“AVEVA 13 ANNI, DOPO 779 GIORNI DI PRIGIONIA L’ABBIAMO STRANGOLATO E SCIOLTO NELL’ACIDO”

 


Era il  23 novembre 1993 quando venne rapito Giuseppe di Matteo, figlio del collaborante Santino
.
Il 28 Luglio 1998 Vincenzo Chiodo racconta in aula, durante il processo Bagarella, l’esecuzione dell’omicidio.  Un racconto dell’orrore. Il 15 luglio 2002 la Corte di Cassazione conferma la sentenza di primo grado di condanna di esecutori e mandanti.

11 anni, tenuto in ostaggio fino all’11 Gennaio 1996, strangolato ed il corpo sciolto nell’acido. Giovanni Brusca Ordinò: “allibertativi du cagnuleddu”

Giuseppe Di Matteo (1981-1996) figlio del collaboratore di giustizia Santino Di Matteo, ex-mafioso, divenne vittima di una vendetta trasversale nel tentativo di far tacere il padre.
Fu rapito il 23 novembre 1993, quando aveva 12 anni, al maneggio di Altofonte (PA) da un gruppo di mafiosi che agivano su ordine di Giovanni Brusca, allora latitante e boss di San Giuseppe Jato.
Secondo le deposizioni di Gaspare Spatuzza, che prese parte al rapimento, i sequestratori si travestirono da poliziotti ingannando facilmente il bambino, che credeva di poter rivedere il padre in quel periodo sotto protezione lontano dalla Sicilia. Dice Spatuzza: “Agli occhi del bambino siamo apparsi degli angeli, ma in realtà eravamo dei lupi. (…) Lui era felice, diceva ‘Papà mio, amore mio’ “. Il piccolo fu legato e lasciato nel cassone di un furgoncino Fiat Fiorino, prima di essere consegnato ai suoi carcerieri.
La famiglia cercò presso tutti gli ospedali cittadini notizie del figlio, ma quando, il 1º dicembre 1993, un messaggio su un biglietto giunse alla famiglia con scritto «Tappaci la bocca» e due foto del bambino che teneva in mano un quotidiano del 29 novembre 1993, fu subito chiaro che il rapimento era finalizzato a spingere Santino Di Matteo a ritrattare le sue rivelazioni sulla strage di Capaci e sull’uccisione dell’esattore Ignazio Salvo.
Il 14 dicembre 1993, Francesca Castellese, moglie di Di Matteo, denunciò la scomparsa del figlio. In serata fu recapitato un nuovo messaggio a casa del suocero (Giuseppe Di Matteo, padre di Santino) con scritto «Il bambino lo abbiamo noi e tuo figlio non deve fare tragedie». Dopo un iniziale cedimento psicologico il pentito non si piegò al ricatto, sebbene fosse angosciato dalle sorti del figlio, e decise di proseguire la collaborazione con la giustizia. Brusca decise così l’uccisione del ragazzo, ormai fortemente dimagrito e indebolito per la prolungata e dura prigionia, e che venne strangolato e successivamente sciolto nell’acido l’11 gennaio 1996, all’età di 15 anni, dopo 779 giorni di prigionia.
Per l’omicidio del piccolo Giuseppe, oltre che Giovanni Brusca, sono stati condannati all’ergastolo i boss Leoluca Bagarella e Gaspare Spatuzza.
Giuseppe Di Matteo era un bambino come gli altri, sorrideva speranzoso alla vita e amava i cavalli. Troppo piccolo per avere qualche colpa. Il suo peccato originale: essere il figlio di Santino Di Matteo che, dopo le bombe che costarono la vita a Falcone e Borsellino, cominciò a collaborare con lo Stato.

 


Il piazzale intitolato al bimbo vittima di mafia

 

La commozione di Nicola, fratello di Giuseppe Di Matteo: “I ragazzi ricorderanno cos’è successo”. L’ex ispettore Dia: “È sempre con me”

 

Il piazzale intitolato al bimbo vittima di mafia

C’è una madre a cui non è mai stato restituito il figlio, che non ha avuto un corpo su cui poter piangere, a cui però oggi vengono intitolate scuole, parchi e piazze. Nella giornata della memoria e dell’impegno in ricordo delle vittime innocenti delle mafie, il Comune di Casalgrande, da anni attento al tema della legalità, ha intitolato la piazzetta antistante le scuole medie L. Spallanzani a Giuseppe Di Matteo, il piccolo sequestrato e poi ucciso all’età di 14 anni (strangolato e sciolto nell’acido) l’11 gennaio 1996, per ordine di alcuni esponenti di Cosa Nostra, con l’intento di intimidire il padre Santino di Matteo, collaboratore di giustizia ed ex mafioso, affinché non aiutasse gli investigatori nella loro attività antimafia. Durante il progetto educativo ‘La Mafia spiegata ai bambini’ hanno portato la loro preziosa testimonianza Nicola Di Matteo, fratello di Giuseppe, e Giuseppe Giordano, ex ispettore Dia. Sono passati trent’anni da quel brutale assassinio e molte cose sono cambiate, ma per Nicola, che oggi ha gli occhi lucidi e un ‘nodo in gola’, questo dolore continua ad essere un tormento straziante. “Mi ha commosso la scelta di intitolare la piazza antistante una scuola a un bambino che è stato vittima della mafia, i ragazzi ricorderanno cos’è successo a mio fratello”. È soddisfatto pure Giuseppe Giordano: “È bello vedere così tanti giovani appassionati a questa giornata importante – commenta –. L’intitolazione in onore di Giuseppe ci emoziona, in altre parti d’Italia queste piazze non si vedono, mentre Casalgrande è sempre stata molto impegnata sulla legalità”.

Era il 23 novembre del 1993 quando il dodicenne venne rapito dagli esponenti di Cosa Nostra. Il ricordo di Giordano è nitido: “Fui incaricato di svolgere le indagini nel cercare di scoprire la prigione di Giuseppe ma io e la mia squadra non ci riuscimmo, forse avremmo potuto fare qualcosa in più per trovarlo… Successivamente i miei colleghi della Dia trovarono il rifugio e arrestarono gli autori, non partecipai a questa operazione poiché ero a Roma. Ma dentro di me resta il profondo dolore per non essere riuscito a salvare questo bambino che certamente non meritava di essere ucciso in quel modo brutale. E c’è pure la rabbia che mi attraversa perché non è stato lasciato il corpicino a cui donare un fiore. Giuseppe è sempre nei miei pensieri, seppure io non l’abbia mai conosciuto”. “Resta solo la sofferenza – aggiunge Nicola Di Matteo – perché, come diceva Pippo, non abbiamo un loculo dove portare un fascio di fiori e questo, soprattutto per mia mamma, è un tormento eterno”. La notizia dell’arresto, e successivamente della morte, di Matteo Messina Denaro, a Nicola non ha provocato alcun sollievo. “Certo, con lui è stato catturato l’ultimo capo di Cosa Nostra, che ha partecipato al sequestro e all’omicidio di mio fratello. Ma avrei preferito soffrisse quanto ha sofferto Giuseppe e la mia famiglia”. Poi, Di Matteo e Giordano si girano e osservano il piazzale: “La speranza è che anche questa manifestazione così accorata ci porti a far comprendere che la mafia è una cosa brutta”. IL RESTO DEL CARLINO

 

Messina Denaro decise di sequestrare il piccolo Di Matteo ma è errato ritenerlo l’unico colpevole

 


SOPPRESSIONE DEL PICCOLO GIUSEPPE DI MATTEO: «Ma davvero nega?

CRIMINALE MA SOLO A METÀ… : Messina Denaro si tira fuori dall’omicidio del piccolo Giuseppe Di Matteo

 


 

Estratto dalla sentenza sull’ omicidio del piccolo Giuseppe Di Matteo

 


Rapimento e omicidio del piccolo  Giuseppe Di Matteo 


 AUDIO DEPOSIZIONI AL PROCESSO


                   VIDEO

 

La cella, il letto e la botola. L’inferno del piccolo Giuseppe Di Matteo  Il figlio quindicenne del pentito Santino Di Matteo lo tenevano rinchiuso qui, nel sotterraneo di un vecchio casolare immerso nelle campagne di San Giuseppe Jato. Non c’è una finestra. Un tempo, non c’era neanche una porta: il boss Giovanni Brusca aveva fatto costruire un montacarichi per arrivare alla prigione bunker. L’11 gennaio di 25 anni fa, il pavimento si abbassò. I carcerieri afferrarono il bambino disteso sul letto. “Non ci fu bisogno di stringerlo molto mentre lo strangolavamo – ha detto il pentito Giuseppe Monticciolo – non aveva più la forza di fiatare”.
Erano passati 779 giorni dal momento del sequestro ordinato dai vertici di Cosa nostra per far ritrattare il padre di Giuseppe, il primo pentito ad aver svelato i segreti della strage Falcone. Oggi il casolare è diventato un Giardino della memoria. Salvo Palazzolo e Giorgio Ruta LA REPUBBLICA 10.1.2020  VIDEO

 


Dal VERBALE di Vincenzo Chiodo all’udienza del 28 luglio 1998 ha raccontato le fasi della uccisione del bambino, soppresso la sera dell’11 gennaio 1996. 


Già nelle sere precedenti era stata avvertito da Francesco La Rosa di recarsi in campagna, perchè doveva arrivare Enzo Salvatore Brusca. Aveva a lungo atteso in una diversa strada, giacchè – come aveva fatto sapere al Brusca tramite il La Rosa medesimo – la via maestra non era transitabile a causa delle piogge e doveva seguirsi altro percorso. La prima sera lo stesso La Rosa lo aveva informato che Brusca non sarebbe venuto e che l’appuntamento era rinviato all’indomani. Lo stesso era avvenuto il giorno seguente, allorchè aveva atteso invano dalle ore 19 sino alle ore 22 o 23. La Rosa non gli aveva spiegato le ragione della venuta del Brusca. La terza sera, infine, il medesimo La Rosa lo aveva ancora una volta avvertito che l’incontro ci sarebbe stato; gli aveva anzi detto di preparare della carne per la cena. Aveva invitato il suo interlocutore a rimanere in loro compagnia, ma questi, all’apparenza terrorizzato, aveva declinato l’invito, dicendogli: “No no, me ne vado, sono fatti vostri, fatti vostri e fatti vostri”. Tale comportamento gli era sembrato alquanto strano, anche perchè il La Rosa di solito aveva sempre accettato di buon grado l’invito. In controesame all’udienza del 29.7.98 Chiodo ha ribadito che aveva atteso la venuta di Enzo Brusca in quel di Giambascio almeno un paio di giorni prima. Erano stati Monticciolo Giuseppe e La Rosa Francesco ad avvertirlo che doveva sopraggiungere il Brusca; era impossibile che avessero potuto prenderlo in giro, perchè su queste cose non si era mai scherzato. Dopo che il piccolo Di Matteo era rimasto definitivamente a Giambascio, il Brusca Enzo Salvatore non aveva piu` frequentato quella casa; era venuto soltanto il giorno in cui era stato strangolato l’ostaggio. Doveva arrivare due giorni prima, ma Chiodo sconosceva se doveva rimanere lì o se per il bambino; nessuno gli aveva detto alcunchè, in quanto gli era stato ordinato soltanto di comprare della carne e quel che potesse servire per la cena e di attendere nella casa. Enzo Salvatore Brusca era arrivato verso le ore 21 a bordo di una Fiat Uno pilotata da altra persona che Chiodo, nascosto tra i cespugli a fumare una sigaretta, non aveva riconosciuto. Era sceso dalla macchina, aveva saluto il suo accompagnatore, che era andato subito via, ed era andato incontro al collaborante che frattanto era uscito allo scoperto. Enzo Brusca lo aveva messo sottobraccio e gli aveva detto “figliolo, andiamo !”, ritenendo che fossero a piedi. Chiodo aveva prelevato la macchina che aveva in precedenza nascosto ed insieme avevano raggiunto la casa di Giambascio. Appena davanti al cancello, Brusca gli aveva chiesto del bambino, che non aveva più rivisto sin da quando era stato portato a Giambascio. Il collaborante lo aveva rassicurato che stava bene e che quel giorno aveva mangiato delle uova che il ragazzo stesso aveva cucinato, avendo a disposizione un fornellino. Aveva manifestato contemporaneamente il desiderio di vederlo ed, avendogli egli fatto presente che aveva lasciato nella sua abitazione in paese il telecomando per azionare il saliscendi e le chiavi per aprire la porta di ferro, aveva detto di soprassedere sino all’arrivo di Giuseppe Monticciolo. Chiodo aveva così appreso che doveva sopraggiungere pure quest’ultimo. Costui era arrivato poco dopo ed aveva esplicitamente comunicato che si doveva uccidere il bambino, senza specificare chi ne avesse impartito l’ordine; aveva contemporaneamente chiesto a Vincenzo Chiodo – il quale aveva già intuito la terribile sorte che stava per toccare all’ostaggio attraverso l’eccessivo interessamento dimostrato dal Brusca verso il ragazzo – se se la sentisse di farlo. Enzo Brusca aveva mostrato una certa riluttanza e, nel vano tentativo di soprassedere, aveva fatto presente che Chiodo non aveva con sè il telecomando e che oltre tutto occorreva prelevare l’acido presso tal “Funcidda” per dissolvere il corpo, la nafta per attivare il generatore di corrente elettrico ed altro. Quando Monticciolo aveva, dunque, comunicato quella sera la suprema decisione, dopo che Enzo Brusca, avanzando difficoltà organizzative, aveva proposto che la macabra operazione fosse rinviata all’indomani e dopo che era prevalsa la linea oltranzista del Monticciolo medesimo, si erano un po’ consultati per distribuire a ciascuno il proprio compito, essendovi parecchia indecisione su chi dovesse materialmente uccidere il bambino. Monticciolo proponeva, infatti, che fosse il Chiodo o il Brusca ad agire, dicendo: “lo fai tu, lo faccio io”; Enzo Brusca in apparenza manifestava la volontà che il Chiodo ne fosse tenuto fuori, ma in concreto voleva verificare se il collaborante si facesse avanti. Ad ogni buon conto, avevano organizzato le operazioni preliminari: Monticciolo si era allontanato adducendo che si recava a prendere l’acido presso tale “Funcidda”, che il collaborante sconosceva; Chiodo si era recato in paese per prendere nella sua officina un fusto in lamiera, uno scalpello e un mazzuolo per scoperchiare il fusto. Si era poi ricordato che un recipiente siffatto era custodito a Giambascio, sicchè si era limitato a prelevare un bruciatore a gas, lo scalpello, il mazzuolo, il telecomando, le chiavi e ad acquistare presso il distributore di carburante la nafta. Munito dell’occorrente necessario, il collaborante era ritornato in campagna e poco dopo era tornato pure Giuseppe Monticciolo, portando due fustini di plastica di circa venti litri pieni di acido; aveva, quindi, prelevato da un capanno uno dei fusti utilizzati per conservare la nafta, lo aveva portato dentro casa e con scalpello e martello aveva provveduto a scoperchiare il fusto, cercando di fare il minor rumore possibile. Compiuta tale operazione, tutti e tre insieme avevano portato giù nel bunker il fusto appena tagliato e i due fustini di acido, depositandoli davanti la porta della cella dell’ostaggio. Monticciolo aveva contemporaneamente riferito al Chiodo che doveva far scrivere al bambino una lettera, nella quale egli comunicava al nonno che era stato abbandonato da tutti, che aveva tentato il suicidio impiccandosi con le lenzuola, ma che era stata salvato. Insieme – Monticciolo e Chiodo – ne avevano poi indicato il testo al bambino, invitandolo a preparare la missiva che avrebbero ritirato dopo. Erano risaliti nel piano superiore, uscendo fuori, e avevano cenato nella cucina sottostante, mangiando carne arrostita in padella, preparata dal Chiodo. Dopo cena, che si era svolta in un clima del tutto tranquillo, il collaborante aveva tagliato un pezzo di corda da una fune che si trovava all’esterno ed Enzo Brusca l’aveva annodata per formare il cappio. Erano ridiscesi nel bunker; Chiodo si era fatto consegnare la lettera, ritirandola dalla mani del ragazzo senza fare uso di guanti (tanto da essere stato rimproverato dal Monticciolo per il fatto che avrebbe potuto lasciare pericolose impronte digitali); si erano infine apprestati a compiere la macabra operazione dello strangolamento. Chiodo, nonostante che Enzo Brusca avesse prima manifestato il suo dissenso a che egli intervenisse, si era fatto avanti in omaggio alla regola che più volte gli aveva ripetuto lo stesso Brusca: “Mai tirarsi indietro su qualsiasi eventuale occasione”. Era del tutto tranquillo, non lo impensieriva minimamente il fatto che dovesse uccidere un bambino: “… il dovere era piu` forte di questo, cioe` perche’ li` non e` che uno poteva rifiutare al momento questo, perche’ poteva succedere diciamo il peggio”. In quel momento non aveva neppure pensato ai suoi figli; se ne era vergognato di fronte a loro quando aveva fatto la sua scelta di collaborare. Era la prima volta che uccideva una persona; in precedenza aveva collaborato con i medesimi soggetti e con l’aggiunta di Romualdo Agrigento all’occultamento di cadaveri. Sempre in controesame, Chiodo ha aggiunto che, quando si doveva strangolare il bambino, sia il Monticciolo che Enzo Brusca gli avevano detto: “Va beh, lo fai appoggiare li` al muro, gli metti la corda al collo, la tiri che poi noi ti aiutiamo”. In effetti Chiodo – così come gli era stato ordinato – aveva fatto appoggiare il bambino al muro con le braccia alzate, gli aveva messo la corda al collo, l’aveva tirata ed erano intervenuti gli altri. In pochi attimi il piccolo era rimasto soffocato. Il collaborante, quasi con aria di compiacimento, ha spiegato in dettaglio tutte le operazioni compiute; aveva aperto la porta; il ragazzo stava in piedi vicino al letto ed ha così proseguito il suo racconto: “Si, allora gia` eravamo nella stanza, io ho aperto la porta…, ho fatto pure fatica ad aprire la porta perche’ era quasi arrugginita, perche’ giu` c’era molta umidita`…, c’era sempre la condensa del corpo che stava chiuso senza avere un’aria … come in altre case. Allora io ho detto al bambino – io ero ancora incappucciato – ho detto al bambino di mettersi in un angolo cioe` vicino al letto, quasi ai piedi del letto, in un angolo con le braccia alzate e con la faccia al muro. Allora il bambino, per come io gli ho detto, si e` messo di fronte il muro, diciamo, a faccia al muro. Io ci sono andato da dietro, ci ho messo la corda al collo. Tirandolo con uno sbalzo forte, me lo sono tirato indietro e l’ho appoggiato a terra. Enzo Brusca si e` messo sopra le braccia inchiodandolo in questa maniera (incrocia le braccia) e Monticciolo si e` messo sulle gambe del bambino per evitare che si muoveva. Nel momento della aggressione che io ho buttato il bambino giu` e Monticciolo si stava avviando per tenere le gambe, gli dice “mi dispiace”, rivolto al bambino, “tuo papa` ha fatto il cornuto”. Nello stesso momento o subito dopo Enzo Brusca dice “ti dovevo guardare meglio degli occhi miei”, dice, “eppure chi lo doveva dire?”, queste sono state le parole diciamo al bambino. Io mi ricordo il bambino, cioe` me lo ricordo quasi giornalmente la faccia, diciamo, mi ricordo sempre, ce l’ho sempre davanti agli occhi. …Il bambino non ha capito niente, perche’ non se l’aspettava, non si aspettava niente e poi il bambino ormai non era.. come voglio dire, non aveva la reazione piu` di un bambino, sembrava molle, … anche se non ci mancava mangiare, non ci mancava niente, ma sicuramente.. non lo so, mancanza di liberta`, il bambino diciamo era molto molle, era tenero, sembrava fatto di burro…, cioe` questo, il bambino penso che non ha capito niente, neanche lui ha capito, dice: sto morendo, penso non l’abbia neanche capito. Il bambino ha fatto solo uno sbalzo di reazione, uno solo e lento, ha fatto solo quello e poi non si e` mosso piu`, solo gli occhi, cioe` girava gli occhi … A me poi mi sono cominciate tremare le gambe ed io ho lasciato il posto a Monticciolo, che lui mi ha detto di andare anche sopra, dopo che pero` il bambino penso che gia` era morto perche’ si vedeva che gia` gli occhi proprio al di fuori… vedevo la bava che gli usciva tutta dalla bocca. Ed io sono uscito, nell’attimo che stavo andando sopra a vedere se c’era movimento strano … e ho visto il Monticciolo che tirava forte la corda e con il piede batteva forte nella corda per potere stringere ancora il cappio, nella corda... Ho preso un pochettino d’aria, sono risceso e ho detto a Monticciolo “dammi di nuovo a me la corda” e il Monticciolo dice “va beh, lascia stare”, finche` poi il bambino gia` era morto. Enzo Brusca ogni tanto si appoggiava al petto del bambino per sentire i battiti del cuore, quando ha visto che il bambino gia` era morto mi ha ordinato Enzo Brusca a me “spoglialo”. Io ho spogliato il bambino e il bambino era urinato e si era fatto anche addosso dalla paura di quello che abbia potuto capire, diciamo, o e` un fatto naturale perche’ e` gonfiato il bambino. Dopo averlo spogliato, ci abbiamo tolto, aveva un orologio al polso e tutto, abbiamo versato l’acido nel fusto e abbiamo preso il bambino. Io l’ho preso per i piedi e Monticciolo e Brusca l’hanno preso per un braccio, l’uno, cosi`, e l’abbiamo messo nell’acido e ce ne siamo andati sopra. Andando sopra abbiamo lasciato il tappo del tunnel socchiuso per fare uscire il vapore dell’acido che usciva… Quando siamo saliti sopra Enzo Brusca e Monticciolo mi hanno baciato, dicendo che mi ero comportato.. come se mi avessero fatto gli auguri di Natale o chissa`…., complimentandosi per come mi ero comportato… Siamo entrati dentro la casa dove avevamo cenato prima, cosi`, eravamo li`, abbiamo fumato una sigaretta, si parlava cosi`. Poi dopo un po’ Enzo Brusca mi dice “vai sopra, vai a guardare che cosa c’e`, se funziona l’acido, se va bene o meno”. In quel momento non aveva avvertito emozioni di sorta: “Io ero un soldato, io eseguivo.. io ho condiviso sempre le scelte di Brusca e le scelte degli altri, io mi sento responsabile, io non voglio.. cioe` non voglio incolpare altri e discolpare la mia persona, io mi sento responsabile come e` responsabile Brusca e tutti, io mi sento responsabile diciamo, anche se io posso dire che era meglio se non succedeva il discorso del bambino e non succedeva che io ero presente in quella situazione, cioe` questo, e non lo auguro a nessuno, diciamo, ne’ primo, ne’ chi ne ha fatto uno, ne’ chi ne ha fatto due, ne’ chi ne ha fatto tre, perche’ io non lo so se i miei figli mi possono a me perdonare. Prima il Presidente me lo diceva, io a volte non ho il coraggio di guardare i miei figli”. Ed ha proseguito: “Io ci sono andato giu`, sono andato a vedere li` e del bambino c’era solo un pezzo di gamba e una parte della schiena, perche’ io ho cercato di mescolare con un bastone e ho visto che c’era solo un pezzo di gamba … e una parte.. pero` era un attimo perche’ sono andato.. uscito perche’ li` dentro la puzza dell’acido … era.. cioe` si soffocava li` dentro. Poi siamo andati tutti a letto a dormire, abbiamo dormito li`. Monticciolo mi ha detto che alle 5 lo dovevo chiamare perche’ lui se ne doveva andare; abbiamo dormito tutti e tre assieme nello stesso letto matrimoniale che avevamo nella stanza lì”. Chiodo si era svegliato di buon mattino; aveva svegliato il Monticciolo che era andato via e si era recato a svuotare il fusto, rifiutando l’intervento dell’Enzo Brusca che aveva offerto la sua collaborazione. Il corpo del povero ragazzo si era interamente liquefatto senza che nulla di solido fosse rimasto, salvo la corda che gli era rimasta messa al collo. Con una latta aveva prelevato quel liquido di colore scuro versandolo nei due bidoncini di plastica che prima contenevano l’acido, svuotandoli in aperta campagna. Aveva riportato in superficie il fusto e il Brusca vedendo la corda che era rimasta aveva detto scherzando al Chiodo di tenerla per trofeo. Aveva bruciato il materasso dove dormiva l’ostaggio, i suoi indumenti e tutto quanto si apparteneva al bambino. Con un’ascia aveva fatto in mille pezzettini la rete, sulla quale era stata adagiato il materasso e che era stata ancorato al pavimento con i piedi annegati nel cemento (operazione che aveva in precedenza fatto il La Rosa, per evitare che il ragazzo l’alzasse e facesse rumore); aveva raccolto i pezzi, le coperte, la macchina fotografica in diversi sacchi della spazzatura che aveva distribuito in vari cassonetti. Avevano, quindi, ripulito tutto, mettendo una pietra sopra nella vicenda. Ancora in controesame, Chiodo ha precisato che dopo che era stato sciolto il corpo del bambino, era rimasto integro il pezzo di corda adoperato per strangolarlo e se ne era meravigliato, facendolo notare al Brusca, il quale gli aveva detto: “L’acido niente ci fa alla corda, tienetila per trofeo!”, in quanto era il suo primo delitto. In effetti, aveva bruciato la corda assieme a tutti gli altri oggetti, compreso il materasso e il fusto metallico che era stato messo sul fuoco per togliere qualsiasi traccia dell’acido. Enzo Brusca gli aveva detto che la scoperta della vicenda del sequestro avrebbe fatto più danno della strage di Capaci in due occasioni. Glielo aveva ripetuto dopo che Foma aveva lasciato l’incarico, incontrandolo nella contrada Parrini, dicendogli: “Apriti gli occhi, stai attento, tu lo sai a cosa si va incontro, la responsabilita` che ti ritrovi…La responsabilita` che ti ritrovi sai qual e`? Adesso basta solo pensare che prima erano tante persone che badavano a questo bambino, adesso ti ritrovi tu solo a gestire, con diverse complicazioni che si sono aggravate. Stai attento, perche’ lo sai che se succede che scoprono il bambino e cose.. fara` piu` scalpore della strage di Capaci”. Sostanzialmente Enzo Brusca, essendo un violento, alludeva anche alle sofferenze che erano stato inferte al piccolo Di Matteo che era stato tenuto in luoghi malsani, legato mani e piedi e sballottolato di qua e di là. Nella casa di Giambascio era rimasto soltanto Enzo Brusca, che aveva poi diretto gli ulteriori lavori di muratura che erano stati subito dopo effettuati. Erano state infine ricoperte con l’intonaco le pareti lasciate grezze e si era proceduto alla piastrellatura del pavimento che era ancora mancante. 

 

 

 

Io ho detto al bambino di mettersi in un angolo, cioè vicino al letto, quasi ai piedi del letto, con le braccia alzate e con la faccia al muro. Allora il bambino, per come io ho detto, si è messo faccia al muro. Io ci sono andato da dietro e ci ho messo la corda al collo.

Tirandolo con uno sbalzo forte, me lo sono tirato indietro e l’ho appoggiato a terra
Enzo Brusca si è messo sopra le braccia inchiodandolo in questa maniera (incrocia le braccia) e Monticciolo si è messo sulle gambe del bambino per evitare che si muoveva. Nel momento della aggressione che io ho butttato il bambino e Monticciolo si stava già avviando per tenere le gambe, gli dice ‘mi dispiace’ rivolto al bambino ‘tuo papà ha fatto il cornuto’ (…) il bambino non ha capito niente, perché non se l’aspettava, non si aspettava niente e poi il bambino ormai non era… come voglio dire, non aveva la reazione di un bambino, sembrava molle… anche se non ci mancava mangiare, non ci mancava niente, ma sicuramente la mancanza di libertà, il bambino diciamo era molto molle, era tenero, sembrava fatto di burro… cioè questo, il bambino penso non ha capito niente. Sto morendo, penso non l’abbia neanche capito. Il bambino ha fatto solo uno sbalzo di reazione, uno solo e lento, ha fatto solo questo e non si è mosso più, solo gli occhi, cioè girava gli occhi. (…) io ho spogliato il bambino e il bambino era urinato e si era fatto anche addosso dalla paura di quello ce abbia potuto capire o è un fatto naturale perché è gonfiato il bambino. Dopo averlo spogliato, ci abbiamo tolto, aveva un orologio da polso e tutto, abbiamo versato l’acido nel fusto e abbiamo preso il bambino. Io ho preso il bambino. Io l’ho preso per i piedi e Monticciolo e Brusca l’hanno preso per un braccio l’uno così l’abbiamo messo nell’acido e ce ne siamo andati sopra. (…) io ci sono andato giù, sono andato a vedere lì e del bambino c’era solo un pezzo di gamba e una parte della schiena, perché io ho cercato di mescolare e ho visto che c’era solo un pezzo di gamba… e una parte… però era un attimo perché sono andato… uscito perché lì dentro la puzza dell’acido era… cioè si soffocava lì dentro. Poi siamo andati tutti a dormire.” (confessione di Vincenzo Chiodo, uomo di fiducia di Brusca e Bagarella, tratta da Atti del processo del libro “Al posto sbagliato, Storie di bambini vittime di mafia“).

 

 

 

Rapito e sciolto nell’acido dai boss  

 

Un bambino innocente che amava i cavalli. Torturato, strangolato ed infine sciolto nell’acido. Ecco il tragico destino che toccò al piccolo Giuseppe Di Matteo, il figlio dodicenne del pentito Santino Di Matteo, rapito il pomeriggio del 23 novembre 1993, quando aveva quasi 13 anni, in un maneggio di Piana degli albanesi e poi ucciso nel gennaio del ’96. A ordinare la sua uccisione fu Giovanni Brusca.
Gli esecutori materiali del delitto furono Vincenzo Chiodo, Enzo Salvatore Brusca e Giuseppe Monticciolo. Per il sequestro e l’omicidio di Giuseppe, oltre che Giovanni Brusca, sono stati condannati all’ergastolo circa 100 mafiosi tra cui Leoluca Bagarella, Salvatore Benigno, Salvatore Bommarito, Luigi Giacalone, Francesco Giuliano, Giuseppe Graviano, Salvatore Grigoli, Matteo Messina Denaro, Michele Mercadante, Biagio Montalbano, Giuseppe Agrigento, Domenico Raccuglia e Gaspare Spatuzza. Il piccolo Giuseppe, nato a Palermo il 19 gennaio 1981, fu rapito da un gruppo di mafiosi che agivano su ordine di Giovanni Brusca, allora latitante e boss di San Giuseppe Jato. Secondo le deposizioni di Gaspare Spatuzza, che prese parte al rapimento, i sequestratori si travestirono da poliziotti della Dia ingannando facilmente il ragazzo, che credeva di poter rivedere il padre in quel periodo sotto protezione lontano dalla Sicilia. La famiglia cercò notizie del figlio in tutti gli ospedali palermitani ma quando, il 1º dicembre 1993, un messaggio su un biglietto giunse alla famiglia con scritto “Tappaci la bocca” e due foto del ragazzo che teneva in mano un quotidiano del 29 novembre 1993, fu chiaro che il rapimento era finalizzato a spingere Santino Di Matteo a ritrattare le sue rivelazioni sulla strage di Capaci e sull’uccisione dell’esattore Ignazio Salvo. Santino Di Matteo non si piegò al ricatto e decise di proseguire la collaborazione con la giustizia. Giuseppe fu trasportato da un posto all’altro per mezza Sicilia, fu spostato in varie prigioni del trapanese e dell’agrigentino, e nell’ultimo nascondiglio rimase per 180 interminabili giorni, prima di essere ucciso. Fu solo quando Brusca venne condannato all’ergastolo per l’omicidio di Ignazio Salvo, che decise di vendicarsi sul ragazzo. Brusca ordinò così l’uccisione del ragazzo, ormai fortemente dimagrito e indebolito per la prolungata e dura prigionia, nel covo lager di San Giuseppe Jato.

