ritorsioni per me e per la mia famiglia – ha spiegato – Ma, adesso, credo che sia venuto il momento di parlare». E ha raccontato una confidenza che gli avrebbe fatto Peluso: «Mi fece capire di aver partecipato alla fase esecutiva delle strage Falcone, si sarebbe occupato del riempimento del canale di scolo dell’autostrada con l’esplosivo». I pm hanno disposto un confronto fra i due, l’ex poliziotto respinge le accuse. Ma, ora, è l’ex compagna a gettare su di lui più di un’ombra. La testimone ha parlato pure di un misterioso incontro sulla Palermo-Catania, allo svincolo di Resuttano: «Mi fece accostare – ha raccontato – sul sedile posteriore entrò un amico di Giovanni, che aveva lavorato nella polizia. Aveva un cicatrice sulla guancia, l’ho riconosciuto di recente in foto, anche se è di molto invecchiato rispetto ad allora». È la foto di Giovanni Aiello, l’uomo accusato di essere “faccia da mostro”, il killer di Stato al servizio della mafia, è morto nel 2017. «Il mio ex lo chiamava Filippo, mi diceva che era soggetto legato ad ambienti mafiosi, in un’occasione mi disse che era protetto dalla famiglia mafiosa di Provenzano, mentre le altre famiglie lo volevano ammazzare, ma non mi ha mai spiegato il motivo». Sono tutte dichiarazioni che i magistrati stanno passando al setaccio in cerca di riscontri, al lavoro c’è la squadra mobile nissena diretta da Marzia Giustolisi, che in questi ultimi mesi ha già depositato al palazzo di giustizia alcune corpose informative. «Le indagini sulle stragi del 1992 vanno avanti», ha detto ieri il procuratore generale di Caltanissetta Lia Sava dopo la sentenza della Corte d’assise che ha condannato all’ergastolo il superlatitante Matteo Messina Denaro per le stragi Falcone e Borsellino. «Quello che ha ottenuto la Dda nissena è un risultato straordinario. Grazie a un metodo investigativo che ha messo insieme 22 anni di indagini: siamo andati a rispolverare i nostri archivi, abbiamo ripreso i verbali dei collaboratori di giustizia, analizzato nuovamente i reperti ritrovati dove sono avvenute le stragi e ascoltato vecchie intercettazioni. Le indagini sulle bombe del 1992, per far luce su altri buchi neri, non si fermano – ha ribadito Lia Sava – e proseguono sotto l’importante coordinamento della direzione nazionale antimafia». Di Riggio si stanno occupando i magistrati del pool costituto dal procuratore Cafiero De Raho e la procura generale di Palermo, che segue l’inchiesta sul delitto Agostino e il processo d’appello per la “Trattativa Stato-mafia”. Salvo Palazzolo La Repubblica 22.10.2020
RIGGIO: «HO FATTO IO IL NOME DELLA “TALPA”». «Sono stato io a fare arrestare la talpa al Palazzo di giustizia di Caltanissetta che c’era nell’ufficio del giudice Sferlazza: ci dava notizie sulle indagini e i nominativi degli indagati che potevano servire per arrivare alla cattura dell’allora latitante Bernardo Provenzano»: è la nuova ammissione che ha fatto il pentito Pietro Riggio deponendo a Palermo nel processo sulla presunta trattativa Stato-mafia, dove l’ex agente della Polizia Penitenziaria ha raccontato numerosi fatti inediti della sua attività di infiltrato, con il nome in codice di “Ugo”, in Cosa Nostra, per oltre 8 anni, dei rapporti con i servizi segreti deviati.
La “talpa” del Tribunale, poi individuata nel 2004 e finita in carcere, era Massimo Chiarelli, condannato con sentenza passata in giudicato, che passava a Cosa Nostra notizie non solo sulle indagini in corso.
Riggio ha dichiarato di essere a conoscenza e testimone di numerosi episodi avvenuti dentro le carceri. Uno di questi è che Totò Riina aveva avuto un telefonino in cella per comunicare con l’esterno e che Antonino Gioè, uno degli artefici della strage Falcone, trovato morto in cella nel carcere di Rebibbia, non si suicidò ma venne ucciso in uno dei tanti “delitti di Stato” avvenuti in Italia.
Pietro Riggio ha detto di essere deciso a raccontare tutto quello che sa sulle malefatte di soggetti dello Stato che avrebbero continuato trattare con esponenti della mafia anche se teme per la sua vita: «Ma sono deciso ad andare fino in fondo, anche se so che rischio. Ho portato un mare di carte ai magistrati a riscontro delle mie dichiarazioni, lettere, foto e altro. Sto scontando tutta la mia condanna in carcere perché mi era stato detto che l’avrei pagata per non aver accolto l’appello a non parlare di certi rapporti tra mafia e pezzi dello Stato», ha detto alla Corte, raccontando come venne aiutato nella sentenza dopo il primo arresto nell’inchiesta “Grande Oriente” del 1998, quando in appello la sua condanna per mafia venne derubricata in favoreggiamento senza l’aggravante mafiosa.
Riggio ha sostenuto che gli era stato assicurato che sarebbe tornato in servizio nella Polizia penitenziaria, dopo la destituzione del 2010, e che sarebbe stato incaricato di fare “lavori sporchi”, cosa che poi non avvenne.
Pietro Riggio ha sospettato che qualcuno voleva sfruttarlo, venendo a conoscenza di tutto quello che sapeva sui rapporti con i servizi segreti deviati e dei contatti tra esponenti dello Stato e Cosa Nostra, “consigliandogli” poi di non parlare, anche con minacce, come sarebbe avvenuto più volte quando venne invitato a non accusare Antonello Montante che era finito sotto inchiesta per mafia nel 2016. Ma ci sono tanti particolari che riguardano le vicende della mafia nissena nelle dichiarazioni di Riggio rese nel processo “Stato-mafia”: intanto i contatti che prese con Carmelo Barbieri, Giancarlo Giugno, Domenico Vaccaro e Angelo Schillaci per arrivare alla cattura di Provenzano che «i Carabinieri non volevano prendere», l’accusa dell’ex gente penitenziario.
