CAPACI e VIA D’AMELIO 28 ANNI DOPO : nuove verita’ grazie al processo a Matteo Messina Denaro voluto dalla Procura di Caltanisetta

 



PROCESSO d’APPELLO 

AUDIO UDIENZE


 

19.1.2023 – L’imputato Matteo Messina Denaro non si collega, sedia vuota al processo di Caltanissetta

 

Rinviata al 9 marzo l’udienza del processo nel quale il boss è accusato di essere il mandante delle stragi di Capaci e via D’Amelio. L’ex superlatitante ha fatto il primo ciclo di chemio in carcere e non ha presenziato

E’ stata rinviata al 9 marzo l’udienza del processo al boss Matteo Messina Denaro, accusato di essere il mandante delle stragi di Capaci e via D’Amelio, che si celebra nell’aula bunker di Caltanissetta. Lo ha stabilito il presidente della Corte d’Assise di Caltanissetta, Maria Carmela Giannazzo, per consentire al difensore di essere presente.
Messina Denaro ha nominato come difensore di fiducia la nipote Lorenza Guttadauro. E l’avvocato d’ufficio Salvatore Baglio ha chiesto la concessione di un termine a difesa rappresentando che la notifica dell’ordinanza cautelare all’imputato e la contestuale nomina dell’avvocato di fiducia è avvenuta oggi.
Intanto, l’ex super latitante ha rinunciato a essere presente in videoconferenza, dal carcere de L’Aquila, dove si trova detenuto, a causa della sua prima seduta di chemioterapia a cui è stato sottoposto all’interno del penitenziario. Intanto, è stato convalidato l’arresto di Giovanni Luppino, l’uomo che ha accompagnato il boss alla clinica Maddalena di Palermo il 16 gennaio. “Non sapevo che fosse lui”, ha detto ai magistrati.  RAI NEWS


Stragi del ’92, in Appello chiesta la conferma dell’ergastolo per Messina Denaro: “Missione romana per uccidere Falcone era seria”

Uno dei misteri della fase preparatoria delle stragi del 1992 è finito al centro della requisitoria del processo d’Appello a Matteo Messina Denaro. A parlarne è stato il procuratore generale di Caltanissetta Antonino Patti, che rappresenta l’accusa al procedimento di secondo grado al boss di Castelvetrano, accusato di essere il mandante delle stragi di Capaci e via d’Amelio. Già condannato per le stragi del 1993, infatti, fino a pochi anni fa Messina Denaro non era stato mai processato per le eliminazioni di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. “Tra i motivi dell’Appello della Corte di Assise d’Appello di Catania del 2006 si dice che la missione romana fu un astuto espediente per distogliere i sospetti da Cosa nostra e far credere che fossero stati i servizi segreti deviati. Ma non è così, allora alcune cose non si sapevano ma la missione romana era una cosa seria che alla fine fallì”, ha detto Patti, chiedendo alla Corte d’Assise d’Appello a Caltanissetta di confermare la sentenza di primo grado, cioè l’ergastolo per l’ultimo superlatitante di Cosa nostra. La cosiddetta missione romana risale alla fine del febbraio del ’92, quando Totò Riina inviò nella capitale un ristretto gruppo di uomini d’onore guidato da Messina Denaro e Giuseppe Graviano: erano i componenti della cosiddetta Supercosa, la risposta del boss corleonese alla Superprocura, cioè la Direzione nazionale antimafia che era stata inventata da Falcone. Il magistrato poi ucciso a Capaci era l’obiettivo della missione romana, insieme a Maurizio Costanzo. “Si parla di totale superficialità e inadeguatezza di Riina nell’organizzare la missione romana e che ha fatto affidamento a persone non tutte di rilevante calabro mafioso. Ma ci aveva mandato le persone più importanti, come Giuseppe Graviano, che è un capomandamento, così come Matteo Messina Denaro – ha detto Patti – Non è affatto vero, poi, che nel sestetto romano c’era gente che non sapeva mettere mano sugli esplosivi. Riina a Falcone lo avrebbe ucciso ovunque, anche sulla Luna. Lo dice lui stesso in un’intercettazione”. Nella Capitale Falcone si muoveva spesso senza scorta. Ai mafiosi inviati da Riina avevano detto che Falcone andava spesso a mangiare al Matriciano, in via dei Gracchi, nei pressi della corte di Cassazione. Lì però i boss non lo trovano perché quell’informazione è falsa: il giudice a Roma andava spesso a mangiare a Campo dei fiori, al ristorante La Carbonara, un posto che ha il nome di un altro piatto tipico della cucina romana. Quello è un errore banale, quasi comico. È un errore che forse cambia la storia delle stragi. Dopo pochi giorni, infatti, il capo dei capi annulla tutto: richiama i suoi e gli spiega che bisogna tornare in Sicilia, dove avevano trovato “cose più grosse”. Quali? Il pentito Gaspare Spatuzza individua in quel cambio di strategia un passaggio fondamentale: “La genesi di tutta questa storia è quando non si uccide più Falcone a Roma con quelle modalità e si inizia quella fase terroristica mafiosa, da lì non è solo Cosa nostra”. Ma se non è solo Cosa nostra allora cosa altro è? I misteri della missione romana sono raccontati in Mattanza, il podcast sulle stragi del ’92 prodotto dal Fatto Quotidiano.  “Riina per portare a termine le stragi aveva bisogno di circondarsi di fedelissimi. La strategia deliberativa ha seguito i passaggi previsti dal codice di Cosa Nostra, per cui per gli omicidi eclatanti bisognava avere il consenso degli organi provinciali, ma in realtà nessuno si sarebbe permesso di contraddire Riina che è un dittatore e solo con alcuni condivide la decisione delle stragi. Questa responsabilità Riina la condivide con Giuseppe Graviano e Matteo Messina Denaro“, ha detto l’avvocato Fabio Trizzino, legale della famiglia Borsellino. “Riina era un soggetto che, a parere mio – ha aggiunto il penalista – non si fidava nemmeno di sua madre eppure questi due soggetti, Messina Denaro e Graviano erano nel suo cuore. E lo attesta il loro protagonismo nella deliberazione della strategia stragista”. L’avvocato dei Borsellino ha poi aggiunto: “Riteniamo che non ci siano più le condizioni per un accertamento giudiziario completo di quello che è accaduto in quella stagione stragista. Ma ci batteremo fino alla morte per la ricostruzione storica che non risente del tempo e delle regole processuali”. FATTO QUOTIDIANO 27.10.2022

 

 
 

 
 
 

‘La condanna emessa dalla corte d’assise di Caltanissetta presieduta da Roberta Serio, è quella che chiedeva il procuratore aggiunto Gabriele Paci. 

Un processo voluto da lui stesso, dopo aver raccolto tutti i tasselli di un quadro complesso. Sì, perché molto si è fatto nell’ambito della complessa attività di ricostruzione della strage di CAPACIe VIA D’AMELIO grazie al lavoro investigativo condotto dalla DDA di Caltanissetta incessantemente volto alla ricerca di tasselli da inserire nel quadro di sangue che ha tragicamente segnato la coscienza di tutti. In tale contesto la Procura di Caltanissetta è giunta ad attenzionare la figura di Matteo Messina Denaro rimasto fino a poco tempo fa estraneo ai processi nei confronti di mandanti ed esecutori delle stragi siciliane del ’92. Da ricordare che il latitante è stato già figura centrale nel processo svoltosi avanti la Corte d’Assise di Firenze ed avente ad oggetto gli attentati stragisti commessi da Cosa nostra “nel continente” tra il ’93 ed il ’94, all’esito del quale venne condannato all’ergastolo per i reati di strage, devastazione ed altro.

La partecipazione di Matteo Messina Denaro alle stragi.  La Procura di Caltanissetta, procedendo ad una attenta rilettura degli atti processuali, ha rielaborato il complessivo materiale probatorio stratificatosi nel corso dei vari giudizi celebratisi a carico degli attori degli eventi delittuosi riconducibili alla strategia stragista attuata da Cosa nostra tra il ’92 ed i primi mesi del ’94 e, all’esito di tale approfondimento, è giunta a formulare l’accusa che l’ha portato a processo. Si è così potuta ricostruire la vicenda. In rappresentanza della provincia di Trapani, l’attuale super latitante è stato designato da Totò Riina – a seguito del progressivo aggravarsi delle condizioni di salute del padre, Francesco Messina Denaro, storico uomo d’onore trapanese, rappresentante della provincia di Trapani oltre che del mandamento di Castelvetrano – a svolgere le funzioni di “reggente” della provincia sin dai tempi della guerra di mafia di Partanna deflagrata nell’87 e conclusasi nel ’91, e dunque ben prima della consumazione degli eventi stragisti del ’92. Denaro ha quindi partecipato alla decisione di “dichiarare guerra” allo Stato, assunta tra la fine del ’91 e l’inizio del ’92 dalla Commissione Regionale di Cosa Nostra, organo deliberativo di vertice dell’organizzazione. Ha aderito, fin dall’inizio, all’attuazione del piano inziale tramite un gruppo “riservato” creato da Riina ed alle sue dirette dipendenze incaricato di uccidere Falcone e Borsellino in altri territori. Sì, perché inizialmente volevano uccidere Falcone a Roma (e Matteo Messina Denaro aveva il suo uomo di fiducia nell’operazione, tale Antonio Scarano), così come volevano uccidere Borsellino quando già era procuratore di Marsala, territorio dove appunto operava Matteo Messina Denaro. Un attentato, quest’ultimo, mai eseguito perché si rifiutarono i due marsalesi poi uccisi da Riina proprio perché si erano opposti all’ordine.