Palermo: c’era una volta un bambino che amava i cavalli  Era Giuseppe DI Matteo, ucciso dalla mafia vent’anni fa: non aveva ancora 13 anni quando lo rapirono per punire il padre Santino, pentito. Palermo, gennaio 2016 – Vent’anni fa Giuseppe Di Matteo veniva ucciso da Vincenzo Chiodo, Enzo Salvatore Brusca e Giuseppe Monticciolo. Giuseppe al momento della morte aveva 15 anni, erano 779 giorni che lo tenevano riunchiuso come una bestia per vendetta verso il padre Santino, pentito di mafia. Giuseppe è morto non perché il padre si era pentito, ma perché il padre era diventato un mafioso: questa la vera causa della sua fine atroce – e non lo diciamo solo noi, ma anche Giuseppe Cimarosa che ha più titoli dei nostri per esprimersi al riguardo. Giuseppe amava tantissimo i cavalli: erano la sua gioia, montava regolarmente e faceva piccoli concorsi. Palermo e San Giuseppe Jato hanno deciso di ricordarlo con una serie di celebrazioni intitolate “C’era una volta un bambino che amava i cavalli“ Non dimentichiamoci di Giuseppe Di Matteo, né di cosa sia la mafia. E se per caso dovesse mai servirvi un buon motivo per  esssere onesti (che piccole espressioni di mafia e delinquenza le incrociamo tutti, nella vita), leggete questo stralcio dall’udienza di Vincenzo Chiodo del 28 luglio 1998. Ma leggetela solo se siete disposti all’orrore. “Chiodo Vincenzo all’udienza del 28 luglio 1998 ha anch’egli raccontato le fasi della uccisione del bambino, soppresso la sera dell’11 gennaio 1996. Ricordava bene tale data, giacchè mancava appena un mese e un giorno al suo compleanno, essendo egli nato il 12 febbraio 1963. Già nelle sere precedenti era stata avvertito da Francesco La Rosa di recarsi in campagna, perchè doveva arrivare Enzo Salvatore Brusca. Aveva a lungo atteso in una diversa strada, giacchè – come aveva fatto sapere al Brusca tramite il La Rosa medesimo – la via maestra non era transitabile a causa delle piogge e doveva seguirsi altro percorso. La prima sera lo stesso La Rosa lo aveva informato che Brusca non sarebbe venuto e che l’appuntamento era rinviato all’indomani. Lo stesso era avvenuto il giorno seguente, allorchè aveva atteso invano dalle ore 19 sino alle ore 22 o 23. La Rosa non gli aveva spiegato le ragione della venuta del Brusca. La terza sera, infine, il medesimo La Rosa lo aveva ancora una volta avvertito che l’incontro ci sarebbe stato; gli aveva anzi detto di preparare della carne per la cena. Aveva invitato il suo interlocutore a rimanere in loro compagnia, ma questi, all’apparenza terrorizzato, aveva declinato l’invito, dicendogli: “No no, me ne vado, sono fatti vostri, fatti vostri e fatti vostri”. Tale comportamento gli era sembrato alquanto strano, anche perchè il La Rosa di solito aveva sempre accettato di buon grado l’invito. In controesame all’udienza del 29.7.98 Chiodo ha ribadito che aveva atteso la venuta di Enzo Brusca in quel di Giambascio almeno un paio di giorni prima. Erano stati Monticciolo Giuseppe e La Rosa Francesco ad avvertirlo che doveva sopraggiungere il Brusca; era impossibile che avessero potuto prenderlo in giro, perchè su queste cose non si era mai scherzato.
Dopo che il piccolo Di Matteo era rimasto definitivamente a Giambascio, il Brusca Enzo Salvatore non aveva piu` frequentato quella casa; era venuto soltanto il giorno in cui era stato strangolato l’ostaggio. Doveva arrivare due giorni prima, ma Chiodo sconosceva se doveva rimanere lì o se per il bambino; nessuno gli aveva detto alcunchè, in quanto gli era stato ordinato soltanto di comprare della carne e quel che potesse servire per la cena e di attendere nella casa.
Enzo Salvatore Brusca era arrivato verso le ore 21 a bordo di una Fiat Uno pilotata da altra persona che Chiodo, nascosto tra i cespugli a fumare una sigaretta, non aveva riconosciuto. Era sceso dalla macchina, aveva saluto il suo accompagnatore, che era andato subito via, ed era andato incontro al collaborante che frattanto era uscito allo scoperto.
Enzo Brusca lo aveva messo sottobraccio e gli aveva detto “figliolo, andiamo !”, ritenendo che fossero a piedi. Chiodo aveva prelevato la macchina che aveva in precedenza nascosto ed insieme avevano raggiunto la casa di Giambascio. Appena davanti al cancello, Brusca gli aveva chiesto del bambino, che non aveva più rivisto sin da quando era stato portato a Giambascio. Il collaborante lo aveva rassicurato che stava bene e che quel giorno aveva mangiato delle uova che il ragazzo stesso aveva cucinato, avendo a disposizione un fornellino. Aveva manifestato contemporaneamente il desiderio di vederlo ed, avendogli egli fatto presente che aveva lasciato nella sua abitazione in paese il telecomando per azionare il saliscendi e le chiavi per aprire la porta di ferro, aveva detto di soprassedere sino all’arrivo di Giuseppe Monticciolo. Chiodo aveva così appreso che doveva sopraggiungere pure quest’ultimo.
Costui era arrivato poco dopo ed aveva esplicitamente comunicato che si doveva uccidere il bambino, senza specificare chi ne avesse impartito l’ordine; aveva contemporaneamente chiesto a Vincenzo Chiodo – il quale aveva già intuito la terribile sorte che stava per toccare all’ostaggio attraverso l’eccessivo interessamento dimostrato dal Brusca verso il ragazzo – se se la sentisse di farlo.
Enzo Brusca aveva mostrato una certa riluttanza e, nel vano tentativo di soprassedere, aveva fatto presente che Chiodo non aveva con sè il telecomando e che oltre tutto occorreva prelevare l’acido presso tal “Funcidda” per dissolvere il corpo, la nafta per attivare il generatore di corrente elettrico ed altro.
Quando Monticciolo aveva, dunque, comunicato quella sera la suprema decisione, dopo che Enzo Brusca, avanzando difficoltà organizzative, aveva proposto che la macabra operazione fosse rinviata all’indomani e dopo che era prevalsa la linea oltranzista del Monticciolo medesimo, si erano un po’ consultati per distribuire a ciascuno il proprio compito, essendovi parecchia indecisione su chi dovesse materialmente uccidere il bambino. Monticciolo proponeva, infatti, che fosse il Chiodo o il Brusca ad agire, dicendo: “lo fai tu, lo faccio io”; Enzo Brusca in apparenza manifestava la volontà che il Chiodo ne fosse tenuto fuori, ma in concreto voleva verificare se il collaborante si facesse avanti.
Ad ogni buon conto, avevano organizzato le operazioni preliminari: Monticciolo si era allontanato adducendo che si recava a prendere l’acido presso tale “Funcidda”, che il collaborante sconosceva; Chiodo si era recato in paese per prendere nella sua officina un fusto in lamiera, uno scalpello e un mazzuolo per scoperchiare il fusto. Si era poi ricordato che un recipiente siffatto era custodito a Giambascio, sicchè si era limitato a prelevare un bruciatore a gas, lo scalpello, il mazzuolo, il telecomando, le chiavi e ad acquistare presso il distributore di carburante la nafta.
Munito dell’occorrente necessario, il collaborante era ritornato in campagna e poco dopo era tornato pure Giuseppe Monticciolo, portando due fustini di plastica di circa venti litri pieni di acido; aveva, quindi, prelevato da un capanno uno dei fusti utilizzati per conservare la nafta, lo aveva portato dentro casa e con scalpello e martello aveva provveduto a scoperchiare il fusto, cercando di fare il minor rumore possibile.
Compiuta tale operazione, tutti e tre insieme avevano portato giù nel bunker il fusto appena tagliato e i due fustini di acido, depositandoli davanti la porta della cella dell’ostaggio. Monticciolo aveva contemporaneamente riferito al Chiodo che doveva far scrivere al bambino una lettera, nella quale egli comunicava al nonno che era stato abbandonato da tutti, che aveva tentato il suicidio impiccandosi con le lenzuola, ma che era stata salvato. Insieme – Monticciolo e Chiodo – ne avevano poi indicato il testo al bambino, invitandolo a preparare la missiva che avrebbero ritirato dopo.
Erano risaliti nel piano superiore, uscendo fuori, e avevano cenato nella cucina sottostante, mangiando carne arrostita in padella, preparata dal Chiodo. Dopo cena, che si era svolta in un clima del tutto tranquillo, il collaborante aveva tagliato un pezzo di corda da una fune che si trovava all’esterno ed Enzo Brusca l’aveva annodata per formare il cappio.
Erano ridiscesi nel bunker; Chiodo si era fatto consegnare la lettera, ritirandola dalla mani del ragazzo senza fare uso di guanti (tanto da essere stato rimproverato dal Monticciolo per il fatto che avrebbe potuto lasciare pericolose impronte digitali); si erano infine apprestati a compiere la macabra operazione dello strangolamento.
Chiodo, nonostante che Enzo Brusca avesse prima manifestato il suo dissenso a che egli intervenisse, si era fatto avanti in omaggio alla regola che più volte gli aveva ripetuto lo stesso Brusca: “Mai tirarsi indietro su qualsiasi eventuale occasione”. Era del tutto tranquillo, non lo impensieriva minimamente il fatto che dovesse uccidere un bambino: “… il dovere era piu` forte di questo, cioe` perche’ li` non e` che uno poteva rifiutare al momento questo, perche’ poteva succedere diciamo il peggio”. In quel momento non aveva neppure pensato ai suoi figli; se ne era vergognato di fronte a loro quando aveva fatto la sua scelta di collaborare.
Era la prima volta che uccideva una persona; in precedenza aveva collaborato con i medesimi soggetti e con l’aggiunta di Romualdo Agrigento all’occultamento di cadaveri.

Sempre in controesame, Chiodo ha aggiunto che, quando si doveva strangolare il bambino, sia il Monticciolo che Enzo Brusca gli avevano detto: “Va beh, lo fai appoggiare li` al muro, gli metti la corda al collo, la tiri che poi noi ti aiutiamo”.
In effetti Chiodo – così come gli era stato ordinato – aveva fatto appoggiare il bambino al muro con le braccia alzate, gli aveva messo la corda al collo, l’aveva tirata ed erano intervenuti gli altri. In pochi attimi il piccolo era rimasto soffocato.
Il collaborante, quasi con aria di compiacimento, ha spiegato in dettaglio tutte le operazioni compiute; aveva aperto la porta; il ragazzo stava in piedi vicino al letto ed ha così proseguito il suo racconto:
“Si, allora gia` eravamo nella stanza, io ho aperto la porta…, ho fatto pure fatica ad aprire la porta perche’ era quasi arrugginita, perche’ giu` c’era molta umidita`…, c’era sempre la condensa del corpo che stava chiuso senza avere un’aria … come in altre case. Allora io ho detto al bambino – io ero ancora incappucciato – ho detto al bambino di mettersi in un angolo cioe` vicino al letto, quasi ai piedi del letto, in un angolo con le braccia alzate e con la faccia al muro. Allora il bambino, per come io gli ho detto, si e` messo di fronte il muro, diciamo, a faccia al muro. Io ci sono andato da dietro, ci ho messo la corda al collo. Tirandolo con uno sbalzo forte, me lo sono tirato indietro e l’ho appoggiato a terra. Enzo Brusca si e` messo sopra le braccia inchiodandolo in questa maniera (incrocia le braccia) e Monticciolo si e` messo sulle gambe del bambino per evitare che si muoveva. Nel momento della aggressione che io ho buttato il bambino giu` e Monticciolo si stava avviando per tenere le gambe, gli dice “mi dispiace”, rivolto al bambino, “tuo papa` ha fatto il cornuto”. Nello stesso momento o subito dopo Enzo Brusca dice “ti dovevo guardare meglio degli occhi miei”, dice, “eppure chi lo doveva dire?”, queste sono state le parole diciamo al bambino.

Io mi ricordo il bambino, cioe` me lo ricordo quasi giornalmente la faccia, diciamo, mi ricordo sempre, ce l’ho sempre davanti agli occhi. …Il bambino non ha capito niente, perche’ non se l’aspettava, non si aspettava niente e poi il bambino ormai non era.. come voglio dire, non aveva la reazione piu` di un bambino, sembrava molle, … anche se non ci mancava mangiare, non ci mancava niente, ma sicuramente.. non lo so, mancanza di liberta`, il bambino diciamo era molto molle, era tenero, sembrava fatto di burro…, cioe` questo, il bambino penso che non ha capito niente, neanche lui ha capito, dice: sto morendo, penso non l’abbia neanche capito. Il bambino ha fatto solo uno sbalzo di reazione, uno solo e lento, ha fatto solo quello e poi non si e` mosso piu`, solo gli occhi, cioe` girava gli occhi … A me poi mi sono cominciate tremare le gambe ed io ho lasciato il posto a Monticciolo, che lui mi ha detto di andare anche sopra, dopo che pero` il bambino penso che gia` era morto perche’ si vedeva che gia` gli occhi proprio al di fuori… vedevo la bava che gli usciva tutta dalla bocca. Ed io sono uscito, nell’attimo che stavo andando sopra a vedere se c’era movimento strano … e ho visto il Monticciolo che tirava forte la corda e con il piede batteva forte nella corda per potere stringere ancora il cappio, nella corda… Ho preso un pochettino d’aria, sono risceso e ho detto a Monticciolo “dammi di nuovo a me la corda” e il Monticciolo dice “va beh, lascia stare”, finche` poi il bambino gia` era morto. Enzo Brusca ogni tanto si appoggiava al petto del bambino per sentire i battiti del cuore, quando ha visto che il bambino gia` era morto mi ha ordinato Enzo Brusca a me “spoglialo”. Io ho spogliato il bambino e il bambino era urinato e si era fatto anche addosso dalla paura di quello che abbia potuto capire, diciamo, o e` un fatto naturale perche’ e` gonfiato il bambino. Dopo averlo spogliato, ci abbiamo tolto, aveva un orologio al polso e tutto, abbiamo versato l’acido nel fusto e abbiamo preso il bambino. Io l’ho preso per i piedi e Monticciolo e Brusca l’hanno preso per un braccio, l’uno, cosi`, e l’abbiamo messo nell’acido e ce ne siamo andati sopra. Andando sopra abbiamo lasciato il tappo del tunnel socchiuso per fare uscire il vapore dell’acido che usciva… Quando siamo saliti sopra Enzo Brusca e Monticciolo mi hanno baciato, dicendo che mi ero comportato.. come se mi avessero fatto gli auguri di Natale o chissa`…., complimentandosi per come mi ero comportato… Siamo entrati dentro la casa dove avevamo cenato prima, cosi`, eravamo li`, abbiamo fumato una sigaretta, si parlava cosi`. Poi dopo un po’ Enzo Brusca mi dice “vai sopra, vai a guardare che cosa c’e`, se funziona l’acido, se va bene o meno”. In quel momento non aveva avvertito emozioni di sorta: “Io ero un soldato, io eseguivo.. io ho condiviso sempre le scelte di Brusca e le scelte degli altri, io mi sento responsabile, io non voglio.. cioe` non voglio incolpare altri e discolpare la mia persona, io mi sento responsabile come e` responsabile Brusca e tutti, io mi sento responsabile diciamo, anche se io posso dire che era meglio se non succedeva il discorso del bambino e non succedeva che io ero presente in quella situazione, cioe` questo, e non lo auguro a nessuno, diciamo, ne’ primo, ne’ chi ne ha fatto uno, ne’ chi ne ha fatto due, ne’ chi ne ha fatto tre, perche’ io non lo so se i miei figli mi possono a me perdonare. Prima il Presidente me lo diceva, io a volte non ho il coraggio di guardare i miei figli”. Ed ha proseguito: “Io ci sono andato giu`, sono andato a vedere li` e del bambino c’era solo un pezzo di gamba e una parte della schiena, perche’ io ho cercato di mescolare con un bastone e ho visto che c’era solo un pezzo di gamba … e una parte.. pero` era un attimo perche’ sono andato.. uscito perche’ li` dentro la puzza dell’acido … era.. cioe` si soffocava li` dentro. Poi siamo andati tutti a letto a dormire, abbiamo dormito li`. Monticciolo mi ha detto che alle 5 lo dovevo chiamare perche’ lui se ne doveva andare; abbiamo dormito tutti e tre assieme nello stesso letto matrimoniale che avevamo nella stanza lì”. Chiodo si era svegliato di buon mattino; aveva svegliato il Monticciolo che era andato via e si era recato a svuotare il fusto, rifiutando l’intervento dell’Enzo Brusca che aveva offerto la sua collaborazione. Il corpo del povero ragazzo si era interamente liquefatto senza che nulla di solido fosse rimasto, salvo la corda che gli era rimasta messa al collo. Con una latta aveva prelevato quel liquido di colore scuro versandolo nei due bidoncini di plastica che prima contenevano l’acido, svuotandoli in aperta campagna. Aveva riportato in superficie il fusto e il Brusca vedendo la corda che era rimasta aveva detto scherzando al Chiodo di tenerla per trofeo. Aveva bruciato il materasso dove dormiva l’ostaggio, i suoi indumenti e tutto quanto si apparteneva al bambino. Con un’ascia aveva fatto in mille pezzettini la rete, sulla quale era stata adagiato il materasso e che era stata ancorato al pavimento con i piedi annegati nel cemento (operazione che aveva in precedenza fatto il La Rosa, per evitare che il ragazzo l’alzasse e facesse rumore); aveva raccolto i pezzi, le coperte, la macchina fotografica in diversi sacchi della spazzatura che aveva distribuito in vari cassonetti. Avevano, quindi, ripulito tutto, mettendo una pietra sopra nella vicenda.  Ancora in controesame, Chiodo ha precisato che dopo che era stato sciolto il corpo del bambino, era rimasto integro il pezzo di corda adoperato per strangolarlo e se ne era meravigliato, facendolo notare al Brusca, il quale gli aveva detto: “L’acido niente ci fa alla corda, tienetila per trofeo!”, in quanto era il suo primo delitto. In effetti, aveva bruciato la corda assieme a tutti gli altri oggetti, compreso il materasso e il fusto metallico che era stato messo sul fuoco per togliere qualsiasi traccia dell’acido. Enzo Brusca gli aveva detto che la scoperta della vicenda del sequestro avrebbe fatto più danno della strage di Capaci in due occasioni. Glielo aveva ripetuto dopo che Foma aveva lasciato l’incarico, incontrandolo nella contrada Parrini, dicendogli: “Apriti gli occhi, stai attento, tu lo sai a cosa si va incontro, la responsabilita` che ti ritrovi…La responsabilita` che ti ritrovi sai qual e`? Adesso basta solo pensare che prima erano tante persone che badavano a questo bambino, adesso ti ritrovi tu solo a gestire, con diverse complicazioni che si sono aggravate. Stai attento, perche’ lo sai che se succede che scoprono il bambino e cose.. fara` piu` scalpore della strage di Capaci”. Sostanzialmente Enzo Brusca, essendo un violento, alludeva anche alle sofferenze che erano stato inferte al piccolo Di Matteo che era stato tenuto in luoghi malsani, legato mani e piedi e sballottolato di qua e di là. Nella casa di Giambascio era rimasto soltanto Enzo Brusca, che aveva poi diretto gli ulteriori lavori di muratura che erano stati subito dopo effettuati. Erano state infine ricoperte con l’intonaco le pareti lasciate grezze e si era proceduto alla piastrellatura del pavimento che era ancora mancante“. Ed era solo un ragazzino che sognava i cavalli, proprio come siamo stati noi. CAVALLO MAGAZINE


Gli organi di stampa, all’unisono, nel rendere noto l’arresto di Matteo Messina Denaro hanno dato risalto alla tragica vicenda del piccolo Giuseppe Di Matteo, figlio del pentito Santino Di Matteo, addebitando a Messina Denaro la responsabilità della morte e susseguente disfacimento del corpicino mediante l’acido. E no! Messina Denaro è corresponsabile sì del sequestro, ma non fu lui che strangolò Giuseppe.

Nel sequestro, la carcerazione e la tragica fine di Giuseppe concorsero a vario titolo tantissimi mafiosi e altri appartenenti a numerosi mandamenti. Alcuni degli attori erano da me conosciuti personalmente da pregressa attività investigativa. Addirittura uno di loro era stato da me arrestato tantissimi anni fa dopo un inseguimento a piedi e che un paio di anni fa era pronto a prendere il posto di Totò Riina al comando di Cosa nostra, ma fu arrestato dall’Arma. Pertanto affermare che Matteo Messina Denaro sia stato colui che uccise e sciolse nell’acido Giuseppe è una distorsione della verità. La decisione fu presa da Leoluca Bagarella, Giovanni Brusca, Giuseppe Graviano e anche Messina Denaro. Il sequestro nacque per far ritrattare il padre di Giuseppe, Santino “mezzanasca” Di Matteo, che stava collaborando con noi della Dia.
Le successive indagini svelarono il coinvolgimento di tantissimi mafiosi, soprattutto per i vari spostamenti a cui il bambino fu sottoposto: un esercito di menti bacate che pomposamente si facevano e in parte si fanno chiamare ancora oggi, uomini d’onore. Noi della Dia avemmo un’intuizione e compimmo un blitz proprio nella villa di tale Giuseppe Monticciolo a San Giuseppe Jato, nella speranza di trovare il piccolo Giuseppe. Il Monticciolo era un emerito sconosciuto, ma le investigazioni acclararono poi, che egli ebbe un ruolo di primissimo piano. Anzi, Monticciolo, insieme a Vincenzo Chiodo ed Enzo Brusca, fu uno degli esecutori materiali nell’uccisione di Giuseppe procurando egli stesso i bidoni dell’acido.
Scrivo lo stralcio della sentenza – Omicidio Di Matteo. Bagarella 59, pag. 420: “erano scesi nel sotterraneo e avevano invitato il piccolo Di Matteo a scrivere una lettera al nonno nella quale lamentava di essere stato abbandonato da tutti. Erano poi risaliti al piano superiore per cenare. Avevano poi preparato il cappio ed erano ridiscesi nel bunker dove avevano già portato i due fusti di acido e il fusto metallico e si erano apprestati a compiere la macabra operazione dello strangolamento. Aveva il chiodo, infatti, fatto poggiare il bambino al muro e gli aveva cinto il collo con la corda tirandola aiutato dagli altri. Il bimbo era caduto a terra; il Monticciolo gli aveva tenuto le braccia ferme, mentre Brusca Enzo gli era salito sulle ginocchia per non farlo muovere. Il bimbo non aveva opposto nessuna resistenza. Sembrava fatto di burro ed era molle.”
Era l’11 gennaio 1996. Maledetti, maledetti e maledetti. Nella mattinata del blitz ebbi un battibecco col padre di Giuseppe Monticciolo. Era successo che nessuno rispondeva ai vani tentativi per farci aprire la porta d’ingresso e quindi fummo costretti a sfondarla. Nella villa non c’era nessuno. Mentre era in corso la perquisizione alla ricerca anche di eventuale bunker o nascondigli giunse il padre che vedendo la porta rotta si rivolse – molto risentito – al sottoscritto chiedendomi di risarcire il danno. Risposta telegrafica: “faccia domanda alla Prefettura. Vedrà che sarà risarcito”.
Ma ora devo fare una considerazione d‘ordine morale pensando che Brusca Giovanni era padre di un bambino. L’input del sequestro e successivo omicidio dell’angioletto Giuseppe Di Matteo, lo avrebbe dato proprio lui il Verro (maiale) Giovanni Brusca e tutto questo mentre noi, quasi ogni mattina e pomeriggio,“accompagnavamo” (pedinando) sua moglie col suo bambino sino all’asilo. Il 20 febbraio – giorno del compleanno di Brusca – fummo sfortunati: eravamo pronti per intervenire durante la consegna del regalo che la moglie gli aveva comprato qualche giorno prima. E qui mi taccio, non posso aggiungere altro. Pippo Giordano FQ 25.2.2023

 


COMO, Di Matteo assale Brusca: “Animale ti stacco la testa. Drammatico il faccia a faccia fra i due nel palazzo di giustizia di Como, dove la corte d’assise di Caltanissetta sta tenendo le udienze del processo bis per la strage di via D’Amelio, quella del 19 luglio 1992, nella quale persero la vita il giudice Paolo Borsellino e cinque uomini delle scorta.

 SANTINO DI MATTEO assale Brusca: ‘Animale, ti stacco la testa’

 

“Stu figghiu e’ buttana”, grida Santino Di Matteo contro Giovanni Brusca. Poi afferra il microfono che gli è davanti, lo strappa dal supporto e glielo lancia violentemente addosso. L’ira sale, Di Matteo si alza e gli si scaglia contro. Tenta di afferrarlo, ma è bloccato dagli agenti di polizia.  I due sono l’uno di fronte all’altro. A sinistra della corte Santino Di Matteo, pentito di vecchia data, uno dei primi ad abbandonare i corleonesi di Totò Riina. A destra Giovanni Brusca da San Giuseppe Jato, cresciuto anche lui sotto l’ala protettiva di Totò u’ curtu, anche lui controverso collaboratore di giustizia. Giovanni Brusca, che si è macchiato di uno dei crimini più terribili della storia di Cosa nostra: lo scioglimento nell’acido di un bambino di dodici anni, con la sola colpa di essere figlio di “uno che aveva cantato”. Quel bambino, morto per strangolamento e poi gettato nel liquido corrosivo nel gennaio 1996 si chiamava Giuseppe Di Matteo, e suo padre è proprio Santino. Drammatico il faccia a faccia fra i due nel palazzo di giustizia di Como, dove la corte d’assise di Caltanissetta sta tenendo le udienze del processo bis per la strage di via D’Amelio, quella del 19 luglio 1992, nella quale persero la vita il giudice Paolo Borsellino e cinque uomini delle scorta. “Giocava con mio figlio”, urla Di Matteo. E ricorda i giorni della loro carriera nelle fila Cosa Nostra. Quando Brusca andava a casa sua e portava il figlio nel giardino di casa, per divertirlo. Le invettive diventano sempre più pesanti, la rabbia cresce. “Animale, non sei degno di stare in questa aula. Parliamo di fronte ad un animale”, fa Di Matteo. E poi: “Ci dovrei staccare la testa, uno che ha ucciso una donna incinta e un bambino”. Il tono diventa di sfida. “Perché non lo mettiamo a un’incrocio. All’ultimo magari, presidente, ci mette tutti e due in quella cella là…”. Brusca è impassibile, dice che Di Matteo è accecato dalla vendetta e che dice falsità. Santino non regge più, scoppia. Il presidente Pietro Falcone, dopo l’aggressione, sospende l’udienza. Che riprende dopo pochi minuti.  “Faccia uno sforzo e si calmi”, dice il presidente rivolto a Santino Di Matteo. Ma non c’è verso. Gli insulti continuano. “Lei è padre di figli”, dice Di Matteo rivolto al giudice. E aggiunge, di nuovo: “Ci dovrei staccare la testa a quello là”. Falcone cerca di mettere ordine: “Lei ha avviato una collaborazione con la giustizia”. “Garantisco che continuerò – risponde subito Di Matteo – ma almeno fatemelo guardare”. Brusca è ormai circondato da un cordone di poliziotti. Le parole per lui sono ferocissime: “Solo questo ha fatto nella vita. La sua carriera l’ha fatta con Salvatore Riina attraverso le tragedie, la sua carriera è stata solo di uccidere le persone buone. Lui è più animale di Salvatore Riina. Me lo deve far vedere. Mi ha cercato per cinque anni, invece ha trovato un bambino. Me lo mangio vivo. Ha ucciso solo una donna incinta, solo perchè poteva sapere qualche cosa”.  Odio, solo odio, fra i due. Appena placato il 20 maggio 1996 dalla notizia dell’arresto di Brusca. “Finalmente lu pigliaru a stu curnutu, e adesso mettetegli la testa nella merda”, disse in lacrime Santino Di Matteo. Più volte i due si sono incontrati nelle aule di tribunale. E sempre lo scontro ha avuto toni drammatici.  Giovanni Brusca ha sempre ammesso l’omicidio del piccolo Giuseppe Di Matteo. Del pentimento, quello morale, per il gesto compiuto, appena l’ombra, nelle sue parole: “Se avessi avuto un momento in più di riflessione, più calma per poter pensare, come ho fatto in altri crimini, forse ci sarebbe stata una speranza su mille, su un milione, che il bambino fosse vivo. Oggi qualsiasi giustificazione sarebbe inutile. In quel momento non ho ragionato”. 15 settembre 1998 La Repubblica 


GIOVANNI BRUSCA : “liberati dal canuzzo – 

Il bambino è prigioniero da settecentosettantanove giorni. E’ una larva, non pesa neanche trenta chili. Un uomo lo mette con la faccia al muro e lo solleva da terra, il bimbo non capisce, non fa resistenza, nemmeno quando sente la corda intorno al collo. Il suo è appena un sussurro: <>. Ci sono altri due uomini che lo tengono. Per le braccia e per le gambe. E poi il piccolo Giuseppe se ne va. Un mese e mezzo dopo, un mafioso si presenta davanti a un sostituto procuratore della Repubblica di Palermo, che gli chiede: <>. Giuseppe Monticciolo risponde: <>. Comincia dalla fine Dall’ultimo. Comincia da Giuseppe Di Matteo, undici anni, il figlio di Santino Mezzanasca, uno dei sicari di Capaci. Il bambino lo rapiscono per far ritrattare il padre pentito. Mezzanasca non ritratta e suo figlio sparisce in un bidone di acido muriatico, i suoi resti sotterrati in una fossa dietro le montagne di Palermo. Giuseppe Di Matteo viene rapito il 23 novembre 1993 e ucciso l’11 gennaio 1996. Lo prendono al maneggio di Villabate, i macellai di Brancaccio. Lo legano e lo portano dopo la piana di Buonfornello, a Lascari. Poi lo consegnano a Giovanni Brusca, quello che a San Giuseppe Jato chiamano ù verru, il maiale. Lo nascondono nei bagagliai delle automobili, lo spostano da un covo all’altro per mezza Sicilia. A Misilmeri, vicino Palermo. A Villarosa, alle porte di Enna. In contrada Giambascio, alle spalle di San Giuseppe Jato. sempre legato e bendato, sempre incatenato. Giuseppe non piange mai. Non chiede mai niente ai suoi carcerieri. Per due anni lo tengono prigioniero. E aspettano un segnale da quell’ “infamone” di suo padre. A Giuseppe fanno scrivere lettere al nonno. Vogliono spingere Mezzanasca a rimangiarsi tutto. Passano le settimane, non succede nulla. E’ la sera dell’11 gennaio 1996. Giovanni Brusca guarda la tv, è l’ora del telegiornale. Sente una notizia: Giovanni Brusca e Leoluca Bagarella>>.  Giuseppe Monticciolo è lì, accanto a Brusca, che ha uno scatto d’ira. Poi ù verru gli ordina: <>. Uccidi il cagnolino. Vincenzo Chiodo è quello che gli sbatte la faccia al muro e lo solleva. Enzo Brusca e Giuseppe Monticciolo lo tengono per le braccia e per le gambe. E’ Chiodo che stringe la corda. <> confessa Monticciolo. Gli chiede il magistrato: <>. Monticciolo abbassa gli occhi: <<No, niente, non era più un bambino come tutti gli altri, era debole, debole,…>>. I bidoni di acido sono già pronti. Dopo un pò si vedono solo i piedini di Giuseppe. I tre mafiosi si baciano. Racconterà qualche tempo dopo Brusca: <>. L’acqua del torrente di San Giuseppe Jato finisce in una diga. Quella che disseta tutta Palermo. Attilio Bolzoni -PAROLE D’ONORE-


VINCENZINA, ‘NON HO FIGLI PERCHE’ TU UCCIDI I BAMBINI’

 

 ”Come fa Dio a darmi dei figli se tu uccidi i bambini…?”: cosi’ Vincenzina Marchese, negli ultimi giorni di vita, gia’ prostrata, anoressica, si rivolgeva a suo marito Leoluca Bagarella, subito dopo un aborto. Lo ha detto, deponendo al processo per l’ uccisione del piccolo Giuseppe Di Matteo, il collaborante Tony Calvaruso. Il processo si svolge davanti alla seconda sezione della corte d’ assise, presieduta da Vincenzo Oliveri, pubblici ministeri Alfonso Sabella e Giuseppe Salvo. Con Bagarella vengono giudicati altri 65 imputati. Quella di Calvaruso e’ stata una testimonianza drammatica, Bagarella ha inveito contro il teste, facendoallusioni nei riguardi di suo figlio, ed e’ stato allontanato dall’ aula mentre gli atti sono stati inviati al Pm. Calvaruso ha parlato di Vincenzina chiamandola ”la signora”: ”L’ 11 o il 12 maggio del ’94 – ha detto – Bagarella mi chiamo’ al cellulare e mi fece vedere la signora morta, distesa sul divano, mi disse che si era impiccata”. Il pentito ha ricostruito poi il funerale privato che il marito le fece, insieme con Gregorio Marchese (fratello di Vincenzina) ed i fedelissimi Pasquale Di Filippo, Pino Guastella, Nicola Di Trapani. Il teste non presenzio’ alla sepoltura della donna dentro una cassa di lusso, ma seppe che venne sepolta in un terreno ”con cipressi”, circondato da ”traversine ferroviarie”. Il luogo era ”un segreto che non doveva trapelare, pena la morte”. La reazione di Bagarella e’ scattata quando Calvaruso ha ricordato che dopo la morte della moglie, il boss prese a vestire di nero, portando la fede nuziale appesa al collo. Pino Guastella, accortosene, rimprovero’ per questo Bagarella. ”Bagarella – e’ la convinzione del teste – voleva fare capire che la moglie l’ aveva uccisa lui”’, perche’ sorella di un ”pentito”. E’ stato a questo punto che Bagarella ha urlato dalla ”gabbia”:”Mi devi salutare ‘Spizzieddu…”’. ”Mi sta minacciando, Presidente…” ha spiegato Calvaruso, chiarendo che ”Spizzieddu” e’ il nomignolo di suo figlio: ”Non fa onore a Bagarella minacciare mio figlio…”. L’ udienza e’ stata sospesa brevemente e, alla ripresa, lo stralcio del verbale e’ stato rimesso al Pm. Rispondendo alle domande sull’ uccisione del piccolo Di Matteo, Calvaruso ha quindi proseguito: ”Ricordo Bagarella inginocchiato accanto al divano della morta che, piangendo, ripeteva ad alta voce: ‘hai visto, mi accusavi del bambino, che l’ avevo ucciso io, e dicevi ‘come fa Dio a darmi dei figli se poi tu uccidi i bambini…”. ”Cornuto, cornuto…” ha ripetuto dalla gabbia Bagarella ed il presidente ne ha disposto l’ allontanamento. Calvaruso ha concluso: ”E’ stato sempre cosi’ poco civile. Lui diceva che non c’ entrava niente con la morte di Di Matteo, ma la signora, conoscendo il marito, sapeva con chi aveva a che fare”. (ANSA 22.1.1998)

 


TRAVESTITI DA POLIZIOTTI I MAFIOSI RAPISCONO IL PICCOLO GIUSEPPE DI MATTEO 

«Sei tu il figlio di Di Matteo? Siamo della protezione e dobbiamo portarti da tuo padre». Il ragazzino sa che suo padre da qualche giorno parla con la polizia. Non si stupisce che quegli uomini con le pistole lo portino via e lo facciano salire su una Fiat Croma con il lampeggiante. Ma quei poliziotti sono in realtà sei uomini di Giuseppe Graviano: Fifetto Cannella detto Castagna, Gaspare Spatuzza ‘U tignusu, Luigi Giacalone Barbanera, Salvatore Grigoli Il cacciatore, Cosimo Lo Nigro Bingo e Francesco Giuliano Olivetti

Il piano viene eseguito il 23 novembre 1993, guarda caso proprio il giorno in cui inizio a lavorare alla Direzione distrettuale antimafia di Palermo. Sono passati dieci giorni dalla riunione di Misilmeri. È un martedì pomeriggio, giorno di maneggio.