Poi ci sono una serie di incontri con Giovanni Peluso e Giovanni Aiello (conosciuto come “faccia da mostro” e deceduto alcuni anni fa), i due poliziotti che Riggio indica come appartenenti ai servizi segreti deviati che coinvolge in diverse vicende delittuose.
Pietro Riggio ha pure ricordato che il suo di “infiltrato” per conto dei Carabinieri in Cosa Nostra, gli fece sapere, con qualche giorno di anticipo, che sarebbe stato arrestato insieme a Dario Di Francesco, Angelo Schillaci, Marcello Sultano in una operazione antimafia della Dda di Caltanissetta, cosa che in effetti avvenne.
Nella valanga di dichiarazioni di Riggio, c’è anche il progetto omicidiario del giudice Leonardo Guarnotta, risalente al 2000, nel quale avrebbe voluto coinvolgerlo il poliziotto Giovanni Peluso. Per Guarnotta era stato progettato un attentato lungo l’autostrada Palermo-Catania: doveva essere colpita la sua auto, facendola finire fuori strada, in un tratto molto pericoloso della A19, in territorio di Resuttano, sparando dal fondo agricolo della proprietà del padre di Riggio. Il movente dell’agguato, secondo Riggio era di colpire uno dei magistrati che aveva indagato sui rapporti con la mafia del senatore Marcello Dell’Utri.
Infine, da Riggio arriva la conferma che dietro l’omicidio del confidente Luigi llardo, cugino del boss Giuseppe Madonia, ucciso a Catania nel maggio 1996, ci fu la mano di pezzi dello Stato che misero in giro la voce che llardo si accingeva a collaborare con la giustizia e sapeva tante cose sui presunti mandati esterni delle stragi del 1992 e 1993. «La conferma me la diede il cugino di llardo, Angelo, che abitava a Caltanissetta, nel 2001. Mi disse che Gino llardo sapeva tante cose sulle stragi e sui rapporti della mafia con la nuova classe dirigente politica che aveva vinto le elezioni. Che Luigi llardo fosse un confidente l’ho appreso dalle carte del mio arresto nel 1998, quando comparvero anche i primi pizzini di Bernardo Provenzano». da “La Sicilia-Caltanissetta” del 22 ottobre 2020
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CAPACI, L’EX-007 ACCUSATO DAL PENTITO: NON C’ERO, ERO A UN CORSO ALL’ISTITUTO SUPERIORE DI POLIZIA «Sono indagato e non parlo ma voglio solo dire una cosa: io non c’entro niente con la strage di Capaci. Quel giorno mi trovavo a fare un corso di soprintendente all’Istituto superiore di Polizia». Sono queste le uniche parole pronunciate da Giovanni Peluso, l’ex-poliziotto ed ex-007 indagato per la strage di Capaci, nel processo d’appello che si celebra all’aula bunker del carcere di Caltanissetta. Dopo la breve dichiarazione spontanea, Peluso ha risposto a un legale che gli chiedeva se ha denunciato per calunnia il pentito Pietro Riggio, che lo accusa della strage di Capaci. Ma Peluso ha risposto di no. E, subito dopo, si è avvalso della facoltà di non rispondere. Così come aveva annunciato al suo arrivo in aula. L’ex-poliziotto ed ex 007 indagato per la strage di Capaci, si è presentato questa mattina all’aula bunker del carcere Malaspina di Caltanissetta nel processo cosiddetto Capaci-bis, ma si è avvalso della facoltà di non rispondere. La Corte d’assise d’appello di Caltanissetta aveva disposto l’accompagnamento coattivo di Peluso poiché nella scorsa udienza non si era presentato in aula. E non aveva inviato alcuna giustificazione per l’impedimento. Oggi, invece, l’ex-007 si è presentato in aula accompagnato dal suo legale. Ma ha deciso di avvalersi della facoltà di non rispondere. Tuttavia, di fronte alle eccezioni sollevate dalla difesa, la Corte, presieduta da Andreina Occhipinti, ha deciso di riunirsi in Camera di consiglio. Cinque gli imputati del processo d’appello: Salvo Madonia, Lorenzo Tinnirello, Cosimo Lo Nigro, Giorgio Pizzo e Vittorio Tutino. Quanto a Giovanni Peluso, l’ex-sovrintendente di polizia con un passato in servizio a Napoli e Roma, è stato indagato per la strage di Capaci e per associazione mafiosa in seguito alle dichiarazioni del pentito Pietro Riggio.