La decisione di uccidere Paolo Borsellino.  Matteo Messina Denaro era un referente importante di Totò Riina anche per la gestione degli appalti, tutto ciò è riscontrato anche dalle deposizioni del pentito Vincenzo Sinacori dove ha fatto i nomi delle aziende coinvolte, compreso i nomi come Angelo Siino, il cosiddetto “ministro dei lavori pubblici” di Totò Riina, e Giuseppe Lipari, colui che curava gli appalti per conto di Provenzano. E proprio secondo l’impostazione accusatoria, il progetto di uccidere Borsellino è stato prospettato da Riina a Matteo Messina Denaro sulla base degli stessi presupposti già evidenziati in relazione alla strage di Capaci. Trova la sua matrice principale nell’indubbia carica simbolica che la figura del magistrato rivestiva al tempo per Cosa nostra avendo quest’ultimo già dalla fine dell’86, anno in cui prestava servizio presso la Procura di Marsala, dimostrato la tempra di magistrato che con ostinazione continuava ad applicare gli stessi penetranti metodi investigativi già sperimentati ai tempi in cui, insieme a Falcone , era stato componente del pool dell’Ufficio Istruzione di Palermo. Ma il punto cruciale è che nella sua sede giudiziaria di Marsala, aveva condotto indagini importanti sulle connessioni tra interessi criminali, appalti e politica. Come già evidenziato nell’ordinanza cautelare emessa nel procedimento Borsellino quater, i due sostituti che ebbero a lavorare con lui a Trapani, la dottoressa Camassa ed il dottor Russo, incontrarono Borsellino a Palermo nel giugno del 1992, dunque dopo pochissimi mesi dal suo arrivo alla Procura di Palermo, e lo trovarono particolarmente turbato. Come ha sottolineato anche l’ordinanza di custodia cautelare nei confronti di Matteo Messina Denaro, nello stesso periodo Borsellino aveva sollecitato un incontro con i vertici del Ros per discutere del rapporto mafia appalti. Non solo, viene ricordato che il collaboratore Antonino Giuffrè ha riferito che i timori di “cosa nostra” erano legati non solo alla possibilità che Borsellino venisse ad assumere la Direzione Nazionale Antimafia, ma soprattutto alla pericolosità delle indagini che avrebbe potuto svolgere in materia di mafia appalti. A ciò si aggiunge il fatto – come ha sottolineato il Gip che ha accolto la richiesta dell’accusa nei confronti di Matteo Messina Denaro- che Borsellino aveva manifestato, non solo con dichiarazioni pubbliche, ma anche e soprattutto con concrete attività requirenti, di avere acquisito una più chiara visione delle connessioni tra gli ambienti mafiosi di livello militare e la più vasta rete di interessi politici e affaristici, sino ad allora sapientemente mimetizzati nella pieghe della società civile. Con i suoi comportamenti e le sue pubbliche dichiarazioni, Borsellino – come si legge nell’ordinanza – «aveva chiaramente espresso la sua volontà dì investigare, scoprire e colpire questi interessi ed i soggetti che se ne facevano portatori e che egli riteneva corresponsabili della strage di Capaci, in cui perse la vita fra gli altri l’amico Giovanni Falcone». Come detto, era stato progettato di uccidere Borsellino già a Marsala, territorio di Matteo Messina Denaro. Fallito però per il diniego dei due boss Vincenzo D’ Amico e Francesco Caprarotta e, come detto, ciò comportò la loro eliminazione grazie al benestare di Matteo Messina Denaro. Il protagonismo nel progetto dell’eliminazione del giudice a Marsala rende evidente, anche alla luce della sua totale adesione al piano ideato da Riina, il suo coinvolgimento nella rinnovata volontà di uccidere Borsellino. Da ricordare che quest’ultimo riteneva importanti le indagini marsalesi sugli appalti, tanto da chiedere del perché – come si evince dalle audizioni al Csm pubblicate da Il Dubbio – tali indagini non fossero confluite nel procedimento mafia appalti curato dalla procura di Palermo. Ci riferiamo alla riunione del 14 luglio 1992. L’ultima alla quale partecipò Paolo Borsellino.”  “Quella di ieri è una pietra miliare nella ricostruzione della storia della mafia stragista di Totò Riina, nell’eliminazione di vertici dissidenti della consorteria mafiosa e della genesi stessa delle stragi. Una genesi che riporta all’indagine mafia-appalti, voluta da Falcone e successivamente da Borsellino, come movente degli attentati.

Matteo Messina Denaro e Vincenzo Calcara. Nel corso della sua requisitoria Paci ha anche ricostruito il ruolo dell’ex collaboratore di giustizia Vincenzo Calcara, che avrebbe “inquinato l’acqua nei pozzi”, portando le indagini su piste diverse da quella di Matteo Messina Denaro del quale non fece mai il nome. Calcara, un pentito “eterodiretto” – usando le parole del pm – fino a poco giorni prima che venisse emessa la condanna del latitante, avrebbe voluto essere sentito nel corso del processo ribadendo la tesi che all’epoca a capo di “cosa nostra” del trapanese si trovava Mariano Agate e non Francesco Messina Denaro e che in ogni caso non vi era suo figlio Matteo. Una teoria smentita dalle nuove testimonianze dei collaboratori di giustizia e dagli elementi emersi nel corso del processo. Le accuse mosse dalla procura nissena hanno dunque trovato conforto nella sentenza emessa ieri sera, con la condanna della primula rossa castelvetranese, aprendo a nuovi scenari e ipotesi investigative. Un processo che ha portato una serie di elementi nuovi di conoscenza che devono essere approfonditi in modo accurato – ha dichiarato il pm Gabriele Paci – C’è una base di elementi importanti su cui lavorare per definire meglio i contorni, le responsabilità delle stragi, e questo lavoro va fatto unitamente alla Procura Nazionale insieme alle altre procure che hanno svolto questa attività di approfondimento.”

“L’ultima sentenza sulle stragi? Un punto di partenza per nuove indagini” Rino Giacalone il 22 ottobre 2020.  Parla il pm Gabriele Paci a 24 ore dalla pronuncia dell’ergastolo contro il latitante Matteo Messina Denaro per le stragi Falcone e Borsellino 

“Non esistono sentenze scontate nel nostro ordinamento giudiziario e certamente non era scontata questa sentenza sol perché imputato. è stato un conclamato capo mafia assassino, ergastolano. A questa pronuncia siamo giunti dopo tre anni di processo, numerose udienze, tanti testimoni sentiti”.

A parlare è il procuratore aggiunto della Dda di Caltanissetta Gabriele Paci, pm nel processo che nella notte di martedì si è concluso con la lettura da parte della presidente della Corte di Assise Roberta Serio, del dispositivo di condanna all’ergastolo contro il boss castelvetranese Matteo Messina Denaro, mandante delle stragi Falcone e Borsellino. Una pronuncia che arriva a ventotto anni dalle stragi, ma è importante, spiega il pm Paci da noi intervistato.

Partiamo da qui dottore Paci, Lei ha detto non era e non poteva essere una sentenza scontata, ma siamo dinanzi ad una ennesima condanna all’ergastolo di un mafioso latitante, Matteo Messina Denaro, ricercato da 27 anni.

“La sentenza è importante perché intanto la Giustizia non può lasciare, non deve lasciare, soggetti rei non puniti. E Matteo Messina Denaro per le stragi del 1992 non era mai stato imputato. E’ una sentenza importante perché non è nostra intenzione prendere questa sentenza, con le sue motivazioni quando saranno depositate, e consegnarla agli archivi della Giustizia. Come magistratura non abbiamo finito. La condanna all’ergastolo è punto di partenza per una serie di indagini, serve mettere insieme tutto il patrimonio raccolto dalle Procure che hanno indagato su Cosa nostra e sulle stragi mafiose, bisogna capitalizzare le conoscenze.”

Ci spieghi.  “Questa è una sentenza importante perché intanto ci consegna che vicino a Totò Riina in quella stagione stragista c’erano tre boss mafiosi su tutti, Matteo Messina Denaro, Giuseppe Graviano e Leoluca Bagarella. Tre boss mafiosi (il primo assolutamente libero di muoversi negli anni della stragi, il primo ordine di arresto fu del giugno 1993 ndr) che devono essere visti come un’unica pericolosa entità. Protagonisti di una stagione ricca di depistaggi, false piste che sono servite per non far rendere giustizia e verità e per rendere più forte Cosa nostra, la cui potenza militare è stata colpita, ma non del tutto quella economica e delle connessioni”.

Sarà interessante leggere le motivazioni di questa pronuncia, solo per il materiale raccolto sotto i profili da Lei appena detti. “Certo, in questo processo abbiamo sentito persone che in questi vent’anni e passa o non sono stati sentiti o alle quali non sono state fatte le domande giuste”.

Ci sono responsabilità personali? A chi si riferisce?  “Penso che come Procura di Caltanissetta abbiamo dimostrato durante questo processo che il depistaggio non ci fu nel momento stesso in cui venne fatta esplodere la Fiat 126 in via D’Amelio, in quel 19 Luglio del 1992, ma dobbiamo semmai parlare di depistaggi e ancora prima della strage di Capaci. Quando nelle Procure, in periodi certamente antecedenti alle stragi, ma eravamo in tempi successivi al maxi processo di Palermo, vennero portati collaboratori di giustizia che fuori dai Palazzi di Giustizia erano stati creati a tavolino, nel processo contro Messina Denaro alcuni li abbiamo indicati come gli inquinatori dei pozzi. Pentiti ai quali sarà stato fatto dire ciò che proveniva da fonti confidenziali, qualcuno ha aggiunto cose con tanto di fantasia, ma  loro hanno provocato altre collaborazioni autentiche e importanti dei veri uomini d’onore”.

Quasi un senso di rivalsa contro i falsi pentiti? “Ci sono state nel tempo molteplici false indicazioni fatte arrivare sui tavoli dei magistrati”.

Come indicare capo assoluto della mafia trapanese il mazarese Mariano Agate? “Attenzione Agate fu indubbiamente un autorevole uomo di Cosa nostra, ma non ne era il capo, a guidare la cupola trapanese era don Ciccio Messina Denaro e dopo di lui il figlio, Matteo. Ecco in quegli anni ’90 ci fu consegnata enfatizzata la figura di Mariano Agate, mentre si taceva sui Messina Denaro. Così come accadeva nel mandamento di Trapani. Non dimentico quel 1992, quando le bombe a Palermo erano state fatte scoppiare, o meglio erano cominciate a scoppiare ancora prima, nel 1985 a Pizzolungo, e gli investigatori davano la caccia ad un latitante morto nel 1982, il capo mafia di Trapani Totò Minore. E per scoprire che al suo posto c’era Vincenzo Virga c’è voluta una indagine contro una banda di estortori, criminalità comune, che in un dialogo si lasciarono sfuggire il nome di Virga. La sua oreficeria aveva subito una rapina, e il capo banda se la prese a male con chi aveva fatto quel colpo, ignaro che era andato a rubare a casa del padrino di Trapani che intanto faceva l’imprenditore, parlava con la politica e per avere una sua foto siamo dovuti andare a recuperare le foto del matrimonio del figlio. Non c’era nemmeno la foto segnaletica. Sta qui nel sapere nascondersi la scaltrezza della mafia trapanese”.

Depistaggi e pentiti istruiti, un unicum?  “La scena c’è, ma quando affermiamo che la sentenza di martedì notte è una sentenza importante, è perché c’è un nuovo lavoro inquirente che possiamo far partire”.