Giuseppe è nella sua stanzetta. Fa le prove con la tastiera a fiato che sta imparando a suonare nell’ora di musica, a scuola. La madre lo chiama: «È ora!». Il ragazzino lascia lo strumento sul letto e si prepara per la lezione di equitazione. Non gli fanno mancare proprio niente. Da quando suo padre, poi, è stato arrestato, la madre e il nonno lo riempiono di coccole e di attenzioni. È sempre un po’ chiuso e taciturno, raramente sorride. Gli piace, però, andare a cavallo: è la sua passione. Gli hanno regalato un puledro, un bel sauro bruno che adesso è cresciuto e risponde a tutti i suoi comandi. Salta gli ostacoli come se avesse le ali.

Al galoppatoio lo conoscono tutti. Ha già vinto alcune gare e tantissimi premi: è il più piccolo ed è molto promettente. È la mascotte del maneggio di Villabate. Quel pomeriggio Giuseppe, anche se non ha ancora quattordici anni, esce di casa con il suo motorino e, finita la lezione, va a cambiarsi negli spogliatoi. Si è già tolto gli stivali, il caschetto e il completo da fantino. Si sta mettendo i pantaloni quando arrivano alcuni uomini armati. Hanno le pettorine con la scritta «polizia di Stato».

«Sei tu il figlio di Di Matteo? Siamo della protezione e dobbiamo portarti da tuo padre.»

«Me patri! Sangu’ mio» urla il ragazzino emozionato all’idea di incontrare suo padre, il suo stesso sangue. Sa che suo padre da qualche giorno parla con la polizia: ha sentito i discorsi della madre con il nonno e non si stupisce che quegli uomini con le pistole lo portino via e lo facciano salire su una Fiat Croma con il lampeggiante.

I poliziotti del Servizio centrale di protezione sono in realtà sei uomini di Giuseppe Graviano, di Madre natura, come lo chiamano i suoi «adulatori»: Fifetto Cannella detto Castagna, Gaspare Spatuzza ‘U tignusu, Luigi Giacalone Barbanera, Salvatore Grigoli Il cacciatore, Cosimo Lo Nigro Bingo e Francesco Giuliano Olivetti. Si sono tutti camuffati con barbe e parrucche finte e portano occhiali scuri.

Giuseppe non conosce nessuno di loro a eccezione, forse, di Fifetto Cannella che è un frequentatore del maneggio e che, proprio per questa ragione, è rimasto in macchina. La precauzione del travestimento è comunque necessaria anche per gli altri, per non farsi riconoscere da addetti e clienti della scuola di equitazione che si trova nel «loro» territorio. E poi che figura avrebbero fatto quegli uomini d’onore se qualcuno della zona li avesse riconosciuti con i giubbotti e su una macchina da sbirri?

I sei vanno a colpo sicuro. Non ci sono rischi. I gestori del maneggio sono, per loro, due persone affidabili: i fratelli Nicolò e Salvatore Vitale. Il primo morirà suicida qualche tempo dopo e il secondo è un uomo d’onore della famiglia della Roccella. Riuscirò poi a farlo condannare all’ergastolo per concorso nel sequestro.

Il ragazzino adesso è in mezzo a due di loro, sul sedile posteriore della Croma. Davanti, a fare da battistrada lungo la strada a scorrimento veloce per Agrigento, c’è un’anonima Fiat Uno con Barbanera e Bingo. Se c’è un posto di blocco daranno l’allarme alla macchina che li segue. E, per l’emergenza, hanno anche un kalashnikov, un Pocket coffee, come lo chiamavano sarcasticamente quei mafiosi che avevano difficoltà a pronunciarne il nome. Al fucile mitragliatore hanno anche fissato, con il nastro isolante, un secondo caricatore supplementare da quaranta colpi. Non si sa mai.

Giuseppe è ansioso di vedere il padre. I finti poliziotti che sono con lui, per tenerlo tranquillo, gli parlano della decisione del genitore di collaborare con la giustizia, della bella scelta che ha fatto. E Giuseppe condivide: «Sì, ha fatto proprio bene il mio papà». Non ha capito ancora nulla; e nulla capirà ancora per qualche ora.

Le due macchine escono al primo svincolo e, verso le sei di sera, giungono in un villino a Misilmeri dove li attende Salvatore Benigno, ‘U picciriddu. Fanno entrare il ragazzino in una stanzetta e gli dicono di stare lì buono buono ad aspettare che lo portino dal padre. Deve stare calmo e non deve preoccuparsi per quei passamontagna che adesso indossano tutti: «È una precauzione per noi della protezione. Nessuno ci deve riconoscere».

Passano due ore e Giuseppe è sempre lì, chiuso in quella stanza. È solo un po’ affamato ma è sereno e non vede l’ora di incontrare suo padre. Fuori Fifetto Cannella è impegnato al telefono. Qualcuno doveva venire a prendersi il ragazzino. Loro dovevano solo portarlo lì, a Misilmeri. Ma nessuno arriva. Adesso parla con il suo capo, con Giuseppe Graviano: «Dice iddu che non ne sapeva niente, che lo dovevamo tenere noi. Dice che iddu non è pronto. Ma non se lo doveva venire a pigliare? Che minchia me ne faccio io di ‘sto coso?». «Tu portaglielo che se la fotte iddu!» ordina senza indugio Graviano. Iddu è Giovanni Brusca. Si trova a Lascari, un paesino a pochi chilometri da Cefalù arrampicato su un costone di roccia a forma di schiena d’asino. È ospite di Samuele Schittino, il locale capo della famiglia mafiosa.

Salvatore Benigno non ha difficoltà a reperire immediatamente un Fiorino Fiat rubato. Gli uomini d’onore di Misilmeri sono noti per la loro organizzazione: un mezzo anonimo e capiente a disposizione per ogni evenienza non manca mai. Fifetto Cannella fa salire Giuseppe sul furgoncino: «Vieni che andiamo da tuo padre».

Nel cassone del Fiorino, con Giuseppe, entra solo Gaspare Spatuzza. Gli altri si tolgono il passamontagna e, tutti insieme, cominciano un nuovo viaggio. Il piccolo furgone, preceduto dalla Fiat Uno e seguito dalla Renault Clio di Benigno, imbocca

l’autostrada per Catania, esce allo svincolo di Buonfornello e prende la Ss 113 in direzione Messina. Il convoglio si ferma subito dopo. Ai margini della carreggiata c’è una piccola Peugeot con due uomini a bordo. Fifetto Cannella scende dalla Uno e sale sull’utilitaria francese che, adesso, fa strada. Ancora qualche chilometro di statale, un paio di stradine secondarie e, quindi, trazzere sterrate e polverose fino a una casa di campagna con un capannone, un magazzino di fianco.

Solo la Peugeot si avvicina alla casa. Il resto della colonna si ferma a un centinaio di metri. Fifetto Cannella salta giù dall’auto e si accosta a un uomo che gli viene incontro: è Giovanni Brusca. I due parlottano per qualche istante e Fifetto torna indietro verso le altre macchine, verso il furgone con il ragazzino.

Un passamontagna viene calato al rovescio sulla testa di Giuseppe con i buchi per gli occhi in corrispondenza della nuca. Due uomini lo fanno scendere con cura dal Fiorino e, tenendolo per mano, lo guidano fino al capannone. Lo fanno entrare e gli dicono di non togliersi il passamontagna e di aspettare; quindi tornano alle macchine. Solo a questo punto le due persone che erano a bordo della Peugeot escono dall’auto ed entrano nel magazzino.

La commedia adesso è finita. I due, appena entrati, legano Giuseppe con le mani dietro la schiena e assicurano la corda a una rastrelliera fissata nel muro. «Tuo padre è un pezzu di crastu ed è per questo che sei qui» dice uno di loro. Giuseppe adesso capisce la verità e scoppia a piangere. Capisce di essere caduto in una trappola. Una trappola per topi.

Giuseppe non lo sa, ma i due che lo hanno legato sono uomini di Giovanni Brusca: Benedetto Capizzi, uomo d’onore latitante di Villagrazia di Palermo, e quel Michelino Traina, factotum del capomafia di San Giuseppe Jato. Nessuno dell’altro gruppo, tranne Fifetto Cannella, li ha visti in faccia. Nessuno deve poter riconoscere nessuno. Brusca e Cannella sono i due garanti dell’operazione. Uno per parte. Sarà Salvatore Grigoli, quando deciderà di collaborare con la giustizia, a raccontarmi nei dettagli le prime fasi del sequestro e la sua ricostruzione mi è sembrata sostanzialmente corretta e conforme a quanto avevamo già accertato.

Graviano ha dunque messo Brusca con le spalle al muro. Il capomafia latitante non è assolutamente pronto a gestire la custodia del piccolo Di Matteo. Non ha predisposto nulla, non ha un luogo dove tenerlo, non ha alcuno che possa fargli da vivandiere e da custode.

Il boss di San Giuseppe Jato cercherà di giustificare la sua impreparazione sostenendo che, secondo gli accordi presi nel corso della riunione alla fabbrica di calce, Giuseppe Graviano doveva eseguire il sequestro e gestire tutta l’operazione. Gli uomini di Brancaccio avrebbero dovuto utilizzare per la custodia del ragazzino un bunker nella zona di Misilmeri che era stato preparato un anno prima per il sequestro a scopo di estorsione di Antonio Ardizzone, editore del «Giornale di Sicilia», progetto per fortuna mai portato a termine.

Graviano, però, una volta eseguito materialmente il rapimento, si sarebbe reso conto di non essere in grado di custodire l’ostaggio e glielo aveva portato fino a Lascari.

BRUSCA CON LE “SPALLE AL MURO”  Non ho mai creduto a Brusca su questo punto. La sua versione del fatto era illogica e, oggettivamente, poco plausibile. Mi sono convinto che la verità fosse totalmente diversa: Giuseppe Graviano, quasi certamente d’intesa con Bagarella e Messina Denaro, voleva mettere il boss di San Giuseppe Jato di fronte al fatto compiuto per fargli, finalmente, assumere le sue responsabilità di fronte a tutta Cosa nostra.

Non so se veramente Graviano, nella riunione di Misilmeri, si fosse preso l’onere del rapimento – cosa effettivamente probabile secondo le dinamiche mafiose, dato che il territorio dove eseguire il delitto era di sua competenza – o se dovesse, invece, provvedervi direttamente Brusca con i suoi uomini. Sono però sicuro che, in un caso o nell’altro, la custodia del ragazzino dovesse essere, fin dall’inizio, assicurata dal boss di San Giuseppe Jato. Com’era naturale e logico che fosse.

Conseguentemente solo a Brusca spettava il compito di dare il via alle operazioni. Solo lui poteva dire a Graviano quando era pronto per ricevere il ragazzino. Ma Madre natura conosce bene «i suoi polli». Sa perfettamente che Brusca, per sua indole, è solito temporeggiare come ha già fatto quando si è trattato di ammazzare Di Maggio. Sa che Brusca, dopo la strage di Capaci, si è un po’ defilato: più o meno volontariamente non ha partecipato alla strage di via d’Amelio e si è tenuto lontano da quelle del 1993 di Firenze, Roma e Milano. Giuseppe Graviano sa, soprattutto, che Brusca ha preso quella decisione suo malgrado, perché costretto dagli eventi e che, forse, non ne vuole proprio sapere di uccidere il piccolo Di Matteo, come, inevitabilmente, dovrà fare. Prima o poi.

Allora rompe gli indugi e manda i suoi uomini a rapire il ragazzino e, visto che Brusca non se lo viene a prendere, glielo fa consegnare a domicilio. Giovanni Brusca non può confermare quella verità, verità che emerge inequivocabilmente dalle dinamiche del rapimento. Nemmeno con noi, nemmeno da collaboratore di giustizia. Collaboratore sì, ma pur sempre mafioso e orgoglioso. Geneticamente, fino al midollo. Avrebbe fatto una figuraccia. Avrebbe dovuto ammettere di esser venuto meno ai suoi «doveri» di capomafia e, soprattutto, avrebbe dovuto riconoscere che «contava» meno di Giuseppe Graviano e che i suoi «colleghi» della Commissione di Cosa nostra lo consideravano un pusillanime, un irresponsabile, uno che lasciava prevalere sentimenti personali sull’interesse generale dell’associazione.

La prima notte, quella del 23 novembre, Giuseppe la passa in quel capannone a Lascari. Dopo un paio d’ore lo slegano e gli tolgono il passamontagna. Soltanto l’indomani, però, si ricordano che è un ragazzino e che deve mangiare, così gli procurano un paio di panini. Il posto, però, non è idoneo a tenere un ostaggio. Non c’è un bagno e le aperture del magazzino non danno sicurezza: bisogna sorvegliarlo quasi a vista.

Anche in Cosa nostra, non si può chiedere a chiunque il favore di custodire una persona rapita. A dare una mano a Brusca ci pensa il dottor Antonio Di Caro, laureato in Agraria e capomafia di Canicattì, popolosa cittadina dell’Agrigentino, che si offre di occuparsi del piccolo Giuseppe. In quel momento Di Caro è molto amico di Giovanni. Lo sarà certamente molto meno qualche tempo dopo, quando il boss di San Giuseppe Jato lo attirerà in una trappola, lo farà strangolare e ne farà dissolvere il cadavere nell’acido. Nella vita, si sa, i rapporti personali si evolvono nel tempo! Due giorni dopo, l’agronomo di Canicattì va a prendersi Giuseppe. L’appuntamento è fissato allo svincolo di Ponte Cinque Archi, lungo l’autostrada Palermo-Catania. Lo scambio dell’ostaggio avviene tra uomini incappucciati che si tengono a distanza. La regola è sempre la stessa: nessuno deve conoscere nessuno. Il piccolo Giuseppe, legato e imbavagliato, viene messo nel cofano di una macchina e portato via.

Sarà custodito per otto o nove mesi dagli uomini d’onore della provincia di Agrigento che lo spostano da un covo a un altro. Mesi di celle umide, pareti scrostate, latrine improvvisate, giacigli sporchi e puzzolenti. Mesi di corde, catene, cappucci. Di giorno qualcuno, con il viso coperto dal passamontagna, gli porta da mangiare. Non lo tengono digiuno, ma gli danno sempre le stesse cose, pizza fredda e panini.

I CONTATTI CON IL NONNO PATERNO   Panini e pizza. Ogni tanto gli fanno una foto, un filmino o gli fanno scrivere sotto dettatura qualche biglietto. Fanno avere tutto a Giovanni Brusca: messaggi da mandare ai familiari. Fin dalle prime ore dal sequestro, infatti, Brusca si fa vivo con il nonno di Giuseppe, il padre di Santino. Il primo messaggio lo fa consegnare nella stessa nottata. Un biglietto sotto la porta di casa dei Di Matteo, ad Altofonte: «Il bambino lo abbiamo noi e tuo figlio non deve fare tragedie. Non avvisare i carabinieri». Il 1° dicembre 1993, una settimana dopo, un altro avvertimento dello stesso tenore, sempre diretto al nonno: «Tappaci la bocca». Con il biglietto vengono anche recapitate due polaroid del ragazzino che tiene in mano un quotidiano del 29 novembre.

E noi ancora non sappiamo niente; e niente sa ancora il padre di Giuseppe che continua regolarmente a raccontarci fatti di mafia nel corso di vari interrogatori. Però Santino è un po’ preoccupato: sono giorni che non sente la voce del figlio al telefono e capisce che c’è qualcosa che non va. La moglie non gli vuole parlare. Si è dissociata pubblicamente dalla scelta di quell’infame di suo marito.

Santino chiede aiuto alla Dia, che convoca la signora e la fa incontrare con lui. Messa alle strette, la

donna confida a Santino la terribile verità e, quindi, non può far altro che sporgere la denuncia. Ma è già il 14 dicembre e sono passate tre settimane esatte dal sequestro.

I miei colleghi che, con Gian Carlo Caselli, seguono quelle prime indagini, non possono che partire dal maneggio, dai fratelli Vitale e dalle loro omissioni, reticenze e bugie. A cominciare dalla frottola raccontata alla madre del ragazzino cui avevano detto che, nel pomeriggio del 23 novembre, il figlio, dopo la cavalcata, si era allontanato con il suo motorino, motorino che, invece, qualcuno di loro si era occupato di portare via dal galoppatoio dopo il rapimento.

Prima il gip e poi anche il Tribunale della libertà rigetteranno le richieste di arresto per i fratelli Nicolò e Salvatore Vitale. Solo la Cassazione accoglierà il ricorso della procura di Palermo e disporrà il carcere per Salvatore Vitale (il fratello si era nel frattempo tolto la vita). Questo accadrà però l’8 marzo 1996, due anni e quattro mesi dopo il sequestro e, soprattutto, due mesi dopo l’omicidio del piccolo Giuseppe.

Tutti abbiamo capito che il rapimento è da ricondurre a Giovanni Brusca, ma più che intensificare le ricerche del latitante non possiamo fare. La grande caccia ai mafiosi dopo la cattura di Totò Riina. Uno dei magistrati è Alfonso Sabella. Le indagini sono diventate poi un libro, “Cacciatore di mafiosi”. A CURA DELL’ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA


IL SEQUESTRO DEL BAMBINO, I SILENZI, LE FAIDE FRA I GRANDI BOSS 

I familiari del piccolo Di Matteo fin dall’inizio scelgono decisamente la via mafiosa e, persino cinque anni dopo, nel corso del processo in cui si costituiranno parte civile, manterranno un atteggiamento omertoso e reticente. Un comportamento così fastidioso da indurre spesso Alfonso Sabella e il collega Peppe Salvo a non porre loro domande e a pensare, addirittura, di chiedere la trasmissione degli atti per procedere nei loro confronti per falsa testimonianza e favoreggiamento

La collaborazione dei Di Matteo, Santino compreso, è praticamente nulla. Si viene solo genericamente a conoscenza di qualche altro biglietto e messaggio dei rapitori, ma sempre per sommi capi e sempre a distanza di giorni dalla consegna.

Il destinatario dei messaggi è solo il nonno del ragazzino, Giuseppe Di Matteo senior chiamato Piddu, anche lui uomo d’onore di Altofonte. L’emissario di Brusca è un altro soldato della stessa famiglia, un certo Pietro Romeo, solo omonimo del rapinatore di Brancaccio.

Romeo è il personaggio giusto per mantenere i contatti. È un uomo d’onore, è legato a Giovanni Brusca ed è sufficientemente amico di Santino Di Matteo che, infatti, lo aveva «scansato» dalle sue dichiarazioni accusatorie e non lo aveva indicato tra i mafiosi di Altofonte; soprattutto Santino mezzanasca non aveva raccontato che proprio a casa di Romeo era stato occultato l’esplosivo utilizzato a Capaci la sera prima che lo collocassero sotto l’autostrada.

Nessuno dei Di Matteo ci ha mai parlato di Romeo, di cui apprenderemo l’esistenza solo a fine 1996, dopo la collaborazione di Brusca. Non faremo nemmeno in tempo ad arrestarlo perché, mentre stiamo raccogliendo i necessari riscontri, Romeo scompare misteriosamente, vittima di lupara bianca. Il periodo è proprio quello in cui, come accerteremo solo nel settembre del 1997, Santino Di Matteo, insieme a Di Maggio e La Barbera, è tornato in Sicilia a commettere delitti. Inutile dire che ho sempre sospettato di lui come responsabile della scomparsa di Romeo, ma, a quel punto, all’inizio del 1998, non seguo più le indagini sul mandamento di San Giuseppe Jato.

Senza nemmeno un nome su cui lavorare, le ricerche di Dia, polizia e carabinieri non portano a risultati concreti e del resto, anche se avessimo ottenuto l’arresto dei fratelli Vitale, ben poco avremmo potuto fare per individuare la prigione del piccolo Giuseppe.

I suoi familiari, peraltro, fin dall’inizio scelgono decisamente la via mafiosa e, persino cinque anni dopo, nel corso del processo in cui si costituiranno parte civile, manterranno un atteggiamento omertoso e reticente. Un comportamento così fastidioso da indurre spesso me e il mio collega e amico Peppe Salvo, che mi stava dando una mano nella gestione di quel dibattimento, a non porre loro domande e a pensare, addirittura, di chiedere la trasmissione degli atti per procedere nei loro confronti per falsa testimonianza e favoreggiamento. A vantaggio degli assassini del loro figlio o nipote.

Il nonno del ragazzino riesce a contattare, tramite Benedetto Spera, capomandamento latitante di Belmonte Mezzagno, lo stesso Bernardo Provenzano chiedendogli di intercedere presso Bagarella e Brusca per ottenere il rilascio di Giuseppe: la richiesta del vecchio capomafia di Corleone, ovviamente, cade nel vuoto.

Dal canto suo Santino Di Matteo la bocca «se l’è tappata». Per alcuni mesi si rifiuta di rendere interrogatori e di partecipare ai processi. All’improvviso, addirittura, sparisce misteriosamente dalla località segreta dov’era sotto protezione allo scopo di provare a rintracciare il ragazzino. Ma è tutto inutile, Giuseppe, come era prevedibile, malgrado il «silenzio» del padre non viene rilasciato.

Santino, però, è più tranquillo e torna persino a deporre nelle aule di giustizia. Ha capito che il figlio è in mano a Giovanni Brusca e conta sul fatto che il boss di San Giuseppe Jato, che conosce bene il bambino, non avrà il coraggio di torcergli un capello. Ma purtroppo si sbaglia.

TRASFERITO PIÙ VOLTE TRA AGRIGENTO, TRAPANI E PALERMO Dopo la lunga parentesi agrigentina il piccolo Di Matteo, alla fine del periodo estivo del 1994, viene riconsegnato dal dottore di Canicattì a Brusca che adesso ha un luogo dove tenere prigioniero Giuseppe.

Lo scambio avviene sempre allo svincolo di Ponte Cinque Archi e sempre tra uomini con il passamontagna. Il ragazzino è nel cofano di una station wagon, legato e incappucciato, come al solito. Insieme a Brusca stavolta, c’è Giuseppe Monticciolo che, da quel momento in poi, si occuperà della gestione dell’ostaggio.

Giuseppe Di Matteo viene condotto in una masseria nelle campagne di Gangi, un suggestivo borgo madonita a più di mille metri sul livello del mare, e, per qualche ora, assicurato a un anello di ferro infisso nel muro.

La masseria è di Cataldo Franco, un uomo d’onore del posto, che, da qualche anno, l’ha adibita a deposito di olive. In quella specie di palmento Monticciolo aveva già fatto realizzare un bagno e una doccia e aveva fatto murare nel pavimento i piedi di una vecchia branda. Giuseppe resta nelle Madonie per qualche mese, fino a ottobre quando ‘U zu Cataldu, giustamente, ha necessità del locale perché deve cominciare la raccolta delle olive.

Brusca è ancora una volta in difficoltà. Si lamenta di essere stato lasciato solo a gestire il sequestro. Non ha tutti i torti e Matteo Messina Denaro lo autorizza a rivolgersi agli uomini d’onore del Trapanese, il suo territorio.

Da Gangi, Giuseppe viene così portato in una villetta a Castellammare del Golfo e rinchiuso in un bagno dove c’è appena lo spazio per appoggiare a terra un materasso. Nella porta gli uomini d’onore hanno realizzato uno sportellino in basso. Come una gattaiola. E da lì gli passano il cibo.

Tra i carcerieri che si alternano in quel periodo ci sono un paio di latitanti che avevano frequentato la casa dei Di Matteo. Temono che Giuseppe possa riconoscere le loro voci e per questo non gli parlano mai e comunicano con il piccolo ostaggio solo per mezzo di bigliettini scritti. Anche questi passati dalla gattaiola. Peppe Ferro, capofamiglia di Castellammare, viene però a conoscenza del fatto che Giuseppe è nella sua zona e va su tutte le furie. Non ne vuole sapere niente di quella storia: il ragazzino va portato via di là.

Sono molti in Cosa nostra a non approvare quell’operazione. Lo stesso Cataldo Franco si era messo a disposizione di Brusca solo a titolo personale e non aveva nemmeno avvisato, violando le regole

dell’associazione mafiosa, Mico Farinella, reggente del suo mandamento: il padre Peppino sicuramente non sarebbe stato d’accordo.

Monticciolo è costretto allora a portar via l’ostaggio da Castellammare. Alla vigilia di Natale del 1994, Giuseppe, come un pacco postale, viene «appoggiato», per pochi giorni, nella casa di contrada Giambascio, a San Giuseppe Jato, dove non è stato ancora costruito il bunker sotterraneo. Dopo le feste il ragazzino viene trasferito ancora. Sempre legato e incappucciato. Sempre trasportato nel cofano di una macchina. Peggio di un cane.

Fino a Pasqua del 1995 il figlio di Mezzanasca viene tenuto nel magazzino di un limoneto, a Campobello di Mazara. Un locale zeppo di casse, con una stanzetta e un séparé dove è stata ricavata una sorta di latrina.

In zona c’è un certo movimento di sbirri. E allora un’altra corda, un altro cappuccio, un altro cofano di macchina, un altro calvario. Fino a Custonaci, alle pendici di monte Erice, in una contrada denominata Purgatorio. Ma che peccati aveva da espiare il piccolo Giuseppe?

Lo spostano sempre durante le feste, quando i posti di blocco sono più rari. L’ennesimo trasferimento del ragazzino avviene il 14 agosto, alla vigilia dell’Assunta. È il suo ultimo viaggio. Giuseppe viene riportato a Giambascio dove, ormai, i solerti uomini di Giovanni Brusca hanno finito di realizzare il bunker sotterraneo con l’ascensore, la piattaforma «magica».

Il ragazzino è ormai una sorta di larva umana. Ha perso peso e forze. Non ha mai più visto la luce del sole. Non ha più respirato all’aria aperta. Nemmeno per un istante. Non oppone più alcuna resistenza. Da mesi si lascia trasportare da un posto all’altro. Si lascia legare e slegare i polsi. Si lascia incappucciare e agganciare alla catena. La grande caccia ai mafiosi dopo la cattura di Totò Riina. Uno dei magistrati è Alfonso Sabella. Le indagini sono diventate poi un libro, “Cacciatore di mafiosi”. A CURA DELL’ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA


«Liberatevi del cagnolino», così Brusca ordinò la morte del piccolo Di Matteo  

L’11 gennaio 1996 Brusca e Monticciolo si trovano a Borgetto, a casa di Giuseppe Baldinucci. Con loro c’è anche Vito Vitale, il capomafia di Partinico. Sono a pranzo. Monticciolo si sta proprio lamentando con il suo capo delle difficoltà nella gestione del ragazzino. Alla tv danno notizia della condanna all’ergastolo del boss latitante Giovanni Brusca per l’omicidio dell’esattore Ignazio Salvo». Brusca va su tutte le furie e si rivolge a Monticciolo: «Va bene. Allibbertati di lu cagnuleddu»

ormai è un adolescente. Gli sono spuntati i primi peli sul viso, la prima barba. Anche i capelli sono cresciuti. Sono lunghissimi: nessuno glieli ha mai tagliati. Pure dentro è cambiato. Lo hanno fatto cambiare. Ormai è convinto che sia solo colpa del padre. A forza di ripetergli che, se è in quelle condizioni, è solo perché il padre continua a parlare con gli sbirri, se ne è convinto anche lui. E forse comincia a odiarlo.

Dell’ultimo periodo di prigionia del ragazzino a Giambascio sappiamo quasi tutto. Di Giuseppe si occupano Enzo Brusca, Vincenzo Chiodo e il solito Monticciolo. Tutti e tre mi racconteranno la loro «verità».

Forse è il momento in cui il piccolo ostaggio viene trattato con più umanità. Anche perché, paradossalmente, Giuseppe adesso si trova in una prigione vera ed è più semplice averci a che fare. Una vera e propria cella con una porta in ferro e lo spioncino. Come quella di un carcere di alta sicurezza, anche se questa è sottoterra e non ha una finestra. L’unica differenza con un detenuto è che Giuseppe non fa l’ora d’aria e non fa i colloqui con i familiari. E per lui non è certo poco.

Il suo solo contatto «umano» è con Enzo Brusca che lì trascorre un periodo di latitanza. Il ragazzino è appassionato di equitazione ed è tifoso della Ferrari ed Enzo gli procura riviste che trattano di cavalli e giornali sportivi. Qualche volta gli porta anche i quotidiani e, se ci sono articoli che trattano del padre, li ritaglia e li butta via per non farglieli leggere. Un piccolo accorgimento per evitare di scoraggiarlo, di deprimerlo ulteriormente. Ogni tanto a colazione gli dà il latte che Giuseppe, fino ad allora, non aveva più bevuto e, periodicamente, gli taglia i capelli con una macchinetta elettrica. Non escludo che Enzo si fosse in qualche modo affezionato al piccolo ostaggio. Una sorta di sindrome di Stoccolma al contrario.

La situazione è senza sbocchi, però. Non si vedono vie d’uscita. Qualcuno dei carcerieri del piccolo Giuseppe non è contrario a rilasciare l’ostaggio, ma farlo sarebbe una sconfitta umiliante per tutta Cosa nostra. Hanno tenuto segregato per due anni un ragazzino, coinvolgendo uomini d’onore di mezza Sicilia, con lo scopo, ufficiale, di far ritrattare il padre e poi, senza avere ottenuto nulla, lo rimettono in libertà.

Significherebbe perdere la faccia davanti al «popolo» mafioso. Anche Giovanni Brusca è, in qualche modo, prigioniero in questa vicenda. Prigioniero del suo stesso ruolo.

Nel corso della mia requisitoria al processo ho sostenuto che se il ragazzo è rimasto vivo più di due anni, è proprio perché lo aveva in mano Giovanni Brusca che non trovava il coraggio di far scorrere i titoli di coda di questo film dell’orrore, dal finale scontato. «Se il piccolo Giuseppe fosse stato custodito da un altro capomafia» ho affermato «sarebbe stato ucciso molto tempo prima.»

Dalle gabbie dell’aula bunker di Pagliarelli e dalle postazioni di videoconferenza dove si trovavano una sessantina di boss di varie famiglie si sono levate urla, proteste e persino insulti nei miei confronti. Quasi tutti si erano avvalsi della facoltà di non rispondere o avevano negato il loro coinvolgimento nella vicenda. Avevano incassato senza batter ciglio le accuse di aver eseguito materialmente una ventina di altri omicidi per cui erano anche imputati in quel processo, ma non sopportavano di essere additati come potenziali boia del ragazzino.

Sono però convinto che la mia ricostruzione fosse corretta. In fondo Giuseppe muore per uno scatto d’ira, per una scusa, per una giustificazione a suo modo morale che Brusca evidentemente cercava da tempo.

LA DECISIONE DI UCCIDERLO L’11 gennaio 1996 Brusca e Monticciolo si trovano a Borgetto, a casa di Giuseppe Baldinucci. Con loro c’è anche Vito Vitale, il capomafia di Partinico. Sono a pranzo. Tutti maschi. Come d’altronde tutti i protagonisti di questa storia.

Monticciolo si sta proprio lamentando con il suo capo delle difficoltà nella gestione del ragazzino. C’è la televisione accesa e il Tg3 delle 14.25, in coda, dà l’ultima notizia appena pervenuta in redazione: «La Corte di Assise di Palermo ha condannato all’ergastolo il boss latitante Giovanni Brusca per l’omicidio dell’esattore Ignazio Salvo».

Brusca va su tutte le furie. Sbatte il pugno sul tavolo e si rivolge a Monticciolo: «Va bene. Allibbertati di lu cagnuleddu». Liberati del cagnolino. Terrificante.

E dire che Santino Di Matteo non c’entra nulla con la sua condanna all’ergastolo per l’omicidio Salvo. Il padre di Giuseppe non sapeva quasi niente di quel delitto. L’«infame» che ha incastrato Giovanni in quel processo è Gioacchino La Barbera. Ma il capomafia di San Giuseppe Jato, a quel punto, dopo due anni e due mesi, aveva solo bisogno di una scusa con se stesso, di un movente qualsiasi.

Il ragazzino si trova nel bunker; in quel momento è sotto la vigilanza di Chiodo. Monticciolo va a cercare Enzo Brusca che si è temporaneamente rifugiato a Partinico. Enzo non se la sente di ammazzare Giuseppe e chiede a Monticciolo di tornare dal fratello. Per cercare di convincerlo a ripensarci. Passano un paio d’ore. Monticciolo arriva a Giambascio. Con sé ha due bidoni da venti litri pieni di acido nitrico. Enzo Brusca e Chiodo, che sono già sul posto, lo guardano interrogativi.

«Giuvanni dissi ca nun si ‘nni parla: s’avi a fari ca s’avi a fari!» Nessuna discussione, bisogna farlo – dice secco il genero di Giuseppe Agrigento.

In realtà, Monticciolo non è mai tornato da Giovanni Brusca, non ha nemmeno provato a fargli cambiare idea. Teme che il boss di San Giuseppe Jato possa ripensarci. È stanco di avere sulle spalle il peso di quel maledetto sequestro. Dopo un anno e mezzo non ce la fa più e vuole farla finita.

È ora di cena. I tre mettono sulla griglia alcune bistecche di manzo: mangiano e, poi, si preparano. Chiodo aziona il telecomando. Portano giù un grosso fusto di lamiera e i due bidoni con l’acido.

IN TRE NELLA STANZA DEGLI ORRORI Tutti e tre entrano nella stanza di Giuseppe. Lo fanno girare, faccia al muro. Da dietro gli mettono un cappio al collo. Il ragazzino non ha il tempo di muoversi. È impietrito. Enzo Brusca e Monticciolo lo tengono per le spalle mentre Chiodo tira la corda. Giuseppe non fa alcuna resistenza, non ne ha nemmeno la forza. Si abbandona, quasi si scioglie: «come il burro» diranno i suoi boia.

«Si to patri nun faciva lu curnutu, t’avia a taliari megghiu di l’occhi mii», se tuo padre non avesse tradito, avrei avuto il dovere di proteggerti meglio dei miei occhi, osserva malinconico Enzo Brusca, mentre Monticciolo, facendo leva con il piede, dà gli ultimi strattoni alla corda con il piccolo Giuseppe ormai a terra.