Secondo l’accusa della Procura di Caltanissetta il campano Peluso avrebbe ricoperto il ruolo di «compartecipe ed esecutore materiale della strage di Capaci». Peluso doveva essere sentito proprio in merito alle dichiarazioni fatte dal pentito Pietro Riggio. Il collaboratore ha raccontato ai pm che il poliziotto gli rivelò di aver preso parte alla strage di Capaci. «Un ex-poliziotto (Giovanni Peluso, ndr) mi ha confidato di aver partecipato alla fase esecutiva della strage Falcone», raccontò Riggio. E aggiunse: «si sarebbe occupato del riempimento del canale di scolo dell’autostrada con l’esplosivo. Operazione eseguita tramite l’utilizzo di skateboard». Ma Peluso nega: «quel giorno mi trovavo a fare un corso di soprintendente all’Istituto superiore di Polizia». 25 Febbraio 2010 di Roberto Frulli Secolo d’Italia
PROCESSO CAPACI BIS: LA TESTIMONIANZA DEL PENTITO RIGGIO SULLE OMBRE DELL”’ATTENTATUNI” di Karim El Sadi Per la prima volta in aula l’ex poliziotto riporta le parole di Giovanni Peluso: dalla volontà dei boss di uccidere Guarnotta fino alla 007 libica coinvolta nella strage “Perché non ho parlato finora? Non conoscevo il sistema, se lo avessi fatto sarei stato un uomo morto” E’ passato oltre un anno da quando il pentito Pietro Riggio ha parlato per la prima volta ai pm nisseni delle vicende misteriose che ruotano attorno alla strage di Capaci. Dichiarazioni le sue che pare stiano dando corpo a quelli che al momento i magistrati possono solo definire “sospetti” o “ipotesi”. Ieri il 54enne ex agente della polizia penitenziaria e mafioso del clan di Caltanissetta è stato sentito per la prima volta come testimone “de relato” al processo Capaci bis, nel quale sono imputati i boss Salvo Madonia, Lorenzo Tinnirello, Cosimo Lo Nigro, Giorgio Pizzo e Vittorio Tutino. Davanti alla Corte d’Assise d’Appello di Caltanissetta Riggio, collegato in video conferenza, ha avuto modo di riportare una per una tutte le delicate informazioni a lui snocciolate dall’ex collega poliziotto Giovanni Peluso, ora pure lui indagato per la strage anche smentisce categoricamente ogni coinvolgimento, nel periodo in cui erano entrambi al carcere di Santa Maria Capua Vetere.
A partire dalla mano che azionò il fatidico telecomando collegato ai 500kg di tritolo nascosti nel viadotto sotto l’autostrada Capaci-Palermo. Quella mano secondo il collaboratore, sempre in riferimento alle parole dell’ex poliziotto Peluso, non era della mafia, ma di sogetti esterni ad essa.
“Tu sei sicuro che a premere il telecomando della strage fu Brusca?’ – gli avrebbe domandato Peluso durante una conversazione – e ho dedotto che non avesse premuto Brusca, io mi sentii raggelare perché era una verità che si sapeva cioè che fosse stato Brusca e la mafia. In quel momento, invece, capii che oltre a loro c’erano altre persone che si erano interessate di questa situazione. Capii che mi trovavo in pericolo e che stavo giocando con un gioco più grande di me“. Poi ha aggiunto: “Sono deduzioni che ho fatto io dopo quanto mi disse Peluso“. Su questa linea, quella della possibile collaborazione di soggetti esterni a Cosa nostra nella strage che tolse la vita al giudice Giovanni Falcone, alla moglie Francesca Morvillo e agli agenti di scorta, il collaboratore di giustizia ha riferito del coinvolgimento di una “donna, sui 35-40 anni, appartenente ai servizi segreti libici”. “Mi ricordo che Peluso si accompagnava con una donna – ha aggiunto – mi disse che era una persona vicina ai servizi segreti libici” e ha ricordato di avere saputo che la compagna di Peluso “apparteneva ai servizi libici” così come “la suocera che svolgeva servizio all’ambasciata libica“. “C’era un collegamento di veridicità in quello che mi diceva”, ha sostenuto in aula il pentito. Collegamento di veridicità che potrebbe invece essere fatto per quanto concerne la presenza di tracce genetiche di Dna appartenenti a una donna rinvenute su alcuni reperti recuperati dalla polizia scientifica (un sacchetto di carta, una torcia elettrica, un tubetto di mastice marca Arexons e dei guanti di lattice) nei pressi del luogo dove avvenne “l’Attentatuni”. Misteri che si aggiungono a misteri.
ll giudice (oggi in pensione) Leonardo Guarnotta Guarnotta nel mirino di Cosa nostra In aula il collaboratore di giustizia Riggio ha riferito anche quanto apprese da Peluso nel 2000 sulla volontà di Cosa nostra di eliminare il giudice Leonardo Guarnotta, ex membro del pool antimafia di Antonino Caponnetto e all’epoca presidente della corte che stava giudicando il fondatore di Forza Italia Marcello Dell’Utri per concorso esterno a Cosa nostra. “Peluso – ha detto Riggio rispondendo alle domande dell’avvocato Salvatore Petronio – voleva essere coadiuvato in un attentato nei confronti di un giudice palermitano, il dottore Guarnotta. Le ragioni non me le disse, se non l’esigenza di rifugiarsi dopo l’attentato. Aveva anche fatto uno schizzo sull’abitazione del giudice. Io quel giorno stesso riferii dell’attentato al colonnello della Dia“. Sul punto però rispetto al verbale reso ai pubblici ministeri, Riggio ha aggiustato un po’ il tiro, in quanto ai magistrati aveva detto: “Peluso mi disse che la ‘nostra organizzazione’ aveva bisogno di fare favori alla politica quando ve ne era la necessità. Segnatamente mi disse che era stato incarico a uccidere il giudice Guarnotta e che a tal fine aveva già eseguito un sopralluogo nei pressi di un ‘palazzo’, ritengo fosse quello dove abitava il magistrato“. L’omissione risiederebbe quindi sul passaggio dei favori alla politica.Paura dei “pescecani” La mole di informazioni in possesso di Pietro Riggio, anche se dovranno passare al vaglio della magistratura, è indubbiamente considerevole sia per quantità che per importanza.
Per questo motivo c’è una domanda che da settimane, ovvero da quando il suo nome è andato alla ribalta, alberga nella mente dell’opinione pubblica e non solo: perché parlare solo ora?