Ne possiamo parlare?  “Penso per esempio ad un grave episodio gravemente sottovalutato, il tentativo di uccidere a Mazara il vice questore Rino Germanà, era il 14 settembre 1992. Poco fa ho fatto tre nomi, Messina Denaro, Graviano e Bagarella, furono loro a tentare di uccidere Germanà che si salvò perché bravo e lesto e quel giorno non usò la moto come era solito fare ma guidava un’auto e potè scorgere della micidiale arma che da dietro, da un’altra auto, gli era stata puntata contro. Ma penso anche all’omicidio del capo mafia di Alcamo Vincenzo Milazzo e della sua compagna Antonella Bonomo, massacrati alla vigilia dell’attentato contro Borsellino, alla presenza della massoneria deviata a Trapani, ai rapporti economici stretti da Cosa nostra sull’isola di Malta, del tentativo della mafia di acquistare un isolotto a Malta, l’isola di Manuel, con la mediazione di un notaio massone di Castelvetrano, Pietro Ferraro. Ognuno di questi episodi è stato liquidato in modo troppo semplice, lì dentro si nascondono i depistaggi che come le dicevo non sono cominciati il 19 luglio del 1992”.

Lei ha lavorato per molti anni a Trapani, ha conosciuto da magistrato quella mafia cosiddetta di provincia che resta lo zoccolo duro anche in questo secolo come nel precedente, quando ancora non c’era la Procura distrettuale e poi da pm della Dda di Palermo fu pm nel maxi processo Omega quello che ricostruì quasi 30 anni di Cosa nostra trapanese. Ha coordinato le indagini sul mandamento di Alcamo, ha seguito la collaborazione con la giustizia degli alcamesi Ferro, Giuseppe e Vincenzo, padre e figlio, il primo per anni si era finto demente, mentre andava in giro e partecipava ai summit di mafia anche quelli sulle stragi. Una esperienza che abbiamo capito seguendo processo e requisitoria che per intero ha portato nel dibattimento contro Messina Denaro qui a Caltanissetta.

“Sta nella consapevolezza giudiziaria acquisita in quegli anni l’aver potuto sostenere in questi tre anni di processo, dei depistaggi”. Mi permetta di dire che i depistaggi hanno segnato la storia quanto forse ancora il presente, della nostra terra, almeno per via di rapporti rimasti nascosti non scoperti, certi protagonisti sono ancora in vita. Vicende che poi restano sotto la tutela di certe logge massoniche che hanno la sfrontatezza di non celarsi come un tempo.

“E’ per questo che serve fare nuove indagini, oggi la capacità di lettura di certi avvenimenti nel tempo è certamente diversa, penso che possiamo ottenere importanti risultati”.

Le accennavo alla massoneria. “E’ quella parte che ancora ci manca, sappiamo, proprio grazie a indagini condotte a Trapani, la Iside 2, che ci sono stati legami tra mafia e massoneria, così come indagini tra Trapani e Palermo ci svelano rapporti con i servizi, ma sono conoscenze superficiali, bisogna andare fino in fondo”.

Messina Denaro condannato per le stragi Falcone e Borsellino: ha appoggiato Riina  I giudici di Caltanissetta hanno inflitto l’ergastolo a U siccu, boss di Trapani, latitante dal 1993, perché accusato di essere il mandante degli attentati a Palermo del 1992 per il quale non era stato mai processato Il latitante Matteo Messina Denareo, “ù siccu”, è stragista e affarista, come lo definiva negli ultimi anni Salvatore Riina, prima di finire i suoi giorni in carcere. Negli ultimi venticinque anni il capo della mafia trapanese ha smesso i panni dell’assassino ed ha indossato quelli dell’uomo d’affari. Coperto dalla sua invisibilità iniziata nel 1993, oggi è il latitante più ricercato d’Europa e il mafioso più ricco di Cosa nostra. I giudici di Caltanissetta adesso lo hanno condannato all’ergastolo perché ritenuto uno dei mandanti delle stragi del 1992, quelle in cui furono uccisi Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Per questi fatti il latitante trapanese non era stato mai processato. Questo processo, sostenuto in aula dal pm Gabriele Paci, è diverso dagli altri che si sono svolti in passato e che riguardavano i mandanti delle stragi di Capaci e via D’Amelio. Per portare sotto inchiesta il capo della mafia di Trapani in questi ultimi anni sono stati raccolti nuovi temi d’indagine, e nuove rivelazioni di collaboratori di giustizia, quindi nuove prove che al tempo degli altri processi non c’erano. Durante il dibattimento l’imputato è stato ben difeso da un avvocato d’ufficio, e sono stati analizzati dall’accusa tanti aspetti del latitante, che è stato descritto come l’ombra di Salvatore Riina.   

«La mafia trapanese» ha spiegato ai magistrati l’ex capomafia Antonino Giuffrè «è la più forte, ed è un punto di incontro tra i Paesi arabi, l’America e la massoneria».  L’inizio della stagione stragista dei primi anni Novanta, che ha drammaticamente segnato la nostra storia, è stato deciso anche grazie al benestare di Matteo Messina Denaro, che non ha ostacolato la linea di Riina, appoggiandolo nelle sue scelte terroristiche, e restando a lungo nell’ombra. In questo modo ha pure evitato in passato di essere annoverato tra i mandanti degli attentati del 1992. Di questo mosaico mafioso mancava infatti il pezzo più importante, e cioè il ruolo del boss trapanese che ha detto sempre di sì a Riina. Uno “yes man” che ha appoggiato tutte le follie del capo di Cosa nostra, compresa l’organizzazione che ha messo in ginocchio l’Italia per oltre un ventennio. Era la guerra allo Stato e Matteo Messina Denaro conosceva ogni piano, ogni azione, ogni segreto. Perché il mafioso trapanese è cresciuto sulle ginocchia di Riina, tanto da diventare uno dei “corleonesi” più fidati. E oggi, che continua a essere un mafioso libero di circolare, porta con sé i segreti del capo dei capi.

“U siccu” non si è opposto alle uccisioni di Falcone e Borsellino e non ha ostacolato le bombe che sono arrivate nel 1993 nel continente, dove personalmente si è attivato per farle piazzare ai suoi “picciotti”. Ha fatto parte di un unico progetto che, alle vittime degli attentati di Palermo, legava i morti e le distruzioni di Firenze, Roma e Milano. Oggi si può dire che proprio la prospettiva di Matteo Messina Denaro ci permette di avere una visione più ampia e matura di quegli accadimenti.

Giuffrè ha raccontato di una riunione della commissione provinciale palermitana di Cosa nostra a dicembre del 1991, finalizzata, tra l’altro, allo scambio degli auguri di Natale tra i mafiosi. È l’occasione in cui viene dato il via al programma stragista. E si deve alla testimonianza dei collaboratori di giustizia Sinacori, Brusca, Geraci e La Barbera il riferimento al ruolo dei trapanesi nella fase deliberativa, organizzativa ed esecutiva. Grazie a questi collaboratori solo adesso sappiamo che all’interno dell’organizzazione esisteva una «Cosa nostra nella Cosa nostra» o, come la chiamava Riina, la «Supercosa». Si trattava di uno zoccolo duro alle dirette dipendenze del capo dei capi che ne supportava ogni decisione o strategia. E di questo cerchio magico della “supercosa” faceva parte “u siccu”.

Nella riunione in questione Riina esordì dicendo: «Ora è arrivato il momento in cui ognuno di noi si deve assumere le sue responsabilità». Non c’era altro da aggiungere, i presenti conoscevano benissimo il tragico significato di quelle parole. Racconta Giuffrè che calò il gelo nella stanza e che nessuno osò profferire parola in quanto «eravamo arrivati al capolinea, cioè ci doveva essere la resa dei conti».

La sentenza della Cassazione sul maxiprocesso non era ancora stata emessa, ma i boss ne avevano percepito l’esito infausto, che non solo minava le basi dell’esistenza stessa di Cosa nostra (la quale vedeva i suoi vertici condannati all’ergastolo e costretti, per evitare il carcere, a darsi alla latitanza), ma suonava anche come uno schiaffo alla strategia di Riina, che aveva sino ad allora sostenuto che la situazione era sotto controllo. L’onta da lavare, per il capo dei capi, era così grande da non temere le drastiche reazioni dello Stato per i suoi uomini colpiti e le vittime innocenti: «Chiddu chi veni nì pigghiamu». Quello che viene ci prendiamo. Erano pronti a tutto.

E così nel piano stragista corleonese, Matteo Messina Denaro ha avuto un ruolo importante: prima è stato al fianco di Riina, appoggiando la tattica degli attentati del 1992, e poi, dopo l’arresto del capo dei capi, ha tenuto una linea dura e aggressiva. È stato lui a spiegare a Sinacori che le stragi di Palermo rientravano in un progetto unitario, mentre diversi erano gli obiettivi per le bombe del 1993: «La strategia degli attentati era finalizzata a far scendere a patti lo Stato, ma non so dire se fossero state intavolate trattative di alcun genere. So soltanto che Matteo si rendeva perfettamente conto che non vi era futuro e che erano stati trascinati in una sorta di vicolo cieco da Riina».

C’è un’altra riunione decisiva per comprendere come sono andate le cose. Si svolse il primo aprile 1993 all’ombra dell’Hotel Zagarella a Bagheria, e ce ne parla ancora Sinacori. Da questo incontro appare chiaro che Cosa nostra aveva due anime, quella moderata che faceva capo a Giovanni Brusca, contraria al proseguimento della stagione stragista, e quella più aggressiva capitanata da Bagarella, Graviano e Messina Denaro, che si dichiaravano oltranzisti e credevano che la strategia degli attentati fosse «l’unica che poteva mantenere alta la dignità dei corleonesi». Binu Provenzano, dopo aver incontrato Bagarella, sposò la linea dura, «a condizione che gli attentati fossero fatti al Nord e diede il via». E il cognato di Riina, in modo sprezzante, gli rispose: «Se vossia non è d’accordo, se ne vada in giro con un bel cartello al collo con la scritta: io con le stragi non c’entro». U zu Binu, a quel tempo, aveva dovuto incassare: non poteva certo competere con la potenza militare degli «altri» corleonesi.