Svestono il cadavere ancora caldo e lo infilano nel fusto. Versano l’acido, un liquido biancastro. Enzo Brusca e Monticciolo baciano sulle guance Chiodo: «Come per farmi gli auguri di Natale». È il suo primo omicidio, il suo battesimo della morte. E che battesimo! «’Sta cosa farà cchiù dannu di la strage di Capaci» commenta ancora il loquace Enzo Brusca.

Poi tutti e tre tacciono e, senza dire nessun’altra parola, vanno a dormire. In silenzio, al piano superiore. Salgono con quella specie di ascensore e richiudono la piattaforma. Alle cinque del mattino Monticciolo va via: ha impegni di lavoro. Ora finalmente può dedicarsi anima e corpo alla sua attività di imprenditore edile.

Vincenzo Chiodo completa l’opera. Usa ancora il telecomando per scendere ma giù l’aria è irrespirabile. Le esalazioni emesse dal corpo ormai quasi corroso dall’acido non gli permettono di fermarsi. Deve risalire, aprire le finestre della cucina e aspettare un po’, con la piattaforma abbassata.

Vede che dal fusto spunta ancora una gamba del ragazzino e, appena i fumi si diradano, scende di sotto e mescola con un bastone. Per accelerare i tempi. Nel frattempo porta su tutto il resto: pantaloni, magliette, giornali, bigliettini, il materasso. In aperta campagna fa un falò e comincia a bruciare tutto.

Il cadavere è completamente disciolto, adesso non esiste più. Nel liquido ormai scuro, galleggia solo la corda. Sarcasticamente Enzo Brusca la offre a Chiodo: «To’, tienitela come trofeo!» e poi la butta nel fuoco.

Riversano l’acido nel terreno e bruciano tutto. Noi troveremo solo la carcassa di ferro del materasso a molle.

«Io a volte non ho il coraggio di guardare in faccia i miei figli. Però il dovere era più forte» sono le testuali parole che pronuncerà Chiodo nell’aula bunker di Mestre davanti alle facce impietrite dei giudici popolari della Corte di Assise che avevano appena sentito il suo racconto, quel racconto dell’orrore.

Giusto l’indomani mattina, il 12 gennaio 1996, faremo quella vana irruzione nel covo di Brusca a fondo Patellaro e, ancora oggi, mi porto il rimorso di quel fallimento. Il dubbio è che se fossimo intervenuti prima avremmo potuto arrestare Brusca e forse salvare il ragazzino.

Probabilmente è solo per tacitare la mia coscienza che ho cercato di convincermi che, comunque, anche se avessimo preso Brusca in quel momento, non avremmo impedito l’assassinio del piccolo Giuseppe. Monticciolo lo avrebbe ucciso ugualmente: era tanto determinato a liberarsi di «quel cagnolino» che non era tornato da Giovanni Brusca a chiedergli conferma dell’ordine, così come gli aveva chiesto Enzo. Ma forse è solo una mia congettura per provare ad attenuare il rimpianto di quel ritardato blitz a Borgo Molara.

La drammatica vicenda di Giuseppe Di Matteo mi ha colpito in maniera particolare. Nel corso della mia esperienza professionale ho visto tanti morti ammazzati, ho assistito a decine e decine di autopsie e perfino a qualche raccapricciante riesumazione di cadavere, ho ascoltato centinaia e centinaia di racconti di violenze terribili, di omicidi efferati, di corpi squagliati nell’acido, di orrende mutilazioni e di quanto di più atroce possa commettere la bestia umana. E non mi sono mai tirato indietro, tranne che in un’occasione.

Da alcune ore, nel carcere di Monza, stavo interrogando Enzo Brusca sul sequestro di Giuseppe.

Avevamo passato in rassegna tutti i covi, tutti gli spostamenti, tutti i carcerieri e le persone comunque coinvolte. Eravamo quasi alla fine: «Abbiamo mangiato e abbiamo preso il telecomando per scendere di sotto. I bidoni con l’acido…».

A quel punto lo avevo bloccato: «Senta Brusca, ho già sentito questa storia tre volte. Da Monticciolo, da Chiodo e, de relato, da suo fratello Giovanni. La dovrò sentire altre quattro volte in dibattimento. Lei ha letto l’ordinanza di custodia cautelare che le è stata notificata. Mi dica solo una cosa: ci sono grandi differenze rispetto a quello che c’è scritto lì?».

«No, solo qualche dettaglio.» «E allora mi risparmi il resto della storia. Lo racconterà direttamente in Corte di Assise.» Enzo Brusca ci era rimasto male. Forse voleva alleggerirsi la coscienza ripercorrendo quelle ore terribili. Io certamente ero venuto meno ai miei doveri di magistrato inquirente, ma non ce la facevo più a sentire quel racconto. Le trascrizioni di quell’interrogatorio interrotto «sul più bello» saranno poi regolarmente depositate a disposizione dei difensori degli imputati. Gli avvocati dei boss capiranno il mio disagio. Anche per loro non era facile confrontarsi con quella vicenda. Non erano certamente teneri con il pubblico ministero e si aggrappavano a qualunque cavillo giuridico e processuale, ma nessuno di loro solleverà mai eccezioni su quel mio comportamento. In fondo, prima che professionisti, siamo tutti uomini. In collaborazione con l’associazione Cosa vostra. In questa serie, la grande caccia ai mafiosi dopo la cattura di Totò Riina. Uno dei magistrati è Alfonso Sabella. Le indagini sono diventate poi un libro, “Cacciatore di mafiosi”.

 


“Così quel bambino uccise Cosa Nostra”

di Francesco La Licata
Parla il carceriere: «L’ordine di sciogliere nell’acido il piccolo Di Matteo fece perdere ai clan faccia e rispetto della gente»  «Lo chiamavano ‘u canuzzu’, ma non era un vezzeggiativo. Non era un modo amorevole per indicare un cucciolo. No, il piccolo Giuseppe Di Matteo aveva fatto la fine che fanno i ‘canuzzi’ in campagna: legati al collare, picchiati e poi ammazzati. Lo abbiamo ucciso, il piccolo Giuseppe, forse perché era diventato un problema, ancor di più di quando lo avevamo preso e tenuto prigioniero nella speranza di convincere il padre, il pentito Santino Di Matteo a ritrattare tutte le accuse che aveva rivolto contro Giovanni Brusca, contro Totò Riina e Leoluca Bagarella. E contro tutta la mafia. Più di due anni era durata la sua prigionia e per tutto quel tempo il padre aveva resistito e tenuto duro, continuando a collaborare coi giudici. Ecco perché Giuseppe alla fine era un problema: perché sulla sua pelle si giocava l’immagine di Cosa nostra e dei suoi capi. Fu Brusca a ordinare di affucarlo con la corda e poi sciogliere il corpo nell’acido.

Era andato fuori di testa il boss, una volta tanto gelido da essere stato prescelto per premere il pulsante assassino che mise fine alla vita di Giovanni Falcone, della moglie e della scorta. Non ragionava più. Non c’era verso di fargli capire che l’uccisione del bambino sarebbe stato un terribile boomerang per tutte le “famiglie”. Era come accecato. E così pronunciò quell’ordine che, una volta emesso, nessuno poteva più raddrizzare senza correre il rischio di rimetterci la pelle. Chi poteva trovare il coraggio di “far ragionare” Giovanni Brusca? Così, mentre tutti restavamo prigionieri della paura, il piccolo Giuseppe scivolava verso una fine ingiusta e terribile.

Ma non fu una vittoria della mafia. Un terribile castigo, anzi, si abbattè su Cosa nostra: come in un’esplosione atomica il clan dei corleonesi si è liquefatto. Riina è in galera e pure Provenzano e Bagarella e tutti i capi. Giovanni ed Enzo Brusca sono diventati pentiti. Anche Enzo Chiodo, che passò la corda attorno al collo di Giuseppe ora è collaboratore. E pure io, che mi porto appresso l’incubo di non aver saputo salvare Giuseppe. Ci credevamo immortali e potenti, noi uomini dei corleonesi. Avevamo messo nel conto di poter cambiare in nostro favore anche le sventure più grandi. E per fermare il pentito Di Matteo abbiamo scelto il ricatto più ignobile, prendergli il figlio. Così credevamo di aver risolto il problema ma invece andò a finire che quel bambino morto ammazzato, un bimbo, sconfisse la mafia. Fu peggio di una sconfitta militare, perché Cosa nostra perse la faccia e il rispetto della gente».

Sembra un ragazzino Giuseppe Monticciolo, il mafioso che racconta di essere stato incaricato da Giovanni Brusca di «risolvere il problema del bambino». Adesso che non è più un boss della mafia dice di sentirsi più libero. Vive nel Nord dell’Italia e da otto anni si è assuefatto alla vita del «signor nessuno»: anonima tranquillità, casa e lavoro. «Ma non sono stato mai così appagato», dice adesso accettando di incontrare il cronista in un posto «neutro». Soltanto oggi torna alla ribalta per aver scritto in un libro, affidandola al giornalista dell’Unità Vincenzo Vasile, «la storia del mio rapporto col piccolo Di Matteo» («Era il figlio di un pentito». Bompiani. pagg.203 E.15).

È un viaggio difficile, quello di Monticciolo. Lui sa che difficilmente potrà invocare perdono e comprensione. Ma cerca di «spiegare», nei limiti di una logica troppo lontana per chi non sta dentro gli ingranaggi mafiosi, il meccanismo, la trappola, «l’inganno» dice l’ex boss, che può portare l’uomo a trasformarsi in lupo. E racconta di quando «ammazzavo i cristiani senza pensare che stavo togliendo la vita ad esseri umani e padri di famiglia». Anche se poteva servire da alibi «la consapevolezza che a parti invertite le vittime non avrebbero avuto problemi a trasformarsi in carnefici». Già, andavano così le cose: «mi sentivo gratificato se il mio capo, Giovanni Brusca, sceglieva me per un omicidio “difficile”». Rivede mentalmente il film, Monticciolo. E tira fuori dalla moviola il campionario degli orrori. Come quando Bagarella «pretese che si uccidessero Giovanna Giammona, una donna, e il marito, Franco Saporito». Uno squadrone della morte partì alla volta di Corleone ed eseguì la sentenza in piazza: «Venne pure Bagarella perché voleva che si sapesse che la decisione era sua, anche contro la linea pacifista di Provenzano». Solo poco tempo prima «avevamo ucciso un commerciante, sempre a Corleone, perché Bagarella era convinto che congiurasse contro il nipote Giovanni, il figlio grande di Totò Riina».

Eccolo il delfino di don Totò, oggi condannato all’ergastolo proprio a causa delle confessioni di Monticciolo. Un ragazzetto ancora neppure diciottenne ma tanto determinato da rispondere allo zio (Bagarella) che chiede l’ennesimo omicidio: «Come lo dobbiamo ammazzare?». Così, senza l’ombra dell’indecisione.

In questo clima, Giovanni Brusca si imbarca nel «pessimo affare» del sequestro Di Matteo. Dice Monticciolo: «Pensava di averla vinta facilmente, anche perché contavamo nelle contraddizioni interne alla famiglia del bambino. Sapevamo che il nonno, il papà di Santino, non avrebbe esitato anche a sacrificare il figlio per salvare il nipote». E invece non andò così: caddero nel vuoto – per più di due anni – i messaggi terrificanti, le foto, i video inviati alla famiglia. Il piccolo Giuseppe, «sempre più magro, coi capelli lunghissimi, un fagotto di poco più di trenta chili che imprecava contro quel pentito di suo padre che lo aveva abbandonato» venne spostato per mezza Sicilia, affidato a mafiosi che lo vedevano come un «impiccio». Poi dovette occuparsene Monticciolo, dopo aver costruito un bunker, nella casa di campagna dei Brusca, che potesse ospitarlo. Ma era la fine. Così il pentito ricorda l’ultimo viaggio: «Infransi la regola che mi impediva di aver rapporti col bambino e ci parlai. Ricevetti una lezione di dignità, non mi permise mai di oltraggiarlo. Ricordo che, bendato, sentì il mare e i profumi dei fiori. Mi chiese di poterli vedere e toccare. Non potevo accontentarlo. Al contrario, però, riuscii a fargli avere diverse riviste sui cavalli. Gli piaceva cavalcare. Quando arrivò l’ordine feci in modo che non dovessi essere io a stringere il laccio. Questo incubo continua a vivere con me».  LA STAMPA 3 novembre 2007


Affidato ai servizi sociali Bommarito il carceriere di Giuseppe Di Matteo

Era stato condannato a 22 anni di carcere, ma in cella è rimasto poco
La decisione presa dai magistrati dopo che l’uomo ha deciso di collaborare con la giustizi  Il tribunale di sorveglianza di Palermo ha concesso l’affidamento in prova ai servizi sociali al pentito Stefano Bommarito, condannato a 22 anni di carcere per l’uccisione del piccolo Giuseppe Di Matteo. La scarcerazione di Bommarito, che fu il carceriere del bambino, segue di poco la sua scelta di collaborare con i magistrati. La notizia è stata diffusa dal Giornale di Sicilia.

Il pentito è di San Giuseppe Jato, lo stesso paese del palermitano di cui è originario l’altro ex boss e collaboratore di giustizia Giovanni Brusca. Giuseppe Di Matteo venne sequestrato per ricattare il padre Mario Santo, detto Santino ‘Mezzanasca’, per evitare che parlasse della strage di Capaci. Questi aveva però continuato ad aiutare i pm, e quindi a quel punto Brusca aveva ordinato di uccidergli il figlio. Il cadavere del bambino era stato poi sciolto nell’acido.

Gli altri condannati per l’omicidio del piccolo sono Enzo Salvatore Brusca e Giuseppe Monticciolo, ai domiciliari, e Vincenzo Chiodo, in carcere, arrestato nei mesi scorsi su ordine della Corte di Cassazione. In prigione anche il mandante Giovanni Brusca. Bommarito, figlio del boss Bernardo, nel processo Di Matteo aveva già avuto gli sconti di pena previsti per i collaboratori di giustizia. Era stato inoltre riconosciuto colpevole per l’omicidio di un imprenditore di Monreale che non aveva voluto pagare il pizzo, Vincenzo Miceli, ucciso il 23 gennaio 1990 e per i delitti di persone ritenute vicine all’ex pentito Balduccio Di Maggio.  LA REPUBBLICA  29 aprile 2009


Il racconto di Santino Di Matteo  “Quando Brusca ordinò di uccidere mio figlio”   

Diciassette anni dopo il rapimento di Giuseppe Di Matteo, il padre, collaboratore di giustizia, racconta la prigionia del bambino in un libro del giornalista Pino Nazio Accadde alle 16,30 di 17 anni fa. Fu a quell’ora e in quel giorno che i Corleonesi decretarono la loro fine. Sequestrarono un bambino di 12 anni. Lo tennero in ostaggio per 779 giorni, per mesi torturano con biglietti, foto e filmati, i familiari. Poi, l’11 gennaio del 1996, il giorno in cui a Giovanni Brusca inflissero l’ergastolo per l’omicidio dell’esattore Ignazio Salvo, lo uccisero strangolandolo e sciogliendo il cadavere nell’acido. Quel bambino era Giuseppe Di Matteo, divenne adolescente mentre trascorreva ore da incubo, sfidando la voglia di uccidersi, nel buio delle masserie prigioni di mezza Sicilia. Finendo i suoi giorni nel doppio fondo di Giambascio, la casa galera di Giovanni Brusca con il pavimento che sprofondava, svelando un vano segreto tenuto su da un pistone idraulico. Giuseppe era l’arma di ricatto per il padre “pentito”. Era lo strumento con cui convincere Santino “Mezzanasca” a ritrattare. A diciassette anni da quel rapimento, quando già le sentenze hanno riconosciuto la colpevolezza di mandanti ed esecutori è lo stesso collaboratore di giustizia a raccontare di suo figlio, attraverso il giornalista Pino Nazio nel libro “Il bambino che sognava i cavalli” (Sovera Edizioni).

Un racconto angoscioso, tetro e claustrofobico, come la vita di Giuseppe in mano ai suoi carcerieri. Soldati del male, banali nella loro scrupolosa ferocia. Capaci di picchiare un ostaggio inerme di dieci anni più giovane di loro e poi, chiusa a doppia mandata l’ennesima cella, rincasare
e abbracciare i propri figli. Una “necessità”, così se la raccontavano gli “uomini d’onore” al soldo di Giovanni Brusca. Era “inevitabile” accanirsi su quell’innocente se il padre, uno degli esecutori della strage di Capaci, aveva deciso di saltare il fosso, smantellando il pezzo pregiato della formidabile artiglieria corleonese.

L’idea, racconta il libro di Pino Nazio, fu di Brusca insieme con Matteo Messina Denaro e Giuseppe Graviano. Leoluca Bagarella diede il via libera e partì una squadra di finti agenti della Dia a sequestrare il bambino nel maneggio dei fratelli Vitale, dove Giuseppe era andato per il consueto allenamento in sella al suo cavallo da salto. “Vieni, ti portiamo da tuo padre”. “Me patri, sangu mio!”, disse Giuseppe, sparendo per sempre.

Il racconto scorre per immagini: lo struggimento impotente di Franca, la moglie di Santino, costretta a svegliarsi dal lungo sogno di agio inspiegabile per rivedersi moglie di un assassino e madre di una vittima. Il banco della terza D della scuola di Altofonte vuoto, mentre del bambino ancora nessuno sa nulla. Il pianto e le domande senza risposte di Mariella, la compagna e migliore amica di Giuseppe. La tragedia di Piddu, il nonno mafioso, graniticamente fermo nella propria voglia di risolvere secondo Cosa nostra quella partita.

Il libro documenta l’intercessione di Benedetto Spera e un debole intervento di Bernardo Provenzano, con un pizzino tratto dalla Bibbia fatto arrivare a Bagarella, in favore del rilascio. Ma l’ala dura dei Corleonesi non cedette. Brusca immaginava di posticipare la sentenza di morte al compimento dei 18 anni di Giuseppe per stare a posto con le regole, sempre trasgredite, dell’organizzazione che vieta di uccidere donne e bambini.

Di Matteo padre, dopo uno stop di qualche settimana, quando la famiglia si decise a denunciare il rapimento, riprese a collaborare, sicuro che la sentenza di morte per il figlio fosse stata emessa in un modo o nell’altro. Poi si organizzò con Balduccio Di Maggio e Gioacchino La Barbera, compagni d’armi, passati sotto protezione, per arrivare da solo alla prigione del figlio.

Arrivò fino a Giambascio ma non poteva sapere ciò che era stato allestito lì dentro: la segreta che solo la collaborazione di Vincenzo Chiodo consentirà di scoprire quando del bambino non c’era più traccia. Era stato liquidato con uno scatto d’ira da Giovanni Brusca lo “scannacristiani” che con il piccolo aveva giocato sfide interminabili alla play station. Disse ai suoi “allibertativi du cagnuleddu”. E quelli eseguirono. La Repubblica del 23 novembre 2010 di Enrico Bellavia


18 Ottobre 2011 da raffaelesardo.blogspot.com
IL 7 NOVEMBRE LA REQUISITORIA DEL PROCESSO PER L’OMICIDIO DEL PICCOLO GIUSEPPE DI MATTEO di Raffaele Sardo Il 7 novembre prossimo comincerà la requisitoria del processo per l’omicidio del piccolo Giuseppe Di Matteo, il figlio del pentito Santino sequestrato nel ’93 a 13 anni e ucciso dopo quasi due anni di prigionia. Lo ha deciso la seconda sezione della corte d’assise di Palermo che ha rigettato la richiesta dei difensori del boss Giuseppe Graviano di sentire in aula Salvatore Baiardo. Il teste avrebbe dovuto deporre sulla presenza di Graviano a Milano nel periodo in cui fu pianificato il sequestro. Circostanza smentita dal pentito Gaspare Spatuzza che ha raccontato di aver discusso del rapimento col capomafia in Sicilia. Baiardo è stato condannato per favoreggiamento. La requisitoria sarà pronunciata dal pm Fernando Asaro applicato per il processo dopo il trasferimento alla procura generale di Caltanissetta. Il dibattimento è una delle tranche giudiziarie legate all’omicidio Di Matteo, rapito per indurre il padre a tornare nei ranghi di Cosa nostra. Imputati, tra gli altri, oltre a Graviano il boss latitante Matteo Messina Denaro e il pentito Gaspare Spatuzza.


Il pm in aula accusa i boss “Il piccolo Di Matteo fu torturato”

Requisitoria dell’accusa al processo per il rapimento e l’uccisione del figlio del pentito Santino Di Matteo che venne sequestrato il 23 novembre del ’93 e poi strangolato e sciolto nell’acido. Dell’omicidio sono accusati Leoluca Bagarella e Giovanni Brusca, già condannati in un altro processo, il capomafia latitante Matteo Messina Denaro, Gaspare Spatuzza, Giuseppe Graviano, Francesco Giuliano, Luigi Giacalone e Salvatore Benigno   “Il piccolo Giuseppe Di Matteo non solo viene privato della sua infanzia ma viene torturato dai suoi aguzzini che prima lo sequestrano e dopo 779 giorni di prigionia lo uccidono strangolando un corpicino ormai inerme e poi lo sciolgono nell’acido”. Con queste parole il pm Fernando Asaro sta ricostruendo davanti ai giudici della Corte d’Assise di Palermo il rapimento e l’uccisione del piccolo Giuseppe Di Matteo, il figlio dodicenne del pentito Santino Di Matteo sequestrato il 23 novembre del ’93 e ucciso nel gennaio del ’96.

Il sequestro del bambino “venne deliberato da Leoluca Bagarella, Giovanni Brusca (già condannati in un altro processo), Matteo Messina Denaro e Giuseppe Graviano”. “Agli stessi mafiosi a cui era stato affidato il bambino durante i suoi spostamenti – dice Asaro – ripugnava tenere segregato il piccolo Di Matteo sequestrato per fronteggiare il dilagante fenomeno dei collaboratori di giustizia e per dare loro un segnale. Il collaboratore di giustizia Ciro Vara ha raccontato che gli era stato riferito che si trattava di un ragazzo di almeno 18 anni invece quando gli portarono il bambino di 12 anni rimase colpito”.

Per il pm “il sequestro doveva essere utizzato come simbolo per colpire tutti i collaboratori di giustizia”. Quando lo rapirono “lo fecero con l’inganno – spiega il pm – si travestirono da agenti della Dia dicendogli che lo avrebbero portato dal padre pentito e lui esclamò felice: ‘sangue mio, mio padre, amore mio’. Invece venne portato in un casolare di Misilmeri e da lì iniziò la lunga prigionia”. “Fu Graviano che organizzò il rapimento nel maneggio – dice il magistrato ricordando le parole di Giovanni Brusca – il bambino fu segregato per più di due anni fino a essere ucciso nel gennaio del ’96 e poi sciolto nell’acido”.


Processo Di Matteo, il pm Asaro chiede l’ergastolo per Graviano e Messina Denaro 

l processo è stato rinviato al prossimo 1 dicembre. Il pm Fernando Asaro ha chiesto alla Corte d’Assise di Palermo cinque ergastoli e dieci anni per il pentito Spatuzza. La requisitoria: “Il piccolo Giuseppe Di Matteo viene torturato dai suoi aguzzini” La condanna all’ergastolo per cinque imputati, tra cui i boss Matteo Messina Denaro e Giuseppe Graviano, e a dieci anni per il pentito di mafia Gaspare Spatuzza con le attenuanti generiche, è stata chiesta dal pm Fernando Asaro alla Corte d’Assise di Palermo al termine della requisitoria del processo per il sequestro e l’omicidio del piccolo Giuseppe Di Matteo, il figlio del pentito Santino Di Matteo ucciso e sciolto nell’acido nel gennaio ’96 dopo 779 giorni di prigionia.

Chiesto l’ergastolo, oltre al boss latitante Matteo Messina Denaro e il boss di Brancaccio Giuseppe Graviano, anche per gli imputati Francesco Giuliano, Luigi Giacalone e Salvatore Benigno. Parlando del pentito Gaspare Spatuzza, per il quale il pm ha chiesto l’attenuante generica per la “sua collaborazione piena”, il magistrato ha sottolineato che il suo “è stato un contributo assolutamente determinante per chiarire alcuni aspetti di questa vicenda processuale su cui andava fatta luce. Le sue dichiarazioni sono genuine e meritevoli”.

Nella sua requisitoria, il pm Asaro ha detto che il piccolo Giuseppe Di Matteo ucciso nel gennaio ’96 dopo più di due anni di prigionia “venne rapito e poi strangolato e sciolto nell’acido per contrastare la dilagante emorragia di collaboratori di giustizia e lui era l’anello più debole per colpire il sistema dei pentiti”. Ma l’omicidio del piccolo Giuseppe Di Matteo “si è dimostrato un vero e proprio boomerang per Cosa nostra per l’implosione avvenuta subito dopo nell’organizzazione mafiosa”.

“Il piccolo Giuseppe Di Matteo non solo viene privato della sua infanzia ma viene torturato dai suoi aguzzini che prima lo sequestrano e dopo 779 giorni di prigionia lo uccidono strangolando un corpicino ormai inerme e poi lo sciolgono nell’acido”, ha detto il magistrato, ricordando poi che sono stati già tre i processi definitivi celebrati per l’omicidio del bambino, in stralci processuali. “Su 49 imputati ne sono stati condannati 35 in via definitiva e alcuni all’ergastolo – ha detto ancora – e si è fatta luce sull’episodio solo grazie ai collaboratori di giustizia. Purtroppo la cosiddetta società civile di Altofonte di quel periodo si è dimostrata assente”.  Il processo è stato rinviato al prossimo 1 dicembre. La Repubblica del 7 Novembre 2011


Fonte  video.repubblica.it 16 gennaio 2012
Mafia, omicidio Di Matteo: ergastolo per 5 imputati Pesanti condanne per l’omicidio di Giuseppe Di Matteo, figlio del collaboratore di giustizia Santino, che fu sequestrato nel 1993 e dopo 779 giorni di prigionia fu strangolato e sciolto nell’acido. Ecco la sentenza dei giudici della corte d’assise di Palermo. “Matteo Messina Denaro, Francesco Giuliano, Salvatore Benigno, Luigi Giacalone, Giuseppe Graviano, Gaspare Spatuzza sono condannati all’ergastolo per il sequestro e l’omicidio del piccolo Giuseppe Di Matteo. Per Gaspare Spatuzza, è stata concessa l’attenuante generica della collaborazione, una condanna a 12 anni di reclusione”. Gli imputati sono stati condannati anche al pagamento delle spese processuali.


La morte di Giuseppe Di Matteo Ergastolo per Graviano e Benigno

Il figlio del pentito Santino fu rapito il 23 novembre 1993, strangolato e sciolto nell’acido l’11 gennaio 1996. Confermate dalla Cassazione le condanne all’ergastolo per il boss Giuseppe Graviano e per Salvatore Benigno per l’uccisione i il sequestro del piccolo Giuseppe Di Matteo, rapito il 23 novembre 1993, strangolato e sciolto nell’acido l’11 gennaio 1996. Lo ha appena deciso la Seconda sezione penale della Suprema corte. I supremi giudici – presieduti da Antonio Esposito – hanno rigettato il ricorso presentato da Graviano e da Benigno contro il carcere a vita inflittogli il 18 marzo 2013 dalla Corte d’assise d’appello di Palermo. Gli ergastoli erano stati comminati anche in primo grado dalla Corte d’assise di Palermo il 16 gennaio 2012.

Per il sequestro e l’atroce omicidio del figlio del pentito Santino Di Matteo, sono stati condannati in appello anche Luigi Giacalone, Francesco Giuliano e il boss latitante trapanese Matteo Messina Denaro. Ma solo Graviano e Benigno hanno fatto ricorso alla Suprema corte. A lanciare le accuse contro i suoi complici era stato il collaboratore di giustizia Gaspare Spatuzza, condannato a 12 anni con l’applicazione dell’attenuante speciale per i pentiti. Il piccolo Di Matteo fu sequestrato il 23 novembre 1993 da un commando di mafiosi travestiti da poliziotti che su ordine di Graviano catturarono il bambino mentre si allenava in un maneggio ad Altofonte. Il bambino fu ucciso dopo 779 giorni di prigionia. La Cassazione ha condannato Graviano e Benigno al risarcimento di circa novemila euro in favore dei familiari della vittima, la madre Francesca Castellese e Nicola Di Matteo costituitisi parte civile. 25 Febbraio 2014 da livesicilia.it


Mafia, delitto Giuseppe Di Matteo Confermati i due ergastoli I condannati avevano fatto ricorso alla Suprema Corte

La seconda sezione della Cassazione ha convalidato le condanne a vita emesse un anno fa dalla Corte d’assise d’appello di Palermo contro Giuseppe Graviano e Salvatore Benigno, accusati del sequestro e dell’uccisione del piccolo, rapito il 23 novembre 1993 e strangolato e sciolto nell’acido dopo 779 giorni di prigionia, l’11 gennaio 1996. Secondo i pentiti il bambino sarebbe stato ucciso per ‘punire’ il padre, il collaboratore di giustizia Santino Di Matteo  Conferma degli ergastoli in Cassazione per l’omicidio del piccolo Giuseppe Di Matteo, il figlio tredicenne del pentito di mafia Santino, strangolato e sciolto poi nell’acido l’11 gennaio del 1996 dopo quasi tre anni di prigionia. Lo ha deciso la seconda sezione penale della Corte di Cassazione, presieduta da Antonio Esposito che ha respinto i ricorsi presentati da due condannati all’ergastolo dalla Corte d’assise di Palermo. Si tratta di Giuseppe Graviano e Salvatore Benigno.

Sono stati condannati, sempre all’ergastolo in appello ma non hanno presentato ricorso in Cassazione, il super latitante Matteo Messina Denaro, Francesco Giuliano e Luigi Giacolone.

Sempre in appello era stato condannato a 12 anni di reclusione il pentito Gaspare Spatuzza, che ha partecipato al sequestro di Di Matteo, e che con le sue dichiarazioni ha permesso di ricostruire tutto l’episodio e per questo è stata applicata l’attenuante prevista per i pentiti.

Il piccolo Di Matteo venne sequestrato il 23 novembre del 1993 mentre si trovata nel maneggio di Villabate. I sequestratori volevano impedire che il padre, Santino Di Matteo, rilasciasse dichiarazioni nell’ambito del suo processo di pentimento. Santino Di Matteo al momento del sequestro del figlio aveva infatti iniziato a collaborare con la giustizia ed aveva iniziato a far luce sulla strage di Capaci.

Il pentito Gaspare Spatuzza raccontò le modalità dell’omicidio di Giuseppe Di Matteo che venne prima strozzato e il corpo poi sciolto nell’acido per farne perdere le tracce.  26 Febbraio 2014 da grr.rai.it


Giuseppe Di Matteo era un bambino.