“Non ho parlato prima della strage di Capaci perché, purtroppo, ho avuto modo di conoscere il sistema dall’interno e se io ne avessi parlato prima oggi sarei un uomo morto…“, ha spiegato l’ex poliziotto. “Quando ho redatto i verbali, in uno dei verbali, nell’ottobre 2008, ho citato un fatto ben preciso in cui ho fatto il nome del colonnello Pellegrini da lì è emerso uno spaccato”. “Non fu frutto di fantasia, io ho fatto ritrovare anche la corrispondenza epistolare con i soggetti nominati“, ha detto il collaboratore aggiungendo: “Io non faccio il bagno con i pescecani, altrimenti mi mangiano. Mentre se non ci sono i pescecani faccio il bagno, io lo dico con dati di fatto“. E poi ha citato il pm di Firenze Gabriele Chelazzi, che nel frattempo è deceduto, “che mi disse: ‘Stai attento a parlare e se lo devi fare, fallo solo con la Procura di Firenze’. Ecco perché quando decisi di parlare scrissi alla Procura di Firenze“. Amduemila 30 Novembre 2019
STRAGE DI CAPACI, IL PENTITO RIGGIO: “NON ERA SOLO MAFIA. NEL 2000 COSA NOSTRA VOLEVA UCCIDERE IL GIUDICE GUARNOTTA” Il pentito ha deposto in videoconferenza davanti alla Corte d’assise d’appello di Caltanissetta, raccontando un progetto di morte dei boss per il giudice che stava processando Dell’Utri
Nel 2000 Cosa nostra “voleva uccidere il giudice Leonardo Guarnotta“. Cioè l’ex componente del pool antimafia di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino che all’epoca era presidente della corte che stava giudicando Marcello Dell’Utri per concorso esterno a Cosa nostra. A sostenerlo è il pentito Pietro Riggio, un uomo che ha vissuto una doppia vita: agente della polizia penitenziaria di giorno, e mafioso del clan di Caltanissetta di notte. Reggio è il collaboratore che ha fatto finire sotto inchiesta l’ex poliziotto Giovanni Peluso, accusato di aver avuto un ruolo nella strage di Capaci. E proprio durante all’ultimo processo per l’eccidio del giudice Falcone, della moglie Francesca Morvillo e degli uomini della scorta, che Reggio ha deposto collegato in videoconferenza la Corte d’assise d’appello di Caltanissetta. Gli imputati al Capaci bis sono Salvo Madonia, Lorenzo Tinnirello, Cosimo Lo Nigro, Giorgio Pizzo e Vittorio Tutino. Il processo di primo grado si era concluso con quattro ergastoli e un’assoluzione. Vittorio Tutino venne assolto per non avere commesso il fatto. Madonia è considerato uno dei mandanti dell’attentato mentre gli altri avrebbero preso parte alla fase esecutiva. A permettere ai magistrati nisseni di poter riaprire un nuovo filone d’indagine, furono le dichiarazioni del pentito Gaspare Spatuzza, insieme a quelle di Fabio Tranchina, che consentirono di fare emergere il ruolo della famiglia mafiosa di Brancaccio nella preparazione ed esecuzione dell’attentato.
Le dichiarazioni del collaboratore sono tutte da verificare, mentre l’ex poliziotto si è più volte dichiarato innocente. Gli investigatori predicano “prudenza“, anche perché spesso si tratta di racconti de relato, riferiti spesso a confidenze che Reggio avrebbe avuto dallo stesso Peluso. Rispondendo alle domande dell’avvocato Salvatore Petronio, Riggio racconta di un incontro con l’ex poliziotto Giovanni Peluso, indagato per la strage di Capaci, nel 2000. “Peluso – dice Riggio – voleva essere coadiuvato in un attentato nei confronti di un giudice palermitano, il dottore Guarnotta. Le ragioni non me le disse, se non l’esigenza di rifugiarsi dopo l’attentato. Aveva anche fatto uno schizzo sull’abitazione del giudice. Io quel giorno stesso riferii dell’attentato al colonnello della Dia”. Una dichiarazione leggermente diversa da quella messa a verbale davanti ai pm. Ai magisgtrati il pentito aveva detto: “Peluso mi disse che la nostra organizzazione aveva bisogno di fare favori alla politica quando ve ne era la necessità. Segnatamente mi disse che era stato incarico a uccidere il giudice Guarnotta e che a tal fine aveva già eseguito un sopralluogo nei pressi di un ‘palazzo’, ritengo fosse quello dove abitava il magistrato”. Parlando in aula, invece, non ha citato la parte sui ‘favori alla politica’. Guarnotta, oggi in pensione, in passato è stato un membro del pool antimafia coordinato dal giudice Antonino Caponnetto. Con Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e Giuseppe Di Lello, Guarnotta ha istruito il Maxiprocesso di Palermo e per ultimo ha ricoperto l’incarico di Presidente del Tribunale. Nel 2000 era presidente della corte che stava processando Dell’Utri per concorso esterno a Cosa nostra. L’ex senatore di Forza Italia sarebbe stato condannato a nove anni in primo grado e poi a sette anni in via definitiva: pena che finirà di scontare tra pochi giorni.
Riggio in aula ha raccontato anche altro. “Non ho parlato prima della strage di Capaci perché, purtroppo, ho avuto modo di conoscere il sistema dall’interno e se io ne avessi parlato prima oggi sarei un uomo morto…”, ha sostenuto, citando l’ex pm di Firenze Gabriele Chelazzi, che nel frattempo è deceduto. “Chelazzi mi disse: ‘Stai attento a parlare e se lo devi fare, fallo solo con la procura di Firenze. Ecco perché quando decisi di parlare scrissi alla Procura di Firenze”. Il pentito ha raccontato quanto ha saputo dall’ex poliziotto Peluso. “Capii che oltre a Cosa nostra c’erano anche altre persone che si erano interessate alla strage di Capaci”, ha raccontato, sostenendo di aver sentito dall’ex poliziotto Peluso: “Tu sei sicuro che a premere il telecomando della strage fu Brusca?’. Da lì ho dedotto che non avesse premuto Brusca, io mi sentii raggelare perché era una verità che si sapeva cioè che fosse stato Brusca e la mafia. In quel momento, invece, capii che oltre a loro c’erano altre persone che si erano interessate di questa situazione. Capii che mi trovavo in pericolo e che stavo giocando con un gioco più grande di me”. Poi ha aggiunto: “Sono deduzioni che ho fatto io dopo quanto mi disse Peluso”.