La morte di Riina a novembre 2017 non ha avuto come conseguenza un’evidente successione al trono di Cosa nostra, che appare sempre più un’organizzazione criminale segreta con due anime. Una conservatrice, radicata nei paesi della provincia, che assicurano la forza della tradizione, e un’altra più «moderna», insediata nelle città capoluogo come Palermo, Catania, Trapani e Messina, che rappresentano un modello più avanzato, in linea con le mafie moderne. Due anime diverse, dunque, che convivono e permettono che il richiamo al rassicurante e solido passato coesista con la necessità di stare al passo con il futuro. E Matteo Messina Denaro, in questo scenario, interpreta il ruolo di boss in modo nuovo. Il suo è un modello evolutivo, in cui i vertici si allontanano dagli affari «piccoli e sporchi» della base per avvicinarsi ai grandi interessi dell’economia nazionale.

Chi protegge Matteo Messina Denaro. Il diffuso sentimento di fedeltà nei suoi confronti da parte di molti mafiosi si contrappone a segnali di insofferenza da parte di alcuni affiliati trapanesi a Cosa nostra, preoccupati per una gestione della catena di comando difficoltosa a causa della latitanza. Visto che “u siccu” non assume ufficialmente il ruolo di capo della nuova cupola mafiosa – anzi, come svelano le intercettazioni, non vuole alcuna responsabilità di vertice nella gerarchia interna all’organizzazione e per questo se ne sta distante – conviene, per analizzare meglio come è strutturata Cosa nostra dopo la morte di Riina, guardare dentro il carcere, analizzare i movimenti dei detenuti rinchiusi nelle sezioni di alta sicurezza o in quelle riservate ai 41 bis, osservare da vicino la vita carceraria, quali tipi di rapporti si sono creati.In base ai loro movimenti, ai loro saluti, ai segnali che si scambiano, è possibile ridisegnare la mappa delle famiglie che stanno fuori. Perché le carceri sono lo specchio della mafia che opera all’esterno. Pur essendo un ambiente intrinsecamente chiuso, infatti, la prigione non è affatto impermeabile alle dinamiche che determinano il corso degli eventi al di fuori delle loro mura: direttive politiche, quindi, ma anche cambi di ruolo ai vertici delle organizzazioni criminali. Tutto si riverbera all’interno delle mura del carcere. E oggi il 41bis sembra non essere più così impermeabile come sulla carta dovrebbe esserlo. Dal carcere trapelano gli ordini dei boss e i boss approfittano di molte insenature giuridiche che via via si sono create per ottenere benefici e far scivolare all’esterno messaggi e segnali che hanno un solo obiettivo: quello di trasmettere la loro potenza.  Oggi per fermare Matteo Messina Denaro, il boss che da stragista si è trasformato in affarista, occorre conoscerlo, capire come opera, quali reti politiche, imprenditoriali, criminali lavorano per lui o con lui. Occorre ricomporre il mosaico che raffigura u Siccu, l’ultimo dei corleonesi, il latitante più ricercato d’Europa, per comprendere come questo mafioso è oggi molto pericoloso, non solo perché è un assassino, ma perché è nelle condizioni finanziarie di inquinare l’economia legale del nostro Paese e distruggere mercati e affari, favorendo solo le sue casse, con denaro sporco. Per questo è necessario che venga arrestato il prima possibile. LIRIO ABBATE 21 ottobre 2020 L’ESPRESSO



Stragi di Capaci e via D’Amelio – Condannato Matteo Messina Denaro. Ora i mandanti esterni  
Condannato all’ergastolo il latitante Matteo Messina Denaro accusato di essere uno dei mandanti delle stragi di Capaci e via D’Amelio nelle quali persero la vita i magistrati Giovanni Falcone, Francesca Morvillo e Paolo Borsellino, e gli uomini delle rispettive scorte.La Corte d’Assise di Caltanissetta, presieduta da Roberta Serio, ha accolto la richiesta di condanna avanzata dal pm Gabriele Paci, riconoscendo il ruolo che ebbe il latitante il quale partecipò agli incontri nel corso dei quali vennero determinate le stragi, dandone il pieno e consapevole consenso, avallando dunque la strategia stragista di Totò Riina.

A distanza di quasi trent’anni dalle stragi, la sentenza emessa ieri permette di fare chiarezza su molti punti oscuri di quel periodo. L’attività della procura nissena, rappresentata in giudizio dal Pm Paci, grazie a nuove testimonianze ed elementi emersi nel corso dei processi, ha ricostruito il periodo antecedente le stragi, i ruoli degli esponenti mafiosi e in particolare quello dell’allora boss rampante Matteo Messina Denaro che aveva già preso il posto del padre Francesco sostituendolo nelle riunioni con i vertici di “cosa nostra” e avallandone la follia criminale, così come l’ha definita il pm Gabriele Paci. Dal processo emerge l’importanza delle riunioni tenutesi a Enna e Castelvetrano, nel corso delle quali venne pianificata la strategia stragista di Riina alla quale Matteo Messina Denaro diede il proprio assenso, rafforzandone il ruolo all’intero di Cosa Nostra. “La decisione di uccidere i due giudici – ha affermato Paci nel corso della sua requisitoria – non fu un fatto isolato, ma ben piazzato al centro di una strategia stragista a cui Matteo Messina Denaro ha partecipato con consapevolezza” Un lavoro immane quello condotto dalla procura nissena che a distanza di trent’anni ha dovuto ricostruire il periodo in cui l’attuale boss latitante si sostituì. Un’istruttoria lunga e difficile nel corso della quale, a distanza di oltre venti anni, sono stati sentiti testi ai quali nessuno in precedenza aveva posto le stesse domande. Quella di ieri è una pietra miliare nella ricostruzione della storia della mafia stragista di Totò Riina, nell’eliminazione di vertici dissidenti della consorteria mafiosa e della genesi stessa delle stragi. Una genesi che riporta all’indagine mafia-appalti, voluta da Falcone e successivamente da Borsellino, come movente degli attentati.

Nel corso della sua requisitoria Paci ha anche ricostruito il ruolo dell’ex collaboratore di giustizia Vincenzo Calcara, che avrebbe “inquinato l’acqua nei pozzi”, portando le indagini su piste diverse da quella di Matteo Messina Denaro del quale non fece mai il nome. Calcara, un pentito “eterodiretto” – usando le parole del pm – fino a poco giorni prima che venisse emessa la condanna del latitante, avrebbe voluto essere sentito nel corso del processo ribadendo la tesi che all’epoca a capo di “cosa nostra” del trapanese si trovava Mariano Agate e non Francesco Messina Denaro e che in ogni caso non vi era suo figlio Matteo. Una teoria smentita dalle nuove testimonianze dei collaboratori di giustizia e dagli elementi emersi nel corso del processo. Le accuse mosse dalla procura nissena hanno dunque trovato conforto nella sentenza emessa ieri sera, con la condanna della primula rossa castelvetranese, aprendo a nuovi scenari e ipotesi investigative. “Un processo che ha portato una serie di elementi nuovi di conoscenza che devono essere approfonditi in modo accurato – ha dichiarato il pm Gabriele Paci – C’è una base di elementi importanti su cui lavorare per definire meglio i contorni, le responsabilità delle stragi, e questo lavoro va fatto unitamente alla Procura Nazionale insieme alle altre procure che hanno svolto questa attività di approfondimento.”  21 ottobre 2020  LA VALLE DEI TEMPLI


Durante la requisitoria il pm Paci ha scandagliato i giorni precedenti all’attentato di via d’Amelio, riconoscendo una ‘accelerazione’ nelle fasi di organizzazione dell’omicidio. “L’accelerazione c’è stata e ce lo dice chiaramente Giovanni Brusca. C’è qualcosa di straordinariamente importante tra l’incarico di uccidere Mannino, a Brusca dato i primi giorni di giugno e ritirato da Riina il 20 di quel mese: in quel periodo va cercata la ragione reale dell’accelerazione”, aggiunge l’avvocato dei familiari del giudice ucciso il 19 luglio 1992. “Secondo la nostra analisi, abbiamo individuato un particolare interesse del giudice Borsellino nei confronti dell’intreccio mafia e appalti – conclude Trizzino – e l’ipotesi che questa abbia determinato la sua morte”. “Questa sentenza aggiunge un ulteriore tassello, restano da ricostruire le convergenze d’interessi che causarono la stagione stragista del 1992”. Lo dice all’AGI l’avvocato Fabio Trizzino che, assieme al collega Vincenzo Greco, ha rappresentato i familiari del giudice Paolo Borsellino nel processo in cui la corte d’Assise di Caltanissetta ieri, poco prima id mezzanotte, ha condannato all’ergastolo il latitante Matteo Messina Denaro con l’accusa di essere tra i mandanti anche delle stragi di Capaci e via d’Amelio del ’92. “Messina Denaro era l’ultimo dei grandi soggetti di Cosa nostra che finora era sfuggito alle sue responsabilità – dice il legale all’indomani della sentenza, nel rappresentare il pensiero della famiglia – sicuramente in quel momento storico vi sono state delle situazioni in qualche modo di convergenza rispetto a questa strategia politica di Cosa nostra: adesso bisogna ricercare gli eventuali mandanti esterni”. Nel corso del processo la Corte ha ascoltato decine di collaboratori di giustizia, ma anche investigatori dell’epoca, nel tentativo di ricostruire il contesto criminale e politico di quegli anni. (AGI)