Cosa si può essere a questa età se non un bambino? Lo si è nonostante tutto, nonostante l’ambiente in cui ti è dato Rapito e sciolto nell’acido dai boss Un bambino innocente che amava i cavalli. Torturato, strangolato ed infine sciolto nell’acido. Ecco il tragico destino che toccò al piccolo Giuseppe Di Matteo, il figlio dodicenne del pentito Santino Di Matteo, rapito il pomeriggio del 23 novembre 1993, quando aveva quasi 13 anni, in un maneggio di Piana degli albanesi e poi ucciso nel gennaio del ’96. A ordinare la sua uccisione fu Giovanni Brusca. Gli esecutori materiali del delitto furono Vincenzo Chiodo, Enzo Salvatore Brusca e Giuseppe Monticciolo. Per il sequestro e l’omicidio di Giuseppe, oltre che Giovanni Brusca, sono stati condannati all’ergastolo circa 100 mafiosi tra cui Leoluca Bagarella, Salvatore Benigno, Salvatore Bommarito, Luigi Giacalone, Francesco Giuliano, Giuseppe Graviano, Salvatore Grigoli, Matteo Messina Denaro, Michele Mercadante, Biagio Montalbano, Giuseppe Agrigento, Domenico Raccuglia e Gaspare Spatuzza. Il piccolo Giuseppe, nato a Palermo il 19 gennaio 1981, fu rapito da un gruppo di mafiosi che agivano su ordine di Giovanni Brusca, allora latitante e boss di San Giuseppe Jato. Secondo le deposizioni di Gaspare Spatuzza, che prese parte al rapimento, i sequestratori si travestirono da poliziotti della Dia ingannando facilmente il ragazzo, che credeva di poter rivedere il padre in quel periodo sotto protezione lontano dalla Sicilia. La famiglia cercò notizie del figlio in tutti gli ospedali palermitani ma quando, il 1º dicembre 1993, un messaggio su un biglietto giunse alla famiglia con scritto “Tappaci la bocca” e due foto del ragazzo che teneva in mano un quotidiano del 29 novembre 1993, fu chiaro che il rapimento era finalizzato a spingere Santino Di Matteo a ritrattare le sue rivelazioni sulla strage di Capaci e sull’uccisione dell’esattore Ignazio Salvo. Santino Di Matteo non si piegò al ricatto e decise di proseguire la collaborazione con la giustizia. Giuseppe fu trasportato da un posto all’altro per mezza Sicilia, fu spostato in varie prigioni del trapanese e dell’agrigentino, e nell’ultimo nascondiglio rimase per 180 interminabili giorni, prima di essere ucciso. Fu solo quando Brusca venne condannato all’ergastolo per l’omicidio di Ignazio Salvo, che decise di vendicarsi sul ragazzo. Brusca ordinò così l’uccisione del ragazzo, ormai fortemente dimagrito e indebolito per la prolungata e dura prigionia, nel covo lager di San Giuseppe Jato.
Palermo:c’era una volta un bambino che amava i cavalli Era Giuseppe DI Matteo, ucciso dalla mafia vent’anni fa: non aveva ancora 13 anni quando lo rapirono per punire il padre Santino, pentito. Palermo, gennaio 2016 – Vent’anni fa Giuseppe Di Matteo veniva ucciso da Vincenzo Chiodo, Enzo Salvatore Brusca e Giuseppe Monticciolo. Giuseppe al momento della morte aveva 15 anni, erano 779 giorni che lo tenevano riunchiuso come una bestia per vendetta verso il padre Santino, pentito di mafia. Giuseppe è morto non perché il padre si era pentito, ma perché il padre era diventato un mafioso: questa la vera causa della sua fine atroce – e non lo diciamo solo noi, ma anche Giuseppe Cimarosa che ha più titoli dei nostri per esprimersi al riguardo. Giuseppe amava tantissimo i cavalli: erano la sua gioia, montava regolarmente e faceva piccoli concorsi. Palermo e San Giuseppe Jato hanno deciso di ricordarlo con una serie di celebrazioni intitolate “C’era una volta un bambino che amava i cavalli“ Non dimentichiamoci di Giuseppe Di Matteo, né di cosa sia la mafia. E se per caso dovesse mai servirvi un buon motivo per esssere onesti (che piccole espressioni di mafia e delinquenza le incrociamo tutti, nella vita), leggete questo stralcio dall’udienza di Vincenzo Chiodo del 28 luglio 1998. Ma leggetela solo se siete disposti all’orrore. “Chiodo Vincenzo all’udienza del 28 luglio 1998 ha anch’egli raccontato le fasi della uccisione del bambino, soppresso la sera dell’11 gennaio 1996. Ricordava bene tale data, giacchè mancava appena un mese e un giorno al suo compleanno, essendo egli nato il 12 febbraio 1963. Già nelle sere precedenti era stata avvertito da Francesco La Rosa di recarsi in campagna, perchè doveva arrivare Enzo Salvatore Brusca. Aveva a lungo atteso in una diversa strada, giacchè – come aveva fatto sapere al Brusca tramite il La Rosa medesimo – la via maestra non era transitabile a causa delle piogge e doveva seguirsi altro percorso. La prima sera lo stesso La Rosa lo aveva informato che Brusca non sarebbe venuto e che l’appuntamento era rinviato all’indomani. Lo stesso era avvenuto il giorno seguente, allorchè aveva atteso invano dalle ore 19 sino alle ore 22 o 23. La Rosa non gli aveva spiegato le ragione della venuta del Brusca. La terza sera, infine, il medesimo La Rosa lo aveva ancora una volta avvertito che l’incontro ci sarebbe stato; gli aveva anzi detto di preparare della carne per la cena. Aveva invitato il suo interlocutore a rimanere in loro compagnia, ma questi, all’apparenza terrorizzato, aveva declinato l’invito, dicendogli: “No no, me ne vado, sono fatti vostri, fatti vostri e fatti vostri”. Tale comportamento gli era sembrato alquanto strano, anche perchè il La Rosa di solito aveva sempre accettato di buon grado l’invito. In controesame all’udienza del 29.7.98 Chiodo ha ribadito che aveva atteso la venuta di Enzo Brusca in quel di Giambascio almeno un paio di giorni prima. Erano stati Monticciolo Giuseppe e La Rosa Francesco ad avvertirlo che doveva sopraggiungere il Brusca; era impossibile che avessero potuto prenderlo in giro, perchè su queste cose non si era mai scherzato.
Dopo che il piccolo Di Matteo era rimasto definitivamente a Giambascio, il Brusca Enzo Salvatore non aveva piu` frequentato quella casa; era venuto soltanto il giorno in cui era stato strangolato l’ostaggio. Doveva arrivare due giorni prima, ma Chiodo sconosceva se doveva rimanere lì o se per il bambino; nessuno gli aveva detto alcunchè, in quanto gli era stato ordinato soltanto di comprare della carne e quel che potesse servire per la cena e di attendere nella casa.
Enzo Salvatore Brusca era arrivato verso le ore 21 a bordo di una Fiat Uno pilotata da altra persona che Chiodo, nascosto tra i cespugli a fumare una sigaretta, non aveva riconosciuto. Era sceso dalla macchina, aveva saluto il suo accompagnatore, che era andato subito via, ed era andato incontro al collaborante che frattanto era uscito allo scoperto.
Enzo Brusca lo aveva messo sottobraccio e gli aveva detto “figliolo, andiamo !”, ritenendo che fossero a piedi. Chiodo aveva prelevato la macchina che aveva in precedenza nascosto ed insieme avevano raggiunto la casa di Giambascio. Appena davanti al cancello, Brusca gli aveva chiesto del bambino, che non aveva più rivisto sin da quando era stato portato a Giambascio. Il collaborante lo aveva rassicurato che stava bene e che quel giorno aveva mangiato delle uova che il ragazzo stesso aveva cucinato, avendo a disposizione un fornellino. Aveva manifestato contemporaneamente il desiderio di vederlo ed, avendogli egli fatto presente che aveva lasciato nella sua abitazione in paese il telecomando per azionare il saliscendi e le chiavi per aprire la porta di ferro, aveva detto di soprassedere sino all’arrivo di Giuseppe Monticciolo. Chiodo aveva così appreso che doveva sopraggiungere pure quest’ultimo.
Costui era arrivato poco dopo ed aveva esplicitamente comunicato che si doveva uccidere il bambino, senza specificare chi ne avesse impartito l’ordine; aveva contemporaneamente chiesto a Vincenzo Chiodo – il quale aveva già intuito la terribile sorte che stava per toccare all’ostaggio attraverso l’eccessivo interessamento dimostrato dal Brusca verso il ragazzo – se se la sentisse di farlo.
Enzo Brusca aveva mostrato una certa riluttanza e, nel vano tentativo di soprassedere, aveva fatto presente che Chiodo non aveva con sè il telecomando e che oltre tutto occorreva prelevare l’acido presso tal “Funcidda” per dissolvere il corpo, la nafta per attivare il generatore di corrente elettrico ed altro.
Quando Monticciolo aveva, dunque, comunicato quella sera la suprema decisione, dopo che Enzo Brusca, avanzando difficoltà organizzative, aveva proposto che la macabra operazione fosse rinviata all’indomani e dopo che era prevalsa la linea oltranzista del Monticciolo medesimo, si erano un po’ consultati per distribuire a ciascuno il proprio compito, essendovi parecchia indecisione su chi dovesse materialmente uccidere il bambino. Monticciolo proponeva, infatti, che fosse il Chiodo o il Brusca ad agire, dicendo: “lo fai tu, lo faccio io”; Enzo Brusca in apparenza manifestava la volontà che il Chiodo ne fosse tenuto fuori, ma in concreto voleva verificare se il collaborante si facesse avanti.
Ad ogni buon conto, avevano organizzato le operazioni preliminari: Monticciolo si era allontanato adducendo che si recava a prendere l’acido presso tale “Funcidda”, che il collaborante sconosceva; Chiodo si era recato in paese per prendere nella sua officina un fusto in lamiera, uno scalpello e un mazzuolo per scoperchiare il fusto. Si era poi ricordato che un recipiente siffatto era custodito a Giambascio, sicchè si era limitato a prelevare un bruciatore a gas, lo scalpello, il mazzuolo, il telecomando, le chiavi e ad acquistare presso il distributore di carburante la nafta.
Munito dell’occorrente necessario, il collaborante era ritornato in campagna e poco dopo era tornato pure Giuseppe Monticciolo, portando due fustini di plastica di circa venti litri pieni di acido; aveva, quindi, prelevato da un capanno uno dei fusti utilizzati per conservare la nafta, lo aveva portato dentro casa e con scalpello e martello aveva provveduto a scoperchiare il fusto, cercando di fare il minor rumore possibile.
Compiuta tale operazione, tutti e tre insieme avevano portato giù nel bunker il fusto appena tagliato e i due fustini di acido, depositandoli davanti la porta della cella dell’ostaggio. Monticciolo aveva contemporaneamente riferito al Chiodo che doveva far scrivere al bambino una lettera, nella quale egli comunicava al nonno che era stato abbandonato da tutti, che aveva tentato il suicidio impiccandosi con le lenzuola, ma che era stata salvato. Insieme – Monticciolo e Chiodo – ne avevano poi indicato il testo al bambino, invitandolo a preparare la missiva che avrebbero ritirato dopo.
Erano risaliti nel piano superiore, uscendo fuori, e avevano cenato nella cucina sottostante, mangiando carne arrostita in padella, preparata dal Chiodo. Dopo cena, che si era svolta in un clima del tutto tranquillo, il collaborante aveva tagliato un pezzo di corda da una fune che si trovava all’esterno ed Enzo Brusca l’aveva annodata per formare il cappio.
Erano ridiscesi nel bunker; Chiodo si era fatto consegnare la lettera, ritirandola dalla mani del ragazzo senza fare uso di guanti (tanto da essere stato rimproverato dal Monticciolo per il fatto che avrebbe potuto lasciare pericolose impronte digitali); si erano infine apprestati a compiere la macabra operazione dello strangolamento.
Chiodo, nonostante che Enzo Brusca avesse prima manifestato il suo dissenso a che egli intervenisse, si era fatto avanti in omaggio alla regola che più volte gli aveva ripetuto lo stesso Brusca: “Mai tirarsi indietro su qualsiasi eventuale occasione”. Era del tutto tranquillo, non lo impensieriva minimamente il fatto che dovesse uccidere un bambino: “… il dovere era piu` forte di questo, cioe` perche’ li` non e` che uno poteva rifiutare al momento questo, perche’ poteva succedere diciamo il peggio”. In quel momento non aveva neppure pensato ai suoi figli; se ne era vergognato di fronte a loro quando aveva fatto la sua scelta di collaborare.
Era la prima volta che uccideva una persona; in precedenza aveva collaborato con i medesimi soggetti e con l’aggiunta di Romualdo Agrigento all’occultamento di cadaveri.
Sempre in controesame, Chiodo ha aggiunto che, quando si doveva strangolare il bambino, sia il Monticciolo che Enzo Brusca gli avevano detto: “Va beh, lo fai appoggiare li` al muro, gli metti la corda al collo, la tiri che poi noi ti aiutiamo”. In effetti Chiodo – così come gli era stato ordinato – aveva fatto appoggiare il bambino al muro con le braccia alzate, gli aveva messo la corda al collo, l’aveva tirata ed erano intervenuti gli altri. In pochi attimi il piccolo era rimasto soffocato.
Il collaborante, quasi con aria di compiacimento, ha spiegato in dettaglio tutte le operazioni compiute; aveva aperto la porta; il ragazzo stava in piedi vicino al letto ed ha così proseguito il suo racconto:
“Si, allora gia` eravamo nella stanza, io ho aperto la porta…, ho fatto pure fatica ad aprire la porta perche’ era quasi arrugginita, perche’ giu` c’era molta umidita`…, c’era sempre la condensa del corpo che stava chiuso senza avere un’aria … come in altre case. Allora io ho detto al bambino – io ero ancora incappucciato – ho detto al bambino di mettersi in un angolo cioe` vicino al letto, quasi ai piedi del letto, in un angolo con le braccia alzate e con la faccia al muro. Allora il bambino, per come io gli ho detto, si e` messo di fronte il muro, diciamo, a faccia al muro. Io ci sono andato da dietro, ci ho messo la corda al collo. Tirandolo con uno sbalzo forte, me lo sono tirato indietro e l’ho appoggiato a terra. Enzo Brusca si e` messo sopra le braccia inchiodandolo in questa maniera (incrocia le braccia) e Monticciolo si e` messo sulle gambe del bambino per evitare che si muoveva. Nel momento della aggressione che io ho buttato il bambino giu` e Monticciolo si stava avviando per tenere le gambe, gli dice “mi dispiace”, rivolto al bambino, “tuo papa` ha fatto il cornuto”. Nello stesso momento o subito dopo Enzo Brusca dice “ti dovevo guardare meglio degli occhi miei”, dice, “eppure chi lo doveva dire?”, queste sono state le parole diciamo al bambino.
Io mi ricordo il bambino, cioe` me lo ricordo quasi giornalmente la faccia, diciamo, mi ricordo sempre, ce l’ho sempre davanti agli occhi. …Il bambino non ha capito niente, perche’ non se l’aspettava, non si aspettava niente e poi il bambino ormai non era.. come voglio dire, non aveva la reazione piu` di un bambino, sembrava molle, … anche se non ci mancava mangiare, non ci mancava niente, ma sicuramente.. non lo so, mancanza di liberta`, il bambino diciamo era molto molle, era tenero, sembrava fatto di burro…, cioe` questo, il bambino penso che non ha capito niente, neanche lui ha capito, dice: sto morendo, penso non l’abbia neanche capito. Il bambino ha fatto solo uno sbalzo di reazione, uno solo e lento, ha fatto solo quello e poi non si e` mosso piu`, solo gli occhi, cioe` girava gli occhi … A me poi mi sono cominciate tremare le gambe ed io ho lasciato il posto a Monticciolo, che lui mi ha detto di andare anche sopra, dopo che pero` il bambino penso che gia` era morto perche’ si vedeva che gia` gli occhi proprio al di fuori… vedevo la bava che gli usciva tutta dalla bocca. Ed io sono uscito, nell’attimo che stavo andando sopra a vedere se c’era movimento strano … e ho visto il Monticciolo che tirava forte la corda e con il piede batteva forte nella corda per potere stringere ancora il cappio, nella corda… Ho preso un pochettino d’aria, sono risceso e ho detto a Monticciolo “dammi di nuovo a me la corda” e il Monticciolo dice “va beh, lascia stare”, finche` poi il bambino gia` era morto. Enzo Brusca ogni tanto si appoggiava al petto del bambino per sentire i battiti del cuore, quando ha visto che il bambino gia` era morto mi ha ordinato Enzo Brusca a me “spoglialo”. Io ho spogliato il bambino e il bambino era urinato e si era fatto anche addosso dalla paura di quello che abbia potuto capire, diciamo, o e` un fatto naturale perche’ e` gonfiato il bambino. Dopo averlo spogliato, ci abbiamo tolto, aveva un orologio al polso e tutto, abbiamo versato l’acido nel fusto e abbiamo preso il bambino. Io l’ho preso per i piedi e Monticciolo e Brusca l’hanno preso per un braccio, l’uno, cosi`, e l’abbiamo messo nell’acido e ce ne siamo andati sopra. Andando sopra abbiamo lasciato il tappo del tunnel socchiuso per fare uscire il vapore dell’acido che usciva… Quando siamo saliti sopra Enzo Brusca e Monticciolo mi hanno baciato, dicendo che mi ero comportato.. come se mi avessero fatto gli auguri di Natale o chissa`…., complimentandosi per come mi ero comportato… Siamo entrati dentro la casa dove avevamo cenato prima, cosi`, eravamo li`, abbiamo fumato una sigaretta, si parlava cosi`. Poi dopo un po’ Enzo Brusca mi dice “vai sopra, vai a guardare che cosa c’e`, se funziona l’acido, se va bene o meno”. In quel momento non aveva avvertito emozioni di sorta: “Io ero un soldato, io eseguivo.. io ho condiviso sempre le scelte di Brusca e le scelte degli altri, io mi sento responsabile, io non voglio.. cioe` non voglio incolpare altri e discolpare la mia persona, io mi sento responsabile come e` responsabile Brusca e tutti, io mi sento responsabile diciamo, anche se io posso dire che era meglio se non succedeva il discorso del bambino e non succedeva che io ero presente in quella situazione, cioe` questo, e non lo auguro a nessuno, diciamo, ne’ primo, ne’ chi ne ha fatto uno, ne’ chi ne ha fatto due, ne’ chi ne ha fatto tre, perche’ io non lo so se i miei figli mi possono a me perdonare. Prima il Presidente me lo diceva, io a volte non ho il coraggio di guardare i miei figli”. Ed ha proseguito: “Io ci sono andato giu`, sono andato a vedere li` e del bambino c’era solo un pezzo di gamba e una parte della schiena, perche’ io ho cercato di mescolare con un bastone e ho visto che c’era solo un pezzo di gamba … e una parte.. pero` era un attimo perche’ sono andato.. uscito perche’ li` dentro la puzza dell’acido … era.. cioe` si soffocava li` dentro. Poi siamo andati tutti a letto a dormire, abbiamo dormito li`. Monticciolo mi ha detto che alle 5 lo dovevo chiamare perche’ lui se ne doveva andare; abbiamo dormito tutti e tre assieme nello stesso letto matrimoniale che avevamo nella stanza lì”. Chiodo si era svegliato di buon mattino; aveva svegliato il Monticciolo che era andato via e si era recato a svuotare il fusto, rifiutando l’intervento dell’Enzo Brusca che aveva offerto la sua collaborazione. Il corpo del povero ragazzo si era interamente liquefatto senza che nulla di solido fosse rimasto, salvo la corda che gli era rimasta messa al collo. Con una latta aveva prelevato quel liquido di colore scuro versandolo nei due bidoncini di plastica che prima contenevano l’acido, svuotandoli in aperta campagna. Aveva riportato in superficie il fusto e il Brusca vedendo la corda che era rimasta aveva detto scherzando al Chiodo di tenerla per trofeo. Aveva bruciato il materasso dove dormiva l’ostaggio, i suoi indumenti e tutto quanto si apparteneva al bambino. Con un’ascia aveva fatto in mille pezzettini la rete, sulla quale era stata adagiato il materasso e che era stata ancorato al pavimento con i piedi annegati nel cemento (operazione che aveva in precedenza fatto il La Rosa, per evitare che il ragazzo l’alzasse e facesse rumore); aveva raccolto i pezzi, le coperte, la macchina fotografica in diversi sacchi della spazzatura che aveva distribuito in vari cassonetti. Avevano, quindi, ripulito tutto, mettendo una pietra sopra nella vicenda. Ancora in controesame, Chiodo ha precisato che dopo che era stato sciolto il corpo del bambino, era rimasto integro il pezzo di corda adoperato per strangolarlo e se ne era meravigliato, facendolo notare al Brusca, il quale gli aveva detto: “L’acido niente ci fa alla corda, tienetila per trofeo!”, in quanto era il suo primo delitto. In effetti, aveva bruciato la corda assieme a tutti gli altri oggetti, compreso il materasso e il fusto metallico che era stato messo sul fuoco per togliere qualsiasi traccia dell’acido. Enzo Brusca gli aveva detto che la scoperta della vicenda del sequestro avrebbe fatto più danno della strage di Capaci in due occasioni. Glielo aveva ripetuto dopo che Foma aveva lasciato l’incarico, incontrandolo nella contrada Parrini, dicendogli: “Apriti gli occhi, stai attento, tu lo sai a cosa si va incontro, la responsabilita` che ti ritrovi…La responsabilita` che ti ritrovi sai qual e`? Adesso basta solo pensare che prima erano tante persone che badavano a questo bambino, adesso ti ritrovi tu solo a gestire, con diverse complicazioni che si sono aggravate. Stai attento, perche’ lo sai che se succede che scoprono il bambino e cose.. fara` piu` scalpore della strage di Capaci”. Sostanzialmente Enzo Brusca, essendo un violento, alludeva anche alle sofferenze che erano stato inferte al piccolo Di Matteo che era stato tenuto in luoghi malsani, legato mani e piedi e sballottolato di qua e di là. Nella casa di Giambascio era rimasto soltanto Enzo Brusca, che aveva poi diretto gli ulteriori lavori di muratura che erano stati subito dopo effettuati. Erano state infine ricoperte con l’intonaco le pareti lasciate grezze e si era proceduto alla piastrellatura del pavimento che era ancora mancante“. Ed era solo un ragazzino che sognava i cavalli, proprio come siamo stati noi. CAVALLO MAGAZINE. vivi.libera.it
________________________________________
COMO, Di Matteo assale Brusca: “Animale ti stacco la testa.

Drammatico il faccia a faccia fra i due nel palazzo di giustizia di Como, dove la corte d’assise di Caltanissetta sta tenendo le udienze del processo bis per la strage di via D’Amelio, quella del 19 luglio 1992, nella quale persero la vita il giudice Paolo Borsellino e cinque uomini delle scorta.
SANTINO DI MATTEO assale Brusca: ‘Animale, ti stacco la testa’
“Stu figghiu e’ buttana”, grida Santino Di Matteo contro Giovanni Brusca. Poi afferra il microfono che gli è davanti, lo strappa dal supporto e glielo lancia violentemente addosso. L’ira sale, Di Matteo si alza e gli si scaglia contro. Tenta di afferrarlo, ma è bloccato dagli agenti di polizia. I due sono l’uno di fronte all’altro. A sinistra della corte Santino Di Matteo, pentito di vecchia data, uno dei primi ad abbandonare i corleonesi di Totò Riina. A destra Giovanni Brusca da San Giuseppe Jato, cresciuto anche lui sotto l’ala protettiva di Totò u’ curtu, anche lui controverso collaboratore di giustizia. Giovanni Brusca, che si è macchiato di uno dei crimini più terribili della storia di Cosa nostra: lo scioglimento nell’acido di un bambino di dodici anni, con la sola colpa di essere figlio di “uno che aveva cantato”. Quel bambino, morto per strangolamento e poi gettato nel liquido corrosivo nel gennaio 1996 si chiamava Giuseppe Di Matteo, e suo padre è proprio Santino. Drammatico il faccia a faccia fra i due nel palazzo di giustizia di Como, dove la corte d’assise di Caltanissetta sta tenendo le udienze del processo bis per la strage di via D’Amelio, quella del 19 luglio 1992, nella quale persero la vita il giudice Paolo Borsellino e cinque uomini delle scorta. “Giocava con mio figlio”, urla Di Matteo. E ricorda i giorni della loro carriera nelle fila Cosa Nostra. Quando Brusca andava a casa sua e portava il figlio nel giardino di casa, per divertirlo. Le invettive diventano sempre più pesanti, la rabbia cresce. “Animale, non sei degno di stare in questa aula. Parliamo di fronte ad un animale”, fa Di Matteo. E poi: “Ci dovrei staccare la testa, uno che ha ucciso una donna incinta e un bambino”. Il tono diventa di sfida. “Perché non lo mettiamo a un’incrocio. All’ultimo magari, presidente, ci mette tutti e due in quella cella là…”. Brusca è impassibile, dice che Di Matteo è accecato dalla vendetta e che dice falsità. Santino non regge più, scoppia. Il presidente Pietro Falcone, dopo l’aggressione, sospende l’udienza. Che riprende dopo pochi minuti. “Faccia uno sforzo e si calmi”, dice il presidente rivolto a Santino Di Matteo. Ma non c’è verso. Gli insulti continuano. “Lei è padre di figli”, dice Di Matteo rivolto al giudice. E aggiunge, di nuovo: “Ci dovrei staccare la testa a quello là”. Falcone cerca di mettere ordine: “Lei ha avviato una collaborazione con la giustizia”. “Garantisco che continuerò – risponde subito Di Matteo – ma almeno fatemelo guardare”. Brusca è ormai circondato da un cordone di poliziotti. Le parole per lui sono ferocissime: “Solo questo ha fatto nella vita. La sua carriera l’ha fatta con Salvatore Riina attraverso le tragedie, la sua carriera è stata solo di uccidere le persone buone. Lui è più animale di Salvatore Riina. Me lo deve far vedere. Mi ha cercato per cinque anni, invece ha trovato un bambino. Me lo mangio vivo. Ha ucciso solo una donna incinta, solo perchè poteva sapere qualche cosa”. Odio, solo odio, fra i due. Appena placato il 20 maggio 1996 dalla notizia dell’arresto di Brusca. “Finalmente lu pigliaru a stu curnutu, e adesso mettetegli la testa nella merda”, disse in lacrime Santino Di Matteo. Più volte i due si sono incontrati nelle aule di tribunale. E sempre lo scontro ha avuto toni drammatici. Giovanni Brusca ha sempre ammesso l’omicidio del piccolo Giuseppe Di Matteo. Del pentimento, quello morale, per il gesto compiuto, appena l’ombra, nelle sue parole: “Se avessi avuto un momento in più di riflessione, più calma per poter pensare, come ho fatto in altri crimini, forse ci sarebbe stata una speranza su mille, su un milione, che il bambino fosse vivo. Oggi qualsiasi giustificazione sarebbe inutile. In quel momento non ho ragionato”. 15 settembre 1998 La Repubblica

GIOVANNI BRUSCA : “liberati dal canuzzo – Il bambino è prigioniero da settecentosettantanove giorni. E’ una larva, non pesa neanche trenta chili. Un uomo lo mette con la faccia al muro e lo solleva da terra, il bimbo non capisce, non fa resistenza, nemmeno quando sente la corda intorno al collo. Il suo è appena un sussurro: <>. Ci sono altri due uomini che lo tengono. Per le braccia e per le gambe. E poi il piccolo Giuseppe se ne va. Un mese e mezzo dopo, un mafioso si presenta davanti a un sostituto procuratore della Repubblica di Palermo, che gli chiede: <>. Giuseppe Monticciolo risponde: <>. Comincia dalla fine Dall’ultimo. Comincia da Giuseppe Di Matteo, undici anni, il figlio di Santino Mezzanasca, uno dei sicari di Capaci. Il bambino lo rapiscono per far ritrattare il padre pentito. Mezzanasca non ritratta e suo figlio sparisce in un bidone di acido muriatico, i suoi resti sotterrati in una fossa dietro le montagne di Palermo. Giuseppe Di Matteo viene rapito il 23 novembre 1993 e ucciso l’11 gennaio 1996. Lo prendono al maneggio di Villabate, i macellai di Brancaccio. Lo legano e lo portano dopo la piana di Buonfornello, a Lascari. Poi lo consegnano a Giovanni Brusca, quello che a San Giuseppe Jato chiamano ù verru, il maiale. Lo nascondono nei bagagliai delle automobili, lo spostano da un covo all’altro per mezza Sicilia. A Misilmeri, vicino Palermo. A Villarosa, alle porte di Enna. In contrada Giambascio, alle spalle di San Giuseppe Jato. sempre legato e bendato, sempre incatenato. Giuseppe non piange mai. Non chiede mai niente ai suoi carcerieri. Per due anni lo tengono prigioniero. E aspettano un segnale da quell’ “infamone” di suo padre. A Giuseppe fanno scrivere lettere al nonno. Vogliono spingere Mezzanasca a rimangiarsi tutto. Passano le settimane, non succede nulla. E’ la sera dell’11 gennaio 1996. Giovanni Brusca guarda la tv, è l’ora del telegiornale. Sente una notizia: Giovanni Brusca e Leoluca Bagarella>>. Giuseppe Monticciolo è lì, accanto a Brusca, che ha uno scatto d’ira. Poi ù verru gli ordina: <>. Uccidi il cagnolino. Vincenzo Chiodo è quello che gli sbatte la faccia al muro e lo solleva. Enzo Brusca e Giuseppe Monticciolo lo tengono per le braccia e per le gambe. E’ Chiodo che stringe la corda. <> confessa Monticciolo. Gli chiede il magistrato: <>. Monticciolo abbassa gli occhi: <<No, niente, non era più un bambino come tutti gli altri, era debole, debole,…>>. I bidoni di acido sono già pronti. Dopo un pò si vedono solo i piedini di Giuseppe. I tre mafiosi si baciano. Racconterà qualche tempo dopo Brusca: <>. L’acqua del torrente di San Giuseppe Jato finisce in una diga. Quella che disseta tutta Palermo. Attilio Bolzoni –


“MAFIA: VINCENZINA, ‘NON HO FIGLI PERCHE’ TU UCCIDI I BAMBINI

‘Come fa Dio a darmi dei figli se tu uccidi i bambini…?”: cosi’ Vincenzina Marchese, negli ultimi giorni di vita, gia’ prostrata, anoressica, si rivolgeva a suo marito Leoluca Bagarella, subito dopo un aborto. Lo ha detto, deponendo al processo per l’ uccisione del piccolo Giuseppe Di Matteo, il collaborante Tony Calvaruso. Il processo si svolge davanti alla seconda sezione della corte d’ assise, presieduta da Vincenzo Oliveri, pubblici ministeri Alfonso Sabella e Giuseppe Salvo. Con Bagarella vengono giudicati altri 65 imputati. Quella di Calvaruso e’ stata una testimonianza drammatica, Bagarella ha inveito contro il teste, facendoallusioni nei riguardi di suo figlio, ed e’ stato allontanato dall’ aula mentre gli atti sono stati inviati al Pm. Calvaruso ha parlato di Vincenzina chiamandola ”la signora”: ”L’ 11 o il 12 maggio del ’94 – ha detto – Bagarella mi chiamo’ al cellulare e mi fece vedere la signora morta, distesa sul divano, mi disse che si era impiccata”. Il pentito ha ricostruito poi il funerale privato che il marito le fece, insieme con Gregorio Marchese (fratello di Vincenzina) ed i fedelissimi Pasquale Di Filippo, Pino Guastella, Nicola Di Trapani. Il teste non presenzio’ alla sepoltura della donna dentro una cassa di lusso, ma seppe che venne sepolta in un terreno ”con cipressi”, circondato da ”traversine ferroviarie”. Il luogo era ”un segreto che non doveva trapelare, pena la morte”. La reazione di Bagarella e’ scattata quando Calvaruso ha ricordato che dopo la morte della moglie, il boss prese a vestire di nero, portando la fede nuziale appesa al collo. Pino Guastella, accortosene, rimprovero’ per questo Bagarella. ”Bagarella – e’ la convinzione del teste – voleva fare capire che la moglie l’ aveva uccisa lui”’, perche’ sorella di un ”pentito”. E’ stato a questo punto che Bagarella ha urlato dalla ”gabbia”:”Mi devi salutare ‘Spizzieddu…”’. ”Mi sta minacciando, Presidente…” ha spiegato Calvaruso, chiarendo che ”Spizzieddu” e’ il nomignolo di suo figlio: ”Non fa onore a Bagarella minacciare mio figlio…”. L’ udienza e’ stata sospesa brevemente e, alla ripresa, lo stralcio del verbale e’ stato rimesso al Pm. Rispondendo alle domande sull’ uccisione del piccolo Di Matteo, Calvaruso ha quindi proseguito: ”Ricordo Bagarella inginocchiato accanto al divano della morta che, piangendo, ripeteva ad alta voce: ‘hai visto, mi accusavi del bambino, che l’ avevo ucciso io, e dicevi ‘come fa Dio a darmi dei figli se poi tu uccidi i bambini…”. ”Cornuto, cornuto…” ha ripetuto dalla gabbia Bagarella ed il presidente ne ha disposto l’ allontanamento. Calvaruso ha concluso: ”E’ stato sempre cosi’ poco civile. Lui diceva che non c’ entrava niente con la morte di Di Matteo, ma la signora, conoscendo il marito, sapeva con chi aveva a che fare”. (ANSA 22.1.1998)
________________________________________
Mafia, il piccolo Giuseppe Di Matteo ucciso 25 anni fa. Il fratello Nicola: “Avrei voluto morire io al suo posto” .L’11 gennaio 1996 da mafiosi guidati da Giovanni Brusca uccisero il figlio del pentito Santino. La commemorazione ad Altofonte con Fava, Morra e il fratello oggi 38enne del ragazzino di F. Q. | 11 GENNAIO 2021 Rapito per impedire a suo padre di collaborare con la giustizia. E poi ucciso e sciolto nell’acido. Venticinque anni fa veniva assassinato il piccolo Giuseppe Di Matteo. Ad Altofonte, in provincia di Palermo, è stato ricordato l’omicidio compiuto l’11 gennaio 1996 da mafiosi guidati da Giovanni Brusca. Il sindaco del Comune Angela De Luca ha organizzato una manifestazione nel salone parrocchiale della Chiesa madre Santa Maria alla quale hanno preso parte il fratello di Giuseppe, Nicola Di Matteo, l’assessore regionale Roberto Lagalla, il presidente della commissione regionale antimafia Claudio Fava, il presidente del parlamento della legalità Nicolò Mannino e numerosi sindaci del comprensorio. “E’ la prima volta che partecipo a iniziative che ricordano la memoria di mio fratello perché ancora oggi provo un dolore enorme per quanto è accaduto. Mio fratello è vivo nella memoria di tutti, ma avrei preferito morire io al suo posto”, ha detto il fratello del piccolo Giuseppe, oggi trentottenne. “La mafia non è cambiata, c’era e c’è ancora – ha sottolineato Fava, presidente della commissione Antimafia dell’Assemblea regionale siciliana -. Ha solo cambiato strategia, ma è presente come e più di prima. Tutti vanno ad Auschwitz per vedere i forni crematori, provando inevitabile orrore. Eviteremmo di vendere chiacchiere, se andassimo nei luoghi in cui la mafia ha seminato orrore, come il Giardino della Memoria, accorgendoci delle atrocità di quanto è accaduto”. All’incontro ha anche partecipato in collegamento telefonico Nicola Morra presidente della commissione nazionale antimafia. “Per quale motivo – ha detto Morra – i carcerieri del piccolo Di Matteo erano incappucciati? I mafiosi tra di loro si conoscono. E’ possibile che anche nel rapimento e nell’uccisione del piccolo Di Matteo siano coinvolti pezzi dello Stato che cercavano di bloccare insorgenza di una coscienza civile?”. Ha preso la parola anche Monica Genovese avvocato della famiglia del piccolo Di Matteo che assiste il fratello Nicola e la madre Franca Castellese. “In questi anni – ha detto – duranti tutti i processi nelle varie aule di tribunale due sono gli aspetti che è giusto sottolineare in questo giorno: il primo è che da parte degli assassini non sono arrivate mai le scuse alla famiglia per l’orrendo delitto. La famiglia avrebbe voluto le scuse che non sono mai arrivate. Il secondo è che accanto agli uomini hanno commesso questo delitto c’erano tantissimi testimoni, mogli, figlie e figli. Nessuno di loro ha avuto il coraggio e la forza di denunciare quanto di orribile stava avvenendo nelle campagna siciliane in oltre 779 giorni di prigionia”. Figlio di Santino Di Matteo, boss poi pentito, il piccolo Giuseppe fu tenuto prigioniero per tre anni. Prelevato il pomeriggio del 23 novembre 1993 da un maneggio di Villabate, il ragazzino fu portato via un commando di mafiosi camuffati da agenti della Dia che lo convinsero a salire in auto raccontandogli che avrebbero dovuto portarlo dal padre. ‘’Papà, amore mio’’, esclamò il ragazzino, e quelle parole segnarono l’inizio di un incubo concluso la sera dell’11 gennaio 1996 quando Brusca apprese dalla tv che era stato condannato all’ergastolo per l’omicidio di Ignazio Salvo reagì ordinando l’omicidio del piccolo Giuseppe, tenuto attaccato ad una catena e ridotto ormai ad una larva umana. A strangolarlo furono Enzo Chiodo ed Enzo Brusca, fratello di Giovanni, e il corpo fu poi disciolto nell’acido. Il giorno dopo il sequestro ai familiari del ragazzo fu recapitato un biglietto con la scritta ‘’tappaci la bocca’’, chiaro segnale per il padre Santino, che aveva iniziato a rivelare i segreti delle stragi mafiose. Ma a svelare gli ultimi dettagli del rapimento è stato Gaspare Spatuzza, componente del commando che rapì il ragazzino nel ’93: il pentito ha chiesto perdono alla famiglia, ma né Santino Di Matteo, né la moglie Franca Castellese, hanno accettato la richiesta.
A GIUSEPPE DI MATTEO, SCIOLTO NELL’ACIDO DAI MAFIOSI A 14 ANNI, È STATO INTITOLATO UN PARCO Ucciso dagli uomini di Cosa Nostra nel 1996, dopo anni di insistenze il comune di San Pietro in Casale ha deciso di commemorarlo dedicandogli un parco giochi.
Finalmente il buon senso è prevalso sul pregiudizio. Ho vinto una battaglia, ma non la guerra. Da anni, tento invano di convincere sindaci e prelati d’intitolare un parco giochi a un piccolo martire italiano, assassinato dalla bieca violenza mafiosa. Sì rispondono alle mie missive, decantando plauso per la mia richiesta. Ma poi il nulla: spariscono.
Solo il consigliere comunale, Renato Rizz, del comune di San Pietro in Casale, ha accolto il mio invito. E dopo ben 4 anni di lavoro insieme, il 21 marzo 2021 il sindaco della città di San Pietro in Casale – provincia di Bologna – ha di fatto intitolato un parco a Giuseppe Di Matteo. Chi era Giuseppe? Era un innocente bambino che ebbe la colpa d’essere figlio di un uomo d’onore di Cosa nostra: Santino Di Matteo.
Santino Di Matteo fu uno degli autori della strage di Capaci che noi della DIA catturammo, insieme ad Antonino Gioè e Gioacchino La Barbera. Quest’ultimo si pentì in contemporanea a Di Matteo, mentre Gioè si suicidò in carcere. Noi della DIA avevamo in consegna il duo Di Matteo-La Barbera. Il bambino Giuseppe Matteo fu rapito alla fine del 1993 da mafiosi travestiti da poliziotti. E quando giunse la notizia io mi trovavo col padre a Roma.
Poi conducemmo a Palermo le ricerche per rintracciare la prigione di Giuseppe. Non ci riuscimmo. Infatti dopo quasi 800 giorni di prigionia Giuseppe fu ucciso e sciolto nell’acido. Come si evince dal video, il mafioso Giovanni Brusca – colui che pigiò il telecomando della strage di Capaci – con una telefonata diede ordine di uccidere Giuseppe e avrebbe detto ai carcerieri “ammazzati u canuzzu” (uccidete il cagnolino).
Io continuerò la mia battaglia, perchè nei confronti di Giuseppe Di Matteo siamo tutti debitori e pertanto merita di essere sempre ricordato proprio nei parchi giochi per bambini. I coetanei di Giuseppe, così come gli adulti, devono conoscere il martirio di un bambino innocente. Gli uomini che seppelliscono il proprio passato, non saranno uomini del futuro ed io non posso permettermi di dimenticare.
Una candela può illuminare una stanza, ma il sorriso di un bambino illumina il Mondo. E noi, Giuseppe, tentiamo di illuminarlo col tuo sorriso, mentre eri a cavallo. Riposa in pace. La voce di new york di Pippo Giordano 22 Mar 2021