Tutte informazioni da vagliare. Soprattutto quando Riggio ha detto che un ruolo nella strage di Capaci sarebbe stato svolto anche da una “donna, sui 35-40 anni, appartenente ai servizi segreti libici” . “Mi ricordo che Peluso si accompagnava con una donna – continua – Mi disse che era una persona vicina ai servizi segreti libici” e ricorda di avere saputo che la compagna di Peluso “apparteneva ai servizi libici” e “anche la suocera che svolgeva servizio all’ambasciata libica”. “C’era un collegamento di veridicità in quello che mi diceva”. IL FATTO QUOTIDIANO 29 NOVEMBRE 2019
CAPACI, “PIETRO RIGGIO RACCONTA FALSITÀ” ottobre 26, 2019 L’ex poliziotto inteso il “turco”, ex sovrintendente della Polizia di Stato, è indagato dalla Procura della Repubblica di Caltanissetta per concorso in strage, l’attentato a Capaci contro il giudice Giovanni Falcone. E ciò perché il pentito nisseno di Resuttano, Pietro Riggio, lo ha indicato come colui che ha nascosto l’esplosivo sotto l’autostrada a Capaci e di essersi avvalso della complicità dei servizi segreti libici, in particolare di una donna. Ebbene, l’ex poliziotto conosciuto come il “turco”, è stato interrogato dai magistrati, e lui ha smentito così: “Mi protesto innocente in quanto all’epoca dei fatti nemmeno sapevo che esisteva la località di Capaci. Io mi trovavo al settimo corso per sovrintendente di Polizia che è iniziato nel gennaio 1992 fino a luglio 1992. Appresi della strage mentre mi trovavo a quel corso. A Pietro Riggio l’ho conosciuto nel carcere di Santa Maria Capua a Vetere nel 1998. Dopo la scarcerazione lo stesso Riggio si era offerto di darmi un lavoro. Poi però nel 2002 in poi non l’ho più visto. Sono stato anche fermato con lui in automobile a Caltanissetta e dopo di ciò non l’ho mai più visto. Non ho mai fatto alcuna confidenza a Riggio in merito a vicende legate alla strage di Capaci, né in relazione a un mio coinvolgimento nella stessa strage”. L’ex poliziotto – che ha ammesso di essere stato soprannominato il “turco” durante la detenzione nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, dove è stato ristretto per rapina e sequestro di persona e poi è stato assolto – ha aggiunto: “Dopo la mia scarcerazione non ho mai intrattenuto corrispondenza con altri detenuti. Non sento Riggio da circa 20 anni e non sapevo che fosse divenuto collaboratore di giustizia. Non so proprio perché Riggio mi abbia tirato in ballo in queste vicende. Non ho particolari conoscenze in materia di esplosivi” – ha concluso l’indagato. Nel frattempo emergono altri dettagli dai verbali degli interrogatori di Pietro Riggio. Il pentito ha rivelato ai magistrati anche di essere stato rimproverato dall’ex poliziotto il “turco” per la scelta di collaborare. E poi ha aggiunto: “Tra la fine degli anni ’90 e i primi 2000 non vi era un interesse ad arrestare Bernardo Provenzano. Nel 2000 Cosa nostra avrebbe voluto uccidere l’ex giudice istruttore Leonardo Guarnotta, oggi in pensione, in passato membro del pool antimafia coordinato dal giudice Antonino Caponnetto. Uno di quelli che, insieme a Di Lello, Falcone e Borsellino, istruì il maxi processo. Ricordo che l’ex poliziotto il ‘turco’ venne a casa mia, siamo intorno al 2000, mi tranquillizzò dicendomi che sarei tornato in servizio, e che la ‘nostra organizzazione’ aveva bisogno di fare favori alla politica quando ve ne era la necessità. Mi disse che era stato incaricato di uccidere il giudice Guarnotta e che a tal fine aveva già eseguito un sopralluogo nei pressi di un palazzo, ritengo fosse quello dove abitava il magistrato. Ricordo che ci trovavamo in un bar di via Rosso di San Secondo, vicino a un giornalaio. Mentre parlavano fece anche uno schizzo che riproduceva la zona dove si trovava il palazzo. Con una scusa mi allontanai, dicendo che dovevo andare a prendere mio figlio e che sarei tornato da lì a poco”. ITALY FLASH
L’EX POLIZIOTTO INDAGATO PER LA STRAGE DI CAPACI: “NON C’ENTRO NULLA, IL PENTITO MENTE” L’ex sovrintendente è stato ascoltato dai pm di Caltanissetta nega ogni addebito: “Non so perché Pietro Riggio mi abbia tirato in ballo” “Non ho mai fatto alcuna confidenza a Riggio in merito a vicende legate alla strage di Capaci, né in relazione a un mio coinvolgimento nella stessa”. A parlare è l’ex poliziotto accusato dal collaboratore di giustizia Pietro Riggio di avere preso parte alla strage di Capaci. E’ indagato per concorso in strage, come scrive l’AdnKronos. L’ex sovrintendente, che nel frattempo ha lasciato la Polizia di Stato, è stato sentito dai pm della Procura di Caltanissetta il 6 marzo scorso. Parla ai magistrati dei suoi rapporti con il collaboratore di giustizia Riggio. L’ex poliziotto in passato è stato arrestato per rapina e sequestro di persone. “Poi sono stato assolto”, dice lo stesso ai pm. Ammette anche di avere avuto il soprannome di “turco” – come lo ha ricordato il pentito che lo chiama in causa per Capaci – e questo, mentre si trovava nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. Poi, l’ex poliziotto dice ancora ai pm di Caltanissetta: “Dopo la mia scarcerazione non ho mai intrattenuto corrispondenza con altri detenuti. Non sento Riggio da circa 20 anni e non sapevo che fosse divenuto collaboratore di giustizia”. “Non so proprio perché Riggio mi abbia tirato in ballo in