CONDANNA MESSINA DENARO, PACI: ”FARE LUCE SU RAPPORTI CON MASSONERIA E SERVIZI”Il pm commenta la sentenza: “Ergastolo solo ora? Colpa dei troppi depistaggi” “Ci sono stati troppi depistaggi, troppe false informazioni fornite da falsi collaboratori di giustizia o pseudo collaboratori, ecco perché ci sono voluti 28 anni per arrivare a una sentenza per il boss latitante Matteo Messina Denaro, coinvolto nelle stragi mafiose del 1992″. A distanza di meno di 24 ore dalla sentenza il pubblico ministero Gabriele Paci ha commentato così all’AdnKronos la condanna all’ergastolo del super latitante di Cosa nostra Matteo Messina Denaro, ritenuto dai giudici uno dei mandanti delle stragi del 1992. Un verdetto arrivato ieri intorno alla mezzanotte dopo ben 13 ore di camera di consiglio. “Alcuni collaboratori – ha affermato Paci dall’aula della corte d’Assise di Caltanissetta dove rappresenta l’accusa nel processo sul depistaggio della strae di via d’Amelio – sono stati messi nelle condizioni di dire stupidaggini perché sentivano cose de relato oppure hanno enfatizzato la figura di Mariano Agate che qualcuno ha indicato come capo di Cosa nostra”. Paci, che ieri notte era presente in aula per seguire la sentenza, si è detto “soddisfatto” per l’esito del processo. Perché, ha spiegato, “la condanna all’ergastolo è una rampa di lancio per una serie di indagini che adesso si possono fare con l’avallo di una sentenza”. Il Procuratore reggente di Caltanissetta Gabriele Paci, ha affermato anche che “serve adesso mettere insieme tutto il patrimonio raccolto dalle Procure che hanno indagato” su Cosa nostra e sulle stragi mafiose. “Fino ad oggi – ha spiegato – siamo andati ognuno per conto proprio. Ma ognuno di noi è il custode di un patrimonio che difficilmente diventa comune”. Ecco perché bisogna “capitalizzare le conoscenze” messe insieme. “Abbiamo un patrimonio enorme – ha affermato – e dobbiamo mettere in comune delle conoscenze che sono negli archivi di ciascuno di noi”. “Appena dieci anni fa – ha detto ancora il magistrato – abbiamo messo il dito su una serie di depistaggi. E non è stato un solo depistaggio, è stato un continuo depistare”. Anche su Matteo Messina Denaro. “Era un uomo di vertice di Cosa nostra in quegli anni lui e Graviano sono gli uomini su cui Totò Riina fonda la campagna della stagione stragista”. Eppure gli inquirenti “sono andati a cercare altre presenze”. E a quel tempo “venne indicato falsamente come rappresentante provinciale di Cosa nostra di Trapani e quindi responsabile delle stragi Mariano Agate – ha detto Paci – Che era un autorevolissimo uomo d’onore, fedelissimo di Riina, però non è mai stato il capo di Cosa nostra trapanese. Era invece il padre di Matteo Messina Denaro, Francesco”. Ecco perché “tutte le indagini e i processi da Capaci a Borsellino vengono fatti indirizzandosi sulla persona di Mariano Agate e tralasciando completamente sia la figura del padre di Messina Denaro che dello stesso Matteo Messina Denaro”, detto il pm. In questi due anni e mezzo di processo a Caltanissetta “si è passato al setaccio tutta la vicenda di preparazione alle stragi, dopo che sono emersi una serie di atti nuovi importantissimi”. Secondo il magistrato “oggi bisogna fare un’azione che allora non fu fatta”, ecco perché serve fare nuove indagini, più compiute, più unitarie. “Non si può recuperare la memoria del tempo ma oggi la mia capacità di lettura di certi avvenimenti nel tempo è certamente diversa”, ha detto Paci. “Se tutti ci mettessimo davanti al tavolo con la voglia di essere propositivi su questi temi, potremmo ottenere importanti risultati”. Insomma, per quanto riguarda Messina Denaro e il ruolo che ha svolto nelle stragi mafiose, “c’è una parte nota di Cosa nostra e poi c’è una parte cha ancora ci manca, e mi riferisco ai suoi rapporti con la massoneria ad esempio”. “Sappiamo che ci sono stati legami con la massoneria e i servizi ma non sappiamo dare una declinazione. Bisogna dunque incrociare i dati, fare un lavoro di intelligence”, ha concluso il magistrato. AMDuemila 21 Ottobre 2020


21.10.2020 – “Questa sentenza aggiunge un ulteriore tassello, restano da ricostruire le convergenze d’interessi che causarono la stagione stragista del 1992”. Lo dice all’AGI l’avvocato Fabio Trizzino che, assieme al collega Vincenzo Greco, ha rappresentato i familiari del giudice Paolo Borsellino nel processo in cui la corte d’Assise di Caltanissetta ieri, poco prima id mezzanotte, ha condannato all’ergastolo il latitante Matteo Messina Denaro con l’accusa di essere tra i mandanti anche delle stragi di Capaci e via d’Amelio del ’92. “Messina Denaro era l’ultimo dei grandi soggetti di Cosa nostra che finora era sfuggito alle sue responsabilità – dice il legale all’indomani della sentenza, nel rappresentare il pensiero della famiglia – sicuramente in quel momento storico vi sono state delle situazioni in qualche modo di convergenza rispetto a questa strategia politica di Cosa nostra: adesso bisogna ricercare gli eventuali mandanti esterni”. Nel corso del processo la Corte ha ascoltato decine di collaboratori di giustizia, ma anche investigatori dell’epoca, nel tentativo di ricostruire il contesto criminale e politico di quegli anni.  “Nel corso della requisitoria, nella definizione dello scenario, vari elementi convergono in una cointeressenza di vari ambienti per la destabilizzazione del Paese – continua l’avvocato Trizzino parlando con l’AGI – e da operatori del diritto dovremmo cercare le prove di coinvolgimenti esterni”. Oltre alle nuove prove – tra cui le intercettazioni in carcere di Totò Riina e le dichiarazioni dei pentiti Gaspare Spatuzza e Fabio Tranchina – il processo si è basato su una rilettura di alcuni episodi, incrociando elementi emersi nelle sentenze passate in giudicato. “Questo processo dimostra che la valorizzazione di elementi già agli atti può portare alla ricostruzione di quei fatti da sottoporre al giudizio di un giudice, io credo che ci siano disseminati qua e là – anche a dimostrazione dei vari processi svolti in 28 anni – elementi il cui approfondimento può portare alla rivalutazione di alcuni episodi che sono stati sottovalutati”.Durante la requisitoria il pm Paci ha scandagliato i giorni precedenti all’attentato di via d’Amelio, riconoscendo una ‘accelerazione’ nelle fasi di organizzazione dell’omicidio. “L’accelerazione c’è stata e ce lo dice chiaramente Giovanni Brusca. C’è qualcosa di straordinariamente importante tra l’incarico di uccidere Mannino, a Brusca dato i primi giorni di giugno e ritirato da Riina il 20 di quel mese: in quel periodo va cercata la ragione reale dell’accelerazione”, aggiunge l’avvocato dei familiari del giudice ucciso il 19 luglio 1992. “Secondo la nostra analisi, abbiamo individuato un particolare interesse del giudice Borsellino nei confronti dell’intreccio mafia e appalti – conclude Trizzino – e l’ipotesi che questa abbia determinato la sua morte”. (AGI)


Stragi del ’92, ergastolo per boss latitante Messina Denaro  Il boss latitante Matteo Messina Denaro è stato condannato all’ergastolo per le stragi mafiose di Capaci e via D’Amelio in cui furono uccisi i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino e gli agenti della scorta. Lo ha deciso la Corte d’assise di Caltanissetta, presieduta da Roberta Serio, dopo una camera di consiglio fiume iniziata poco dopo le 10 di questa mattina. Il latitante è accusato di essere tra i mandanti delle stragi del 1992. Il collegio si è riunito oggi dopo una breve udienza, durante la quale l’avvocato d’ufficio dell’imputato, Salvatore Baglio, ha replicato al contenuto di una memoria depositata dal pm Gabriele Paci in una delle ultime udienze. Al termine della lunga requisitoria durata otto udienze, il Procuratore aggiunto Gabriele Paci ha chiesto la condanna all’ergastolo per la ‘primula rossa’ di Cosa nostra. La difesa del boss ha chiesto invece l’assoluzione “perché il fatto non sussiste”. Tra le parti civili del processo, iniziato nel 2017, ci sono i familiari degli agenti di scorta dei due giudici ma anche i figli del giudice Paolo Borsellino e il fratello Salvatore. Parte civile anche l’Avvocatura dello Stato, in rappresentanza della Presidenza del consiglio e del ministero dell’Interno. Le parti civili sono rappresentate dagli avvocati Vincenzo Greco, Santi Centineo, Roberto Avellone, Giuseppe Crescimanno. Durante la lunga requisitoria il Procuratore aggiunto, presenta alla lettura del dispositivo, aveva parlato di “unanimità dei consensi al progetto sulle stragi di Totò Riina collegiale”. “Totò Riina – aveva detto Gabriele Paci un requisitoria- può contare su un gruppo di persone fidate che chiama “supercosa”, ai quali affida il compito di organizzare la missione romana. Questo rafforza Riina non soltanto perché ha un gruppo segreto che fa capo a lui ma perché questo gruppo gli consentirà tra le varie opzioni operative di optare per quella che era più funzionale alla realizzazione dei suoi interessi. Scartata la missione romana sceglie quella di Capaci. Indipendente dall’esito la supercosa rafforzò i propositi di Totò Riina, con un gruppo di persone pronto ad uccidere. Nell’ottobre del ’91, con l’appoggio di Messina Denaro, Totò Riina, seppe che aveva questa disponibilità di uomini e mezzi”. “Borsellino da tempo era nel mirino di Matteo Messina Denaro, perché poco prima delle Stragi aveva chiesto l’arresto del padre e per aver patrocinato la collaborazione di alcuni pentiti”, aveva ancora detto il procuratore aggiunto Gabriele Paci, ricostruendo davanti alla Corte d’Assise di Caltanissetta gli anni precedenti agli attentati di Capaci e via d’Amelio, nel processo in cui il latitante e’ accusato di essere uno dei mandanti. Per Matteo Messina Denaro, il magistrato era colui che aveva scritto l’ordine di cattura nei confronti del padre, Francesco Messina Denaro, a cui viene sostanzialmente imposta la latitanza”, aveva aggiunto il pm Paci.