A CASA DI SANTINO DI MATTEO COMINCIANO A PREPARARE LA BOMBA PER FALCONE

Dieci giorni prima della strage, Santino Di Matteo riceve l’incarico da Giovanni Brusca di recarsi nella casa di contrada Rebottone perché lì doveva arrivare Giovanni Agrigento, “capo famiglia” di San Cipirello, per portargli delle cose. «…L’indomani mi reco in campagna e viene Agrigento con la Tipo bianca, e dentro la macchina sia dentro il cofano che dietro il sedile, c’aveva quattro sacchi di esplosivo…»
Nel 1992 Di Matteo era proprietario di due appartamenti, uno nel paese di Altofonte, in Via del Fante, l’altro un po’ fuori dall’abitato, in contrada Rebottone. Proprio in quest’ultima abitazione, luogo di incontro e riunione degli appartenenti alla sua “famiglia”, i quali tutti sapevano dove era nascosta la chiave di ingresso (sotto un mattone), Di Matteo aveva appreso, verso la fine di aprile o gli inizi di maggio, che doveva essere fatto un attentato.
Le riunioni nella casa in in quel periodo si tenevano giornalmente, ma egli non sapeva ancora a quell’epoca che sarebbe stato personalmente coinvolto nell’esecuzione del progetto criminoso. Le persone che frequentavano l’abitazione erano per lo più Giovanni Brusca, Antonino Gioè, Gioacchino La Barbera e Leoluca Bagarella (soldato della “famiglia” di Corleone). In quel periodo aveva visto che Brusca aveva fatto venire una persona non appartenente alle famiglie palermitane, Pietro Rampulla da Catania, e che era è Gioè ad accompagnarlo dato che non era della zona (successivamente lo aveva visto usare un’Alfetta scura 1800 o 2000) e quel giorno c’erano anche Salvatore Biondo e Biondino, che erano venuti insieme su una Fiat Uno verde, ma egli non aveva assistito alla conversazione che Brusca e Bagarella avevano avuto con il personaggio catanese, aveva notato però che quest’ultimo era tornato due giorni dopo con due telecomandi in una scatola di polistirolo: «Per me erano due macchine… due cose di questi che fanno partire le macchine… di modellismo,.. un telecomando lungo che so un trenta centimetri metallizzato, con due levette una a sinistra e una a destra, tanto è vero che mi pare che quella di destra l’aveva… c’era messo il… nastro- isolante come si chiama quello… comunque uno la fermata… uno l’ho neutralizzato, e una ci funzionava, e ho visto che so… c’è un’antenna un venticinque trenta centimetri».
L’ORDINE DI BRUSCA Dopo quest’episodio, in una data che l’imputato ha collocato più o meno a circa dieci giorni prima della strage (quindi intorno al 10-13 maggio), mentre si trovava nella sua abitazione in paese, in via Del Fante, aveva ricevuto incarico da Giovanni Brusca di recarsi nella casa di contrada Rebottone perché lì doveva arrivare Giovanni Agrigento, uomo che lui sapeva essere molto vicino a Brusca nonché “capo famiglia” di San Cipirello, per portargli delle cose.
Nella sostanza l’Agrigento in quell’occasione – era di mattina intorno alle 10.30 11 e lui si era allontanato di nascosto dal suo posto di lavoro, il mattatoio di Altofonte – aveva portato con la sua Fiat Tipo bianca quattro sacchi da 50 kg di un materiale che a prima vista il Di Matteo aveva creduto fosse fertilizzante: «La sera mi pare GIOVANNI BRUSCA o la mattina, abbia detto dice: “domani mattina alle dieci devi andare in campagna che deve venire GIUSEPPE AGRIGENTO che ti deve portare delle cose”, “va bene”, l’indomani mi reco in campagna e viene AGRIGENTO con la TIPO BIANCA, e dentro la macchina sia dentro il cofano che dietro il sedile, c’aveva quattro sacchi di esplosivo, diciamo che erano quattro sacchi che per me era sale… dei sacchi verdi dove vendono il sale, questi sacchi da cinquanta chili… e allora li abbiamo presi e li abbiamo travasati in due bidoni di plastica, tanto è vero che quando lo abbiamo travasato mi faceva… mi bruciava il naso, dico: “ma che cosa è questa…” ci siamo messi fuori la casa, davanti dice…Siamo al magazzino…i sacchi erano legati con i lacci». Il travaso era stato fatto dai sacchi a due bidoni da cento kg, senza usare guanti di gomma. A giudizio dell’imputato quel travaso aveva un senso perché inizialmente si era pensato di collocare quei bidoni in una galleria, perché altrimenti , per il trasporto fino a Capaci, non ci sarebbe stato alcun bisogno di trasbordare l’esplosivo dai sacchi ai bidoni, anzi, nei sacchi del fertilizzante, in caso di fermo delle forze dell’ordine durante il tragitto, si sarebbero potuti meglio giustificare.
In effetti successivamente Di Matteo ha confermato il valore di tale intuizione, perché ha rilevato di aver appreso che l’attentato doveva avere luogo in una galleria subito dopo Capaci, ma che tale progetto era sfumato perché non era possibile vedere la posizione delle macchine per premere il telecomando. Di Matteo aveva notato che l’operazione di travaso, in esito alla quale si erano riempiti a pieno i due bidoni, faceva alzare della polvere: […]. I bidoni erano stati procurati entrambe da Gino La Barbera, che, sempre su incarico di Giovanni Brusca, li aveva portati in contrada Rebottone due giorni prima della venuta di Agrigento: trattavasi di bidoni di plastica appena comprati, di colore bianco con tappo a vite nero e manici bianchi.
Dopo il travaso i bidoni erano rimasti per uno o due giorni nel magazzino della casa di campagna, dopodichè erano stati caricati sul fuoristrada di La Barbera da lui, La Barbera e Gioè, che li avevano portati in via Del Fante, dove si trovavano ad aspettare Bagarella, Brusca e Rampulla.
Era seguito quindi un nuovo spostamento, nel pomeriggio, verso le 16-17, a Capaci, dove i presenti erano arrivati dopo 3/4 d’ora, a bordo di tre macchine: in particolare Bagarella e Gioè si erano mossi con la Renault Clio della sorella di Gioè; Di Matteo e La Barbera con la Jeep di quest’ultimo; Brusca e Rampulla sulla Y10.
E’ in quest’occasione che l’imputato aveva appreso che l’esplosivo doveva essere trasportato a Capaci. Il percorso effettuato si snodava da via del Fante e, attraverso lo scorrimento veloce fino a Sciacca, il gruppo si era diretto verso Palermo, ove aveva percorso il viale delle Scienze in direzione Punta Raisi fino allo svincolo di Capaci.
Lì era già arrivato Brusca, che era partito un po’ prima per fare da battistrada, che aveva guidato il corteo ad un casolare dove l’imputato non era mai stato e che aveva appreso essere di Troia: si trattava di un casolare tipo capanna, circondato sia a destra che a sinistra da ville, sia pur non limitrofe, e c’era, secondo il ricordo del Di Matteo, una giumenta rinchiusa in un recinto, distante circa 300 metri dal luogo della strage.
Avevano parcheggiato le auto non vicino alla casa, ma dal lato del recinto, per evitare che potessero essere notate, solo la Jeep Patrol era entrata nel cortile per agevolare l’operazione di scarico. In occasione dello scaricamento dei bidoni Di Matteo aveva avuto modo di conoscere Troia, che ha descritto con una persona alta, di carnagione scura, con il viso grosso; aveva notato altresì un altro uomo che non conosceva, “bassino magro e bruttino“, che però era in confidenza con Troia, e a loro volta con Brusca e Bagarella.
Durante le operazioni di scarico, aveva notato che Gioè e Bagarella portavano dentro casa dei detonatori, che avevano in macchina, avvolti in un foglio di giornale: «Io questi detonatori li ho visti quando siamo arrivati là sul casolare… che li avevano nella macchina GIOE’ e BAGARELLA, avvolti in un foglio di giornale. e poi li hanno appoggiati sul tavolo. i fili sono… ce n’è gialli, rossi, verdi. sono met… specie di metallo. placati in argento, così. Per… come un bossolo, che le posso dire… di un Kalshinikov, così, però metallizzato, di un bossolo parliamo lungo venti, venticinque centimetri, non lo so. , i fili partivano da una sola parte ..ed erano collegati al detonatore. ..li abbiamo appoggiati sopra il tavolo. GIOE’ l’aveva appoggiati. Tanto è vero che gli ha detto che c’erano due signori là che io ho conosciuto, questa era la prima volta che li vedevo, ha detto: “state attenti perché se qualcuno ne casca salta tutto per aria”. .. sono di metallo, sono come bossoletti, come quelli su per giù del Kalashinicov, più grandetti, non lo so. E ogni bossoletto di questi ci ha messo un filo».
Finito di scaricare i bidoni Di Matteo era tornato ad Altofonte. A questo punto, per quanto riguarda Di Matteo, può dirsi esaurita quella parte della narrazione relativa a quanto era accaduto in Altofonte. Testi tratti dalla sentenza della Corte d’Assise di Caltanissetta (Presidente Carmelo Zuccaro) A CURA DELL’ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA


TRAVESTITI DA POLIZIOTTI I MAFIOSI RAPISCONO IL PICCOLO GIUSEPPE DI MATTEO

 

«Sei tu il figlio di Di Matteo? Siamo della protezione e dobbiamo portarti da tuo padre». Il ragazzino sa che suo padre da qualche giorno parla con la polizia. Non si stupisce che quegli uomini con le pistole lo portino via e lo facciano salire su una Fiat Croma con il lampeggiante. Ma quei poliziotti sono in realtà sei uomini di Giuseppe Graviano: Fifetto Cannella detto Castagna, Gaspare Spatuzza ‘U tignusu, Luigi Giacalone Barbanera, Salvatore Grigoli Il cacciatore, Cosimo Lo Nigro Bingo e Francesco Giuliano Olivetti
Il piano viene eseguito il 23 novembre 1993, guarda caso proprio il giorno in cui inizio a lavorare alla Direzione distrettuale antimafia di Palermo. Sono passati dieci giorni dalla riunione di Misilmeri. È un martedì pomeriggio, giorno di maneggio.
Giuseppe è nella sua stanzetta. Fa le prove con la tastiera a fiato che sta imparando a suonare nell’ora di musica, a scuola. La madre lo chiama: «È ora!». Il ragazzino lascia lo strumento sul letto e si prepara per la lezione di equitazione. Non gli fanno mancare proprio niente. Da quando suo padre, poi, è stato arrestato, la madre e il nonno lo riempiono di coccole e di attenzioni. È sempre un po’ chiuso e taciturno, raramente sorride. Gli piace, però, andare a cavallo: è la sua passione. Gli hanno regalato un puledro, un bel sauro bruno che adesso è cresciuto e risponde a tutti i suoi comandi. Salta gli ostacoli come se avesse le ali.
Al galoppatoio lo conoscono tutti. Ha già vinto alcune gare e tantissimi premi: è il più piccolo ed è molto promettente. È la mascotte del maneggio di Villabate. Quel pomeriggio Giuseppe, anche se non ha ancora quattordici anni, esce di casa con il suo motorino e, finita la lezione, va a cambiarsi negli spogliatoi. Si è già tolto gli stivali, il caschetto e il completo da fantino. Si sta mettendo i pantaloni quando arrivano alcuni uomini armati. Hanno le pettorine con la scritta «polizia di Stato».
«Sei tu il figlio di Di Matteo? Siamo della protezione e dobbiamo portarti da tuo padre.»
«Me patri! Sangu’ mio» urla il ragazzino emozionato all’idea di incontrare suo padre, il suo stesso sangue. Sa che suo padre da qualche giorno parla con la polizia: ha sentito i discorsi della madre con il nonno e non si stupisce che quegli uomini con le pistole lo portino via e lo facciano salire su una Fiat Croma con il lampeggiante.
I poliziotti del Servizio centrale di protezione sono in realtà sei uomini di Giuseppe Graviano, di Madre natura, come lo chiamano i suoi «adulatori»: Fifetto Cannella detto Castagna, Gaspare Spatuzza ‘U tignusu, Luigi Giacalone Barbanera, Salvatore Grigoli Il cacciatore, Cosimo Lo Nigro Bingo e Francesco Giuliano Olivetti. Si sono tutti camuffati con barbe e parrucche finte e portano occhiali scuri.
Giuseppe non conosce nessuno di loro a eccezione, forse, di Fifetto Cannella che è un frequentatore del maneggio e che, proprio per questa ragione, è rimasto in macchina. La precauzione del travestimento è comunque necessaria anche per gli altri, per non farsi riconoscere da addetti e clienti della scuola di equitazione che si trova nel «loro» territorio. E poi che figura avrebbero fatto quegli uomini d’onore se qualcuno della zona li avesse riconosciuti con i giubbotti e su una macchina da sbirri?
I sei vanno a colpo sicuro. Non ci sono rischi. I gestori del maneggio sono, per loro, due persone affidabili: i fratelli Nicolò e Salvatore Vitale. Il primo morirà suicida qualche tempo dopo e il secondo è un uomo d’onore della famiglia della Roccella. Riuscirò poi a farlo condannare all’ergastolo per concorso nel sequestro.
Il ragazzino adesso è in mezzo a due di loro, sul sedile posteriore della Croma. Davanti, a fare da battistrada lungo la strada a scorrimento veloce per Agrigento, c’è un’anonima Fiat Uno con Barbanera e Bingo. Se c’è un posto di blocco daranno l’allarme alla macchina che li segue. E, per l’emergenza, hanno anche un kalashnikov, un Pocket coffee, come lo chiamavano sarcasticamente quei mafiosi che avevano difficoltà a pronunciarne il nome. Al fucile mitragliatore hanno anche fissato, con il nastro isolante, un secondo caricatore supplementare da quaranta colpi. Non si sa mai.
Giuseppe è ansioso di vedere il padre. I finti poliziotti che sono con lui, per tenerlo tranquillo, gli parlano della decisione del genitore di collaborare con la giustizia, della bella scelta che ha fatto. E Giuseppe condivide: «Sì, ha fatto proprio bene il mio papà». Non ha capito ancora nulla; e nulla capirà ancora per qualche ora.
Le due macchine escono al primo svincolo e, verso le sei di sera, giungono in un villino a Misilmeri dove li attende Salvatore Benigno, ‘U picciriddu. Fanno entrare il ragazzino in una stanzetta e gli dicono di stare lì buono buono ad aspettare che lo portino dal padre. Deve stare calmo e non deve preoccuparsi per quei passamontagna che adesso indossano tutti: «È una precauzione per noi della protezione. Nessuno ci deve riconoscere».
Passano due ore e Giuseppe è sempre lì, chiuso in quella stanza. È solo un po’ affamato ma è sereno e non vede l’ora di incontrare suo padre. Fuori Fifetto Cannella è impegnato al telefono. Qualcuno doveva venire a prendersi il ragazzino. Loro dovevano solo portarlo lì, a Misilmeri. Ma nessuno arriva. Adesso parla con il suo capo, con Giuseppe Graviano: «Dice iddu che non ne sapeva niente, che lo dovevamo tenere noi. Dice che iddu non è pronto. Ma non se lo doveva venire a pigliare? Che minchia me ne faccio io di ‘sto coso?». «Tu portaglielo che se la fotte iddu!» ordina senza indugio Graviano. Iddu è Giovanni Brusca. Si trova a Lascari, un paesino a pochi chilometri da Cefalù arrampicato su un costone di roccia a forma di schiena d’asino. È ospite di Samuele Schittino, il locale capo della famiglia mafiosa.
Salvatore Benigno non ha difficoltà a reperire immediatamente un Fiorino Fiat rubato. Gli uomini d’onore di Misilmeri sono noti per la loro organizzazione: un mezzo anonimo e capiente a disposizione per ogni evenienza non manca mai. Fifetto Cannella fa salire Giuseppe sul furgoncino: «Vieni che andiamo da tuo padre».
Nel cassone del Fiorino, con Giuseppe, entra solo Gaspare Spatuzza. Gli altri si tolgono il passamontagna e, tutti insieme, cominciano un nuovo viaggio. Il piccolo furgone, preceduto dalla Fiat Uno e seguito dalla Renault Clio di Benigno, imbocca
l’autostrada per Catania, esce allo svincolo di Buonfornello e prende la Ss 113 in direzione Messina. Il convoglio si ferma subito dopo. Ai margini della carreggiata c’è una piccola Peugeot con due uomini a bordo. Fifetto Cannella scende dalla Uno e sale sull’utilitaria francese che, adesso, fa strada. Ancora qualche chilometro di statale, un paio di stradine secondarie e, quindi, trazzere sterrate e polverose fino a una casa di campagna con un capannone, un magazzino di fianco.
Solo la Peugeot si avvicina alla casa. Il resto della colonna si ferma a un centinaio di metri. Fifetto Cannella salta giù dall’auto e si accosta a un uomo che gli viene incontro: è Giovanni Brusca. I due parlottano per qualche istante e Fifetto torna indietro verso le altre macchine, verso il furgone con il ragazzino.
Un passamontagna viene calato al rovescio sulla testa di Giuseppe con i buchi per gli occhi in corrispondenza della nuca. Due uomini lo fanno scendere con cura dal Fiorino e, tenendolo per mano, lo guidano fino al capannone. Lo fanno entrare e gli dicono di non togliersi il passamontagna e di aspettare; quindi tornano alle macchine. Solo a questo punto le due persone che erano a bordo della Peugeot escono dall’auto ed entrano nel magazzino.
La commedia adesso è finita. I due, appena entrati, legano Giuseppe con le mani dietro la schiena e assicurano la corda a una rastrelliera fissata nel muro. «Tuo padre è un pezzu di crastu ed è per questo che sei qui» dice uno di loro. Giuseppe adesso capisce la verità e scoppia a piangere. Capisce di essere caduto in una trappola. Una trappola per topi.
Giuseppe non lo sa, ma i due che lo hanno legato sono uomini di Giovanni Brusca: Benedetto Capizzi, uomo d’onore latitante di Villagrazia di Palermo, e quel Michelino Traina, factotum del capomafia di San Giuseppe Jato. Nessuno dell’altro gruppo, tranne Fifetto Cannella, li ha visti in faccia. Nessuno deve poter riconoscere nessuno. Brusca e Cannella sono i due garanti dell’operazione. Uno per parte. Sarà Salvatore Grigoli, quando deciderà di collaborare con la giustizia, a raccontarmi nei dettagli le prime fasi del sequestro e la sua ricostruzione mi è sembrata sostanzialmente corretta e conforme a quanto avevamo già accertato.
Graviano ha dunque messo Brusca con le spalle al muro. Il capomafia latitante non è assolutamente pronto a gestire la custodia del piccolo Di Matteo. Non ha predisposto nulla, non ha un luogo dove tenerlo, non ha alcuno che possa fargli da vivandiere e da custode.
Il boss di San Giuseppe Jato cercherà di giustificare la sua impreparazione sostenendo che, secondo gli accordi presi nel corso della riunione alla fabbrica di calce, Giuseppe Graviano doveva eseguire il sequestro e gestire tutta l’operazione. Gli uomini di Brancaccio avrebbero dovuto utilizzare per la custodia del ragazzino un bunker nella zona di Misilmeri che era stato preparato un anno prima per il sequestro a scopo di estorsione di Antonio Ardizzone, editore del «Giornale di Sicilia», progetto per fortuna mai portato a termine.
Graviano, però, una volta eseguito materialmente il rapimento, si sarebbe reso conto di non essere in grado di custodire l’ostaggio e glielo aveva portato fino a Lascari.

BRUSCA CON LE “SPALLE AL MURO” Non ho mai creduto a Brusca su questo punto. La sua versione del fatto era illogica e, oggettivamente, poco plausibile. Mi sono convinto che la verità fosse totalmente diversa: Giuseppe Graviano, quasi certamente d’intesa con Bagarella e Messina Denaro, voleva mettere il boss di San Giuseppe Jato di fronte al fatto compiuto per fargli, finalmente, assumere le sue responsabilità di fronte a tutta Cosa nostra.
Non so se veramente Graviano, nella riunione di Misilmeri, si fosse preso l’onere del rapimento – cosa effettivamente probabile secondo le dinamiche mafiose, dato che il territorio dove eseguire il delitto era di sua competenza – o se dovesse, invece, provvedervi direttamente Brusca con i suoi uomini. Sono però sicuro che, in un caso o nell’altro, la custodia del ragazzino dovesse essere, fin dall’inizio, assicurata dal boss di San Giuseppe Jato. Com’era naturale e logico che fosse.
Conseguentemente solo a Brusca spettava il compito di dare il via alle operazioni. Solo lui poteva dire a Graviano quando era pronto per ricevere il ragazzino. Ma Madre natura conosce bene «i suoi polli». Sa perfettamente che Brusca, per sua indole, è solito temporeggiare come ha già fatto quando si è trattato di ammazzare Di Maggio. Sa che Brusca, dopo la strage di Capaci, si è un po’ defilato: più o meno volontariamente non ha partecipato alla strage di via d’Amelio e si è tenuto lontano da quelle del 1993 di Firenze, Roma e Milano. Giuseppe Graviano sa, soprattutto, che Brusca ha preso quella decisione suo malgrado, perché costretto dagli eventi e che, forse, non ne vuole proprio sapere di uccidere il piccolo Di Matteo, come, inevitabilmente, dovrà fare. Prima o poi.
Allora rompe gli indugi e manda i suoi uomini a rapire il ragazzino e, visto che Brusca non se lo viene a prendere, glielo fa consegnare a domicilio. Giovanni Brusca non può confermare quella verità, verità che emerge inequivocabilmente dalle dinamiche del rapimento. Nemmeno con noi, nemmeno da collaboratore di giustizia. Collaboratore sì, ma pur sempre mafioso e orgoglioso. Geneticamente, fino al midollo. Avrebbe fatto una figuraccia. Avrebbe dovuto ammettere di esser venuto meno ai suoi «doveri» di capomafia e, soprattutto, avrebbe dovuto riconoscere che «contava» meno di Giuseppe Graviano e che i suoi «colleghi» della Commissione di Cosa nostra lo consideravano un pusillanime, un irresponsabile, uno che lasciava prevalere sentimenti personali sull’interesse generale dell’associazione.
La prima notte, quella del 23 novembre, Giuseppe la passa in quel capannone a Lascari. Dopo un paio d’ore lo slegano e gli tolgono il passamontagna. Soltanto l’indomani, però, si ricordano che è un ragazzino e che deve mangiare, così gli procurano un paio di panini. Il posto, però, non è idoneo a tenere un ostaggio. Non c’è un bagno e le aperture del magazzino non danno sicurezza: bisogna sorvegliarlo quasi a vista.
Anche in Cosa nostra, non si può chiedere a chiunque il favore di custodire una persona rapita. A dare una mano a Brusca ci pensa il dottor Antonio Di Caro, laureato in Agraria e capomafia di Canicattì, popolosa cittadina dell’Agrigentino, che si offre di occuparsi del piccolo Giuseppe. In quel momento Di Caro è molto amico di Giovanni. Lo sarà certamente molto meno qualche tempo dopo, quando il boss di San Giuseppe Jato lo attirerà in una trappola, lo farà strangolare e ne farà dissolvere il cadavere nell’acido. Nella vita, si sa, i rapporti personali si evolvono nel tempo! Due giorni dopo, l’agronomo di Canicattì va a prendersi Giuseppe. L’appuntamento è fissato allo svincolo di Ponte Cinque Archi, lungo l’autostrada Palermo-Catania. Lo scambio dell’ostaggio avviene tra uomini incappucciati che si tengono a distanza. La regola è sempre la stessa: nessuno deve conoscere nessuno. Il piccolo Giuseppe, legato e imbavagliato, viene messo nel cofano di una macchina e portato via.
Sarà custodito per otto o nove mesi dagli uomini d’onore della provincia di Agrigento che lo spostano da un covo a un altro. Mesi di celle umide, pareti scrostate, latrine improvvisate, giacigli sporchi e puzzolenti. Mesi di corde, catene, cappucci. Di giorno qualcuno, con il viso coperto dal passamontagna, gli porta da mangiare. Non lo tengono digiuno, ma gli danno sempre le stesse cose, pizza fredda e panini.

I CONTATTI CON IL NONNO PATERNO Panini e pizza. Ogni tanto gli fanno una foto, un filmino o gli fanno scrivere sotto dettatura qualche biglietto. Fanno avere tutto a Giovanni Brusca: messaggi da mandare ai familiari. Fin dalle prime ore dal sequestro, infatti, Brusca si fa vivo con il nonno di Giuseppe, il padre di Santino. Il primo messaggio lo fa consegnare nella stessa nottata. Un biglietto sotto la porta di casa dei Di Matteo, ad Altofonte: «Il bambino lo abbiamo noi e tuo figlio non deve fare tragedie. Non avvisare i carabinieri». Il 1° dicembre 1993, una settimana dopo, un altro avvertimento dello stesso tenore, sempre diretto al nonno: «Tappaci la bocca». Con il biglietto vengono anche recapitate due polaroid del ragazzino che tiene in mano un quotidiano del 29 novembre.
E noi ancora non sappiamo niente; e niente sa ancora il padre di Giuseppe che continua regolarmente a raccontarci fatti di mafia nel corso di vari interrogatori. Però Santino è un po’ preoccupato: sono giorni che non sente la voce del figlio al telefono e capisce che c’è qualcosa che non va. La moglie non gli vuole parlare. Si è dissociata pubblicamente dalla scelta di quell’infame di suo marito.
Santino chiede aiuto alla Dia, che convoca la signora e la fa incontrare con lui. Messa alle strette, la
donna confida a Santino la terribile verità e, quindi, non può far altro che sporgere la denuncia. Ma è già il 14 dicembre e sono passate tre settimane esatte dal sequestro.
I miei colleghi che, con Gian Carlo Caselli, seguono quelle prime indagini, non possono che partire dal maneggio, dai fratelli Vitale e dalle loro omissioni, reticenze e bugie. A cominciare dalla frottola raccontata alla madre del ragazzino cui avevano detto che, nel pomeriggio del 23 novembre, il figlio, dopo la cavalcata, si era allontanato con il suo motorino, motorino che, invece, qualcuno di loro si era occupato di portare via dal galoppatoio dopo il rapimento.
Prima il gip e poi anche il Tribunale della libertà rigetteranno le richieste di arresto per i fratelli Nicolò e Salvatore Vitale. Solo la Cassazione accoglierà il ricorso della procura di Palermo e disporrà il carcere per Salvatore Vitale (il fratello si era nel frattempo tolto la vita). Questo accadrà però l’8 marzo 1996, due anni e quattro mesi dopo il sequestro e, soprattutto, due mesi dopo l’omicidio del piccolo Giuseppe.
Tutti abbiamo capito che il rapimento è da ricondurre a Giovanni Brusca, ma più che intensificare le ricerche del latitante non possiamo fare. La grande caccia ai mafiosi dopo la cattura di Totò Riina. Uno dei magistrati è Alfonso Sabella. Le indagini sono diventate poi un libro, “Cacciatore di mafiosi”. A CURA DELL’ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA
________________________________________
IL SEQUESTRO DEL BAMBINO, I SILENZI, LE FAIDE FRA I GRANDI BOSS I familiari del piccolo Di Matteo fin dall’inizio scelgono decisamente la via mafiosa e, persino cinque anni dopo, nel corso del processo in cui si costituiranno parte civile, manterranno un atteggiamento omertoso e reticente. Un comportamento così fastidioso da indurre spesso Alfonso Sabella e il collega Peppe Salvo a non porre loro domande e a pensare, addirittura, di chiedere la trasmissione degli atti per procedere nei loro confronti per falsa testimonianza e favoreggiamento
La collaborazione dei Di Matteo, Santino compreso, è praticamente nulla. Si viene solo genericamente a conoscenza di qualche altro biglietto e messaggio dei rapitori, ma sempre per sommi capi e sempre a distanza di giorni dalla consegna.
Il destinatario dei messaggi è solo il nonno del ragazzino, Giuseppe Di Matteo senior chiamato Piddu, anche lui uomo d’onore di Altofonte. L’emissario di Brusca è un altro soldato della stessa famiglia, un certo Pietro Romeo, solo omonimo del rapinatore di Brancaccio.
Romeo è il personaggio giusto per mantenere i contatti. È un uomo d’onore, è legato a Giovanni Brusca ed è sufficientemente amico di Santino Di Matteo che, infatti, lo aveva «scansato» dalle sue dichiarazioni accusatorie e non lo aveva indicato tra i mafiosi di Altofonte; soprattutto Santino mezzanasca non aveva raccontato che proprio a casa di Romeo era stato occultato l’esplosivo utilizzato a Capaci la sera prima che lo collocassero sotto l’autostrada.
Nessuno dei Di Matteo ci ha mai parlato di Romeo, di cui apprenderemo l’esistenza solo a fine 1996, dopo la collaborazione di Brusca. Non faremo nemmeno in tempo ad arrestarlo perché, mentre stiamo raccogliendo i necessari riscontri, Romeo scompare misteriosamente, vittima di lupara bianca. Il periodo è proprio quello in cui, come accerteremo solo nel settembre del 1997, Santino Di Matteo, insieme a Di Maggio e La Barbera, è tornato in Sicilia a commettere delitti. Inutile dire che ho sempre sospettato di lui come responsabile della scomparsa di Romeo, ma, a quel punto, all’inizio del 1998, non seguo più le indagini sul mandamento di San Giuseppe Jato.
Senza nemmeno un nome su cui lavorare, le ricerche di Dia, polizia e carabinieri non portano a risultati concreti e del resto, anche se avessimo ottenuto l’arresto dei fratelli Vitale, ben poco avremmo potuto fare per individuare la prigione del piccolo Giuseppe.
I suoi familiari, peraltro, fin dall’inizio scelgono decisamente la via mafiosa e, persino cinque anni dopo, nel corso del processo in cui si costituiranno parte civile, manterranno un atteggiamento omertoso e reticente. Un comportamento così fastidioso da indurre spesso me e il mio collega e amico Peppe Salvo, che mi stava dando una mano nella gestione di quel dibattimento, a non porre loro domande e a pensare, addirittura, di chiedere la trasmissione degli atti per procedere nei loro confronti per falsa testimonianza e favoreggiamento. A vantaggio degli assassini del loro figlio o nipote.
Il nonno del ragazzino riesce a contattare, tramite Benedetto Spera, capomandamento latitante di Belmonte Mezzagno, lo stesso Bernardo Provenzano chiedendogli di intercedere presso Bagarella e Brusca per ottenere il rilascio di Giuseppe: la richiesta del vecchio capomafia di Corleone, ovviamente, cade nel vuoto.
Dal canto suo Santino Di Matteo la bocca «se l’è tappata». Per alcuni mesi si rifiuta di rendere interrogatori e di partecipare ai processi. All’improvviso, addirittura, sparisce misteriosamente dalla località segreta dov’era sotto protezione allo scopo di provare a rintracciare il ragazzino. Ma è tutto inutile, Giuseppe, come era prevedibile, malgrado il «silenzio» del padre non viene rilasciato.
Santino, però, è più tranquillo e torna persino a deporre nelle aule di giustizia. Ha capito che il figlio è in mano a Giovanni Brusca e conta sul fatto che il boss di San Giuseppe Jato, che conosce bene il bambino, non avrà il coraggio di torcergli un capello. Ma purtroppo si sbaglia.