queste vicende”, spiega ancora l’ex poliziotto. E ribadisce ancora di “non avere particolari conoscenze in materia di esplosivi”. L’ex poliziotto continua: “Mi protesto innocente in quanto all’epoca dei fatti nemmeno sapevo che esisteva la località di Capaci. Io mi trovavo al settimo corso per sovrintendente che è iniziato nel gennaio 1992 fino a luglio 1992. Appresi della strage mentre mi trovavo a quel corso”. L’ex sovrintendente, che nel frattempo ha lasciato la Polizia di Stato, ai magistrati ha detto questo ai magistrati dei suoi rapporti con il collaboratore di giustizia Riggio: “L’ho conosciuto nel carcere di Santa Maria Capua a Vetere nel 1998. Dopo la scarcerazione lo stesso si era offerto di darmi un lavoro poi però nel 2002 in poi non l’ho più visto. Sono stato anche fermato con lui in auto a Caltanissetta e dopo di ciò non l’ho mai più visto”. GLOBALIST 24.10.2019
PENTITO RIGGIO, ‘PELUSO MI DISSE CHE NON FU BRUSCA A PREMERE IL TELECOMANDO A CAPACI’ Le parole durante il confronto con l’ex poliziotto indagato per la strage “Peluso mi disse: ‘Ma tu sei sicuro, credi ancora che il tasto del telecomando l’abbia premuto Brusca?’ Io rimasi spiazzato. ‘Mah – dissi -non lo so perché mi dice questo’. Però ho intuito subito, nell’immediatezza dei fatti, che sicuramente conosceva, sapeva qualche cosa, o diretta o de relato o non so come, che gli facesse affermare questa cosa che Brusca effettivamente non avesse premuto lui”. Sono le parole del pentito di mafia Pietro Riggio, nel corso del confronto con l’ex poliziotto Giovanni Peluso, indagato per la strage di Capaci, avvenuto il 7 marzo scorso. Il verbale è stato depositato oggi nel corso dell’udienza del processo ‘Capaci bis’ a Caltanissetta. “O era convinto che avesse premuto, diciamo, questo famoso timer per fare saltare in aria Falcone”, dice ancora il pentito Riggio.
PENTITO RIGGIO, ‘ESPLOSIVO DI CAPACI SISTEMATO CON GLI SKATEBOARD’ L’esplosivo della strage di Capaci sarebbe stato sistemato nel tunnel sotto l’autostrada con uno skateboard. A dirlo nel corso di un confronto è il pentito di mafia Pietro Riggio. Riferisce quanto gli sarebbe stato detto dall’ex poliziotto Giovanni Peluso, oggi indagato per la strage, nel corso di un confronto avvenuto lo scorso 7 marzo. Il verbale è stato depositato agli atti del processo ‘Capaci bis’ che si celebra davanti alla Corte d’assise d’appello di Caltanissetta. “E poi mi disse un altro aneddoto della situazione che riguardava il trasporto dell’esplosivo all’interno di questo tunnel, che era avvenuto con degli skateboard. Ricordo che le parole furono queste, trasporto dell’esplosivo all’interno del tunnel avvenuto con gli skateboard”, ha detto ancora RIGGIO nel corso del confronto con Peluso. AFFARI ITALIANI 19.11.2019
IL PENTITO: “PER CAPACI USATI ANCHE SERVIZI SEGRETI LIBICI” Per la strage di Capaci, che il 23 maggio del 1992 costò la vita al giudice Giovanni Falcone, alla moglie Francesca Morvillo e ai tre agenti di scorta, sarebbero stati utilizzati anche i “servizi segreti libici”. La rivelazione, come apprende l’Adnkronos, arriva dal pentito di mafia Pietro Riggio, 54 anni, che ha parlato con i magistrati della Procura di Caltanissetta che indagano sulla strage di Capaci, così come sulla strage di Via D’Amelio del 19 luglio 1992. Riggio, il 7 giugno 2018, decise raccontare ai pm alcuni retroscena appresi sulla strage Falcone. Verbali che ora sono finiti agli atti del processo Capaci-bis. Parlando di un ex poliziotto, di cui cita anche il nome, spiega: “Mi disse che si erano avvalsi per la strage di Capaci dei servizi segreti libici”. La frase venne poi raccontata a un altro codetenuto di Riggio, di cui fa il nome, e dice: “Glielo raccontai e questi mi disse che effettivamente il suocero” dell’ex poliziotto era un appartenente ai servizi segreti libici“. Sempre Riggio dice di avere appreso dal contenuto che “mi disse che” l’ex poliziotto “era al Sismi e che il suocero era nei servizi libici e che stava a Catania”. “Non si mostrò sorpreso quando gli dissi queste cose”, spiega Riggio. Lo stesso collaboratore di giustizia di Resuttano, nel nisseno, Pietro Riggio, ex agente della polizia penitenziaria, ha detto anche ai magistrati che un ex poliziotto avrebbe messo l’esplosivo sotto l’autostrada per preparare l’attentato di Capaci. I verbali del collaboratore sono stai depositati nel processo d’appello Capaci bis dove vengono processati 5 mafiosi accusati di aver partecipato alla strage. Nella strage di Capaci sarebbe stata in particolare coinvolta anche una “donna appartenente ai servizi segreti libici”. E sarebbe stato proprio l’ex poliziotto a dirgli che “per le operazioni particolari si avvaleva spesso di una donna che faceva parte dei servizi libici, anche lei coinvolta nella strage di Capaci”. Secondo quanto avrebbe appreso il pentito di mafia, “Brusca ancora è convinto di avere schiacciato lui il telecomando“. Riggio racconta anche che l’ex poliziotto “frequentasse la Sicilia dagli anni ’90” ma “non mi ha mai detto espressamente che era presente alla strage di Capaci”. ADNKRONOS 24.10.2019