Nel gennaio 1990 Borsellino aveva chiesto la sorveglianza speciale e il divieto di dimora per don Ciccio, ma il Tribunale di Trapani rigettò la richiesta, ma sulla base delle stesse accuse nell’ottobre dello stesso anno venne emesso un ordine di cattura nei confronti del capomafia”. “Avere il consenso di Matteo Messina Denaro – aveva detto ancora il Pm Paci, Che oggi è reggente della Procura – gli consentiva di avere delle spie in ogni anfratto di Cosa Nostra che potevano portare alla luce quelli che erano i dissensi interni. Matteo Messina Denaro serve proprio a questo, a stanare e uccidere i riottosi”. “Quando nel 1991 comincia la guerra di mafia Paolo Borsellino opera nel trapanese, nel territorio gestito da Matteo Messina Denaro. Abbiamo ripercorso quegli anni maledetti – aveva continuato il Pm Paci – Totò Riina, per iniziare la stagione stragista dovette veramente convincere i rappresentati provinciali della bontà del suo progetto, riuscire a costruire il consenso. Non è sostenibile che Totò Riina avrebbe comunque intrapreso a prescindere quella strada senza avere il consenso di Cosa Nostra, perché se ci fosse stato il dissenso di una delle province ci sarebbe stata una guerra. La storia di quegli anni non sarebbe stata la stessa. Messina Denaro non può aver prestato consenso con riserva. Fu lui più di tutti l’uomo che aiutò Riina a stroncare sul nascere le voci del dissenso interno”. Oggi è arrivata la sentenza, con la condanna a vita per il boss latitante. 21/10/2020di Elvira Terranova ADNKRONOS 


Processo Messina Denaro, il pm Paci: ”Dopo 20 anni domande mai fatte” “L’istruttoria di questo processo è stata difficile perché abbiamo fatto delle domande vent’anni dopo a persone a cui non avevano mai fatto domande del genere”. A dirlo è il Procuratore aggiunto Gabriele Paci nel corso delle repliche all’arringa sostenuta dai legali d’ufficio del latitante Matteo Messina Denaro, imputato davanti ai giudici della Corte d’Assise di Caltanissetta con l’accusa di essere il mandante delle stragi del ’92. Rispetto ai processi, definiti con sentenze passate in giudicato, “qui si aggiungono nuovi temi d’indagine mai esplorati in passato, perché non funzionali alle imputazioni precedenti”, ha detto il magistrato, riferendosi anche ai procedimenti istruiti negli anni novanta, quando da sostituto procuratore era in servizio a Trapani.  Nel corso della loro arringa, gli avvocati d’ufficio del latitante originario di Castelvetrano (Salvatore Pace e Salvatore Baglio), avevano affrontato singolarmente le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, evidenziandone alcune incongruenze. Un metodo secondo Paci scorretto in quanto “se si perde di vista il concetto unitario di questa vicenda complessa si ha gioco facile a prendere i singoli elementi e farli a pezzi, parcellizzandoli”.  Secondo l’accusa il boss di Castelvetrano ereditò il ruolo di vertice della mafia trapanese nell’autunno del ’91.  A chiarire il profilo del latitante a ridosso delle due stragi, “non ci sono soltanto i nuovi pentiti del trapanese, ma anche le dichiarazioni di Spatuzza e Tranchina”, ha riferito il pm, oltre che “le intercettazioni di Totò Riina in carcere, chiarissime nell’indicare chi era Matteo Messina Denaro, anche nel riferimento per l’omicidio di Paolo Borsellino a Marsala”. In alcune sentenze passate in giudicato (tra cui quella sull’attentato di Capaci, ndr) la leadership viene riconosciuta a Mariano Agate, che invece, nel corso della requisitoria dei mesi scorsi, è stato in qualche maniera “declassato” da capo del mandamento di Mazara del Vallo. “Nella sentenza d’appello – ha ricostruito Paci – si dice che Agate e Matteo Messina Denaro erano i capi di fatto, però Agate era stato alla riunione di Enna e per quello venne condannato”.  Tuttavia, ha aggiunto il magistrato, “qui non si è subordinato il ruolo di Matteo Messina Denaro alla sua presenza a riunioni di qualsiasi natura, il 90% dei condannati per quelle Stragi è stato condannato per questo”. Per quanto riguarda Mariano Agate il magistrato ha ribadito che lo stesso è deceduto, “ma se non fosse così, non avremmo minimamente pensato di avanzare una revisione di quella sentenza, che è perfettamente sovrapponibile al ruolo del nostro imputato”. 

Ad inizio udienza si è discusso della documentazione giunta all’attenzione della Corte d’Assise di Caltanissetta, presieduta da Roberta Serio, dal collaboratore di giustizia Vincenzo Calcara. Il carteggio, composto da due lettere ed un esposto scritto, saranno trasmesse per competenza al Tribunale di Catania in quanto vi sono riferimenti contro il pm Paci. A quanto è dato sapere il contenuto delle tre missive si riferisce alla requisitoria condotta dal procuratore aggiunto Paci, nel corso della quale definì Calcara come “uno di quelli che inquinava i pozzi”, riferendosi ad alcune omissioni che sarebbero riscontrate nei suoi verbali. “Le dichiarazioni del Calcara, in questo processo, sono già state valutate nel corso della requisitoria”, ha detto il pm che, dopo aver preso visione delle tre lettere, ha chiesto la trasmissione degli atti al Tribunale di Catania, competente per i fatti che riguardano i magistrati in servizio nel distretto di Caltanissetta. Nel carteggio, tra l’altro, l’ex pentito ricorda di aver iniziato la sua collaborazione con il magistrato Paolo Borsellino, confessando di essersi rifiutato di eseguire un attentato contro il giudice, ordinato da don Ciccio Messina Denaro.  AMDuemila 17.9.2020


UDIENZA 16 SETTEMBRE 2020   “  Rilevo che nello scritto si fa pesante allusione alla mia persona, gettando ombre sulla condotta sull’ufficio della procura nella persona di chi lo ha rappresentato in questo processo, siccome non è mia abitudine lasciare che si allunghino ombre sul mio operato giacchè non ho intenzione di prendere lezioni di morale da nessuno, laddove si adombra che l’attività istruttoria svolta da questo ufficio sia stata in qualche modo indirizzata da un’avversione dello scrivente nei confronti del signor Calcara al punto che sarei stato, diciamo, protagonista di un episodio, il giorno prima dell’inizio della requisitoria, che riguardava il signor Vaccarino nei confronti del quale il signor Calcara diciamo ha un rapporto personale evidentemente non particolarmente esaltante; ma questo non è un problema mio, il problema è che questo esposto viene inviato alla corte. Quindi viene lasciata una traccia alla corte, agli avvocati, a tutti coloro che hanno titolo ad avere accesso a questi atti. Quindi, non avendo nessun problema, e soprattutto nessuna ragione di temere nulla su quello che è stato l’operato della procura, e mio in questo processo , quindi le chiedo signor presidente di trasmettere gli atti alla procura di Catania, competente a valutare se nelle condotte descritte dal signor Calcara possano ravvisarsi elementi a carico dello scrivente.”
Dopo la camera di consiglio prende la parola l’ Avvocato Trizzino, legale dei figli del dr Borsellino “Signor presidente volevo fare una specificazione sulla lettera che è stata inviata dal Calcara, volevo semplicemente, Avvocato Trizzino per i figli del giudice, volevo semplicemente che si mettesse a verbale che io personalmente e le persone che rappresento prendiamo le distanze da qualunque riferimento che il Calcara fa a membri della famiglia Borsellino che io rappresento e anzi colgo l’occasione per diffidarlo dal continuare su questa strada giacchè la famiglia Borsellino in questi anni ha potuto soltanto constatare personalmente la serietà, l’abnegazione, lo sforzo immane che i pubblici ministeri, procuratori, che si sono avvicendati in questi anni, e in particolare proprio il dottor Gabriele Paci, una persona animata da un profondo spirito di ricerca della verità ma con gli strumenti consentiti dal codice e non facendo sociologia o storia, e quindi vorrei ribadire proprio la totale fiducia nell’operato di questa procura della Repubblica. E se siamo a questo punto lo dobbiamo soprattutto al loro lavoro.”

Intervento del legale della famiglia Borsellino avv. Trizzino”come legale dei figli del giudice Borsellino in questo processo, e io personalmente esprimo totale solidarietà alla procura della Repubblica di Caltanissetta in particolare al dottor Paci rispetto alla prospettazione offensiva contenuta nel documento cui noi oggi abbiamo preso visione. Noi della famiglia Borsellino intesi appunto Lucia Fiammetta Manfredi, e mi permetto anche la signora Agnese, hanno avuto totale fiducia nel lavoro di questa procura che dal 2008 sta faticosamente cercando di mettere insieme i pezzi di una verità che è stata fondamentalmente allontanata dall’operato dell’altra procura della Repubblica all’interno del quale c’era anche un componente. Quindi questi attacchi strumentali alla procura di Caltanissetta e soprattutto al dottor Gabriele Paci, di cui veramente mi onoro di essere anche amico, mi sembrano veramente un modo ulteriore per sovvertire ancora una volta la realtà di questa tragedia immane che è una lunga vicenda processuale che non si è ancora conclusa dopo 28 anni perché qualcuno nella procura di allora non ha fatto il proprio dovere. Ed è veramente inaccettabile che si muovano accuse gratuite a chi ha solo cercato, con gli strumenti del codice, e non facendo storia o sociologia, perché i processi si fanno con le prove, di aiutarci a capire cosa in realtà è successo in quella stagione terribile.
Quindi diffido il signor Calcara dall’utilizzare, anche in ragione di pregressi rapporti che nessuno nega con la famiglia Borsellino, di utilizzare i nomi dei figli del giudice o della signora Agnese per sostenere delle iniziative che noi non condividiamo assolutamente. Quindi questo deve rimanere solennemente a verbale; proprio perché” melius re perpensa”e guardando meglio all’interno di questa documentazione, tutto ciò è veramente paradossale. È veramente inaccettabile, grazie.
Presidente  ”vorrei che in ordine al contenuto delle dichiarazioni a prescindere dai riferimenti al dottor Paci vorrei una sua valutazione, argomentazione, circa la rilevanza delle dichiarazioni e l’attendibilità del collaboratore perché la corte non è a conoscenza”

Trizzino ”questa difesa ha fatto le sue valutazioni, abbiamo sostenuto che il giudizio di inattendibilità che la procura a monte ha ha fatto corrispondesse perfettamente si sovrapponesse perfettamente al medesimo giudizio di inattendibilità, che questa difesa, che poteva benissimo citare il Calcara, non lo abbiamo fatto nel corso del processo proprio perché consideravamo le dichiarazioni del Calcara inattendibili. Che poi questa valutazione corrispondesse a quella del pubblico ministero è un accidente.”>> Fonte: FB Fraterno Sostegno ad Agnese Borsellino 16.9.2020


Messina Denaro; pm, partecipò a sequestro Di Matteo “Anche Matteo Messina Denaro partecipa alle barbarie cui fu sottoposto il piccolo Giuseppe Di Matteo, rapito e tenuto prigioniero per tre anni per poi ucciso e sciolto nell’acido, autorizzando che il bambino, nel corso della lunga prigionia, resti per tre occasioni ristretto in un immobile vicino Castellamare e in uno vicino Custonaci”. Così il pm Gabriele Paci che, nel corso della requisitoria per il processo a Mattia Messina Denaro, ha ricostruito la carriera criminale del latitante, imputato, dinanzi alla Corte d’Assise di Caltanissetta di essere uno dei mandanti degli attentati di Capaci e Via D’Amelio.  “Giuseppe Di Matteo, figlio del mafioso Santino – ha continuato Paci – fu sequestrato per tentare di bloccare la collaborazione del padre con la giustizia. Matteo Messina Denaro oltre a organizzare e deliberare il sequestro mette a disposizione, nel trapanese, i covi in cui il piccolo Di Matteo viene tenuto segregato”. Dopo 779 giorni di prigionia il piccolo di Matteo, l’11 gennaio del 1996, venne strangolato e sciolto nell’acido. (ANSA).