TRASFERITO PIÙ VOLTE TRA AGRIGENTO, TRAPANI E PALERMO Dopo la lunga parentesi agrigentina il piccolo Di Matteo, alla fine del periodo estivo del 1994, viene riconsegnato dal dottore di Canicattì a Brusca che adesso ha un luogo dove tenere prigioniero Giuseppe.
Lo scambio avviene sempre allo svincolo di Ponte Cinque Archi e sempre tra uomini con il passamontagna. Il ragazzino è nel cofano di una station wagon, legato e incappucciato, come al solito. Insieme a Brusca stavolta, c’è Giuseppe Monticciolo che, da quel momento in poi, si occuperà della gestione dell’ostaggio.
Giuseppe Di Matteo viene condotto in una masseria nelle campagne di Gangi, un suggestivo borgo madonita a più di mille metri sul livello del mare, e, per qualche ora, assicurato a un anello di ferro infisso nel muro.
La masseria è di Cataldo Franco, un uomo d’onore del posto, che, da qualche anno, l’ha adibita a deposito di olive. In quella specie di palmento Monticciolo aveva già fatto realizzare un bagno e una doccia e aveva fatto murare nel pavimento i piedi di una vecchia branda. Giuseppe resta nelle Madonie per qualche mese, fino a ottobre quando ‘U zu Cataldu, giustamente, ha necessità del locale perché deve cominciare la raccolta delle olive.
Brusca è ancora una volta in difficoltà. Si lamenta di essere stato lasciato solo a gestire il sequestro. Non ha tutti i torti e Matteo Messina Denaro lo autorizza a rivolgersi agli uomini d’onore del Trapanese, il suo territorio.
Da Gangi, Giuseppe viene così portato in una villetta a Castellammare del Golfo e rinchiuso in un bagno dove c’è appena lo spazio per appoggiare a terra un materasso. Nella porta gli uomini d’onore hanno realizzato uno sportellino in basso. Come una gattaiola. E da lì gli passano il cibo.
Tra i carcerieri che si alternano in quel periodo ci sono un paio di latitanti che avevano frequentato la casa dei Di Matteo. Temono che Giuseppe possa riconoscere le loro voci e per questo non gli parlano mai e comunicano con il piccolo ostaggio solo per mezzo di bigliettini scritti. Anche questi passati dalla gattaiola. Peppe Ferro, capofamiglia di Castellammare, viene però a conoscenza del fatto che Giuseppe è nella sua zona e va su tutte le furie. Non ne vuole sapere niente di quella storia: il ragazzino va portato via di là.
Sono molti in Cosa nostra a non approvare quell’operazione. Lo stesso Cataldo Franco si era messo a disposizione di Brusca solo a titolo personale e non aveva nemmeno avvisato, violando le regole
dell’associazione mafiosa, Mico Farinella, reggente del suo mandamento: il padre Peppino sicuramente non sarebbe stato d’accordo.
Monticciolo è costretto allora a portar via l’ostaggio da Castellammare. Alla vigilia di Natale del 1994, Giuseppe, come un pacco postale, viene «appoggiato», per pochi giorni, nella casa di contrada Giambascio, a San Giuseppe Jato, dove non è stato ancora costruito il bunker sotterraneo. Dopo le feste il ragazzino viene trasferito ancora. Sempre legato e incappucciato. Sempre trasportato nel cofano di una macchina. Peggio di un cane.
Fino a Pasqua del 1995 il figlio di Mezzanasca viene tenuto nel magazzino di un limoneto, a Campobello di Mazara. Un locale zeppo di casse, con una stanzetta e un séparé dove è stata ricavata una sorta di latrina.
In zona c’è un certo movimento di sbirri. E allora un’altra corda, un altro cappuccio, un altro cofano di macchina, un altro calvario. Fino a Custonaci, alle pendici di monte Erice, in una contrada denominata Purgatorio. Ma che peccati aveva da espiare il piccolo Giuseppe?
Lo spostano sempre durante le feste, quando i posti di blocco sono più rari. L’ennesimo trasferimento del ragazzino avviene il 14 agosto, alla vigilia dell’Assunta. È il suo ultimo viaggio. Giuseppe viene riportato a Giambascio dove, ormai, i solerti uomini di Giovanni Brusca hanno finito di realizzare il bunker sotterraneo con l’ascensore, la piattaforma «magica».
Il ragazzino è ormai una sorta di larva umana. Ha perso peso e forze. Non ha mai più visto la luce del sole. Non ha più respirato all’aria aperta. Nemmeno per un istante. Non oppone più alcuna resistenza. Da mesi si lascia trasportare da un posto all’altro. Si lascia legare e slegare i polsi. Si lascia incappucciare e agganciare alla catena. La grande caccia ai mafiosi dopo la cattura di Totò Riina. Uno dei magistrati è Alfonso Sabella. Le indagini sono diventate poi un libro, “Cacciatore di mafiosi”. A CURA DELL’ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA


«Liberatevi del cagnolino», così Brusca ordinò la morte del piccolo Di Matteo L’11 gennaio 1996 Brusca e Monticciolo si trovano a Borgetto, a casa di Giuseppe Baldinucci. Con loro c’è anche Vito Vitale, il capomafia di Partinico. Sono a pranzo. Monticciolo si sta proprio lamentando con il suo capo delle difficoltà nella gestione del ragazzino. Alla tv danno notizia della condanna all’ergastolo del boss latitante Giovanni Brusca per l’omicidio dell’esattore Ignazio Salvo». Brusca va su tutte le furie e si rivolge a Monticciolo: «Va bene. Allibbertati di lu cagnuleddu»
ormai è un adolescente. Gli sono spuntati i primi peli sul viso, la prima barba. Anche i capelli sono cresciuti. Sono lunghissimi: nessuno glieli ha mai tagliati. Pure dentro è cambiato. Lo hanno fatto cambiare. Ormai è convinto che sia solo colpa del padre. A forza di ripetergli che, se è in quelle condizioni, è solo perché il padre continua a parlare con gli sbirri, se ne è convinto anche lui. E forse comincia a odiarlo.
Dell’ultimo periodo di prigionia del ragazzino a Giambascio sappiamo quasi tutto. Di Giuseppe si occupano Enzo Brusca, Vincenzo Chiodo e il solito Monticciolo. Tutti e tre mi racconteranno la loro «verità».
Forse è il momento in cui il piccolo ostaggio viene trattato con più umanità. Anche perché, paradossalmente, Giuseppe adesso si trova in una prigione vera ed è più semplice averci a che fare. Una vera e propria cella con una porta in ferro e lo spioncino. Come quella di un carcere di alta sicurezza, anche se questa è sottoterra e non ha una finestra. L’unica differenza con un detenuto è che Giuseppe non fa l’ora d’aria e non fa i colloqui con i familiari. E per lui non è certo poco.
Il suo solo contatto «umano» è con Enzo Brusca che lì trascorre un periodo di latitanza. Il ragazzino è appassionato di equitazione ed è tifoso della Ferrari ed Enzo gli procura riviste che trattano di cavalli e giornali sportivi. Qualche volta gli porta anche i quotidiani e, se ci sono articoli che trattano del padre, li ritaglia e li butta via per non farglieli leggere. Un piccolo accorgimento per evitare di scoraggiarlo, di deprimerlo ulteriormente. Ogni tanto a colazione gli dà il latte che Giuseppe, fino ad allora, non aveva più bevuto e, periodicamente, gli taglia i capelli con una macchinetta elettrica. Non escludo che Enzo si fosse in qualche modo affezionato al piccolo ostaggio. Una sorta di sindrome di Stoccolma al contrario.
La situazione è senza sbocchi, però. Non si vedono vie d’uscita. Qualcuno dei carcerieri del piccolo Giuseppe non è contrario a rilasciare l’ostaggio, ma farlo sarebbe una sconfitta umiliante per tutta Cosa nostra. Hanno tenuto segregato per due anni un ragazzino, coinvolgendo uomini d’onore di mezza Sicilia, con lo scopo, ufficiale, di far ritrattare il padre e poi, senza avere ottenuto nulla, lo rimettono in libertà.
Significherebbe perdere la faccia davanti al «popolo» mafioso. Anche Giovanni Brusca è, in qualche modo, prigioniero in questa vicenda. Prigioniero del suo stesso ruolo.
Nel corso della mia requisitoria al processo ho sostenuto che se il ragazzo è rimasto vivo più di due anni, è proprio perché lo aveva in mano Giovanni Brusca che non trovava il coraggio di far scorrere i titoli di coda di questo film dell’orrore, dal finale scontato. «Se il piccolo Giuseppe fosse stato custodito da un altro capomafia» ho affermato «sarebbe stato ucciso molto tempo prima.»
Dalle gabbie dell’aula bunker di Pagliarelli e dalle postazioni di videoconferenza dove si trovavano una sessantina di boss di varie famiglie si sono levate urla, proteste e persino insulti nei miei confronti. Quasi tutti si erano avvalsi della facoltà di non rispondere o avevano negato il loro coinvolgimento nella vicenda. Avevano incassato senza batter ciglio le accuse di aver eseguito materialmente una ventina di altri omicidi per cui erano anche imputati in quel processo, ma non sopportavano di essere additati come potenziali boia del ragazzino.
Sono però convinto che la mia ricostruzione fosse corretta. In fondo Giuseppe muore per uno scatto d’ira, per una scusa, per una giustificazione a suo modo morale che Brusca evidentemente cercava da tempo.

LA DECISIONE DI UCCIDERLO L’11 gennaio 1996 Brusca e Monticciolo si trovano a Borgetto, a casa di Giuseppe Baldinucci. Con loro c’è anche Vito Vitale, il capomafia di Partinico. Sono a pranzo. Tutti maschi. Come d’altronde tutti i protagonisti di questa storia.
Monticciolo si sta proprio lamentando con il suo capo delle difficoltà nella gestione del ragazzino. C’è la televisione accesa e il Tg3 delle 14.25, in coda, dà l’ultima notizia appena pervenuta in redazione: «La Corte di Assise di Palermo ha condannato all’ergastolo il boss latitante Giovanni Brusca per l’omicidio dell’esattore Ignazio Salvo».
Brusca va su tutte le furie. Sbatte il pugno sul tavolo e si rivolge a Monticciolo: «Va bene. Allibbertati di lu cagnuleddu». Liberati del cagnolino. Terrificante.
E dire che Santino Di Matteo non c’entra nulla con la sua condanna all’ergastolo per l’omicidio Salvo. Il padre di Giuseppe non sapeva quasi niente di quel delitto. L’«infame» che ha incastrato Giovanni in quel processo è Gioacchino La Barbera. Ma il capomafia di San Giuseppe Jato, a quel punto, dopo due anni e due mesi, aveva solo bisogno di una scusa con se stesso, di un movente qualsiasi.
Il ragazzino si trova nel bunker; in quel momento è sotto la vigilanza di Chiodo. Monticciolo va a cercare Enzo Brusca che si è temporaneamente rifugiato a Partinico. Enzo non se la sente di ammazzare Giuseppe e chiede a Monticciolo di tornare dal fratello. Per cercare di convincerlo a ripensarci. Passano un paio d’ore. Monticciolo arriva a Giambascio. Con sé ha due bidoni da venti litri pieni di acido nitrico. Enzo Brusca e Chiodo, che sono già sul posto, lo guardano interrogativi.
«Giuvanni dissi ca nun si ‘nni parla: s’avi a fari ca s’avi a fari!» Nessuna discussione, bisogna farlo – dice secco il genero di Giuseppe Agrigento.
In realtà, Monticciolo non è mai tornato da Giovanni Brusca, non ha nemmeno provato a fargli cambiare idea. Teme che il boss di San Giuseppe Jato possa ripensarci. È stanco di avere sulle spalle il peso di quel maledetto sequestro. Dopo un anno e mezzo non ce la fa più e vuole farla finita.
È ora di cena. I tre mettono sulla griglia alcune bistecche di manzo: mangiano e, poi, si preparano. Chiodo aziona il telecomando. Portano giù un grosso fusto di lamiera e i due bidoni con l’acido.

IN TRE NELLA STANZA DEGLI ORRORI Tutti e tre entrano nella stanza di Giuseppe. Lo fanno girare, faccia al muro. Da dietro gli mettono un cappio al collo. Il ragazzino non ha il tempo di muoversi. È impietrito. Enzo Brusca e Monticciolo lo tengono per le spalle mentre Chiodo tira la corda. Giuseppe non fa alcuna resistenza, non ne ha nemmeno la forza. Si abbandona, quasi si scioglie: «come il burro» diranno i suoi boia.
«Si to patri nun faciva lu curnutu, t’avia a taliari megghiu di l’occhi mii», se tuo padre non avesse tradito, avrei avuto il dovere di proteggerti meglio dei miei occhi, osserva malinconico Enzo Brusca, mentre Monticciolo, facendo leva con il piede, dà gli ultimi strattoni alla corda con il piccolo Giuseppe ormai a terra.
Svestono il cadavere ancora caldo e lo infilano nel fusto. Versano l’acido, un liquido biancastro. Enzo Brusca e Monticciolo baciano sulle guance Chiodo: «Come per farmi gli auguri di Natale». È il suo primo omicidio, il suo battesimo della morte. E che battesimo! «’Sta cosa farà cchiù dannu di la strage di Capaci» commenta ancora il loquace Enzo Brusca.
Poi tutti e tre tacciono e, senza dire nessun’altra parola, vanno a dormire. In silenzio, al piano superiore. Salgono con quella specie di ascensore e richiudono la piattaforma. Alle cinque del mattino Monticciolo va via: ha impegni di lavoro. Ora finalmente può dedicarsi anima e corpo alla sua attività di imprenditore edile.
Vincenzo Chiodo completa l’opera. Usa ancora il telecomando per scendere ma giù l’aria è irrespirabile. Le esalazioni emesse dal corpo ormai quasi corroso dall’acido non gli permettono di fermarsi. Deve risalire, aprire le finestre della cucina e aspettare un po’, con la piattaforma abbassata.
Vede che dal fusto spunta ancora una gamba del ragazzino e, appena i fumi si diradano, scende di sotto e mescola con un bastone. Per accelerare i tempi. Nel frattempo porta su tutto il resto: pantaloni, magliette, giornali, bigliettini, il materasso. In aperta campagna fa un falò e comincia a bruciare tutto.
Il cadavere è completamente disciolto, adesso non esiste più. Nel liquido ormai scuro, galleggia solo la corda. Sarcasticamente Enzo Brusca la offre a Chiodo: «To’, tienitela come trofeo!» e poi la butta nel fuoco.
Riversano l’acido nel terreno e bruciano tutto. Noi troveremo solo la carcassa di ferro del materasso a molle.
«Io a volte non ho il coraggio di guardare in faccia i miei figli. Però il dovere era più forte» sono le testuali parole che pronuncerà Chiodo nell’aula bunker di Mestre davanti alle facce impietrite dei giudici popolari della Corte di Assise che avevano appena sentito il suo racconto, quel racconto dell’orrore.
Giusto l’indomani mattina, il 12 gennaio 1996, faremo quella vana irruzione nel covo di Brusca a fondo Patellaro e, ancora oggi, mi porto il rimorso di quel fallimento. Il dubbio è che se fossimo intervenuti prima avremmo potuto arrestare Brusca e forse salvare il ragazzino.
Probabilmente è solo per tacitare la mia coscienza che ho cercato di convincermi che, comunque, anche se avessimo preso Brusca in quel momento, non avremmo impedito l’assassinio del piccolo Giuseppe. Monticciolo lo avrebbe ucciso ugualmente: era tanto determinato a liberarsi di «quel cagnolino» che non era tornato da Giovanni Brusca a chiedergli conferma dell’ordine, così come gli aveva chiesto Enzo. Ma forse è solo una mia congettura per provare ad attenuare il rimpianto di quel ritardato blitz a Borgo Molara.
La drammatica vicenda di Giuseppe Di Matteo mi ha colpito in maniera particolare. Nel corso della mia esperienza professionale ho visto tanti morti ammazzati, ho assistito a decine e decine di autopsie e perfino a qualche raccapricciante riesumazione di cadavere, ho ascoltato centinaia e centinaia di racconti di violenze terribili, di omicidi efferati, di corpi squagliati nell’acido, di orrende mutilazioni e di quanto di più atroce possa commettere la bestia umana. E non mi sono mai tirato indietro, tranne che in un’occasione.
Da alcune ore, nel carcere di Monza, stavo interrogando Enzo Brusca sul sequestro di Giuseppe.
Avevamo passato in rassegna tutti i covi, tutti gli spostamenti, tutti i carcerieri e le persone comunque coinvolte. Eravamo quasi alla fine: «Abbiamo mangiato e abbiamo preso il telecomando per scendere di sotto. I bidoni con l’acido…».
A quel punto lo avevo bloccato: «Senta Brusca, ho già sentito questa storia tre volte. Da Monticciolo, da Chiodo e, de relato, da suo fratello Giovanni. La dovrò sentire altre quattro volte in dibattimento. Lei ha letto l’ordinanza di custodia cautelare che le è stata notificata. Mi dica solo una cosa: ci sono grandi differenze rispetto a quello che c’è scritto lì?».
«No, solo qualche dettaglio.»
«E allora mi risparmi il resto della storia. Lo racconterà direttamente in Corte di Assise.»
Enzo Brusca ci era rimasto male. Forse voleva alleggerirsi la coscienza ripercorrendo quelle ore
terribili. Io certamente ero venuto meno ai miei doveri di magistrato inquirente, ma non ce la facevo più a sentire quel racconto.
Le trascrizioni di quell’interrogatorio interrotto «sul più bello» saranno poi regolarmente depositate a disposizione dei difensori degli imputati. Gli avvocati dei boss capiranno il mio disagio. Anche per loro non era facile confrontarsi con quella vicenda. Non erano certamente teneri con il pubblico ministero e si aggrappavano a qualunque cavillo giuridico e processuale, ma nessuno di loro solleverà mai eccezioni su quel mio comportamento. In fondo, prima che professionisti, siamo tutti uomini. In collaborazione con l’associazione Cosa vostra. In questa serie, la grande caccia ai mafiosi dopo la cattura di Totò Riina. Uno dei magistrati è Alfonso Sabella. Le indagini sono diventate poi un libro, “Cacciatore di mafiosi”.


VITTIME DI MAFIA
23 Novembre 1993 Altofonte (PA). Rapito Giuseppe di Matteo, 11 anni, tenuto in ostaggio fino all’11 Gennaio 1996, strangolato ed il corpo sciolto nell’acido. Giovanni Brusca Ordinò: “allibertativi du cagnuleddu”
Novembre 23, 1993

Giuseppe Di Matteo (1981-1996) figlio del collaboratore di giustizia Santino Di Matteo, ex-mafioso, divenne vittima di una vendetta trasversale nel tentativo di far tacere il padre. La sua morte è risaltata grandemente su tutti i giornali perché il cadavere del ragazzo non fu mai trovato, essendo stato disciolto in una vasca di acido nitrico.
Fu rapito il 23 novembre 1993, quando aveva 12 anni, al maneggio di Altofonte (PA) da un gruppo di mafiosi che agivano su ordine di Giovanni Brusca, allora latitante e boss di San Giuseppe Jato. Secondo le deposizioni di Gaspare Spatuzza, che prese parte al rapimento, i sequestratori si travestirono da poliziotti ingannando facilmente il bambino, che credeva di poter rivedere il padre in quel periodo sotto protezione lontano dalla Sicilia. Dice Spatuzza: “Agli occhi del bambino siamo apparsi degli angeli, ma in realtà eravamo dei lupi. (…) Lui era felice, diceva ‘Papà mio, amore mio’ “. Il piccolo fu legato e lasciato nel cassone di un furgoncino Fiat Fiorino, prima di essere consegnato ai suoi carcerieri.
La famiglia cercò presso tutti gli ospedali cittadini notizie del figlio, ma quando, il 1º dicembre 1993, un messaggio su un biglietto giunse alla famiglia con scritto «Tappaci la bocca» e due foto del bambino che teneva in mano un quotidiano del 29 novembre 1993, fu subito chiaro che il rapimento era finalizzato a spingere Santino Di Matteo a ritrattare le sue rivelazioni sulla strage di Capaci e sull’uccisione dell’esattore Ignazio Salvo.
Il 14 dicembre 1993, Francesca Castellese, moglie di Di Matteo, denunciò la scomparsa del figlio. In serata fu recapitato un nuovo messaggio a casa del suocero (Giuseppe Di Matteo, padre di Santino) con scritto «Il bambino lo abbiamo noi e tuo figlio non deve fare tragedie». Dopo un iniziale cedimento psicologico il pentito non si piegò al ricatto, sebbene fosse angosciato dalle sorti del figlio, e decise di proseguire la collaborazione con la giustizia. Brusca decise così l’uccisione del ragazzo, ormai fortemente dimagrito e indebolito per la prolungata e dura prigionia, e che venne strangolato e successivamente sciolto nell’acido l’11 gennaio 1996, all’età di 15 anni, dopo 779 giorni di prigionia.
Per l’omicidio del piccolo Giuseppe, oltre che Giovanni Brusca, sono stati condannati all’ergastolo i boss Leoluca Bagarella e Gaspare Spatuzza.
Fonte: Wikipedia
Giuseppe Di Matteo era un bambino come gli altri, sorrideva speranzoso alla vita e amava i cavalli. Troppo piccolo per avere qualche colpa. Il suo peccato originale: essere il figlio di Santino Di Matteo che, dopo le bombe che costarono la vita a Falcone e Borsellino, cominciò a collaborare con lo Stato.
In libreria dal 26 ottobre, la docu-fiction racconta per la prima volta tutta la vicenda del piccolo Giuseppe Di Matteo, rimasto nelle mani dei mafiosi per più di due anni. La storia di Giuseppe, la sua tragica fine – ucciso e “cancellato” in una vasca di acido – quella della sua famiglia, i ricordi della madre, Franca, il racconto di suo padre, Santino, l’organigramma mafioso, i meccanismi che muovono l’esercito della mafia costituiscono i tasselli principali del lavoro di Pino Nazio, giornalista, autore del programma di Raitre “Chi l’ha visto?”, nel suo romanzo-verità: “Il bambino che sognava i cavalli”.
Una verità crudele tant’è che l’autore ha scelto di lasciare chiuse le pagine di un capitolo: quello che racconta l’assassinio del bambino e la raccapricciante distruzione del corpicino. Un capitolo chiuso che il lettore potrà sfogliare, se sarà in animo di farlo, o lasciare intonso, passando al capitolo successivo senza che il pathos della narrazione ne risenta.
Il romanzo-verità di Pino Nazio, realizzato in oltre due anni, nasce non solo da una lunga serie di incontri con il pentito Santino Di Matteo, ma anche da colloqui con i magistrati che si sono occupati del caso, degli avvocati che sono stati a contatto con gli assassini, da minuziose ricerche tra carte processuali che sembravano dimenticate e che oggi rivelano nuovi indizi per ricostruire quel periodo e fare luce su aspetti misteriosi degli attentati di Capaci e via D’Amelio.
Giuseppe Di Matteo è il simbolo della fine della mafia stragista e più sanguinaria, che ha contribuito a infliggere agli uomini del disonore decine e decine di ergastoli, a rompere il fronte dell’omertà che proteggeva Cosa Nostra, a infondere nella gente rabbia, indignazione e voglia di spezzare antiche, invisibili, catene.
Se la lotta per la legalità in Sicilia oggi è più incisiva, lo si deve al lavoro di coraggiosi magistrati e appartenenti alle forze dell’ordine, di giornalisti e testimoni, ma anche al piccolo Giuseppe Di Matteo, giustamente definito “il bambino che ha sconfitto la mafia”.


“Così quel bambino uccise Cosa Nostra”

 

di Francesco La Licata
Parla il carceriere: «L’ordine di sciogliere nell’acido il piccolo Di Matteo fece perdere ai clan faccia e rispetto della gente»
«Lo chiamavano ‘u canuzzu’, ma non era un vezzeggiativo. Non era un modo amorevole per indicare un cucciolo. No, il piccolo Giuseppe Di Matteo aveva fatto la fine che fanno i ‘canuzzi’ in campagna: legati al collare, picchiati e poi ammazzati. Lo abbiamo ucciso, il piccolo Giuseppe, forse perché era diventato un problema, ancor di più di quando lo avevamo preso e tenuto prigioniero nella speranza di convincere il padre, il pentito Santino Di Matteo a ritrattare tutte le accuse che aveva rivolto contro Giovanni Brusca, contro Totò Riina e Leoluca Bagarella. E contro tutta la mafia. Più di due anni era durata la sua prigionia e per tutto quel tempo il padre aveva resistito e tenuto duro, continuando a collaborare coi giudici. Ecco perché Giuseppe alla fine era un problema: perché sulla sua pelle si giocava l’immagine di Cosa nostra e dei suoi capi. Fu Brusca a ordinare di affucarlo con la corda e poi sciogliere il corpo nell’acido.
Era andato fuori di testa il boss, una volta tanto gelido da essere stato prescelto per premere il pulsante assassino che mise fine alla vita di Giovanni Falcone, della moglie e della scorta. Non ragionava più. Non c’era verso di fargli capire che l’uccisione del bambino sarebbe stato un terribile boomerang per tutte le “famiglie”. Era come accecato. E così pronunciò quell’ordine che, una volta emesso, nessuno poteva più raddrizzare senza correre il rischio di rimetterci la pelle. Chi poteva trovare il coraggio di “far ragionare” Giovanni Brusca? Così, mentre tutti restavamo prigionieri della paura, il piccolo Giuseppe scivolava verso una fine ingiusta e terribile.
Ma non fu una vittoria della mafia. Un terribile castigo, anzi, si abbattè su Cosa nostra: come in un’esplosione atomica il clan dei corleonesi si è liquefatto. Riina è in galera e pure Provenzano e Bagarella e tutti i capi. Giovanni ed Enzo Brusca sono diventati pentiti. Anche Enzo Chiodo, che passò la corda attorno al collo di Giuseppe ora è collaboratore. E pure io, che mi porto appresso l’incubo di non aver saputo salvare Giuseppe. Ci credevamo immortali e potenti, noi uomini dei corleonesi. Avevamo messo nel conto di poter cambiare in nostro favore anche le sventure più grandi. E per fermare il pentito Di Matteo abbiamo scelto il ricatto più ignobile, prendergli il figlio. Così credevamo di aver risolto il problema ma invece andò a finire che quel bambino morto ammazzato, un bimbo, sconfisse la mafia. Fu peggio di una sconfitta militare, perché Cosa nostra perse la faccia e il rispetto della gente».
Sembra un ragazzino Giuseppe Monticciolo, il mafioso che racconta di essere stato incaricato da Giovanni Brusca di «risolvere il problema del bambino». Adesso che non è più un boss della mafia dice di sentirsi più libero. Vive nel Nord dell’Italia e da otto anni si è assuefatto alla vita del «signor nessuno»: anonima tranquillità, casa e lavoro. «Ma non sono stato mai così appagato», dice adesso accettando di incontrare il cronista in un posto «neutro». Soltanto oggi torna alla ribalta per aver scritto in un libro, affidandola al giornalista dell’Unità Vincenzo Vasile, «la storia del mio rapporto col piccolo Di Matteo» («Era il figlio di un pentito». Bompiani. pagg.203 E.15).
È un viaggio difficile, quello di Monticciolo. Lui sa che difficilmente potrà invocare perdono e comprensione. Ma cerca di «spiegare», nei limiti di una logica troppo lontana per chi non sta dentro gli ingranaggi mafiosi, il meccanismo, la trappola, «l’inganno» dice l’ex boss, che può portare l’uomo a trasformarsi in lupo. E racconta di quando «ammazzavo i cristiani senza pensare che stavo togliendo la vita ad esseri umani e padri di famiglia». Anche se poteva servire da alibi «la consapevolezza che a parti invertite le vittime non avrebbero avuto problemi a trasformarsi in carnefici». Già, andavano così le cose: «mi sentivo gratificato se il mio capo, Giovanni Brusca, sceglieva me per un omicidio “difficile”». Rivede mentalmente il film, Monticciolo. E tira fuori dalla moviola il campionario degli orrori. Come quando Bagarella «pretese che si uccidessero Giovanna Giammona, una donna, e il marito, Franco Saporito». Uno squadrone della morte partì alla volta di Corleone ed eseguì la sentenza in piazza: «Venne pure Bagarella perché voleva che si sapesse che la decisione era sua, anche contro la linea pacifista di Provenzano». Solo poco tempo prima «avevamo ucciso un commerciante, sempre a Corleone, perché Bagarella era convinto che congiurasse contro il nipote Giovanni, il figlio grande di Totò Riina».
Eccolo il delfino di don Totò, oggi condannato all’ergastolo proprio a causa delle confessioni di Monticciolo. Un ragazzetto ancora neppure diciottenne ma tanto determinato da rispondere allo zio (Bagarella) che chiede l’ennesimo omicidio: «Come lo dobbiamo ammazzare?». Così, senza l’ombra dell’indecisione.
In questo clima, Giovanni Brusca si imbarca nel «pessimo affare» del sequestro Di Matteo. Dice Monticciolo: «Pensava di averla vinta facilmente, anche perché contavamo nelle contraddizioni interne alla famiglia del bambino. Sapevamo che il nonno, il papà di Santino, non avrebbe esitato anche a sacrificare il figlio per salvare il nipote». E invece non andò così: caddero nel vuoto – per più di due anni – i messaggi terrificanti, le foto, i video inviati alla famiglia. Il piccolo Giuseppe, «sempre più magro, coi capelli lunghissimi, un fagotto di poco più di trenta chili che imprecava contro quel pentito di suo padre che lo aveva abbandonato» venne spostato per mezza Sicilia, affidato a mafiosi che lo vedevano come un «impiccio». Poi dovette occuparsene Monticciolo, dopo aver costruito un bunker, nella casa di campagna dei Brusca, che potesse ospitarlo. Ma era la fine. Così il pentito ricorda l’ultimo viaggio: «Infransi la regola che mi impediva di aver rapporti col bambino e ci parlai. Ricevetti una lezione di dignità, non mi permise mai di oltraggiarlo. Ricordo che, bendato, sentì il mare e i profumi dei fiori. Mi chiese di poterli vedere e toccare. Non potevo accontentarlo. Al contrario, però, riuscii a fargli avere diverse riviste sui cavalli. Gli piaceva cavalcare. Quando arrivò l’ordine feci in modo che non dovessi essere io a stringere il laccio. Questo incubo continua a vivere con me». lastampa.it  3 novembre 2007


Fonte: repubblica.it Articolo del 29 aprile 2009
Affidato ai servizi sociali Bommarito il carceriere

di Giuseppe Di Matteo
Era stato condannato a 22 anni di carcere, ma in cella è rimasto poco
La decisione presa dai magistrati dopo che l’uomo ha deciso di collaborare con la giustizia
 Il tribunale di sorveglianza di Palermo ha concesso l’affidamento in prova ai servizi sociali al pentito Stefano Bommarito, condannato a 22 anni di carcere per l’uccisione del piccolo Giuseppe Di Matteo. La scarcerazione di Bommarito, che fu il carceriere del bambino, segue di poco la sua scelta di collaborare con i magistrati. La notizia è stata diffusa dal Giornale di Sicilia.
Il pentito è di San Giuseppe Jato, lo stesso paese del palermitano di cui è originario l’altro ex boss e collaboratore di giustizia Giovanni Brusca. Giuseppe Di Matteo venne sequestrato per ricattare il padre Mario Santo, detto Santino ‘Mezzanasca’, per evitare che parlasse della strage di Capaci. Questi aveva però continuato ad aiutare i pm, e quindi a quel punto Brusca aveva ordinato di uccidergli il figlio. Il cadavere del bambino era stato poi sciolto nell’acido.
Gli altri condannati per l’omicidio del piccolo sono Enzo Salvatore Brusca e Giuseppe Monticciolo, ai domiciliari, e Vincenzo Chiodo, in carcere, arrestato nei mesi scorsi su ordine della Corte di Cassazione. In prigione anche il mandante Giovanni Brusca.
Bommarito, figlio del boss Bernardo, nel processo Di Matteo aveva già avuto gli sconti di pena previsti per i collaboratori di giustizia. Era stato inoltre riconosciuto colpevole per l’omicidio di un imprenditore di Monreale che non aveva voluto pagare il pizzo, Vincenzo Miceli, ucciso il 23 gennaio 1990 e per i delitti di persone ritenute vicine all’ex pentito Balduccio Di Maggio.