IL COLLABORATORE DI GIUSTIZIA PIETRO RIGGIO: “LA MAFIA VOLEVA UCCIDERE ALFONSO CICERO” l’ex presidente Irsap, Alfonso Cicero La mafia voleva uccidere Alfonso Cicero: dava fastidio a Montante. Vincenzo Arnone aveva questa questione da risolvere e riferì a Riggio di parlarne con Carmelo Barbieri perché se necessario si poteva arrivare alla situazione più estrema, cioè uccidere Cicero. Questo quanto emerge dalle dichiarazioni rese da Pietro Riggio, ex uomo d’onore di Cosa nostra e adesso collaboratore di giustizia, che dopo l’operazione “Double Face” ha continuato a rendere dichiarazioni ai magistrati nisseni. Nel corso del processo che si celebra con il rito ordinario nei confronti di 17 imputati, sono stati acquisiti i verbali in cui sono contenute le dichiarazioni di Riggio. Uno di questi verbali porta la data successiva all’operazione condotta dalla Squadra Mobile dell’8 giugno 2018 e riguarda le dichiarazioni rese dal pentito di mafia al procuratore aggiunto Gabriele Paci. “C’era la necessità – afferma Riggio – di dare una lezione ad Alfonso Cicero, perché stava dando fastidio ad un amico nostro”. Riggio riferisce ai magistrati di un colloquio avuto con Vincenzo Arnone, capomafia all’epoca della famiglia di Serradifalco. “Gli chiesi chi fosse l’amico cui Cicero avrebbe recato nocumento ed Arnone glissò sul nome, dicendo che non era importante che io lo sapessi. A quel punto mi imputai, dicendomi che se voleva che io mi fidassi di lui non poteva tacere il nome della persona che a suo dire Cicero danneggiava. Mi disse che la persona era Montante, che Cicero osteggiava avversandolo nelle politiche industriali che quest’ultimo voleva attuare, senza però entrare nel dettaglio. A quel punto dissi ad Arnone che mi sarei dato da fare nel senso da lui indicatomi. Cicero peraltro mi era stato in passato descritto come una persona corretta, che non scendeva a compromessi”. “Parlai con Barbieri (Carmelo, ndr) riferendogli l’oggetto del colloquio avuto con Arnone. Lo incontrai a casa sua a Resuttano, una domenica, era il 6 luglio 2008. Barbieri mi disse che dovevo dare seguito alla richiesta di Arnone, perché ne avremmo avuto sicuramente un “ritorno”, sia io, per la mia nomina a rappresentante, che la nostra famiglia. Mi disse che se avessi avuto bisogno di qualcosa non avevo far altro che chiederglielo, la cosa mi lasciò di sasso perché compresi che intendeva con ciò dirmi che avremmo potuto arrivare alla situazione più estrema, cioè uccidere Cicero, in tal senso interpretai il suo mettersi a disposizione. Due giorni dopo, l’8 luglio 2008, venni arrestato e subito cominciai a collaborare. RADIO CL1 4.6.2019
STRAGE DI CAPACI: RIVELAZIONI E MISTERI DEL PENTITO DI MAFIA PIETRO RIGGIO Come si scrive l’agenzia Adnkronos, ci sarebbe l’ombra dei servizi segreti libici dietro la strage di Capaci. Gli occhi sono puntati su una 007 donna libica che avrebbe avuto un ruolo importante nella strage in cui furono uccisi, il 23 maggio 1992, il giudice Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e i tre agenti della scorta.
La rivelazione arriva, a sorpresa, dal pentito di mafia Pietro Riggio, 54 anni, una ex guardia penitenziaria, che ha parlato con i magistrati della Procura di Caltanissetta che indagano sulla strage di Capaci. Ma non è l’unica novità. Spunta anche un altro indagato per la strage. Il pentito Riggio, il 7 giugno 2018, decise di raccontare ai pm alcuni retroscena appresi sulla strage Falcone. Verbali che ora sono finiti agli atti del processo Capaci-bis che vede alla sbarra cinque mafiosi.
Parlando di un ex poliziotto, di cui cita anche nome e cognome, Riggio spiega: “Mi disse che si erano avvalsi per la strage di Capaci dei servizi segreti libici”. E parla di una “donna appartenente ai servizi segreti libici”. Sarebbe stato proprio l’ex poliziotto, a dire al collaboratore di giustizia che “per le operazioni particolari si avvaleva spesso di una donna che faceva parte dei servizi libici, anche lei coinvolta nella strage di Capaci”.
Lo stesso collaboratore di giustizia di Resuttano, nel nisseno, Pietro Riggio, ha detto anche ai magistrati che un ex poliziotto avrebbe messo l’esplosivo sotto l’autostrada per preparare l’attentato di Capaci, il 23 maggio ’92. L’agente, nel frattempo, come apprende l’Adnkronos, è stato iscritto nel registro degli indagati per strage e associazione mafiosa. L’uomo, secondo l’accusa, avrebbe ricoperto il ruolo di “compartecipe e esecutore materiale della strage di Capaci”.
Anche se il diretto interessato respinge con forza tutte le accuse: “Mi protesto innocente in quanto all’epoca dei fatti nemmeno sapevo che esisteva la località di Capaci. Io mi trovavo al settimo corso per sovraintendente che è iniziato nel gennaio 1992 fino a luglio 1992. Appresi della strage mentre mi trovavo a quel corso”, ha detto lo scorso 6 marzo ai pm nisseni.
Ha parlato in quella occasione anche dei suoi rapporti con il collaboratore di giustizia Riggio. “L’ho conosciuto nel carcere di Santa Maria Capua a Vetere nel 1998 – dice – Dopo la scarcerazione lo stesso si era offerto di darmi un lavoro poi però nel 2002 in poi non l’ho più visto. Sono stato anche fermato con lui in auto a Caltanissetta e dopo di ciò non l’ho mai più visto”. E ribadisce: “Non ho mai fatto alcuna confidenza a Riggio in merito a vicende legate alla strage di Capaci – dice – né in relazione a un mio coinvolgimento nella stessa”. “Non so proprio perché Riggio mi abbia tirato in ballo in queste vicende”, spiega l’ex poliziotto.
Parlando con i magistrati, il collaboratore Pietro Riggio ha invece riferito di avere appreso dall’ex agente altri particolari sulla strage mafiosa del 23 maggio 1992. Gli avrebbe detto, ad esempio, che “Brusca ancora è convinto di avere schiacciato lui il telecomando” della strage di Capaci. Racconta anche che l’ex poliziotto, che secondo lui avrebbe avuto un ruolo nella strage “frequentasse la Sicilia dagli anni ’90” ma “non mi ha mai detto espressamente che era presente alla strage di Capaci”.
Ma perché racconta tutti questi fatti, molto importanti, solo adesso, a tanti anni di distanza? Lo hanno chiesto gli stessi magistrati al collaboratore. Che ha risposto così: “Parlo solo ora perché a mio avviso i tempi oggi sono maturi perché si possano trattare certi argomenti senza rischiare la vita”.
“Tanti segnali mi inducono a fare tale affermazione – dice il collaboratore – primo fra tutti la sentenza che ha chiuso il cosiddetto processo per la trattativa Stato-mafia”. Ma aggiunge: “Al tempo in cui ho inviato la lettera agli uffici tale sentenza non era stata ancora emessa”. “Ma ripeto – dice – dopo un lungo travaglio interiore, avevo da tempo maturato l’intenzione di parlare con il dottor Luciani (pm del processo per il depistaggio Borsellino ndr), per dirgli tutto ciò che avevo taciuto”.
Il pentito ricorda ancora di avere saputo che tra la fine degli anni Novanta e l’inizio del 2000, i Carabinieri “non avevano alcun interesse a catturare Bernardo Provenzano”, il capomafia corleonese arrestato poi nel 2006. Riggio racconta di essere stato “rimproverato” dallo stesso ex poliziotto. Che lo avrebbe rimproverato “per il fatto di avere collaborato con i Carabinieri” e gli dice: “Hai finito di cercare Provenzano?”, spiegandogli che “in realtà non hanno alcun interesse alla sua cattura” e “ammonendolo” sul fatto che “tale collaborazione avrebbe potuto costargli la vita”. Gli dice: “Se non c’ero io tu eri un uomo morto”.
Ma non finiscono qui le rivelazioni di Pietro Riggio. E’ lui a raccontare ai pm di Caltanissetta che “nel 2000 Cosa nostra voleva uccidere l’ex giudice istruttore Leonardo Guarnotta”, oggi in pensione, in passato membro del pool antimafia coordinato dal giudice Antonino Caponnetto. Con Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e Giuseppe Di Lello, Guarnotta ha istruito il Maxiprocesso di Palermo e per ultimo ha ricoperto l’incarico di Presidente del Tribunale.
“Ricordo che venne a casa mia (l’ex poliziotto ndr) – racconta il pentito – siamo intorno al 2000, mi tranquillizzò dicendomi che sarei tornato in servizio che la ‘nostra organizzazione’ aveva bisogno di fare favori alla politica quando ve ne era la necessità. Segnatamente mi disse che era stato incaricato a uccidere il giudice Guarnotta (Leonardo ndr) e che a tal fine aveva già eseguito un sopralluogo nei pressi di un ‘palazzo’, ritengo fosse quello dove abitava il magistrato”. Dopo la scarcerazione, l’ex poliziotto avrebbe reclutato il mafioso per fare parte di una non ben identificata struttura dei Servizi che si occupava della ricerca di latitanti. “Ricordo che ci trovavamo in un bar di via Rosso di san Secondo, vicino a un giornalaio. Mentre parlavano fece anche uno schizzo che riproduceva la zona dove si trovava il palazzo cui ho fatto cenno”, dice ancora il pentito Pietro Riggio. “Con una scusa mi allontanai, dicendo che dovevo andare a prendere mio figlio e che sarei tornato da lì a poco”.
Poi Riggio avrebbe nuovamente incontrato l’ex poliziotto, che avrebbe avuto anche un ruolo nella strage di Capaci. “Incontrato nuovamente nel posto convenuto – dice – mi disse che il piano era già stato elaborato, io avrei avuto il compito di aspettarlo dopo il delitto nei pressi di un’area di sosta sita nelle vicinanze della Galleria Tre Monzelli, direzione Sud per accompagnarlo a Resuttano dove avrebbe trovato poi rifugio nella casa di campagna di mio padre che io gli avrei messo a disposizione”. Parla anche del boss mafioso Piddu Madonia secondo cui le stragi mafiose del 1992 furono “una grande minchiata”.
“Dopo le stragi del 1992 – racconta il collaboratore di giustizia – andai a trovare Madonia (Piddu ndr) a Longare di Vicenza dove era latitante e gli portai 20 milioni di lire che avevo ricevuto”. Fu in quella occasione che il boss mafioso avrebbe parlato delle stragi mafiose. “In effetti – dice ancora il pentito – lui dopo tali eventi dovette lasciare Bagheria dove era stato per tanto tempo latitante e riparò in provincia di Vicenza. Quando mi recavo a trovarlo a Bagheria, circa una volta a settimana, in genere trovavo soggetti locali di cui non ricordo il nome”. Nuove rivelazioni, nuovi misteri che si aggiungono ai numerosi interrogativi sulla strage di Capaci . (AdnKronos) il sitodisicilia 24 ottobre 2019
- L’INTERVISTA ALL’AVV. GENCHI ESCLUSIVO. Speciale strage di Capaci, Genchi: “Non fu solo mafia. Gli americani dietro l’attentato” | VIDEO2 Giugno 2020
a cura di Claudio Ramaccini, Direttore Centro Studi Sociali contro la mafia – PSF