Processo a Matteo Messina Denaro – Procuratore Paci a Vincenzo Calcara: Forse sarebbe il momento di dire la verità Nel corso dell’udienza del “Processo a Matteo Messina Denaro accusato di essere uno dei mandanti degli attentati di Capaci e Via D’Amelio”, tenutasi a Caltanissetta venerdì 12 giugno, il Procuratore aggiunto Gabriele Paci, dopo aver ricostruito i rapporti tra “cosa nostra” palermitana e quella trapanese, con particolare riferimento a quelli tra Riina e altri mafiosi di primo piano dell’ala corleonese e i boss storici della provincia trapanese e i Messina Denaro, ha fornito uno spaccato raggelante della realtà castelvetranese, ricordando uomini come l’ex questore Germanà, e altri appartenenti alle forze dell’ordine, che furono tra i primi a individuare nei Messina Denaro elementi di spicco della consorteria mafiosa, furono esposti al rischio di essere uccisi o attaccati al fine di impedirne le indagini, mentre appartenenti all’organizzazione criminale risultavano essere in possesso di regolare porto d’armi. Il Procuratore ha ricostruito quanto emerso nel corso dei numerosi processi sulle stragi, ricordando come diversi collaboratori di giustizia con le loro propalazioni nel corso di tutti questi anni avrebbero dato un notevole contributo alle indagini. Secondo Paci, la causa di così tanti processi fu dovuta a chi allontanò gli inquirenti dalla verità. La si deve all’errore marchiano di aver ritenuto Mariano Agate a capo della mafia della provincia di Trapani, focalizzando quindi l’attenzione su di lui che, nella qualità di capo della provincia, e quindi componente della commissione regionale di “cosa nostra”, fu chiamato a rispondere per Capaci e per la cupola del Borsellino, riportandone condanne. “Al tempo l’attenzione si focalizza su Agate Mariano. Si focalizza su di lui perché viene indicato erroneamente come capo della provincia di Trapani, in particolare da Leonardo Messina e Vincenzo Calcara – afferma il Procuratore Paci – Ma è un errore marchiano, la fragilità di questa impostazione è emersa nel corso del processo, ma era emersa anche nel Capaci”. Secondo i giudici fu un errore al quale si rimediò in corso d’opera, perché alla fine effettivamente erano sorti dei contrasti e non era affatto sicuro che fosse lui, anzi probabilmente non lo era, il capo di “cosa nostra” trapanese,  però diede comunque un contributo sostanziale rafforzando la volontà di compiere la strage di Capaci. Nel corso dell’udienza il Procuratore Paci ha citato l’ex pentito Vincenzo Calcara che da tempo aveva chiesto di essere escusso nel corso di questo procedimento penale. Lex pentito che aveva indicato in Mariano Agate il capo provinciale di “cosa nostra” a Trapani, anziché indicarlo in Francesco Messina Denaro, del quale si definiva “uomo d’onore riservato”, Calcara aveva anche più volte scritto alla Corte d’Assise di Caltanissetta, sollecitando una sua escussione nel corso del processo chiedendo di essere sentito perché aveva indicazioni da dare su Matteo Messina Denaro. Calcara non è stato sentito. Perché? Il motivo lo spiega il Procuratore: “Perché Calcara è il signore che tace per anni il nome di Matteo Messina Denaro. È un collaboratore che nasce 91 come collaboratore come collaboratore di Borsellino. Spiega, dà tante indicazioni, ma non fa mai il nome di Matteo Messina Denaro al tempo in cui Matteo Messina Denaro uccideva e poi faceva le stragi. Sarebbe stato utile, se egli fosse effettivamente a conoscenza delle  gesta di Matteo Messina Denaro, sarebbe stato molto utile se ne avesse parlato nel 92 anziché  dire che il capo di “cosa nostra” era, neanche il padre Francesco , ma Agate Mariano.” A tal proposito, chi scrive, ricorda come durante telefonate intercorse con Vincenzo Calcara, ebbe a chiedere per quale motivo non disse subito che a “capo di cosa nostra” nella provincia di Trapani c’era Francesco Messina Denaro e per quale altra ragione non volle mai fare il nome di Matteo Messina Denaro, che pure ben conosceva essendo quasi coetanei e abitando nello stesso quartiere e avendo narrato dei loro rapporti fin da ragazzi nel libro dal titolo “Dai memoriali di Vincenzo Calcara – Le cinque entità rivelate a Paolo Borsellino”, scritto dalla giornalista Simona Mazza, che raccolse le testimonianze dell’ex pentito (analoghe testimonianze, sono pubblicate sul sito 19luglio1992). Alle domande in merito al ruolo di Francesco Messina Denaro e del perché non parlò di suo figlio Matteo, l’ex pentito affermò che Francesco Messina Denaro non poteva essere a capo di “cosa nostra” in quanto latitante (Riina, Provenzano e altri, non lo erano?) mentre di Matteo avrebbe spiegato successivamente perché non ne aveva parlato. I quasi trent’anni trascorsi dagli inizi della sua collaborazione, evidentemente, non permettevano ancora a Calcara di parlare di colui che se solo lo avesse indicato in quel lontano 1991, forse avrebbe impedito l’uccisione del Giudice Borsellino. “Forse sarebbe il momento di dire la verità, lui e tanti altri – continua il Procuratore riferendosi a Calcara – proprio su questi punti oscuri che ancora impediscono di fare luce sulle ambiguità, sui misteri che ancora permangono nonostante i tanti processi celebrati nella ricostruzione di queste vicende”. Paci sottolinea che Calcara dovrebbe  chiarire per quale motivo, a quel tempo, lui, anziché parlare di Matteo Messina Denaro, cioè nasce l’astro nascente, indicò in Mariano Agate il capo provinciale di “cosa nostra”. “Agate Mariano, che certamente non era un uomo  secondo a nessuno per l’esperienza, è un  uomo che  è stato  imputato e condannato nel primo  maxi; è uno che dagli anni settanta fa traffico internazionale di stupefacenti ad altissimo livello. Cioè, qui  non parliamo di Agate Mariano come fosse un uomo  di secondo ordine, Agate Mariano è un uomo di  primo ordine, di prima grandezza nel panorama mafioso, ma non aveva la qualifica di  capo, di rappresentante della Provincia di Trapani. Qualifica che apparteneva a Messina Denaro  Francesco,  che cede in successione, con l’avallo di Totò Riina,  al figlio”. Già, perché Calcara indicò in Agate Mariano il capo di “cosa nostra” della provincia di Trapani e non Francesco Messina Denaro? Perché non fece il nome di Matteo, che durante quel periodo organizzava le stragi? “Perché – continua il Procuratore – il signor Calcara  abbia voluto indirizzarci verso qualcosa che non era  storicamente preciso e perché non abbia voluto riferire del signor  Matteo Messina Denaro quando era il momento di riferire,  questo forse potrebbe essere la spiegazione di tante vicende e anche un punto d’ interesse per le future indagini”. Sì, forse partendo proprio da Calcara si potrebbe iniziare a far chiarezza su molti aspetti oscuri delle stragi e su possibili connivenze tra appartenenti alle istituzioni e uomini di “cosa nostra”, tra intrecci politico-affaristici-mafiosi e quel qualcosa che oggi ancora stentiamo a credere e a nominare. Quel che più addolora chi scrive, sotto il profilo umano, è stata l’ignobile capacità del falso pentito Vincenzo Calcara di non aver fatto nulla per salvare la vita del compianto Giudice Borsellino rivelando chi realmente era a capo della consorteria mafiosa della provincia di Trapani, e aver ingannato i famigliari del Giudice, anch’essi traditi, come tradito da un amico fu Paolo Borsellino. Ingannati anche gli investigatori, i magistrati e i giornalisti, con la stessa facilità contenuta nelle sue parole, raccontate da un suo compagno di cella: “Per prender per fessi i Giudici e i Carabinieri, basta solo un po’ di fantasia”. Gian. LA VALLE DEI TEMPLI 19.6.20


IL PADRE BOSS DEL BOSS  Francesco Messina Denaro, soprannominato Don Ciccio (Castelvetrano20 gennaio 1928[1] – Castelvetrano30 novembre 1998), è stato un criminale italiano, legato a Cosa Nostra. È stato il capo della cosca di Castelvetrano e del relativo mandamento, a partire dai primi anni ottanta. Era il padre del super latitante Matteo Messina Denaro. Francesco Messina Denaro, padre di Matteo Messina Denaro e di Patrizia Messina Denaro, con il figlio Matteo svolgeva l’occupazioni di fattore presso le tenute agricole della famiglia D’Alì, proprietari della Banca Sicula di Trapani (in quegli anni il più importante istituto bancario privato siciliano) e delle saline di Trapani e Marsala. In realtà era a capo del mandamento di Castelvetrano dopo la seconda guerra di mafia dei primi anni ’80, quando con il mazarese Mariano Agate fu alleato dei corleonesi, contro le famiglie palermitane e quelle alcamesi dei Rimi e trapanesi dei Minore. [4] Condannato a dieci anni dal tribunale di Trapani nel 1989 si rese latitante. Nel 1992 il collaboratore di giustizia Vincenzo Calcara accusò Antonino Vaccarino, ex sindaco di Castelvetrano, di essere affiliato alla locale cosca in cui ricopriva la carica di “consigliere” del capo Francesco Messina Denaro. Vaccarino querelò Calcara per calunnia ma i giudici prosciolsero il collaboratore di giustizia perché specificarono nelle sentenza del processo che erano «accertati e significativi rapporti tra il Vaccarino e altri esponenti dell’articolazione locale di Cosa Nostra, quali Francesco Messina Denaro […]» con cui l’ex sindaco aveva costituito una cooperativa agricola[8]; tuttavia nei processi in cui era imputato, Vaccarino venne condannato in via definitiva soltanto per traffico di stupefacenti ma assolto dall’accusa di associazione mafiosa Nel 1994 fu tra i 74 mandati di custodia cautelare dell’operazione Petrov. Ricercato da più di 8 anni, Francesco Messina Denaro è stato ritrovato morto il 30 novembre 1998 nelle campagne di Castelvetrano, stroncato da un infarto Nell’ambito del processo per l’omicidio di Mauro Rostagno, i pentiti Angelo Siino e Vincenzo Sinacori hanno dichiarato che l’omicidio è stato voluto da Francesco Messina Denaro, il quale aveva dato incarico al boss Vincenzo Virga perché provvedesse all’uccisione di Rostagno. 

Mafia: Messina Denaro; pm, partecipò a sequestro Di Matteo“Anche Matteo Messina Denaro partecipa alle barbarie cui fu sottoposto il piccolo Giuseppe Di Matteo, rapito e tenuto prigioniero per tre anni per poi ucciso e sciolto nell’acido, autorizzando che il bambino, nel corso della lunga prigionia, resti per tre occasioni ristretto in un immobile vicino Castellamare e in uno vicino Custonaci”. Così il pm Gabriele Paci che, nel corso della requisitoria per il processo a Mattia Messina Denaro, ha ricostruito la carriera criminale del latitante, imputato, dinanzi alla Corte d’Assise di Caltanissetta di essere uno dei mandanti degli attentati di Capaci e Via D’Amelio. “Giuseppe Di Matteo, figlio del mafioso Santino – ha continuato Paci – fu sequestrato per tentare di bloccare la collaborazione del padre con la giustizia. Matteo Messina Denaro oltre a organizzare e deliberare il sequestro mette a disposizione, nel trapanese, i covi in cui il piccolo Di Matteo viene tenuto segregato”. Dopo 779 giorni di prigionia il piccolo di Matteo, l’11 gennaio del 1996, venne strangolato e sciolto nell’acido. (ANSA).


Processo a Matteo Messina Denaro – Procuratore Paci a Vincenzo Calcara: Forse sarebbe il momento di dire la verità   Nel corso dell’udienza del “Processo a Matteo Messina Denaro accusato di essere uno dei mandanti degli attentati di Capaci e Via D’Amelio”, tenutasi a Caltanissetta venerdì 12 giugno, il Procuratore aggiunto Gabriele Paci, dopo aver ricostruito i rapporti tra “cosa nostra” palermitana e quella trapanese, con particolare riferimento a quelli tra Riina e altri mafiosi di primo piano dell’ala corleonese e i boss storici della provincia trapanese e i Messina Denaro, ha fornito uno spaccato raggelante della realtà castelvetranese, ricordando uomini come l’ex questore Germanà, e altri appartenenti alle forze dell’ordine, che furono tra i primi a individuare nei Messina Denaro elementi di spicco della consorteria mafiosa, furono esposti al rischio di essere uccisi o attaccati al fine di impedirne le indagini, mentre appartenenti all’organizzazione criminale risultavano essere in possesso di regolare porto d’armi. Il Procuratore ha ricostruito quanto emerso nel corso dei numerosi processi sulle stragi, ricordando come diversi collaboratori di giustizia con le loro propalazioni nel corso di tutti questi anni avrebbero dato un notevole contributo alle indagini. Secondo Paci, la causa di così tanti processi fu dovuta a chi allontanò gli inquirenti dalla verità. La si deve all’errore marchiano di aver ritenuto Mariano Agate a capo della mafia della provincia di Trapani, focalizzando quindi l’attenzione su di lui che, nella qualità di capo della provincia, e quindi componente della commissione regionale di “cosa nostra”, fu chiamato a rispondere per Capaci e per la cupola del Borsellino, riportandone condanne. “Al tempo l’attenzione si focalizza su Agate Mariano. Si focalizza su di lui perché viene indicato erroneamente come capo della provincia di Trapani, in particolare da Leonardo Messina e Vincenzo Calcara – afferma il Procuratore Paci – Ma è un errore marchiano, la fragilità di questa impostazione è emersa nel corso del processo, ma era emersa anche nel Capaci”. Secondo i giudici fu un errore al quale si rimediò in corso d’opera, perché alla fine effettivamente erano sorti dei contrasti e non era affatto sicuro che fosse lui, anzi probabilmente non lo era, il capo di “cosa nostra” trapanese,  però diede comunque un contributo sostanziale rafforzando la volontà di compiere la strage di Capaci. Nel corso dell’udienza il Procuratore Paci ha citato l’ex pentito Vincenzo Calcara che da tempo aveva chiesto di essere escusso nel corso di questo procedimento penale. Lex pentito che aveva indicato in Mariano Agate il capo provinciale di “cosa nostra” a Trapani, anziché indicarlo in Francesco Messina Denaro, del quale si definiva “uomo d’onore riservato”, Calcara aveva anche più volte scritto alla Corte d’Assise di Caltanissetta, sollecitando una sua escussione nel corso del processo chiedendo di essere sentito perché aveva indicazioni da dare su Matteo Messina Denaro. Calcara non è stato sentito. Perché? Il motivo lo spiega il Procuratore: “Perché Calcara è il signore che tace per anni il nome di Matteo Messina Denaro. È un collaboratore che nasce 91 come collaboratore come collaboratore di Borsellino. Spiega, dà tante indicazioni, ma non fa mai il nome di Matteo Messina Denaro al tempo in cui Matteo Messina Denaro uccideva e poi faceva le stragi. Sarebbe stato utile, se egli fosse effettivamente a conoscenza delle  gesta di Matteo Messina Denaro, sarebbe stato molto utile se ne avesse parlato nel 92 anziché  dire che il capo di “cosa nostra” era, neanche il padre Francesco , ma Agate Mariano.” A tal proposito, chi scrive, ricorda come durante telefonate intercorse con Vincenzo Calcara, ebbe a chiedere per quale motivo non disse subito che a “capo di cosa nostra” nella provincia di Trapani c’era Francesco Messina Denaro e per quale altra ragione non volle mai fare il nome di Matteo Messina Denaro, che pure ben conosceva essendo quasi coetanei e abitando nello stesso quartiere e avendo narrato dei loro rapporti fin da ragazzi nel libro dal titolo “Dai memoriali di Vincenzo Calcara – Le cinque entità rivelate a Paolo Borsellino”, scritto dalla giornalista Simona Mazza, che raccolse le testimonianze dell’ex pentito (analoghe testimonianze, sono pubblicate sul sito 19luglio1992). Alle domande in merito al ruolo di Francesco Messina Denaro e del perché non parlò di suo figlio Matteo, l’ex pentito affermò che Francesco Messina Denaro non poteva essere a capo di “cosa nostra” in quanto latitante (Riina, Provenzano e altri, non lo erano?) mentre di Matteo avrebbe spiegato successivamente perché non ne aveva parlato. I quasi trent’anni trascorsi dagli inizi della sua collaborazione, evidentemente, non permettevano ancora a Calcara di parlare di colui che se solo lo avesse indicato in quel lontano 1991, forse avrebbe impedito l’uccisione del Giudice Borsellino. “Forse sarebbe il momento di dire la verità, lui e tanti altri – continua il Procuratore riferendosi a Calcara – proprio su questi punti oscuri che ancora impediscono di fare luce sulle ambiguità, sui misteri che ancora permangono nonostante i tanti processi celebrati nella ricostruzione di queste vicende”. Paci sottolinea che Calcara dovrebbe  chiarire per quale motivo, a quel tempo, lui, anziché parlare di Matteo Messina Denaro, cioè nasce l’astro nascente, indicò in Mariano Agate il capo provinciale di “cosa nostra”. “Agate Mariano, che certamente non era un uomo  secondo a nessuno per l’esperienza, è un  uomo che  è stato  imputato e condannato nel primo  maxi; è uno che dagli anni settanta fa traffico internazionale di stupefacenti ad altissimo livello. Cioè, qui  non parliamo di Agate Mariano come fosse un uomo  di secondo ordine, Agate Mariano è un uomo di  primo ordine, di prima grandezza nel panorama mafioso, ma non aveva la qualifica di  capo, di rappresentante della Provincia di Trapani. Qualifica che apparteneva a Messina Denaro  Francesco,  che cede in successione, con l’avallo di Totò Riina,  al figlio”. Già, perché Calcara indicò in Agate Mariano il capo di “cosa nostra” della provincia di Trapani e non Francesco Messina Denaro? Perché non fece il nome di Matteo, che durante quel periodo organizzava le stragi? “Perché – continua il Procuratore – il signor Calcara  abbia voluto indirizzarci verso qualcosa che non era  storicamente preciso e perché non abbia voluto riferire del signor  Matteo Messina Denaro quando era il momento di riferire,  questo forse potrebbe essere la spiegazione di tante vicende e anche un punto d’ interesse per le future indagini”. Sì, forse partendo proprio da Calcara si potrebbe iniziare a far chiarezza su molti aspetti oscuri delle stragi e su possibili connivenze tra appartenenti alle istituzioni e uomini di “cosa nostra”, tra intrecci politico-affaristici-mafiosi e quel qualcosa che oggi ancora stentiamo a credere e a nominare. Quel che più addolora chi scrive, sotto il profilo umano, è stata l’ignobile capacità del falso pentito Vincenzo Calcara di non aver fatto nulla per salvare la vita del compianto Giudice Borsellino rivelando chi realmente era a capo della consorteria mafiosa della provincia di Trapani, e aver ingannato i famigliari del Giudice, anch’essi traditi, come tradito da un amico fu Paolo Borsellino. Ingannati anche gli investigatori, i magistrati e i giornalisti, con la stessa facilità contenuta nelle sue parole, raccontate da un suo compagno di cella: “Per prender per fessi i Giudici e i Carabinieri, basta solo un po’ di fantasia”.   LA VALLE DEI TEMPLI 19.6.20


Prima della strage di Capaci, Cosa Nostra aveva progettato l’eliminazione “eclatante” del giudice Paolo Borsellino, con un’autobomba a Marsala  ma i boss si rifiutarono.  Sarebbero morte troppe persone. A raccontarlo in Corte d’Assise il pentito Carlo Zichittella, nel processo a carico del superlatitante Matteo Messina Denaro, per le stragi del 1992. Borsellino dirigeva la procura della Repubblica a Marsala, tra la fine del ’91 ed i primi del ’92. Il pentito ha raccontato di aver saputo da Gaetano D’Amico della riunione che si tenne a Mazara del Vallo. I capi Francesco D’Amico e Francesco Craparotta, interpellati dalla famiglia di Mazara, si rifiutarono di eliminare Borsellino in “modalità eclatanti” e per questo furono uccisi.

 

 

 

 

 

 


AUDIO UDIENZE TRIBUNALE DI CALTANISETTA PROCESSO A MESSINA DENARO


 

 

 

 a cura di Claudio Ramaccini, Direttore Centro Studi Sociali contro la mafia – PSF