 La Repubblica del 23 novembre 2010
Il racconto di Santino Di Matteo “Quando Brusca ordinò di uccidere mio figlio”
di Enrico Bellavia
Diciassette anni dopo il rapimento di Giuseppe Di Matteo, il padre, collaboratore di giustizia, racconta la prigionia del bambino in un libro del giornalista Pino Nazio
Accadde alle 16,30 di 17 anni fa. Fu a quell’ora e in quel giorno che i Corleonesi decretarono la loro fine. Sequestrarono un bambino di 12 anni. Lo tennero in ostaggio per 779 giorni, per mesi torturano con biglietti, foto e filmati, i familiari. Poi, l’11 gennaio del 1996, il giorno in cui a Giovanni Brusca inflissero l’ergastolo per l’omicidio dell’esattore Ignazio Salvo, lo uccisero strangolandolo e sciogliendo il cadavere nell’acido.
Quel bambino era Giuseppe Di Matteo, divenne adolescente mentre trascorreva ore da incubo, sfidando la voglia di uccidersi, nel buio delle masserie prigioni di mezza Sicilia. Finendo i suoi giorni nel doppio fondo di Giambascio, la casa galera di Giovanni Brusca con il pavimento che sprofondava, svelando un vano segreto tenuto su da un pistone idraulico. Giuseppe era l’arma di ricatto per il padre “pentito”. Era lo strumento con cui convincere Santino “Mezzanasca” a ritrattare.
A diciassette anni da quel rapimento, quando già le sentenze hanno riconosciuto la colpevolezza di mandanti ed esecutori è lo stesso collaboratore di giustizia a raccontare di suo figlio, attraverso il giornalista Pino Nazio nel libro “Il bambino che sognava i cavalli” (Sovera Edizioni).
Un racconto angoscioso, tetro e claustrofobico, come la vita di Giuseppe in mano ai suoi carcerieri. Soldati del male, banali nella loro scrupolosa ferocia. Capaci di picchiare un ostaggio inerme di dieci anni più giovane di loro e poi, chiusa a doppia mandata l’ennesima cella, rincasare
e abbracciare i propri figli. Una “necessità”, così se la raccontavano gli “uomini d’onore” al soldo di Giovanni Brusca. Era “inevitabile” accanirsi su quell’innocente se il padre, uno degli esecutori della strage di Capaci, aveva deciso di saltare il fosso, smantellando il pezzo pregiato della formidabile artiglieria corleonese.
L’idea, racconta il libro di Pino Nazio, fu di Brusca insieme con Matteo Messina Denaro e Giuseppe Graviano. Leoluca Bagarella diede il via libera e partì una squadra di finti agenti della Dia a sequestrare il bambino nel maneggio dei fratelli Vitale, dove Giuseppe era andato per il consueto allenamento in sella al suo cavallo da salto. “Vieni, ti portiamo da tuo padre”. “Me patri, sangu mio!”, disse Giuseppe, sparendo per sempre.
Il racconto scorre per immagini: lo struggimento impotente di Franca, la moglie di Santino, costretta a svegliarsi dal lungo sogno di agio inspiegabile per rivedersi moglie di un assassino e madre di una vittima. Il banco della terza D della scuola di Altofonte vuoto, mentre del bambino ancora nessuno sa nulla. Il pianto e le domande senza risposte di Mariella, la compagna e migliore amica di Giuseppe. La tragedia di Piddu, il nonno mafioso, graniticamente fermo nella propria voglia di risolvere secondo Cosa nostra quella partita.
Il libro documenta l’intercessione di Benedetto Spera e un debole intervento di Bernardo Provenzano, con un pizzino tratto dalla Bibbia fatto arrivare a Bagarella, in favore del rilascio. Ma l’ala dura dei Corleonesi non cedette. Brusca immaginava di posticipare la sentenza di morte al compimento dei 18 anni di Giuseppe per stare a posto con le regole, sempre trasgredite, dell’organizzazione che vieta di uccidere donne e bambini.
Di Matteo padre, dopo uno stop di qualche settimana, quando la famiglia si decise a denunciare il rapimento, riprese a collaborare, sicuro che la sentenza di morte per il figlio fosse stata emessa in un modo o nell’altro. Poi si organizzò con Balduccio Di Maggio e Gioacchino La Barbera, compagni d’armi, passati sotto protezione, per arrivare da solo alla prigione del figlio.
Arrivò fino a Giambascio ma non poteva sapere ciò che era stato allestito lì dentro: la segreta che solo la collaborazione di Vincenzo Chiodo consentirà di scoprire quando del bambino non c’era più traccia. Era stato liquidato con uno scatto d’ira da Giovanni Brusca lo “scannacristiani” che con il piccolo aveva giocato sfide interminabili alla play station. Disse ai suoi “allibertativi du cagnuleddu”. E quelli eseguirono.
Articolo del 30 giugno 2011 da antimafiaduemila.com
Processo Di Matteo: il neo pentito Tranchina per la prima volta in aula
Si è svolta questa mattina in videoconferenza la deposizione dell’ex picciotto di Brancaccio, Fabio Tranchina, neo collaboratore di giustizia, al processo per l’omicidio del piccolo Giuseppe Di Matteo, figlio del pentito Mario Santo Di Matteo, strangolato e sciolto nell’acido l’11 gennaio 1996 dopo 779 giorni di prigionia.
Gli imputati nel processo, che si celebra davanti alla Corte d’assise di Palermo, sono Gaspare Spatuzza, che si è autoaccusato del rapimento, il boss mafioso Giuseppe Graviano, oltre al boss latitante Matteo Messina Denaro, e Francesco Giuliano, Luigi Giacalone e Salvatore Benigno.
Tranchina, autista e vivandiere di Giuseppe Graviano, ha esordito davanti alla corte d’assise di Palermo protestando contro “il servizio di protezione dei pentiti che non onora il lavoro dei legali, ledendo il diritto di difesa dei collaboratori di giustizia”. Parole subito stoppate dalla corte che non ha ritenuto pertinenti al processo le dichiarazioni. Così Tranchina ha iniziato a rispondere ai pm, così come aveva già fatto lo scorso 16 maggio quando ad interrogarlo erano i pm Roberta Buzzolani e Fernando Asaro.
Quindi ha iniziato a riferire in merito ai propri rapporti con Graviano, di cui ha gestito la latitanza. Rivelazioni che smontano l’alibi fornito dal boss di Brancaccio il quale sostiene che nel periodo del sequestro del piccolo lui era già latitante a Milano.
Infatti il pentito ha confermato che il questi tra il ’91 e il ’94 era a Palermo e si allontanava dal capoluogo solo per brevi periodi in cui andava a Milano o in vacanza in Sardegna, a Giardini Naxos e in Toscana. Le rivelazioni di Tranchina, coinvolto recentemente anche nella nuova indagine sulla strage di via d’Amelio, confermano le parole di un altro collaboratore di giustizia, ex fedelissimo di Graviano, Gaspare Spatuzza che ha raccontato che il capomafia, nel 1993, gli parlò a Misilmeri (Palermo) del progetto di sequestro del bambino. L’ex mafioso ha anche detto che Graviano trascorse parte della latitanza a casa di un sorvegliato speciale di Palermo “certo che lì non lo avrebbero cercato di sicuro”.
Rispondendo alle domande del pm Asaro ha inoltre raccontato di aver conosciuto Graviano attraverso il cognato Cesare Lupo nel maggio del 1991. “Lupo mi chiese di occuparmi della latitanza di Graviano e io gli feci da vivandiere fino al suo arresto, avvenuto nel gennaio del 1994. Ricordo che al primo incontro, in una porcilaia a Bolgonetta, Graviano mi consegnò una grossa somma di denaro in contanti e mi chiese di contarli. Erano 88 milioni di lire e lui mi regalò un milione.
Sul motivo che lo ha indotto a collaborare con la giustizia ha detto: “Devo pulire la mia coscienza, ho un peso che non mi fa vivere. Io sono stato condannato per mafia ma ero a conoscenza, e per questo me ne sento responsabile, di fatti atroci”. E per tre volte a ripetuto “Non si può vivere con questo peso – ha ripetuto tre volte con voce rotta – io non posso”.

 


Il pm in aula accusa i boss “Il piccolo Di Matteo fu torturato”

 

Requisitoria dell’accusa al processo per il rapimento e l’uccisione del figlio del pentito Santino Di Matteo che venne sequestrato il 23 novembre del ’93 e poi strangolato e sciolto nell’acido. Dell’omicidio sono accusati Leoluca Bagarella e Giovanni Brusca, già condannati in un altro processo, il capomafia latitante Matteo Messina Denaro, Gaspare Spatuzza, Giuseppe Graviano, Francesco Giuliano, Luigi Giacalone e Salvatore Benigno
“Il piccolo Giuseppe Di Matteo non solo viene privato della sua infanzia ma viene torturato dai suoi aguzzini che prima lo sequestrano e dopo 779 giorni di prigionia lo uccidono strangolando un corpicino ormai inerme e poi lo sciolgono nell’acido”.
Con queste parole il pm Fernando Asaro sta ricostruendo davanti ai giudici della Corte d’Assise di Palermo il rapimento e l’uccisione del piccolo Giuseppe Di Matteo, il figlio dodicenne del pentito Santino Di Matteo sequestrato il 23 novembre del ’93 e ucciso nel gennaio del ’96.
Il sequestro del bambino “venne deliberato da Leoluca Bagarella, Giovanni Brusca (già condannati in un altro processo), Matteo Messina Denaro e Giuseppe Graviano”.
Agli stessi mafiosi a cui era stato affidato il bambino durante i suoi spostamenti – dice Asaro – ripugnava tenere segregato il piccolo Di Matteo sequestrato per fronteggiare il dilagante fenomeno dei collaboratori di giustizia e per dare loro un segnale. Il collaboratore di giustizia Ciro Vara ha raccontato che gli era stato riferito che si trattava di un ragazzo di almeno 18 anni invece quando gli portarono il bambino di 12 anni rimase colpito”.
Per il pm “il sequestro doveva essere utizzato come simbolo per colpire tutti i collaboratori di giustizia”. Quando lo rapirono “lo fecero con l’inganno – spiega il pm – si travestirono da agenti della Dia dicendogli che lo avrebbero portato dal padre pentito e lui esclamò felice: ‘sangue mio, mio padre, amore mio’. Invece venne portato in un casolare di Misilmeri e da lì iniziò la lunga prigionia”. “Fu Graviano che organizzò il rapimento nel maneggio – dice il magistrato ricordando le parole di Giovanni Brusca – il bambino fu segregato per più di due anni fino a essere ucciso nel gennaio del ’96 e poi sciolto nell’acido”.


Processo Di Matteo, il pm Asaro chiede l’ergastolo per Graviano e Messina Denaro

l processo è stato rinviato al prossimo 1 dicembrePalermo – (Adnkronos) – Il pm Fernando Asaro ha chiesto alla Corte d’Assise di Palermo cinque ergastoli e dieci anni per il pentito Spatuzza. La requisitoria: “Il piccolo Giuseppe Di Matteo viene torturato dai suoi aguzzini. La condanna all’ergastolo per cinque imputati, tra cui i boss Matteo Messina Denaro e Giuseppe Graviano, e a dieci anni per il pentito di mafia Gaspare Spatuzza con le attenuanti generiche, è stata chiesta dal pm Fernando Asaro alla Corte d’Assise di Palermo al termine della requisitoria del processo per il sequestro e l’omicidio del piccolo Giuseppe Di Matteo, il figlio del pentito Santino Di Matteo ucciso e sciolto nell’acido nel gennaio ’96 dopo 779 giorni di prigionia.
Chiesto l’ergastolo, oltre al boss latitante Matteo Messina Denaro e il boss di Brancaccio Giuseppe Graviano, anche per gli imputati Francesco Giuliano, Luigi Giacalone e Salvatore Benigno. Parlando del pentito Gaspare Spatuzza, per il quale il pm ha chiesto l’attenuante generica per la “sua collaborazione piena”, il magistrato ha sottolineato che il suo “è stato un contributo assolutamente determinante per chiarire alcuni aspetti di questa vicenda processuale su cui andava fatta luce. Le sue dichiarazioni sono genuine e meritevoli”.
Nella sua requisitoria, il pm Asaro ha detto che il piccolo Giuseppe Di Matteo ucciso nel gennaio ’96 dopo più di due anni di prigionia “venne rapito e poi strangolato e sciolto nell’acido per contrastare la dilagante emorragia di collaboratori di giustizia e lui era l’anello più debole per colpire il sistema dei pentiti”. Ma l’omicidio del piccolo Giuseppe Di Matteo “si è dimostrato un vero e proprio boomerang per Cosa nostra per l’implosione avvenuta subito dopo nell’organizzazione mafiosa”.
“Il piccolo Giuseppe Di Matteo non solo viene privato della sua infanzia ma viene torturato dai suoi aguzzini che prima lo sequestrano e dopo 779 giorni di prigionia lo uccidono strangolando un corpicino ormai inerme e poi lo sciolgono nell’acido”, ha detto il magistrato, ricordando poi che sono stati già tre i processi definitivi celebrati per l’omicidio del bambino, in stralci processuali. “Su 49 imputati ne sono stati condannati 35 in via definitiva e alcuni all’ergastolo – ha detto ancora – e si è fatta luce sull’episodio solo grazie ai collaboratori di giustizia. Purtroppo la cosiddetta società civile di Altofonte di quel periodo si è dimostrata assente”.
Il processo è stato rinviato al prossimo 1 dicembre.

Mafia, omicidio Di Matteo: ergastolo per 5 imputati
Pesanti condanne per l’omicidio di Giuseppe Di Matteo, figlio del collaboratore di giustizia Santino, che fu sequestrato nel 1993 e dopo 779 giorni di prigionia fu strangolato e sciolto nell’acido. Ecco la sentenza dei giudici della corte d’assise di Palermo. “Matteo Messina Denaro, Francesco Giuliano, Salvatore Benigno, Luigi Giacalone, Giuseppe Graviano, Gaspare Spatuzza sono condannati all’ergastolo per il sequestro e l’omicidio del piccolo Giuseppe Di Matteo. Per Gaspare Spatuzza, è stata concessa l’attenuante generica della collaborazione, una condanna a 12 anni di reclusione”. Gli imputati sono stati condannati anche al pagamento delle spese processuali.
Articolo del 25 Febbraio 2014 da livesicilia.it


La morte di Giuseppe Di Matteo Ergastolo per Graviano e Benigno

Il figlio del pentito Santino fu rapito il 23 novembre 1993, strangolato e sciolto nell’acido l’11 gennaio 1996.
Confermate dalla Cassazione le condanne all’ergastolo per il boss Giuseppe Graviano e per Salvatore Benigno per l’uccisione i il sequestro del piccolo Giuseppe Di Matteo, rapito il 23 novembre 1993, strangolato e sciolto nell’acido l’11 gennaio 1996. Lo ha appena deciso la Seconda sezione penale della Suprema corte. I supremi giudici – presieduti da Antonio Esposito – hanno rigettato il ricorso presentato da Graviano e da Benigno contro il carcere a vita inflittogli il 18 marzo 2013 dalla Corte d’assise d’appello di Palermo. Gli ergastoli erano stati comminati anche in primo grado dalla Corte d’assise di Palermo il 16 gennaio 2012.
Per il sequestro e l’atroce omicidio del figlio del pentito Santino Di Matteo, sono stati condannati in appello anche Luigi Giacalone, Francesco Giuliano e il boss latitante trapanese Matteo Messina Denaro. Ma solo Graviano e Benigno hanno fatto ricorso alla Suprema corte. A lanciare le accuse contro i suoi complici era stato il collaboratore di giustizia Gaspare Spatuzza, condannato a 12 anni con l’applicazione dell’attenuante speciale per i pentiti. Il piccolo Di Matteo fu sequestrato il 23 novembre 1993 da un commando di mafiosi travestiti da poliziotti che su ordine di Graviano catturarono il bambino mentre si allenava in un maneggio ad Altofonte. Il bambino fu ucciso dopo 779 giorni di prigionia. La Cassazione ha condannato Graviano e Benigno al risarcimento di circa novemila euro in favore dei familiari della vittima, la madre Francesca Castellese e Nicola Di Matteo costituitisi parte civile.


 

Mafia, delitto Giuseppe Di Matteo Confermati i due ergastoli

 

I condannati avevano fatto ricorso alla Suprema Corte.  La seconda sezione della Cassazione ha convalidato le condanne a vita emesse un anno fa dalla Corte d’assise d’appello di Palermo contro Giuseppe Graviano e Salvatore Benigno, accusati del sequestro e dell’uccisione del piccolo, rapito il 23 novembre 1993 e strangolato e sciolto nell’acido dopo 779 giorni di prigionia, l’11 gennaio 1996. Secondo i pentiti il bambino sarebbe stato ucciso per ‘punire’ il padre, il collaboratore di giustizia Santino Di Matteo
Conferma degli ergastoli in Cassazione per l’omicidio del piccolo Giuseppe Di Matteo, il figlio tredicenne del pentito di mafia Santino, strangolato e sciolto poi nell’acido l’11 gennaio del 1996 dopo quasi tre anni di prigionia. Lo ha deciso la seconda sezione penale della Corte di Cassazione, presieduta da Antonio Esposito che ha respinto i ricorsi presentati da due condannati all’ergastolo dalla Corte d’assise di Palermo. Si tratta di Giuseppe Graviano e Salvatore Benigno.
Sono stati condannati, sempre all’ergastolo in appello ma non hanno presentato ricorso in Cassazione, il super latitante Matteo Messina Denaro, Francesco Giuliano e Luigi Giacolone.
Sempre in appello era stato condannato a 12 anni di reclusione il pentito Gaspare Spatuzza, che ha partecipato al sequestro di Di Matteo, e che con le sue dichiarazioni ha permesso di ricostruire tutto l’episodio e per questo è stata applicata l’attenuante prevista per i pentiti.
Il piccolo Di Matteo venne sequestrato il 23 novembre del 1993 mentre si trovata nel maneggio di Villabate. I sequestratori volevano impedire che il padre, Santino Di Matteo, rilasciasse dichiarazioni nell’ambito del suo processo di pentimento. Santino Di Matteo al momento del sequestro del figlio aveva infatti iniziato a collaborare con la giustizia ed aveva iniziato a far luce sulla strage di Capaci.
Il pentito Gaspare Spatuzza raccontò le modalità dell’omicidio di Giuseppe Di Matteo che venne prima strozzato e il corpo poi sciolto nell’acido per farne perdere le tracce. (ANSA) 26 Febbraio 2014 da grr.rai.it

 


Mafia, il piccolo Giuseppe Di Matteo ucciso 25 anni fa. Il fratello Nicola: “Avrei voluto morire io al suo posto” 

 

.L’11 gennaio 1996 da mafiosi guidati da Giovanni Brusca uccisero il figlio del pentito Santino. La commemorazione ad Altofonte con Fava, Morra e il fratello oggi 38enne del ragazzino di F. Q. | 11 GENNAIO 2021  Rapito per impedire a suo padre di collaborare con la giustizia. E poi ucciso e sciolto nell’acido. Venticinque anni fa veniva assassinato il piccolo Giuseppe Di Matteo. Ad Altofonte, in provincia di Palermo, è stato ricordato l’omicidio compiuto l’11 gennaio 1996 da mafiosi guidati da Giovanni Brusca. Il sindaco del Comune Angela De Luca ha organizzato una manifestazione nel salone parrocchiale della Chiesa madre Santa Maria alla quale hanno preso parte il fratello di Giuseppe, Nicola Di Matteo, l’assessore regionale Roberto Lagalla, il presidente della commissione regionale antimafia Claudio Fava, il presidente del parlamento della legalità Nicolò Mannino e numerosi sindaci del comprensorio. “E’ la prima volta che partecipo a iniziative che ricordano la memoria di mio fratello perché ancora oggi provo un dolore enorme per quanto è accaduto. Mio fratello è vivo nella memoria di tutti, ma avrei preferito morire io al suo posto”, ha detto il fratello del piccolo Giuseppe, oggi trentottenne. “La mafia non è cambiata, c’era e c’è ancora – ha sottolineato Fava, presidente della commissione Antimafia dell’Assemblea regionale siciliana -. Ha solo cambiato strategia, ma è presente come e più di prima. Tutti vanno ad Auschwitz per vedere i forni crematori, provando inevitabile orrore. Eviteremmo di vendere chiacchiere, se andassimo nei luoghi in cui la mafia ha seminato orrore, come il Giardino della Memoria, accorgendoci delle atrocità di quanto è accaduto”. All’incontro ha anche partecipato in collegamento telefonico Nicola Morra presidente della commissione nazionale antimafia. “Per quale motivo – ha detto Morra – i carcerieri del piccolo Di Matteo erano incappucciati? I mafiosi tra di loro si conoscono. E’ possibile che anche nel rapimento e nell’uccisione del piccolo Di Matteo siano coinvolti pezzi dello Stato che cercavano di bloccare insorgenza di una coscienza civile?”. Ha preso la parola anche Monica Genovese avvocato della famiglia del piccolo Di Matteo che assiste il fratello Nicola e la madre Franca Castellese. “In questi anni – ha detto – duranti tutti i processi nelle varie aule di tribunale due sono gli aspetti che è giusto sottolineare in questo giorno: il primo è che da parte degli assassini non sono arrivate mai le scuse alla famiglia per l’orrendo delitto. La famiglia avrebbe voluto le scuse che non sono mai arrivate. Il secondo è che accanto agli uomini hanno commesso questo delitto c’erano tantissimi testimoni, mogli, figlie e figli. Nessuno di loro ha avuto il coraggio e la forza di denunciare quanto di orribile stava avvenendo nelle campagna siciliane in oltre 779 giorni di prigionia”. Figlio di Santino Di Matteo, boss poi pentito, il piccolo Giuseppe fu tenuto prigioniero per tre anni. Prelevato il pomeriggio del 23 novembre 1993 da un maneggio di Villabate, il ragazzino fu portato via un commando di mafiosi camuffati da agenti della Dia che lo convinsero a salire in auto raccontandogli che avrebbero dovuto portarlo dal padre. ‘’Papà, amore mio’’, esclamò il ragazzino, e quelle parole segnarono l’inizio di un incubo concluso la sera dell’11 gennaio 1996 quando Brusca apprese dalla tv che era stato condannato all’ergastolo per l’omicidio di Ignazio Salvo reagì ordinando l’omicidio del piccolo Giuseppe, tenuto attaccato ad una catena e ridotto ormai ad una larva umana. A strangolarlo furono Enzo Chiodo ed Enzo Brusca, fratello di Giovanni, e il corpo fu poi disciolto nell’acido. Il giorno dopo il sequestro ai familiari del ragazzo fu recapitato un biglietto con la scritta ‘’tappaci la bocca’’, chiaro segnale per il padre Santino, che aveva iniziato a rivelare i segreti delle stragi mafiose. Ma a svelare gli ultimi dettagli del rapimento è stato Gaspare Spatuzza, componente del commando che rapì il ragazzino nel ’93: il pentito ha chiesto perdono alla famiglia, ma né Santino Di Matteo, né la moglie Franca Castellese, hanno accettato la richiesta.


A GIUSEPPE DI MATTEO, SCIOLTO NELL’ACIDO DAI MAFIOSI A 14 ANNI, È STATO INTITOLATO UN PARCO 

 

Ucciso dagli uomini di Cosa Nostra nel 1996, dopo anni di insistenze il comune di San Pietro in Casale ha deciso di commemorarlo dedicandogli un parco giochi.

Finalmente il buon senso è prevalso sul pregiudizio. Ho vinto una battaglia, ma non la guerra. Da anni, tento invano di convincere sindaci e prelati d’intitolare un parco giochi a un piccolo martire italiano, assassinato dalla bieca violenza mafiosa. Sì rispondono alle mie missive, decantando plauso per la mia richiesta. Ma poi il nulla: spariscono.

Solo il consigliere comunale, Renato Rizz, del comune di San Pietro in Casale, ha accolto il mio invito. E dopo ben 4 anni di lavoro insieme, il 21 marzo 2021 il sindaco della città di San Pietro in Casale – provincia di Bologna  – ha di fatto intitolato un parco a Giuseppe Di Matteo. Chi era Giuseppe? Era un innocente bambino che ebbe la colpa d’essere figlio di un uomo d’onore di Cosa nostra: Santino Di Matteo.

Santino Di Matteo fu uno degli autori della strage di Capaci che noi della DIA catturammo, insieme ad Antonino Gioè e Gioacchino La Barbera. Quest’ultimo si pentì in contemporanea a Di Matteo, mentre Gioè si suicidò in carcere. Noi della DIA avevamo in consegna il duo Di Matteo-La Barbera. Il bambino Giuseppe Matteo fu rapito alla fine del 1993 da mafiosi travestiti da poliziotti. E quando giunse la notizia io mi trovavo col padre a Roma.

Poi conducemmo a Palermo le ricerche per rintracciare la prigione di Giuseppe. Non ci riuscimmo. Infatti dopo quasi 800 giorni di prigionia Giuseppe fu ucciso e sciolto nell’acido. Come si evince dal video, il mafioso Giovanni Brusca – colui che pigiò il telecomando della strage di Capaci – con una telefonata diede ordine di uccidere Giuseppe e avrebbe detto ai carcerieri “ammazzati u canuzzu” (uccidete il cagnolino).

Io continuerò la mia battaglia, perchè nei confronti di Giuseppe Di Matteo siamo tutti debitori e pertanto merita di essere sempre ricordato proprio nei parchi giochi per bambini. I coetanei di Giuseppe, così come gli adulti, devono conoscere il martirio di un bambino innocente. Gli uomini che seppelliscono il proprio passato, non saranno uomini del futuro ed io non posso permettermi di dimenticare.

Una candela può illuminare una stanza, ma il sorriso di un bambino illumina il Mondo. E noi, Giuseppe, tentiamo di illuminarlo col tuo sorriso, mentre eri a cavallo. Riposa in pace. La voce di new york di Pippo Giordano 22 Mar 2021


A CASA DI SANTINO DI MATTEO COMINCIANO A PREPARARE LA BOMBA PER FALCONE  

 

Dieci giorni prima della strage, Santino Di Matteo riceve l’incarico da Giovanni Brusca di recarsi nella casa di contrada Rebottone perché lì doveva arrivare Giovanni Agrigento, “capo famiglia” di San Cipirello, per portargli delle cose. «…L’indomani mi reco in campagna e viene Agrigento con la Tipo bianca, e dentro la macchina sia dentro il cofano che dietro il sedile, c’aveva quattro sacchi di esplosivo…»

Nel 1992 Di Matteo era proprietario di due appartamenti, uno nel paese di Altofonte, in Via del Fante, l’altro un po’ fuori dall’abitato, in contrada Rebottone. Proprio in quest’ultima abitazione, luogo di incontro e riunione degli appartenenti alla sua “famiglia”, i quali tutti sapevano dove era nascosta la chiave di ingresso (sotto un mattone), Di Matteo aveva appreso, verso la fine di aprile o gli inizi di maggio, che doveva essere fatto un attentato.

Le riunioni nella casa in in quel periodo si tenevano giornalmente, ma egli non sapeva ancora a quell’epoca che sarebbe stato personalmente coinvolto nell’esecuzione del progetto criminoso. Le persone che frequentavano l’abitazione erano per lo più Giovanni Brusca, Antonino Gioè, Gioacchino La Barbera e Leoluca Bagarella (soldato della “famiglia” di Corleone). In quel periodo aveva visto che Brusca aveva fatto venire una persona non appartenente alle famiglie palermitane, Pietro Rampulla da Catania, e che era è Gioè ad accompagnarlo dato che non era della zona (successivamente lo aveva visto usare un’Alfetta scura 1800 o 2000) e quel giorno c’erano anche Salvatore Biondo e Biondino, che erano venuti insieme su una Fiat Uno verde, ma egli non aveva assistito alla conversazione che Brusca e Bagarella avevano avuto con il personaggio catanese, aveva notato però che quest’ultimo era tornato due giorni dopo con due telecomandi in una scatola di polistirolo: «Per me erano due macchine… due cose di questi che fanno partire le macchine… di modellismo,.. un telecomando lungo che so un trenta centimetri metallizzato, con due levette una a sinistra e una a destra, tanto è vero che mi pare che quella di destra l’aveva… c’era messo il… nastro- isolante come si chiama quello… comunque uno la fermata… uno l’ho neutralizzato, e una ci funzionava, e ho visto che so… c’è un’antenna un venticinque trenta centimetri».

L’ORDINE DI BRUSCA  Dopo quest’episodio, in una data che l’imputato ha collocato più o meno a circa dieci giorni prima della strage (quindi intorno al 10-13 maggio), mentre si trovava nella sua abitazione in paese, in via Del Fante, aveva ricevuto incarico da Giovanni Brusca di recarsi nella casa di contrada Rebottone perché lì doveva arrivare Giovanni Agrigento, uomo che lui sapeva essere molto vicino a Brusca nonché “capo famiglia” di San Cipirello, per portargli delle cose.

Nella sostanza l’Agrigento in quell’occasione – era di mattina intorno alle 10.30 11 e lui si era allontanato di nascosto dal suo posto di lavoro, il mattatoio di Altofonte – aveva portato con la sua Fiat Tipo bianca quattro sacchi da 50 kg di un materiale che a prima vista il Di Matteo aveva creduto fosse fertilizzante: «La sera mi pare GIOVANNI BRUSCA o la mattina, abbia detto dice: “domani mattina alle dieci devi andare in campagna che deve venire GIUSEPPE AGRIGENTO che ti deve portare delle cose”, “va bene”, l’indomani mi reco in campagna e viene AGRIGENTO con la TIPO BIANCA, e dentro la macchina sia dentro il cofano che dietro il sedile, c’aveva quattro sacchi di esplosivo, diciamo che erano quattro sacchi che per me era sale… dei sacchi verdi dove vendono il sale, questi sacchi da cinquanta chili… e allora li abbiamo presi e li abbiamo travasati in due bidoni di plastica, tanto è vero che quando lo abbiamo travasato mi faceva… mi bruciava il naso, dico: “ma che cosa è questa…” ci siamo messi fuori la casa, davanti dice…Siamo al magazzino…i sacchi erano legati con i lacci». Il travaso era stato fatto dai sacchi a due bidoni da cento kg, senza usare guanti di gomma. A giudizio dell’imputato quel travaso aveva un senso perché inizialmente si era pensato di collocare quei bidoni in una galleria, perché altrimenti , per il trasporto fino a Capaci, non ci sarebbe stato alcun bisogno di trasbordare l’esplosivo dai sacchi ai bidoni, anzi, nei sacchi del fertilizzante, in caso di fermo delle forze dell’ordine durante il tragitto, si sarebbero potuti meglio giustificare.

In effetti successivamente Di Matteo ha confermato il valore di tale intuizione, perché ha rilevato di aver appreso che l’attentato doveva avere luogo in una galleria subito dopo Capaci, ma che tale progetto era sfumato perché non era possibile vedere la posizione delle macchine per premere il telecomando. Di Matteo aveva notato che l’operazione di travaso, in esito alla quale si erano riempiti a pieno i due bidoni, faceva alzare della polvere: […]. I bidoni erano stati procurati entrambe da Gino La Barbera, che, sempre su incarico di Giovanni Brusca, li aveva portati in contrada Rebottone due giorni prima della venuta di Agrigento: trattavasi di bidoni di plastica appena comprati, di colore bianco con tappo a vite nero e manici bianchi.

Dopo il travaso i bidoni erano rimasti per uno o due giorni nel magazzino della casa di campagna, dopodichè erano stati caricati sul fuoristrada di La Barbera da lui, La Barbera e Gioè, che li avevano portati in via Del Fante, dove si trovavano ad aspettare Bagarella, Brusca e Rampulla.

Era seguito quindi un nuovo spostamento, nel pomeriggio, verso le 16-17, a Capaci, dove i presenti erano arrivati dopo 3/4 d’ora, a bordo di tre macchine: in particolare Bagarella e Gioè si erano mossi con la Renault Clio della sorella di Gioè; Di Matteo e La Barbera con la Jeep di quest’ultimo; Brusca e Rampulla sulla Y10.

E’ in quest’occasione che l’imputato aveva appreso che l’esplosivo doveva essere trasportato a Capaci. Il percorso effettuato si snodava da via del Fante e, attraverso lo scorrimento veloce fino a Sciacca, il gruppo si era diretto verso Palermo, ove aveva percorso il viale delle Scienze in direzione Punta Raisi fino allo svincolo di Capaci.

Lì era già arrivato Brusca, che era partito un po’ prima per fare da battistrada, che aveva guidato il corteo ad un casolare dove l’imputato non era mai stato e che aveva appreso essere di Troia: si trattava di un casolare tipo capanna, circondato sia a destra che a sinistra da ville, sia pur non limitrofe, e c’era, secondo il ricordo del Di Matteo, una giumenta rinchiusa in un recinto, distante circa 300 metri dal luogo della strage.

Avevano parcheggiato le auto non vicino alla casa, ma dal lato del recinto, per evitare che potessero essere notate, solo la Jeep Patrol era entrata nel cortile per agevolare l’operazione di scarico. In occasione dello scaricamento dei bidoni Di Matteo aveva avuto modo di conoscere Troia, che ha descritto con una persona alta, di carnagione scura, con il viso grosso; aveva notato altresì un altro uomo che non conosceva, “bassino magro e bruttino“, che però era in confidenza con Troia, e a loro volta con Brusca e Bagarella.

Durante le operazioni di scarico, aveva notato che Gioè e Bagarella portavano dentro casa dei detonatori, che avevano in macchina, avvolti in un foglio di giornale: «Io questi detonatori li ho visti quando siamo arrivati là sul casolare… che li avevano nella macchina GIOE’ e BAGARELLA, avvolti in un foglio di giornale. e poi li hanno appoggiati sul tavolo. i fili sono… ce n’è gialli, rossi, verdi. sono met… specie di metallo. placati in argento, così. Per… come un bossolo, che le posso dire… di un Kalshinikov, così, però metallizzato, di un bossolo parliamo lungo venti, venticinque centimetri, non lo so. , i fili partivano da una sola parte ..ed erano collegati al detonatore. ..li abbiamo appoggiati sopra il tavolo. GIOE’ l’aveva appoggiati. Tanto è vero che gli ha detto che c’erano due signori là che io ho conosciuto, questa era la prima volta che li vedevo, ha detto: “state attenti perché se qualcuno ne casca salta tutto per aria”. .. sono di metallo, sono come bossoletti, come quelli su per giù del Kalashinicov, più grandetti, non lo so. E ogni bossoletto di questi ci ha messo un filo».

Finito di scaricare i bidoni Di Matteo era tornato ad Altofonte. A questo punto, per quanto riguarda Di Matteo, può dirsi esaurita quella parte della narrazione relativa a quanto era accaduto in Altofonte. Testi tratti dalla sentenza della Corte d’Assise di Caltanissetta (Presidente Carmelo Zuccaro) A CURA DELL’ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA