15 gennaio 1993, fine della carriera criminale di TOTÒ U CURTU

 Arrestato SALVATORE RIINA

 

BIOGRAFIA WIKIWAND

MORI, DE CAPRIO, CASELLI e i misteri del covo

Luciano Liggio parla di Riina intervistato da Enzo Biagi 


Trascrizioni delle intercettazioni ambientali presso il carcere di Opera dei colloqui fra Salvatore Riina e Alberto Lorusso




Salvatore Riinadetto Totò u curto (Corleone16 novembre 1930 – Parma17 novembre 2017[1]), è stato un mafioso italiano, legato a Cosa Nostra e considerato il capo dell’organizzazione dal 1982 fino al suo arresto, avvenuto il 15 gennaio 1993. Secondo molti, fu il boss più potente, pericoloso e sanguinario di tutta Cosa Nostra in quegli anni. Veniva indicato anche con i soprannomi û curtu, per via della sua bassa statura, e La Belva, per indicare la sua ferocia sanguinaria Nato a Corleone in una famiglia di contadini il 16 novembre del 1930, nel settembre 1943 Riina perse il padre Giovanni e il fratello Francesco (di 7 anni) mentre, insieme al fratello Gaetano, stavano cercando di estrarre la polvere da sparo da una bomba inesplosa, rinvenuta tra le terre che curavano, per rivenderla insieme al metallo. Gaetano rimase ferito, mentre Totò rimase illeso[4]. In questi anni conobbe il mafiosoLuciano Liggio, con il quale intraprese il furto di covoni di grano e bestiame e che lo affiliò nella locale cosca mafiosa, di cui faceva parte anche lo zio paterno di Riina, Giacomo. A 19 anni Riina fu condannato a una pena di 12 anni, scontata parzialmente nel carcere dell’Ucciardone, per aver ucciso in una rissa un suo coetaneo[6], Domenico Di Matteo, venendo scarcerato nel 1956. Insieme a Liggio e alla sua banda, cominciò a occuparsi di macellazione clandestina di bestiame rubato nei terreni della società armentizia di contrada Piano di Scala. Nel 1958 Liggio eliminò il suo capo Michele Navarra e nei mesi successivi, insieme alla sua banda, di cui faceva parte anche Riina, scatenò un conflitto contro gli ex-uomini di Navarra, che furono in gran parte assassinati fino al 1963.

Riina venne però arrestato nel dicembre del 1963 a Torre di Gaffe (Ag) nella parte alta del paese, da una pattuglia di agenti di Polizia di cui faceva parte anche il commissario Angelo Mangano[8] il quale, nel 1964, parteciperà, sotto la direzione del tenente colonnello dei Carabinieri Ignazio Milillo, alla cattura di Luciano Liggio[9]. Riina, che aveva una carta d’identità rubata (dalla quale risultava essere “Giovanni Grande” da Caltanissetta) e una pistola non regolarmente dichiarata, tentò di scappare, ma venne catturato dalle forze dell’ordine. Fu riconosciuto dall’agente Biagio Melita. Tuttavia, dopo aver scontato alcuni anni di prigione nel carcere dell’Ucciardone (dove conobbe Gaspare Mutolo), fu assolto per insufficienza di prove nel processo svoltosi a Bari nel 1969. Dopo l’assoluzione, Riina si trasferì con Liggio a Bitonto, in provincia di Bari, ma il Tribunale di Palermo emise un’ordinanza di custodia precauzionale nei loro confronti. Riina tornò da solo a Corleone, dove venne arrestato e gli venne applicata la misura del soggiorno obbligato nella cittadina di San Giovanni in Persiceto (BO); scarcerato e munito di foglio di via obbligatorio, Riina non raggiunse mai il luogo di soggiorno obbligato e si rese irreperibile, dando inizio alla sua lunga latitanza.

Anni settanta e ottanta  Il 10 dicembre 1969 Riina fu tra gli esecutori della cosiddetta strage di Viale Lazio, che doveva punire il boss Michele Cavataio. Nel periodo successivo Riina sostituì spesso Liggio nel “triumvirato” provvisorio di cui faceva parte assieme ai boss Stefano Bontate e Gaetano Badalamenti, che aveva il compito di dirimere le dispute tra le varie cosche della provincia di Palermo. Riina e Liggio divennero i principali capi-elettori del loro compaesano Vito Ciancimino, il quale venne eletto sindaco di Palermo[; nel 1971 Riina fu esecutore materiale dell’omicidio del procuratore Pietro Scaglione e, nello stesso anno, partecipò ai sequestri a scopo di estorsione ordinati da Liggio a Palermo: furono rapiti Giovanni Porcorosso, figlio dell’industriale Giacomo, e il figlio del costruttore Francesco Vassallo, mentre nel 1972 Riina stesso ordinò il sequestro del costruttore Luciano Cassina, nel quale vennero implicati uomini della cosca di Carlo Calò: l’obiettivo principale di Riina non era solo quello di incassare il denaro del riscatto, ma anche quello di colpire Badalamenti e Bontate, che erano legati al padre dell’ostaggio, il conte Arturo Cassina, che aveva il monopolio della manutenzione della rete stradale, dell’illuminazione pubblica e della rete fognaria a Palermo Attraverso Liggio, Riina divenne “compare di anello” di Mico Tripodo, boss della ‘Ndranghetae si legò ai fratelli Nuvolettacamorristi napoletani affiliati a Cosa Nostra, con cui avviò un contrabbando di sigarette estere[. Nel 1974 Riina divenne il reggente della cosca di Corleone dopo l’arresto di Liggio e l’anno successivo fece sequestrare e uccidere Luigi Corleo, suocero di Nino Salvo, ricco e famoso esattore affiliato alla cosca di Salemi; il sequestro venne attuato per dare un duro colpo al prestigio di Badalamenti e di Bontate, i quali erano legati a Salvo e non riusciranno a ottenere né la liberazione dell’ostaggio, né la restituzione del corpo, anche se Riina negò con forza ogni coinvolgimento nel sequestro. Nel 1978 Riina ottenne l’espulsione di Badalamenti dalla Commissione, con l’accusa di aver ordinato l’uccisione di Francesco Madonia, capo della cosca di Vallelunga Pratameno (Caltanissetta) e strettamente legato ai Corleonesi; l’incarico di dirigere la “Commissione” passò a Michele Greco, che avallerà tutte le successive decisioni di Riina.. Per queste ragioni, Giuseppe Di Cristina, capo della cosca di Riesi legato a Bontate e Badalamenti, tentò di mettersi in contatto con i Carabinieri, accusando Riina e il suo luogotenente Bernardo Provenzano di essere responsabili di numerosi omicidi per conto di Liggio, all’epoca detenuto[18]; alcuni giorni dopo le sue confessioni, Di Cristina venne ucciso a Palermo, mentre qualche tempo dopo anche il suo associato Giuseppe Calderone, capo della Famiglia di Catania, finì assassinato dal suo luogotenente Nitto Santapaola, che si era accordato con Riina Nel 1981 Riina fece eliminare Giuseppe Panno, capo della cosca di Casteldaccia, strettamente legato a Bontate, il quale reagì organizzando un complotto per uccidere Riina, che però venne rivelato da Michele Greco[15]; Riina allora orchestrò l’assassinio di Bontate, avvalendosi anche del tradimento del fratello di quest’ultimo, Giovanni, e del suo capo-decina Pietro Lo Iacono. L’11 maggio 1981 venne ucciso anche il boss Salvatore Inzerillo, strettamente legato a Bontate. I due omicidi diedero inizio alla cosiddetta «seconda guerra di mafia» e, nei mesi successivi, nella provincia di Palermo, i boss dello schieramento che faceva capo a Riina uccisero oltre 200 mafiosi della fazione Bontate-Inzerillo-Badalamenti, mentre molti altri rimasero vittime della cosiddetta «lupara bianca».Il massacro continuò fino al 1982, quando si insediò una nuova “Commissione”, composta soltanto da capimandamento fedeli a Riina e guidata dallo stesso Riina. Il principale referente politico di Riina inizialmente fu Vito Ciancimino, il quale nel 1976 instaurò un rapporto di collaborazione con la corrente di Giulio Andreotti, in particolare con Salvo Lima, che sfociò poi in un formale inserimento in tale gruppo politico e nell’appoggio dato dai delegati vicini a Ciancimino alla corrente andreottiana in occasione dei congressi nazionali della Democrazia Cristiana svoltisi nel 1980 e nel 1983[24]. Per proteggere gli interessi di Ciancimino, Riina propose alla “Commissione” gli omicidi dei suoi avversari politici: il 9 marzo 1979 fu ucciso Michele Reina, segretario provinciale della Democrazia Cristiana che era entrato in contrasto con costruttori legati a Ciancimino; il 6 gennaio 1980 venne eliminato Piersanti Mattarella, presidente della Regione che contrastava Ciancimino per un suo rientro nel partito con incarichi direttivi; il 30 aprile 1982 venne trucidato Pio La Torre, segretario regionale del PCI che aveva più volte indicato pubblicamente Ciancimino come personaggio legato a Cosa Nostra. Dopo l’inizio della seconda guerra di mafia, i cugini Ignazio e Nino Salvo, ricchi e famosi esattori affiliati alla cosca di Salemi, passarono dalla parte dello schieramento dei Corleonesi, che faceva capo proprio a Riina, e furono incaricati di curare le relazioni con Salvo Lima, che divenne il nuovo referente politico di Riina, soprattutto per cercare di ottenere una favorevole soluzione di vicende processuali; infatti, sempre secondo i collaboratori di giustizia, Lima si sarebbe attivato per modificare in Cassazione la sentenza del Maxiprocesso di Palermo che condannava Riina e molti altri boss all’ergastolo[28]. In particolare, il collaboratore Baldassare Di Maggio riferì che nel 1987 accompagnò Riina nella casa di Ignazio Salvo a Palermo, dove avrebbe incontrato Lima e il suo capocorrente Giulio Andreotti per sollecitare il loro intervento sulla sentenza; la testimonianza dell’incontro venne però considerata inattendibile nella sentenza del processo contro Andreotti.

Anni novanta Tuttavia il 30 gennaio 1992 la Cassazione confermò gli ergastoli del Maxiprocesso e sancì l’attendibilità delle dichiarazioni rese dal pentito Tommaso Buscetta. Sempre secondo le testimonianze dei collaboratori di giustizia, Riina decise allora di lanciare un avvertimento ad Andreotti, che si era disinteressato alla sentenza e anzi aveva firmato un decreto-legge che aveva fatto tornare in carcere gli imputati del Maxiprocesso scarcerati per decorrenza dei termini e quelli agli arresti domiciliariper queste ragioni il 12 marzo 1992 Lima venne ucciso alla vigilia delle elezioni politichee, alcuni mesi dopo, la stessa sorte toccò a Ignazio Salvo[34]. Le deposizioni dei collaboratori di giustizia (su tutti Tommaso Buscetta) scateneranno la ritorsione di Cosa Nostra su precisa indicazione di Totò Riina, il quale autorizzò i capofamiglia a eliminare i familiari dei pentiti “sino al 20º grado di parentela”[35], compresi i bambini e le donne. L’allora vicecomandante dei Ros, Mario Mori, incontrò nei primi giorni di giugno e nei mesi successivi Vito Ciancimino, proponendo una trattativa con Cosa Nostra per mettere fine alla lunga scia di stragi che insanguinavano Palermo. Mori si difese raccontando di avere avviato i contatti per tendere una trappola volta a stanare qualche latitante, ma Riina rispose con il Papello, un documento di richieste[38] per ammorbidire le condizioni dei detenuti, degli indagati, delle loro famiglie, la cancellazione della legge sui pentiti e la revisione del maxiprocesso. L’esistenza della trattativa tra lo Stato e Cosa Nostra è stata successivamente confermata da varie sentenze e dalle dichiarazioni di numerosi pentiti e di Uomini dello stato che per 20 anni avevano taciuto sulla trattativa. La stessa trattativa, secondo l’accusa, si sarebbe svolta per mezzo del papello che Riina avrebbe fatto avere al Ros dei carabinieri. Le richieste del boss Corleonese riguardavano il 41 bis, la chiusura delle carceri di Pianosa e Asinara e l’abolizione dell’ergastolo. Il 12 marzo 2012, poi, nella motivazione della sentenza del processo a Francesco Tagliavia per le stragi del 1992 – 1993, i giudici scrivono che la trattativa tra Stato e Cosa nostra “ci fu e venne quantomeno inizialmente impostata su un do ut des […] L’iniziativa fu assunta da rappresentanti dello Stato e non dagli uomini di mafia”. Il 15 gennaio del 1993 fu catturato dal CRIMOR (squadra speciale dei ROS guidata dal Capitano Ultimo Riina, latitante dal 1969, venne arrestato al primo incrocio davanti alla sua villa, in via Bernini n. 54, insieme al suo autista Salvatore Biondino[42], a Palermo. Nella villa aveva trascorso alcuni anni della sua latitanza, insieme alla moglie Antonietta Bagarella e ai suoi figli . L’arresto fu favorito dalle dichiarazioni rese nei giorni precedenti al generale dei carabinieri Francesco Delfino dall’ex autista di Riina, Baldassare (Balduccio) Di Maggio, che decise di collaborare per ritorsione verso Cosa Nostra, che lo aveva condannato a morte A partire dal dicembre 1995, Riina è stato rinchiuso nel supercarcere dell’Asinara, in Sardegna[46]. In seguito è stato trasferito al carcere di Marino del Tronto, ad Ascoli Piceno, dove, per circa tre anni, è stato sottoposto al carcere duro, previsto per chi commette reati di mafia (41-bis), ma il 12 marzo del 2001 gli viene revocato l’isolamento, consentendogli di fatto la possibilità di vedere altri detenuti nell’ora di libertà Proprio mentre era sottoposto a regime di 41-bis, il 24 maggio 1994, durante una pausa del processo di primo grado a Reggio Calabria per l’uccisione del giudice Antonino Scopelliti fu raggiunto da Michele Carlino, giornalista di un’agenzia video (Med Media News), al quale rilasciò dichiarazioni minacciose contro il procuratore Giancarlo Caselli e altri rappresentanti delle istituzioni, lamentandosi delle severe condizioni imposte dal carcere duro. L’intervento di Riina causò l’apertura di un provvedimento disciplinare da parte del Consiglio Superiore della Magistratura contro il pubblico ministero Salvatore Boemi, accusato di non aver vigilato sul detenuto.[48] Dopo pochi mesi dalle dichiarazioni del boss corleonese il regime di 41-bis (allora valido per soli tre anni, decorsi i quali decadeva la sua applicabilità) è stato rafforzato mediante vari interventi legislativi volti a renderlo prorogabile di anno in anno.

Anni 2000-2017  A metà marzo del 2003 subisce un intervento chirurgico per problemi cardiaci e nel maggio dello stesso anno viene ricoverato nell’ospedale di Ascoli Piceno per un infarto[49]. Sempre nel 2003, a settembre, viene nuovamente ricoverato per problemi cardiaci. Il 22 maggio 2004, nell’udienza del processo di Firenze per la strage di via dei Georgofili, accusa il coinvolgimento dei servizi segreti nelle stragi di Capaci e via d’Amelio, e riferisce dei contatti fra l’allora colonnello Mario Mori e Vito Ciancimino, attraverso il figlio di lui Massimo, al tempo non convocato in dibattimento. Trasferito nel carcere milanese di Opera, viene nuovamente ricoverato nel 2006, sempre per problemi cardiaci, all’ospedale San Paolo di Milano.. Nel 2017, gli avvocati di Riina fanno richiesta al Tribunale di sorveglianza di Bologna per il differimento della pena a detenzione domiciliare, sottoponendo come motivazione lo stato precario di salute dello stesso Riina. Il 19 luglio il Tribunale si pronuncia negativamente su questa istanza, spiegando che Riina “non potrebbe ricevere cure e assistenza migliori in altro reparto ospedaliero, ossia nel luogo in cui ha chiesto di fruire della detenzione domiciliare”. Dopo essere entrato in coma in seguito all’aggravarsi delle condizioni di salute, è morto alle ore 3:37 del 17 novembre 2017[53], il giorno successivo al suo ottantasettesimo compleanno, nel reparto detenuti dell’ospedale Maggiore di Parma. Nei giorni successivi è stato poi sepolto anch’egli, come Liggio e Provenzano, nel cimitero di Corleone.

Processi  Condanne

Assoluzioni


Il processo per la trattativa Stato-Mafia  Dal carcere di Opera, il 19 luglio 2009, nel ricorrerne l’anniversario, Riina espresse di nuovo la sua posizione secondo cui la strage di via D’Amelio sarebbe da imputare ad altri soggetti e non a lui, nello stesso periodo in cui Massimo Ciancimino annunciò che avrebbe consegnato ai magistrati il “papello”, una sola pagina a firma di Riina che conterrebbe le condizioni poste dalla mafia allo Stato.[72][73]. Tuttavia i legali di Riina smentirono che il loro assistito abbia partecipato a una trattativa fra Stato e mafia.[74] Il 24 luglio 2012 la Procura di Palermo, sotto Antonio Ingroia e in riferimento all’indagine sulla Trattativa Stato-Mafia, ha chiesto il rinvio a giudizio di Riina e altri 11 indagati accusati di “concorso esterno in associazione mafiosa” e “violenza o minaccia a corpo politico dello Stato”. Gli altri imputati sono i politici Calogero ManninoMarcello Dell’Utri, gli ufficiali Mario Mori e Giuseppe De Donno, i boss Giovanni BruscaLeoluca BagarellaAntonino Cinà e Bernardo Provenzano, il collaboratore di giustizia Massimo Ciancimino (anche “calunnia”) e l’ex ministro Nicola Mancino (“falsa testimonianza”).[75] Nel novembre 2013 trapela la notizia di minacce da parte di Riina nei confronti del magistrato Antonino Di Matteo, il pm che aveva retto l’accusa in numerosi procedimenti penali a suo carico[76], e degli altri magistrati che svolgevano il ruolo di pubblici ministeri nel processo sulla Trattativa: Roberto Tartaglia, Vittorio Teresi, Francesco Del Bene[77]. Il 4 marzo 2014 viene nuovamente ricoverato.[78] Il 31 agosto 2014 i giornali riferiscono che nel novembre dell’anno prima Riina avrebbe rivolto minacce anche nei confronti di Don Luigi Ciotti[79].

Vita privata Il 16 aprile 1974 Riina sposò, tramite un matrimonio che poi risulterà non valido legalmente[80], Antonietta Bagarella, sorella dell’amico d’infanzia Calogero e di Leoluca Bagarella. Dall’unione nacquero quattro figli: Maria Concetta (19 dicembre 1974), Giovanni Francesco (21 febbraio 1976), Giuseppe Salvatore (3 maggio 1977) e Lucia (11 aprile 1980). Giovanni Francesco è stato condannato all’ergastolo per quattro omicidi avvenuti nell’anno 1995.

Giuseppe Salvatore è prima stato condannato per associazione mafiosa, quindi scarcerato il 29 febbraio 2008 per decorrenza dei termini dopo essere stato detenuto per otto anni[81]. Il 2 ottobre 2011, dopo aver scontato completamente la pena di 8 anni e 10 mesi, viene nuovamente rilasciato sotto prevenzione con obbligo di dimora a Corleone[82] e comincia a trapelare la notizia di un suo piano per fare un attentato all’ex Ministro della Giustizia Angelino Alfano per via dell’inasprimento del regime dell’articolo 41-bis[83].

Note


IL GRANDE MISTERO DEL COVO

 

BOSS E REVISIONISMO LA NUOVA VERITA’ DOPO GLI ULTIMI ARRESTI. Guerra di mafia. Riscritta la storia del golpe di Riina «Furono i palermitani ad attaccare i corleonesi»  PALERMO. Il 29 dicembre del 2004 è una data che difficilmente gli uomini di Cosa nostra dimenticheranno. Quella «vigilia di festa», per dirla con le parole di Nino Rotolo (uno dei 45 boss finiti in carcere dopo essere stato intercettato per quasi due anni) rimarrà nella memoria collettiva della mafia. Da lì cominciarono i «mali discorsi» che contribuirono ad incrinare la pax mafiosa di Bernardo Provenzano. E da quei dialoghi, carpiti dalle microspie nascoste dentro il capannonne che consentiva a Rotolo di tenere assemblee pur essendo agli arresti domiciliari, gli investigatori sono risaliti ad una versione dell’origine della guerra di mafia degli Ottanta inedita e diversa da quella accreditata nel maxiprocesso. Sono stati gli stessi uomini d’onore, ascoltati in «viva voce», a fare questa sorta di revisionismo storico che rivela come in realtà non furono i «corleonesi» a scatenare la faida che avrebbe provocato più di mille morti. L’involontaria «confessione» fa parte della lunga e intricatissima diatriba sorta dentro Cosa nostra in seguito al ritorno a Palermo di alcuni esponenti della «famiglia» Inzerillo, a sua tempo «condannati» all’esilio negli Stati Uniti ed «avvertiti» che mai avrebbero dovuto rimettere piede in Italia. Ma il 29 dicembre del 2004, diviene ufficiale la notizia che è tornato a Palermo, Rosario Inzerillo, fratello di «Totuccio», il capomandamento della borgata di Passo di Rigano ucciso dai «corleonesi» il 10 maggio 1981. Rosario è uno di quelli a suo tempo «esiliati» e il suo ritorno finirà per rappresentare un «serio problema» per i fragili equilibri di Cosa nostra, tenuti da Bernardo Provenzano attraverso il sistema di comunicazione dei pizzini.

Il dollaro in bocca La storia va raccontata dall’inizio. Quando fu assassinato Totuccio, il capo della «famiglia», gli Inzerillo rappresentavano forse il clan più potente di Palermo, anche per via dell’amicizia coi Gambino di New York, coi quali esistevano forti vincoli di parentela. Sedici giorni dopo Totuccio, sparì nel nulla il fratello Santo; sei mesi dopo toccò a Pietro. L’onorabilità del giovane – strangolato con le corde di un pianoforte – era «sfregiata» da un biglietto di un dollaro ficcato in bocca. Come a voler dire: sei un uomo che vale poco. Ma anche Cosa nostra ha un codice deontologico e così la Commissione decretò che non si potevano ammazzare tutti gli Inzerillo. Si decise, perciò, di «salvargli la vita» imponendo loro di restarsene negli Usa col divieto assoluto di tornare a Palermo. Nasceva così la categoria dei cosiddetti «scappati». Una decisione che 25 anni dopo veniva posta in discussione dal rientro di «Sarino» e, in verità, da un altro precedente: l’arrivo (nel 1997) di Franco Inzerillo, espulso dagli Usa e, quindi, «esonerato» dall’ «esilio» per motivi di forza maggiore. E non è tutto: ad aggravare la situazione interveniva la scarcerazione di Tommaso Inzerillo e la riapparizione di vecchi «scappati» come Salvatore Di Maio, sottocapo della famiglia della Noce. E’ a quel punto che nasce il problema del ritorno degli «scappati», non di secondaria importanza, a giudicare dalla verve con cui Nino Rotolo si fa promotore di una campagna per la cacciata degli «scappati». Fino a entrare in rotta di collisione con l’altro capo, Salvatore Lo Piccolo, e ad incrinare i rapporti con lo stesso Provenzano, più volte chiamato in causa perchè risolva il problema. Ma don Binu prima tergiversa: «Ormai di quelli che hanno deciso queste cose non c’è più nessuno», scrive Provenzano. E diplomaticamente sentenzia: «A decidere siamo rimasti io, tu e Lo Piccolo». Insomma, il solito Provenzano che prende tempo, adombra l’ipotesi del perdono per gli «scappati» e dichiara incredibilmente: «Fatemi sapere quali sono gli impegni precedenti, perchè io non li so». Chiara e netta, invece, l’avversione di Rotolo per Lo Piccolo e per «tutta la razza degli scappati»: «…perchè la decisione è questa, il programma è questo, per tutti uguale, cioè, per gli scappati… ci sarà questo programma , per loro c’era uno stabilito “se ne stanno in America… si devono rivolgere a Sarino, se vengono in Italia li ammazziamo tutti…». Sarino sarebbe Rosario Naimo, il «tutore degli scappati», l’uomo a suo tempo investito dell’incarico di far rispettare il decreto della Commissione. E per convincere gli altri uomini d’onore a non dare ascolto a Lo Piccolo, fautore del rientro degli Inzerillo, Rotolo racconta che Franco Inzerillo ha già tentato di ucciderlo. La tensione si stempererà dopo un incontro fra Lo Piccolo e Nino Cinà, alleato di Rotolo. Entrambi scriveranno a Provenzano di un «avvenuto chiarimento». Ma tra un discorso e l’altro, Rotolo dà la sua versione della guerra di mafia degli Ottanta. Il boss la racconta ad un nipote di Totuccio Inzerillo. «Tu sei nipote di Totuccio Inzerillo – dice Rotolo ad Alessandro Mannino – il quale Totuccio Inzerillo ed altri, senza ragione, senza ragione alcuna, sono venuti a cercarci per ammazzarci, ma nessuno gli aveva fatto niente. Ci hanno cercato e ci han- no trovato! Non siamo stati noi a cercarli! E si è creata questa si- tuazione di lutti e di carceri e la resposnabilità è di tuo zio e compagni, se ci sono morti e ci sono carcerati! Quindi io ti dico che non c’è differenza tra voi che ave- te i morti e fra famiglie che hanno la gente in galera per sempre, perchè sono morti vivi o sono pu- re morti». Altro che Corleonesi cattivi che infieriscono sulla mafia palermitana «buona», altro che «colpo di stato» di Riina. A sentire Rotolo fu «legittima difesa», contro un gruppo (Bontade/Inzerillo) assetato di soldi e potere. ARCHIVIO 900


Mafia. “Papà li scannò tutti”, così parlava Riina jr prima di scrivere libri  Le frasi non dette in tv dal figlio del capo dei capi. Nelle intercettazioni esaltava la ferocia della cosca, di quelli che definiva “uomini che hanno fatto la storia della Sicilia”. “Ci fu una stagione di vampe, 65 morti in una sola estate”. “Io vengo dalla scuola di Corleone”, dice nella premessa. “Oh, mio padre di Corleone è, mia madre di Corleone, che scuola posso avere?”. E inizia il suo lungo racconto: “Di uomini che hanno fatto la storia della Sicilia… linea dura, ne pagano le conseguenze, però sono stati uomini, alla fin fine. E io… sulla mia pelle brucia ancora di più”. Eccole, le vere parole di Giuseppe Salvatore Riina detto Salvo, il figlio del capo di Cosa nostra. Le parole che si è ben guardato dal pronunciare a Porta a Porta durante l’intervista con Bruno Vespa, le parole che non ha scritto nel suo libro. Le vere parole di Salvo Riina sono in un altro libro, conservato negli archivi polverosi del palazzo di giustizia di Palermo. Si trova in cima a uno scaffale, “Riina + 23” è scritto sulla copertina, di certo titolo meno accattivante di quello dato dalle edizioni “Anordest”. Ma è in queste 1.129 pagine che ci sono le parole autentiche del giovane Riina, le parole che pronunciò dal 2000 al 2002, quando non sospettava di essere intercettato (a casa e in auto) dalla squadra mobile su ordine del pm Maurizio de Lucia, e parlava in libertà mentre organizzava la sua cosca.

L’INIZIO DELLA GUERRA  Capitolo uno: “Totuccio si fumò a tutti, li scannò”. Ovvero, la guerra di mafia. Non poteva che iniziare con le gesta criminali di suo padre, Totuccio Riina. Perché quelle parole che proponeva ogni giorno ai giovani adepti del suo clan erano delle vere e proprie lezioni di mafia. E la storia bisogna conoscerla. Salvo Riina la conosce alla perfezione, nonostante in tv abbia recitato tutt’altra parte. Racconta: “C’era quel cornuto, Di Cristina, che era malantrinu e spiuni … era uno della Cupola, un pezzo storico alleato di quelli, i Badalamenti, minchia, Totuccio si fumò a tutti, li scannò”. Correva il 1978: così partì la guerra di mafia scatenata dai corleonesi, era l’inizio della loro inarrestabile ascesa. L’inizio della carneficina. “E chi doveva vincere? – dice Salvo Riina – in Sicilia, in tutta l’Italia chi sono quelli che hanno vinto sempre? I corleonesi. E allora, chi doveva vincere?”.

I RIBELLI  È davvero un libro istruttivo quello che nessun editore ha ancora pubblicato, conservato nei sotterranei del palazzo di giustizia di Palermo. Riina junior racconta la verità anche su un’altra guerra di mafia, quella del 1990, quella scatenata contro gli stiddari, i ribelli di Cosa nostra. Capitolo due. “Quando gli hanno sminchiato le corna agli stiddari che c’erano in tutta la Sicilia”. Da Gela a Marsala, da Riesi a Palma di Montechiaro, un racconto terribile. “Ci fu un’estate di vampe – spiega il giovane boss con grande naturalezza – Ferro e fuoco. Qualche sessantacinque morti ci furono qua, solo in un’estate”. E giù con il suo racconto sugli stiddari: “Che razza – dice – qua ci vuole il revolver sempre messo dietro, ma non il revolver quello normale, qua ci vuole il 357, che con ogni revolverata ci ‘a scippari u craniu“. Totò Riina ordinò un vero e proprio sterminio. Anche questo racconta il figlio: “Ci fu un’estate che le revolverate… non si sapeva più chi le doveva ammazzare prima le persone”. E ancora: “Minchia, appena ne sono morti due di quello, partiamo, tre morti di quell’altro… Appena gli hanno ammazzato a quelli tre, gliene andavano ad ammazzare altri cinque. Pure a Marsala gli ha dato vastunate … era una fazione di boss perdenti… si erano messi in testa che loro dovevano rivoltare il mondo”.
BUSINESS E STRAGI  Capitolo quattro: “I piccioli”: “Se tu pensi quello che ha fatto mio padre di pizzo, oggi noialtri neanche possiamo fare l’uno per cento. Capitolo cinque: “I cornuti”, ovvero i collaboratori di giustizia. “Quando arriva un cornuto di questi e ci leva tutto il benessere, ci fa sequestrare beni immobili, materie prime e soldi”. Capitolo sei, il cuore del libro: “Le stragi Falcone e Borsellino”. “Un colonnello deve sempre decidere lui e avere sempre la responsabilità lui. Deve pigliare una decisione, e la decisione fu quella: “Abbattiamoli” E sono stati abbattuti”.
RITRATTO DI FAMIGLIA  Ma non è solo un libro di sangue e complotti quello che il giovane Riina ha inconsapevolmente scritto, firmando la sua condanna a 8 anni per associazione mafiosa. Ci sono anche i dialoghi in famiglia, pure questi ben lontani dalla descrizione proposta a Porta a Porta. È il capitolo finale di questo libro verità: la scena è ambientata nella sala colloqui del carcere dov’è detenuto il primogenito di casa Riina, Gianni. Sei dicembre 2000. Ninetta Bagarella si rivolge ai figli maschi: “Siete stati sempre catu e corda… ma quello che ti tirava era sempre Gianni”. E Salvo: “Papà diceva che lui era il più…”. La mamma chiosa: “Il più agguerrito”. E non a caso il quarantenne Gianni Riina è già all’ergastolo da vent’anni, condannato per quattro omicidi. “Tu facevi il trend “, dice Salvo al fratello. E la sorella Maria Concetta corregge: “Il trainer, non il trend“. Gianni ricorda una frase del padre: “Una volta mi ha detto una cosa che non ho mai dimenticato: “Tu hai sempre ragione per me, perciò, quale problema c’è””. Quella era un’investitura. Che anche Salvo Riina rivendicava: “Vedi che io vengo dalla scuola corleonese”. E la madre certificò: “Sangue puro”.   
di SALVO PALAZZOLO15 aprile 2016 La Repubblica


 Capo della mafia siciliana , noto per una campagna di omicidio spietato che ha raggiunto un picco nei primi anni 1990 con l’assassinio di Antimafia della Commissione procuratori Giovanni Falcone e Paolo Borsellino , con conseguente protesta pubblica diffusa e un importante giro di vite da parte delle autorità. Era anche conosciuto con i soprannomi la belva(“la bestia”) e il capo dei capi (siciliano: ‘u capu di’ i capi , “il capo dei capi”). Riina succedette a Luciano Leggio come capo dell’organizzazione criminale Corleonesi a metà degli anni ’70 e raggiunse il dominio attraverso una campagna di violenza, che spinse la polizia a prendere di mira i suoi rivali. Riina era un fuggitivo dalla fine degli anni ’60 dopo essere stato incriminato con l’accusa di omicidio. Era meno vulnerabile alla reazione delle forze dell’ordine ai suoi metodi, poiché la polizia ha rimosso molti dei capi stabiliti che tradizionalmente avevano cercato influenza attraverso la corruzione . In violazione dei codici mafiosi stabiliti, Riina ha sostenuto l’uccisione di donne e bambini e ha ucciso persone irreprensibili del pubblico solo per distrarre le forze dell’ordine. [1] Il sicario Giovanni Bruscastima che abbia ucciso tra le 100 e le 200 persone per conto di Riina. Sebbene questa politica della terra bruciata neutralizzasse qualsiasi minaccia interna alla posizione di Riina, mostrò sempre più una mancanza della sua precedente astuzia portando la sua organizzazione a un confronto aperto con lo stato. Nell’ambito del Maxi Processo del 1986, Riina è stata condannata all’ergastolo in contumacia per associazione mafiosa e omicidio multiplo. Dopo 23 anni di latitanza, è stato catturato nel 1993, provocando una serie di bombardamenti indiscriminati di gallerie d’arte e chiese da parte della sua organizzazione. La sua mancanza di pentimento lo ha sottoposto al rigido regime carcerario ex articolo 41-bis fino alla sua morte, avvenuta il 17 novembre 2017.

Primi anni di vita e carriera Riina è nata il 16 novembre 1930 e cresciuta in una misera casa di campagna a Corleone , nell’allora provincia di Palermo . Nel settembre 1943 suo padre Giovanni trovò una bomba inesplosa; suo padre tentò di aprirlo per vendere la polvere e il metallo, ma così facendo lo fece esplodere, uccidendo se stesso e il fratello di sette anni di Riina, Francesco, mentre feriva l’altro fratello Gaetano. [2] All’età di 19 anni Riina fu condannata a 12 anni di reclusione per aver ucciso Domenico Di Matteo in una rissa; fu rilasciato nel 1956. [3] Il capo della famiglia mafiosa a Corleone era Michele Navarra fino al 1958, quando fu ucciso a colpi d’arma da fuoco per ordine di Luciano Leggio , uno spietato mafioso di 33 anni, divenuto poi il nuovo capo . Insieme a Riina, Calogero Bagarella e Bernardo Provenzano (che erano tre degli uomini armati nell’uccisione di Navarra), Leggio iniziò ad aumentare il potere dei Corleonesi . [4] All’inizio degli anni ’60, Leggio, Riina e Provenzano, che avevano passato gli anni precedenti a dare la caccia e ad uccidere dozzine di sostenitori sopravvissuti della Navarra, furono costretti a nascondersi a causa di mandati di cattura. Riina e Leggio furono arrestati e processati nel 1969 per omicidi commessi all’inizio di quel decennio. Sono stati assolti per intimidazione di giurati e testimoni. Riina si è nascosto più tardi quell’anno dopo essere stato incriminato per un’ulteriore accusa di omicidio e sarebbe rimasto un latitante per i successivi 23 anni. [5] Nel 1974, Leggio fu catturato e imprigionato per l’omicidio del 1958 di Navarra. Sebbene Leggio conservasse una certa influenza da dietro le sbarre, Riina era ora il capo effettivo dei Corleonesi. [6] Aveva anche stretti rapporti con la ‘Ndrangheta , l’associazione di stampo mafioso calabrese . Il suo “compare d’anello” (una specie di testimone e amico fidato, tipico della tradizione dell’Italia meridionale ) al suo matrimonio nel 1974 fu Domenico Tripodo , potente boss della ‘ndrangheta e prolifico contrabbandiere di sigarette. [7]I principali rivali dei Corleonesi furono Stefano Bontade , Salvatore Inzerillo e Tano Badalamenti , capi di varie potenti famiglie mafiose palermitane. Tra il 1981 e il 1983, la seconda guerra di mafia fu istigata da Riina, e Bontade e Inzerillo, insieme a molti associati e membri delle loro famiglie mafiose e di sangue, furono uccisi. Ci furono fino a un migliaio di uccisioni durante questo periodo quando Riina e i Corleonesi, insieme ai loro alleati, spazzarono via i loro rivali. Alla fine della guerra, i Corleonesi stavano effettivamente governando la mafia, e negli anni successivi Riina aumentò la sua influenza eliminando gli alleati dei Corleonesi, come Filippo Marchese , Giuseppe Greco eRosario Riccobono . Nel febbraio 1980, Tommaso Buscetta era fuggito in Brasile per sfuggire alla seconda guerra di mafia. [8]

Leadership mafiosa Accuse di influenza politica Prima che la fazione di Riina diventasse la forza dominante dell’isola, la mafia siciliana aveva sede a Palermo, dove controllava un gran numero di voti, consentendo rapporti reciprocamente vantaggiosi con figure politiche locali come i sindaci di Palermo Vito Ciancimino e Salvatore Lima . Ciancimino, che era nato a Corleone, permise corrottamente lo sviluppo immobiliare senza ostacoli nella famosa valle conosciuta come ” Conca d’Oro “, accumulando una grande fortuna nel processo. Lima ha concesso un monopolio concessione preziose su riscossione delle imposte per mafia imprenditore Ignazio Salvo , e fu determinante per Roma -based Giulio Andreottidiventare una forza nella politica nazionale. A sua volta, Salvo ha fatto da finanziere ad Andreotti. [9] Questi legami fecero sospettare che Riina avesse stretto legami simili con Andreotti, sebbene i tribunali avessero assolto Andreotti da legami con la mafia dopo il 1980. [10] Baldassare Di Maggio affermò che Riina aveva incontrato l’allora presidente del Consiglio Andreotti a casa di Salvo e lo salutò. con un “bacio d’onore” [11] [12] [13] Andreotti ha liquidato le accuse a suo carico come “menzogne ​​e calunnie … il bacio di Riina, vertici mafiosi … scene di un film horror comico”. [11] Il giornalista veterano Indro Montanelli dubitava di questa affermazione, dicendo che Andreotti “non bacia nemmeno i suoi figli”. [14]La credibilità di Di Maggio era stata scossa nelle ultime settimane del processo Andreotti, quando ammise di aver ucciso un uomo mentre era sotto protezione statale. [15] I giudici della corte d’appello hanno respinto la testimonianza di Di Maggio. [16] [17] Mentre i suoi predecessori avevano mantenuto un basso profilo, portando alcuni nelle forze dell’ordine a mettere in dubbio l’esistenza stessa della mafia, Riina ha ordinato l’omicidio di giudici, poliziotti e pubblici ministeri nel tentativo di terrorizzare le autorità. Una legge per creare un nuovo reato di associazione mafiosa e confiscare i beni mafiosi era stata introdotta da Pio La Torre , segretario del Partito Comunista Italiano in Sicilia, ma era ferma in parlamento da due anni. La Torre fu assassinato il 30 aprile 1982. Nel maggio 1982 il governo italiano inviò Carlo Alberto Dalla Chiesa , generale dei Carabinieri italiani, in Sicilia con l’ordine di schiacciare la mafia. Tuttavia, non molto tempo dopo il suo arrivo, il 3 settembre 1982, fu ucciso a colpi di arma da fuoco nel centro della città con la moglie, Emanuela Setti Carraro , e la sua guardia del corpo, l’autista Domenico Russo. In risposta alle inquietudini dell’opinione pubblica per il fallimento nel combattere efficacemente l’organizzazione diretta da Riina, la legge La Torre è stata approvata dieci giorni dopo. [12] [18] L’11 settembre 1982 i due figli di Buscetta della prima moglie, Benedetto e Antonio, scomparvero, per non essere più ritrovati , cosa che spinse la sua collaborazione con le autorità italiane. [19]Seguirono la morte del fratello Vincenzo, del genero Giuseppe Genova, del cognato Pietro e di quattro nipoti, Domenico e Benedetto Buscetta, e di Orazio e Antonio D’Amico. [20] [21] Buscetta fu nuovamente arrestato a San Paolo , in Brasile, il 23 ottobre 1983, ed estradato in Italia il 28 giugno 1984. [22] [23] [24] Buscetta chiese di parlare con il giudice antimafia Giovanni Falcone , e iniziò la sua vita come informatore, denominato pentito . [25]

Massacro di Natale Buscetta è stato il primo mafioso siciliano di alto profilo a diventare un informatore; ha rivelato che la mafia era un’unica organizzazione guidata da una Commissione , o Cupola (Cupola), stabilendo così che i massimi membri della mafia erano complici di tutti i crimini dell’organizzazione. [26] Buscetta ha aiutato i giudici Falcone e Paolo Borsellino a raggiungere un successo significativo nella lotta alla criminalità organizzata che ha portato a incriminare 475 mafiosi e 338 condannati nel Maxi Processo . [27] Nel tentativo di distogliere le risorse investigative dalle rivelazioni chiave di Buscetta, Riina ordinò un’atrocità in stile terroristico, il 23 dicembre 1984 l’ attentato al treno 904 ; 17 persone sono state uccise e 267 ferite. Divenne noto come “Strage di Natale” (Strage di Natale) e inizialmente fu attribuito a estremisti politici. Fu solo diversi anni dopo, quando la polizia incappò in esplosivi dello stesso tipo di quelli usati nel treno 904 mentre perquisiva il nascondiglio di Giuseppe Calò , che divenne evidente che dietro l’attacco c’era la mafia. [28]

Assassinio di Falcone e Borsellino  Nell’ambito del Maxi Processo, Riina ha ricevuto due ergastoli in contumacia . [27] Riina riponeva le sue speranze sul lungo processo d’appello che aveva spesso liberato i mafiosi condannati, e sospese la campagna di omicidi contro i funzionari mentre i casi andavano ai tribunali superiori. Quando le condanne furono confermate dalla Suprema Corte di Cassazione nel gennaio 1992, [29] [30] il consiglio dei massimi vertici capeggiato da Riina reagì ordinando l’assassinio di Salvatore Lima (adducendo che era un alleato di Giulio Andreotti) e Giovanni Falcone. Il 23 maggio del 1992, Falcone, la moglie Francesca Morvillo e tre agenti di polizia è morto nel Capaci bombardamento sulla autostrada A29 da Palermo. [31] Due mesi dopo, Borsellino fu ucciso insieme a cinque agenti di polizia all’ingresso del condominio di sua madre da un’autobomba in via D’Amelio . [32] Entrambi gli attacchi furono ordinati da Riina. [33] Ignazio Salvo, che aveva sconsigliato Riina di uccidere Falcone, fu egli stesso assassinato il 17 settembre 1992. L’opinione pubblica era indignata, sia contro la mafia che contro i politici che ritenevano non fossero riusciti a proteggere adeguatamente Falcone e Borsellino. Il governo italiano ha organizzato una massiccia repressione contro la mafia in risposta.

Reclami di trattative con il governo  Giovanni Brusca in seguito affermò che Riina gli aveva detto che dopo l’assassinio di Falcone, Riina era in trattativa con il governo. L’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino ha detto che questo non era vero. [34] Nel luglio 2012, Mancino è stato condannato a un processo con l’accusa di aver negato le prove sui presunti colloqui del 1992 tra lo Stato italiano e la mafia. [35] Alcuni pubblici ministeri hanno teorizzato che l’omicidio di Borsellino fosse collegato alle presunte trattative. [36] Nel 1992 il colonnello dei Carabinieri Mario Mori incontrò Vito Ciancimino, che era vicino al luogotenente di Riina Bernardo Provenzano. Mori è stato successivamente indagato perché sospettato di rappresentare un pericolo per lo Stato dopo che è stato affermato che aveva preso un elenco delle richieste di Riina che Ciancimino aveva trasmesso. Mori mantenne i suoi contatti con Ciancimino finalizzati alla lotta alla mafia e alla cattura di Riina, e non c’era stata la lista. Mori ha anche detto che Ciancimino aveva rivelato poco oltre ad ammettere implicitamente di conoscere membri della mafia e che gli incontri chiave erano stati dopo la morte di Borsellino. [37]

Catturare Riina ha rimproverato Balduccio Di Maggio , un mafioso ambizioso che aveva lasciato moglie e figli per un’amante, dicendogli che non sarebbe mai stato nominato capo a pieno titolo. Sapendo che Riina avrebbe ordinato la morte di subordinati che considerava inaffidabili, Di Maggio fuggì dalla Sicilia e collaborò con le autorità. All’ingresso di un complesso di ville dove abitava un ricco uomo d’affari che fungeva da autista di Riina, Di Maggio identificò la moglie di Riina. Il 15 gennaio 1993 i Carabinieri hanno arrestato Riina nella sua villa di Palermo. Era un fuggitivo da 23 anni. [5] [38] [39]

Attacchi terroristici  Dopo che Riina fu catturata nel gennaio 1993, furono ordinati numerosi attacchi terroristici come monito ai suoi membri di non consegnare i testimoni dello stato , ma anche in risposta all’annullamento del regime carcerario dell’articolo 41-bis . [40] Il 14 maggio 1993, il conduttore televisivo Maurizio Costanzo , che aveva espresso gioia per l’arresto di Riina, fu quasi ucciso da una bomba mentre percorreva una strada di Roma; 23 persone sono rimaste ferite. L’esplosione faceva parte di una serie. Meno di due settimane dopo, il 27 maggio, una bomba sotto la Torre dei Pulci di Firenze ha ucciso cinque persone: Fabrizio Nencini e sua moglie Angelamaria; le loro figlie, Nadia di nove anni e Caterina di due mesi; e Dario Capolicchio, 20 anni. Trentatré persone sono rimaste ferite. [40] Gli attacchi a gallerie d’arte e chiese provocarono dieci morti e molti feriti, provocando indignazione tra gli italiani. Alcuni investigatori credevano che la maggior parte di coloro che hanno compiuto omicidi per Cosa Nostra rispondesse esclusivamente a Leoluca Bagarella , e che di conseguenza Bagarella esercitasse effettivamente più potere di Bernardo Provenzano, che era il successore formale di Riina. Provenzano avrebbe protestato per gli attacchi terroristici, ma Bagarella ha risposto sarcasticamente, dicendo a Provenzano di indossare un cartello che diceva “Non ho niente a che fare con i massacri”. [41] Giovanni Brusca – uno dei sicari di Riina che fece esplodere personalmente la bomba che uccise Falcone, e poi divenne un informatore dopo il suo arresto nel 1996 – ha offerto una versione controversa della cattura di Totò Riina: un accordo segreto tra carabinieri, agenti segreti e Cosa Nostra padroni stanchi della dittatura dei Corleonesi. Secondo Brusca, Bernardo Provenzano “vendette” Riina in cambio del prezioso archivio di materiale compromettente che Riina teneva nel suo appartamento di via Bernini 52 a Palermo. [42] [43] Il ROS ( Raggruppamento Operativo Speciale ) dei Carabinieri ha convinto la Procura di Palermo a non perquisire immediatamente l’appartamento di Riina, per poi abbandonare la sorveglianza dell’appartamento dopo sei ore lasciandolo non protetto. L’appartamento è stato perquisito solo 18 giorni dopo, ma è stato completamente svuotato. Secondo i Comandanti dei Carabinieri la casa è stata abbandonata perché non la ritenevano importante e anzi non hanno mai detto alla Procura di essere disponibile a mantenere la sorveglianza nei giorni successivi. [44] Questa versione di arresto di Riina è stato negato dai carabinieri comandante, generale Mario Mori  [ it ] (al vice capo ora del ROS). Mori, invece, ha confermato l’apertura dei canali di comunicazione con Cosa Nostra tramite Vito Ciancimino – ex sindaco di Palermo condannato per associazione mafiosa – vicino ai Corleonesi. Per sondare la disponibilità dei mafiosi a parlare, Ciancimino ha contattato il medico privato di Riina, Antonino Cinà  [ it ]. Quando Ciancimino è stato informato che l’obiettivo era arrestare Riina, non sembrava intenzionato a continuare. A questo punto l’arresto e la collaborazione di Balduccio Di Maggio hanno portato all’arresto di Riina. Nel 2006 il Tribunale di Palermo ha assolto Mario Mori e il Capitano “Ultimo” (Sergio De Caprio  [ it ] ) – l’uomo che ha arrestato Riina – dall’accusa di favoreggiamento e favoreggiamento cosciente alla mafia. [45] Secondo una nota dell’FBI rivelata nel 2007, i leader delle Cinque Famiglie votarono alla fine del 1986 sull’opportunità di emettere un contratto per la morte dell’allora procuratore degli Stati Uniti per il distretto meridionale di New York Rudy Giuliani . [46] I capi delle famiglie Lucchese , Bonanno e Genovese rifiutarono l’idea, sebbene i leader di Colombo e Gambino , Carmine Persico e John Gotti , incoraggiassero l’assassinio. [47] [48] Nel 2014, è stato rivelato dall’ex membro e informatore della mafia siciliana ,Rosario Naimo , che Riina aveva ordinato un contratto di omicidio su Giuliani durante la metà degli anni ’80. Riina presumibilmente sospettava degli sforzi di Giuliani nel perseguire la mafia americana ed era preoccupato che avrebbe potuto parlare con pubblici ministeri e politici italiani antimafia, tra cui Giovanni Falcone e Paolo Borsellino , entrambi assassinati nel 1992 in autobombe separate. [49] [50] Secondo Giuliani, la mafia siciliana ha offerto $ 800.000 per la sua morte durante il suo primo anno come sindaco di New York nel 1994. [51] [52] Nel novembre 2009, Massimo Ciancimino  [ it ] – il figlio di Vito Ciancimino – disse che Provenzano aveva tradito il luogo in cui si trovava Riina. La polizia ha inviato le mappe di Palermo a Vito Ciancimino. Uno di questi fu consegnato a Provenzano, allora latitante mafioso. Ciancimino ha detto che la mappa è stata restituita da Provenzano, che ha indicato la posizione precisa del nascondiglio di Riina. [53] [54]

Prigione Riina è stato detenuto in un carcere di massima sicurezza a Parma con contatti limitati con il mondo esterno per impedirgli di dirigere la sua organizzazione da dietro le sbarre. Oltre 125 milioni di dollari in beni sono stati confiscati a Riina e la sua vasta villa è stata acquisita anche dal sindaco crociato antimafia di Corleone nel 1997. La villa è stata successivamente trasformata in un ufficio di polizia e aperta nel 2015. [55]

In totale, Riina ha ricevuto 26 ergastoli [56] e ha scontato la pena in isolamento. [57] A metà marzo 2003 viene operato per problemi cardiaci e nel maggio dello stesso anno viene ricoverato in ospedale ad Ascoli Piceno per infarto. [58] Più tardi, quello stesso settembre, fu nuovamente ricoverato in ospedale per problemi cardiaci. [58] Nel 2006 è stato trasferito al carcere dell’Opera di Milano e, sempre per problemi cardiaci, è stato ricoverato all’ospedale San Paolo di Milano. [59] Il 4 marzo 2014 è stato nuovamente ricoverato in ospedale. [60] Il 31 agosto 2014 i giornali hanno riferito che nel novembre dell’anno precedente Riina stava minacciando anche contro Luigi Ciotti . [61] Nel 2017 gli avvocati di Riina hanno chiesto al Tribunale di Sorveglianza di Bologna il rinvio della pena agli arresti domiciliari , adducendo come motivazione il precario stato di salute di Riina. Il 19 luglio il Tribunale ha respinto questa richiesta. [62]

Elenco delle prove

  • Nel 1992 Riina è stata condannata in contumacia all’ergastolo insieme al Francesco Madonia , per l’omicidio del capitano della polizia Emanuele Basile . [63]
  • Nel 1993 è stato condannato all’ergastolo per aver ordinato gli omicidi del 1989 del boss Vincenzo Puccio e di suo fratello Pietro. [64]
  • Nel 1994 viene condannato all’ergastolo per l’omicidio di Pietro Buscetta, cognato del pentito Tommaso Buscetta . [65]
  • Nel 1995 viene condannato all’ergastolo per l’omicidio del tenente colonnello Giuseppe Russo, insieme a Bernardo Provenzano, Michele Greco e Leoluca Bagarella. [66]
  • Lo stesso anno viene condannato all’ergastolo per gli omicidi dei commissari Giuseppe Montana e Ninni Cassarà , insieme a Michele Greco, Bernardo Brusca, Francesco Madonia e Bernardo Provenzano. [66]
  • Lo stesso anno viene condannato all’ergastolo per gli omicidi di Piersanti Mattarella , Pio La Torre , Rosario di Salvo e Michele Reina, insieme a Michele Greco, Bernardo Brusca, Bernardo Provenzano, Giuseppe Calò , Francesco Madonia e Nenè Geraci . [66]
  • Nel 1995, nel processo per l’omicidio del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa , Boris Giuliano e Paolo Giaccone , Riina è stata condannata all’ergastolo insieme a Bernardo Provenzano, Giuseppe Calò, Bernardo Brusca, Francesco Madonia, Nenè Geraci e Francesco Spadaro. [67]
  • Nel 1996 viene nuovamente condannato all’ergastolo per l’omicidio del giudice Antonino Scopelliti insieme ai capi Giuseppe Calò, Francesco Madonia, Giuseppe Giacomo Gambino, Giuseppe Lucchese, Bernardo Brusca, Salvatore Montalto, Salvatore Buscemi, Nenè Geraci e Pietro Aglieri. [66]
  • Nel 1997, nel processo per l’ attentato a Capaci in cui persero la vita il giudice Giovanni Falcone , la moglie Francesca Morvillo e la loro scorta di Antonio Montinaro, Vito Schifani e Rocco Di Cillo, Riina fu condannata all’ergastolo insieme ai boss Bernardo Provenzano, Pietro Aglieri , Bernardo Brusca, Giuseppe Calò, Raffaele Ganci , Nenè Geraci, Benedetto Spera , Nitto Santapaola , Salvatore Montalto, Giuseppe Graviano , Matteo Motisi e Matteo Messina Denaro . [68] [69]
  • Lo stesso anno, nel processo per l’omicidio del giudice Cesare Terranova , Riina riceve l’ergastolo insieme a Michele Greco, Bernardo Brusca, Giuseppe Calò, Nenè Geraci, Francesco Madonia e Bernardo Provenzano. [70]
  • Nel 1998 è stato condannato all’ergastolo insieme al boss Mariano Agata per l’omicidio del giudice Giangiacomo Ciaccio Montalto. [71]
  • Lo stesso anno, nel processo per l’omicidio del politico Salvo Lima , viene condannato all’ergastolo insieme a Francesco Madonia, Bernardo Brusca, Giuseppe Calò, Giuseppe Graviano , Pietro Aglieri, Salvatore Montalto, Giuseppe Montalto, Salvatore Buscemi, Nenè Geraci , Raffaele Ganci, Giuseppe Farinella , Benedetto Spera , Antonino Giuffrè , Salvatore Biondino, Michelangelo La Barbera, Simone Scalici, mentre Salvatore Cancemi e Giovanni BruscaSono stati condannati a 18 anni di reclusione e i collaboratori del giudice Francesco Onorato e Giovan Battista Ferrante (che ha confessato il delitto) sono stati condannati a 13 anni come autori materiali dell’agguato. [72] [73] Nel 2003 la Cassazione ha annullato la condanna all’ergastolo per Pietro Aglieri, Giuseppe Farinella, Giuseppe Graviano e Benedetto Spera. [74] [75]
  • Nel 1999 è stato condannato all’ergastolo come mandante per la strage di Via D’Amelio , nella quale hanno perso la vita il giudice Paolo Borsellino e cinque suoi accompagnatori (Emanuela Loi, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina ), insieme a Pietro Aglieri , Salvatore Biondino, Carlo Greco, Giuseppe Graviano , Gaetano Scotto e Francesco Tagliavia sono stati condannati all’ergastolo. [76]
  • Nel 2000 è stato condannato all’ergastolo insieme a Giuseppe Graviano , Leoluca Bagarella e Bernardo Provenzano per gli attentati del 1993 tra cui Via dei Georgofili , a Firenze. [77]
  • Nel 2002 è stato condannato all’ergastolo per l’omicidio del giudice Alberto Giacomelli. [78]
  • Lo stesso anno Provenzano è stato condannato all’ergastolo per l’omicidio del giudice Rocco Chinnici insieme ai capi Salvatore Riina, Raffaele Ganci, Antonino Madonia, Salvatore Buscemi, Nenè Geraci, Giuseppe Calò, Francesco Madonia, Salvatore e Giuseppe Montalto, Stefano Ganci e Vincenzo Galatolo. [79]
  • Lo stesso anno Riina è stata condannata all’ergastolo insieme a Vincenzo Virga per la strage di Pizzolungo , in cui sono morti Barbara Rizzo ei suoi gemelli di sei anni, Salvatore e Giuseppe Asta. [80]
  • Nel 2009 ha ricevuto un’altra condanna a vita insieme a Bernardo Provenzano per la strage di Viale Lazio e la morte di Michele Cavataio . [81]
  • Nel 2010 è stato condannato all’ergastolo, insieme a Giuseppe Madonia, Gaetano Leonardo e Giacomo Sollami, per l’omicidio di Giovanni Mungiovino, politico che si opponeva alla mafia corleonese, ucciso nel 1983, Giuseppe Cammarata, ucciso nel 1989, e Salvatore Saitta , ucciso nel 1992. [82]
  • Nel 2012 è stato condannato all’ergastolo per l’omicidio del 1992 di Alfio Trovato a Milano. [83]

Salvatore Riina ha sposato Antonietta Bagarella  [ it ] (sorella di Calogero e Leoluca Bagarella ) nel 1974, e hanno avuto quattro figli, tre maschi e una femmina. [84] Due dei suoi figli, Giovanni e Giuseppe, seguirono le orme del padre e furono imprigionati. Nel novembre 2001, un tribunale di Palermo ha condannato il 24enne Giovanni all’ergastolo per quattro omicidi. Era stato in custodia della polizia dal 1997. [85] Secondo Antonio Ingroia , uno dei procuratori della Direzione distrettuale antimafia  [ it ] (DDA) di Palermo, Giovanni è tra le possibili figure di spicco della Cosa Nostra siciliana dopo l’arresto di Provenzano nel 2006 e di Salvatore Lo Piccolo nel 2007, ma ancora troppo giovani per essere riconosciuti come i principali boss dell’organizzazione. [86]Il 31 dicembre 2004 il figlio più giovane di Riina, Giuseppe, uno di quelli presi in custodia nel giugno 2002, è stato condannato a 14 anni per vari reati, tra cui associazione mafiosa, estorsione e riciclaggio di denaro . [87] Si è scoperto che aveva fondato società controllate dalla mafia per nascondere denaro da racket di protezione, traffico di droga e gare d’appalto per contratti di edilizia pubblica sull’isola. Nel 2006, il consiglio di Corleone ha creato magliette con la scritta Amo Corleone nel tentativo di dissociare la città dai suoi famigerati mafiosi, ma un cognato di una delle figlie di Riina ha iniziato un tentativo di citare in giudizio il sindaco di Corleone rivendicando il La famiglia Riina possedeva il copyright della frase. [88]

Morte Riina è deceduta il 17 novembre 2017, un giorno dopo il suo 87 ° compleanno, mentre era in coma farmacologico dopo due interventi nell’unità carceraria dell’Ospedale Maggiore di Parma . [89] La causa specifica della morte non è stata rivelata. Al momento della sua morte, secondo un magistrato , era ancora considerato il capo di Cosa Nostra . [90] A Riina fu rifiutato un funerale pubblico dalla chiesa e dall’arcivescovo Michele Pennisi ; fu sepolto privatamente nella sua città natale di Corleone. [90]


Il grande colpo al Monte dei pegni Cosa nostra rubò l’oro dei poveri  Pochi ricordano  la rapina miliardaria dell’estate 1991 che portò a Messina Denaro e  Riina miliardi in oro  e gioielli Autunno 1991. Un’Alfa 164 di colore bianco parcheggia davanti a una gioielleria di Castelvetrano. Al volante c’è Matteo Messina Denaro. Comodamente seduti Totò Riina e consorte. Prendono un borsone e lo consegnano al gioielliere Francesco Geraci, che cinque anni dopo deciderà di pentirsi raccontando tutto ai PM Già perché e solare ed evidente che le casseforti economico/finanziarie che garantiscono la sua latitanza affondano radici profonde oltreoceano (come abbiamo visto) ma anche in Sicilia. Pizzo, traffici illeciti, pervasività nell’economia pubblica sono costanti.

Sul piatto degli investigatori, per certificare la sua attendibilità, Cancemi mise il tesoro del padrino corleonese che si trovava dai Geraci a Castelvetrano. Sotto sequestro finirono gioielli, preziosi e lingotti d’oro che valevano due miliardi di lire. Quello era solo una parte del bottino I lingotti erano una parte del colpo al Monte dei pegni della Sicilcassa in via Calvi a Palermo. Parlare di rapina sarebbe riduttivo.

Il 13 agosto del 1991 sette banditi sbucarono dai bagni. Gli impiegati erano appena rientrati dalla pausa pranzo. Razziarono l’oro dei poveri, tutta gente che impegnava i regali di una vita. Li portavano al Monte di pietà e ricevevano in cambio soldi in contanti per mandare avanti la baracca. Le polizze di pegno venivano spillate sulle buste di plastica che custodivano i gioielli. Era un modo per tenere viva la speranza, spesso vana, che la merce potesse essere un giorno riscattata. Dal caveau di via Calvi sparì merce per 18 miliardi di lire. Una cifra calcolata per difetto. A parte i lingotti di Riina la refurtiva non è più stata ritrovata. Ripulita finanziando chissà quali affari. Di recente quel mega colpo è tornato d’attualità. Fra gli uomini d’oro che assaltarono il Monte di Pietà c’era pure Francesco Paolo Maniscalco, imprenditore del caffè, già condannato per quel colpo e anche per mafia. I finanzieri della Polizia hanno sequestrato beni per 15 milioni di euro.

Geraci venne affidato il delicato compito di gestire la cassa di famiglia, che amministrò per anni, custodendo il denaro nel caveau della propria gioielleria.

Ed è proprio lui a raccontarlo in un interrogatorio sostenuto dalla 12.45 del 5 ottobre 1996: «L’episodio nel quale è coinvolto mio fratello è quello che concerne la gestione di “conti” ce io tenevo in gioielleria nell’interesse di Messina Denaro Matteo: il Matteo avendo notato un caveau particolarmente protetto, mi aveva chiesto se potevo custodirgli del denaro in contanti, ed io mi ero messo a disposizione senza alcuna difficoltà. Tale denaro, in pratica confluiva in quattro conti: uno era quello personale di Matteo che ebbe al massimo un saldo di 35 milioni; un altro che ha avuto anche la consistenza di 100-150-200 milioni; l’altro ancora ammontava a 100 milioni e che, come mi disse Matteo, erano soldi di sua madre; un ultimo invece fu fatto in occasione dell’acquisto di terreni, di cui parlerò appresso, di cui la S.V. mi invita a fare. Ero stato io a confidare a mio fratello l’esistenza di quei conti anche per consentire che in mia assenza Matteo potesse effettuare operazioni di deposito o prelievo di denaro rivolgendosi direttamente a lui. Il Matteo veniva assiduamente a compiere queste operazioni, le quali venivano annotate in dei bigliettini in cui sostanzialmente veniva riportato soltanto il saldo e che venivano successivamente strappati. Mio fratello si occupava anche della gestione di questa contabilità ma ero io di fatto che mantenevo i rapporti con Matteo (…) Prima del mio arresto ricordo che il conto personale del Matteo era stato azzerato e ciò in concomitanza con l’inizio della sua latitanza; quello degli “affari correnti”, per così dire, era stato assottigliato (…) Aggiungo che per un certo periodo, sempre tramite il Matteo, anche …omissis…ci aveva portato in custodia 200 milioni che erano dei soldi di cui egli si era appropriato in banca. Mi risulta inoltre che …omissis…si fece custodire una certa somma, forse circa 70 milioni, anche da…omissis…Mi sovviene che ho custodito anche i soldi di…omissis…, circa 20 milioni, che mi furono portati da…omissis».

L’ulteriore passaggio evolutivo di tale rapporto – annota il Gip a pagina 21 del provvedimento – fu l’affidamento a Geraci di numerosi lingotti d’oro (chi, di noi, non ne ha una decina in casa per far fronte a spese improvvise o per dare una mancia al corriere!, nda) e di una valigia piena di monili e oggetti preziosi, beni tutti appartenenti a Totò Riina, consegnati da Geraci agli inquirenti all’inizio della sua collaborazione. «Nella terza occasione – proseguirà Geracinell’interrogatorio del 5 ottobre 1996 – Riina si presentò nel negozio accompagnato da Matteo, con la  moglie e le due figlie, affidandomi una borsa con i gioielli della famiglia perché li custodissi; si trattava di orecchini, monili ed altro che io ho occultato in un nascondiglio segreto nella mia abitazione unitamente ai lingotti d’oro che in un’altra occasione mi aveva portato il Matteo dicendomi che erano di Riina

A proposito di Riina ricordo che per due estati in due occasioni ho fatto fare insieme al Matteo delle gite in barca a tutti e quattro i suoi figli, unitamente alle figlie di Pietro…omissis…e di tale “vartuliddu” di Corleone, entrambi all’epoca dimoranti a Triscina. 

Un giorno Messina Denaro Matteo mi chiese se mediante un’operazione “pulita” potevo intestarmi un terreno che da quello che capiì apparteneva alla famiglia mafiosa di Castelvetrano: si trattava  di un terreno di tre salme e mezzo  (pari a 18 ettari circa) sito alle spalle della grande costruzione di Genco cui si accede da viale Roma. Non sono in grado di dire se quel terreno intestato formalmente a …omissis…di fatto apparteneva già a Messina Denaro Matteo ed ai suoi amici mafiosi oppure se di fatto costoro ne diventavano proprietari a seguito della vendita nella quale io figuravo come formale acquirente. L’acquisto avvenne, se mal non ricordo, tra i 1990 e il ’91 (…) Successivamente alla compravendita, il terreno acquistato da …omissis….fu un compromesso rivenduto ai Sansone di Palermo per la somma di 550 milioni. Il Sansone mi versò 450 milioni in assegni ma prima che saldasse completamente il debito venne arrestato per cui rimase in debito di 100 milioni. Ricordo che si diceva che quel terreno doveva diventare edificabile e che anzi il Sansone doveva realizzare un grosso insediamento edilizio, tipo “Castelvetrano due”; infatti attualmente il terreno vale svariati miliardi. Con il guadagno di 250 milioni previsto a seguito di quella compravendita, il Matteo mi aveva detto che dovevo intestarmi un terreno di Riina…». Guarda caso, in quegli anni prende il via la grande speculazione edilizia di Castelvetrano verso Santa Ninfa. 


RIINA ORDINO’ : ‘ E’ INCINTA? UCCIDETE LA DONNA DEL BOSS’  Aveva implorato i killer fino all’ ultimo di avere pietà per quel bambino che portava in grembo. Ma l’ ordine di Totò Riina doveva essere rispettato ad ogni costo. E così Antonella Bonomo, 23 anni, incinta da tre mesi, venne strangolata dopo che il suo fidanzato, il boss di Alcamo (Trapani), Vincenzo Milazzo, era stato torturato ed ucciso con un colpo di pistola. E’ il racconto di un pentito di mafia che martedì ha consentito di trovare i cadaveri di Vincenzo Milazzo, del fratello Paolo e di Antonella Bonomo, seppelliti in aperta campagna. Il pentito ha fatto anche i nomi degli esecutori del duplice delitto: Leoluca Bagarella, Giovanni Brusca, Giuseppe La Barbera, Antonino Gioè, Francesco Denaro e Gioacchino Calabrò. Quest’ ultimo è stato arrestato un mese fa mentre Bagarella, Brusca e Denaro, sono latitanti, La Barbera è in carcere, Antonino Gioè si suicidò nella primavera scorsa in carcere lasciando una lettera nella quale si pentiva delle “atrocità” che aveva commesso. Tra queste “atrocità” c’ è anche l’ uccisione della donna. Secondo il racconto del pentito, Vincenzo Milazzo che era uno dei “fedelissimi” di Riina, venne ucciso perché la sua autorità nel trapanese era stata messa in discussione da una banda capeggiata da Carlo Greco. Milazzo imputato ed assolto nel processo per la strage di Pizzolungo contro il giudice Carlo Palermo, si era allontanato da Alcamo dopo una serie di agguati del clan avversario ai quali era riuscito a scampare. L’ “esecuzione” di Vincenzo Milazzo e della sua donna, ha raccontato il pentito, avvenne tra il giugno ed il luglio del 1992: l’ uomo era stato “convocato” da Leoluca Bagarella in un casolare di campagna. Con Bagarella erano presenti Giovanni Brusca, Antonino Gioè, Giuseppe La Barbera (tutti coinvolti nella strage di Capaci), Francesco Denaro e Gioacchino Calabrò. Milazzo venne “interrogato” e poi ucciso con un colpo di pistola alla testa. Ma prima, sotto tortura, aveva però confessato di avere confidato molti “segreti” di Cosa Nostra alla sua donna. I “corleonesi” decisero allora di strangolarla.17 dicembre 1993 LA REPUBBLICA


Parla Maria Concetta la figlia del boss: “Non ho problemi a parlare di mafia ma temo di essere interpretata male. Ora vorrei una vita normale”

“La mia vita con un padre che si chiama Totò Riina”. Comincia a parlare anche di quando erano tutti fantasmi, latitanti in Sicilia. Lei con sua madre Ninetta, con i fratelli Gianni e Salvo, con la sorella Lucia. E con suo padre Totò Riina: “Chi eravamo, noi lo sapevamo da sempre: noi lo sapevamo che eravamo latitanti. Da quando io mi posso ricordare, l’ho sempre saputa questa cosa che mio padre era ricercato e che noi dovevamo scappare perché lo cercavano, perché mio padre era accusato di tutti questi omicidi”. Ricorda ancora di quella vita in fuga: “Per me però era una cosa che era al di fuori da quello che vedevo io o che sentivo in tv. Era una cosa lontana da quello che vivevo nella mia famiglia”. Parla Maria Concetta Riina, la figlia del capo dei capi di Cosa Nostra. Per la prima volta si fa intervistare da Repubblica e si concede alle nostre telecamere per raccontare suo padre, l’uomo più pericoloso d’Italia per un ventennio, il mafioso che è stato catturato – il 15 gennaio del 1993 – dopo un quarto di secolo di omicidi e trame.  Maria Concetta è nella sua Corleone. Ha deciso di uscire allo scoperto “per il futuro dei miei figli”. Parla un poco di quel suo passato oscuro e tanto del suo tormentato presente. Mai di affari di famiglia. Di vittime. Di una Sicilia soffocata e insanguinata. Parla molto dei fratelli in carcere e “di quel 41 bis che mi fa soffrire tanto per Gianni” e parla del nome terribile che porta. E si presenta: “Io sono Maria Concetta Riina, ho 34 anni, tutti gli amici mi chiamano Mari. Sono sposata con Toni Ciavarello e abbiamo tre figli: Gian Salvo, Maria Lucia e Gabriele. Vivo a Corleone dal 16 gennaio del 1993, il giorno dopo che si sono portati via mio padre”. 

Quale è stata la sua prima reazione quando ha scoperto che suo padre era il nemico numero uno dello Stato italiano, quello accusato di avere ucciso anche Falcone e Borsellino?  “Era una situazione surreale, assurda. Quello che dicevano su di noi io lo sentivo ma è come se non mi appartenesse. È come se non parlassero di me, di mio padre, della mia famiglia ma di qualcun altro”. 

Suo padre è stato condannato per decine di omicidi, misfatti di eccezionale crudeltà, stragi. È mai possibile che tutto questo per lei fosse soltanto “assurdo” o “surreale”? Come poteva non credere a tutto quello che si diceva sul conto di suo padre?  “Per me, e questo lo pensa anche lui, è stato un parafulmine per tante situazioni. Faceva comodo a molti dire che tutte quelle cose le aveva fatte Totò Riina. Tutti sanno benissimo comunque che qualsiasi cosa gli avessero chiesto, lui non sarebbe andato più di là, oltre. Non avrebbe mai fatto nomi e cognomi di nessuno. A lui hanno chiesto tante volte in maniera esplicita di pentirsi, ma il suo è sempre stato un no tassativo. È stato detto e non detto anche che quel suo l’avrebbero fatto pesare su di noi. Sui figli, su tutta la sua famiglia”. 

Perché quando parla di suo padre non pronuncia mai la parola mafia?  “Non ho problemi a parlarne. Però quella parola messa in bocca a me…. Se dico qualcosa può venire mal interpretata. Direbbero: guarda, parla di mafia proprio la figlia di Totò Riina… A casa mia, io non l’ho vissuta quella mafia”. 

Per lo Stato italiano è un assassino, per lei chi è suo padre?  “Sembrerà strano… mio padre viene presentato come un sanguinario, crudele, quasi un animale, uno che addirittura avrebbe fatto uccidere anche i bambini. Ma a me, come figlia, tutto questo non risulta. So io quello che mi ha trasmesso. Educazione. Moralità. Rispetto. E quando parlo di rispetto non parlo in quel senso, in senso omertoso. La persona che io sono ora, è quella che mio padre e mia madre hanno lasciato”. 

Si rende naturalmente conto che c’è un contrasto nettissimo tra come suo padre è descritto in centinaia di sentenze e come lo sta descrivendo lei adesso. Come può parlare di moralità e di rispetto una persona che ha fatto uccidere tanti uomini?  “Ecco perché ho detto che vi sembrerà strano, ma mio padre per me è così. E io così l’ho vissuto e così lo vivo ancora”. 

Dopo 19 anni che lei ha vissuto in latitanza con tutta la sua famiglia è arrivata a Corleone nel gennaio del 1993. Come è stato il passaggio dalla clandestinità alla visibilità?  “Come una seconda vita. Abbiamo potuto fare una cosa che non avevamo mai fatto prima: incontrarci di presenza con tutti i nostri parenti. Abbiamo trovato tutte le mie zie, mia nonna…”. 

Corleone è sempre stato il regno di suo padre, il paese che aveva in pugno, per alcuni il paese più mafioso e omertoso della Sicilia dove la paura poteva “proteggere” la sua famiglia. Come è stato il ritorno?  “Il paese ci ha accolti bene, non ci ha isolati. Anzi, molte persone hanno cercato di farci sentire a nostro agio. Come se avessimo vissuto lì da sempre”. 

Chiamarsi Riina molte volte vi ha fatto comodo, è un nome che in Sicilia faceva tremare. Lei sente di esercitare qualche potere?  “Perché non pensate alle difficoltà che ho avuto?”. 

Quali difficoltà?  “Il problema vero per noi è sempre stato trovare un lavoro… Tutti hanno paura di essere messi sui giornali, paura magari di essere considerati collusi. Qualche tempo fa ho frequentato i corsi di una cooperativa a Palermo, poi a un certo punto mi è stato detto che dovevo andarmene perché altrimenti quella cooperativa la chiudevano. Non è bello sentirsi dire certe cose. Giustamente tu dici: io non ho fatto niente, mi sono comportata bene con tutti. Mi hanno penalizzato solo perché mi chiamavo Riina. E non è stata l’ultima volta”. 

Ma Totò Riina per lo Stato è sempre stato “il capo dei capi”: se ne dimentica?  “Ma per me ormai è un calvario. Tempo fa avevo anche fatto una domanda di accesso a un corso che organizzava servizi finanziari. Sono salita a Milano, è andato tutto bene, ho legato con tutti, anche con il direttore commerciale. Tutto a postissimo. Poi hanno visto sul mio documento di identità nome e provenienza: Riina e Corleone. Alla fine mi hanno fatto la fatidica domanda: “Ma tu sei parente di?”. Io ho risposto: certo, sì, sono la figlia. L’ho detto con naturalezza… io non lo dico mai prima, non cammino con il cartello appeso al collo con su scritto “Sono la figlia di Riina”, però se me lo domandano non ho problemi a dirlo. Non è passata nemmeno mezz’ora e mi ha chiamato il direttore dicendo che era offeso perché non gliel’avevo detto prima. Era un grosso problema per lui, per l’immagine della sua azienda”. 

Torniamo a suo padre. È in isolamento da 16 anni. Ma quando va a colloquio, lo vede dietro un vetro blindato e non gli ha mai chiesto conto delle accuse che gli vengono rivolte?  “È dalla mattina del 16 gennaio ’93 che non lo accarezzo, certo se non ci fosse quel vetro… Prima ci andavo spesso a trovarlo ma adesso è complicato, ho tre figli. Mio padre ha condizioni peggiori del 41 bis normale, non ha contatti con altri detenuti, è messo in un’area a parte fatta apposta per lui”. 

In casa Riina non ci sono più figli maschi. Gianni è all’ergastolo per tre omicidi. Suo zio Leoluca Bagarella è in carcere dal 1995. Suo fratello Salvo è tornato dentro qualche giorno fa per scontare una pena residua. Lei parlava delle “sofferenze” del carcere, ma ha mai letto gli atti che accusano suo padre e suo fratello Gianni, le carte che raccontano i loro delitti?  “Loro devono scontare quello che devono e io non voglio giudicare i processi o sentenze. Dico solo che ho sofferenza, soprattutto per Gianni che è un ragazzo, ha vissuto troppo poco la sua adolescenza. E dico anche che, secondo me, si potrebbe evitare con lui un certo accanimento. Potrebbero farlo studiare in carcere, insegnargli un mestiere”. 

Lei parla di vita normale, difende sempre suo padre ma non prende mai le distanze dai delitti di cui è accusato: quale futuro si aspetta?  “Come figlia mi aspetto che cambi tutto. Per me, per mio marito, per i miei figli. Vorrei una vita normale o quasi normale. Vorrei lavorare. Vorrei che mi si giudicasse per quello che sono e faccio. Vorrei soprattutto che i miei figli fossero considerati domani uomini e donne come tutti gli altri. Oggi sto parlando per loro”.   Ha mai pensato di andare via da Corleone?  “Chi lo sa, forse un giorno... “.  (28 gennaio 2009 La Repubblica ATTILIO BOLZONI)


«La mia vita con Salvatore Riina,  mio padre». Il racconto di Giuseppe Salvatore, il figlio del boss. Il figlio racconta: «Assieme nelle nottate alla tv per l’America’s Cup, non cenò mai fuori. Me lo ricordo zitto il giorno di Capaci. Le vittime? Preferisco il silenzio. Di mafia non parlo, e se lei mi domanda che cosa ne penso, io non rispondo» «Tra febbraio e marzo del 1992 passammo notti intere insonni davanti al televisore a seguire il Moro di Venezia gareggiare nell’America’s Cup. Papà preparava la postazione del divano solo per noi due, con un vassoio di biscotti preparato per l’occasione e due sedie piazzate a mo’ di poggiapiedi… Io non avevo ancora compiuto 15 anni e lui, Totò Riina, era il mio eroe». Che, in quegli stessi giorni, pianificava e ordinava l’omicidio di Salvo Lima, il politico democristiano assassinato per non aver saputo «aggiustare» il maxiprocesso alla mafia.

«Il viso di Giovanni Falcone veniva riproposto ogni minuto» Poco dopo venne il 23 maggio: «La tv era accesa su Rai1, e il telegiornale in edizione straordinaria già andava avanti da un’ora. Non facemmo domande, ma ci limitammo a guardare nello schermo. Il viso di Giovanni Falcone veniva riproposto ogni minuto, alternato alle immagini rivoltanti di un’autostrada aperta in due… Un cratere fumante, pieno di rottami e di poliziotti indaffarati nelle ricerche… Pure mio padre Totò era a casa. Stava seduto nella sua poltrona davanti al televisore. Anche lui in silenzio. Non diceva una parola, ma non era agitato o particolarmente incuriosito da quelle immagini. Sul volto qualche ruga, appena accigliato, ascoltava pensando ad altro». Era stato lui a decidere quella strage, per eliminare il magistrato che aveva portato alla sbarra Cosa nostra fino a infliggere l’ergastolo a Riina e compari.

«Il magistrato Paolo Borsellino appariva in un riquadro a fianco» E poi il 19 luglio, mentre la famiglia era in vacanza al mare: «Fu uno di quei giorni in cui mio padre preferì rimanere a casa ad aspettarci, sempre circondato dai suoi giornali che leggeva lentamente ma con attenzione. Negli ultimi mesi era diventato più attento nelle uscite in pubblico, anche se dentro casa era sempre il solito uomo sorridente e disposto al gioco». Al ritorno dalla spiaggia ancora la tv accesa, ancora immagini di morte, fuoco e fiamme: «Il magistrato Paolo Borsellino appariva in un riquadro a fianco, ripreso in una foto di poche settimane prima… Lucia, dodicenne, era la più colpita da quelle immagini. Si avvicinò a mio padre silenzioso. “Papà, dobbiamo ripartire?”. “Perché vuoi partire?” domandò lui, finalmente rompendo la tensione con la quale fissava il televisore. “Non lo so. Dobbiamo tornare a Palermo?”. “Voi pensate a godervi le vacanze. Restiamo al mare ancora per un po’”. Lucia scoppiò in una ingenua risata e lo abbracciò… E così restammo lì fino alla fine di agosto».

Le vittime di cui non parla Anche l’eccidio di via D’Amelio era stato deciso da suo padre, Totò Riina. Ma questo particolare il figlio Giuseppe Salvatore detto Salvo, lo omette. Così come non parla di Lima, di Falcone e di tutte le altre vittime del capomafia corleonese che ha governato Cosa nostra a suon di omicidi. «Io non sono il magistrato di mio padre — dice sfilandosi gli occhiali da sole al tavolino di un bar di Padova, dove vive e lavora in libertà vigilata», divieto di lasciare la provincia e di uscire dalle 22 alle 6 —; non è competenza mia dire se è stato il capo della mafia oppure no. Lo stabiliscono le sentenze, io ho voluto parlare d’altro: la vita di una famiglia che è stata felice fino al giorno del suo arresto, raccontata come nessuno l’ha mai vista e conosciuta»

Il libro «Riina-Family Life» È nato così il libro Riina-Family Life scritto da Salvo Riina che a maggio compirà 39 anni, mafioso anche lui per la condanna a 8 anni e 10 mesi di pena interamente scontata, papà e fratello maggiore all’ergastolo (e al «41 bis»): «Giovanni lo può incontrare in prigione, seppure con le limitazioni del “carcere duro”, io no». E nel libro lamenta: «È dal gennaio del 1993 (quando Riina fu catturato, ndr). Che non faccio una carezza a mio padre, e così le mie sorelle e mia madre». Facile replicare che nemmeno i familiari dei morti di mafia possono più accarezzare i loro cari, e chiedere un pensiero per loro: le vittime. Salvo Riina risponde quasi di getto: «Non ne voglio parlare, perché qualunque cosa dicessi sarebbe strumentalizzata». Dipende, forse. Ma lui insiste: «Meglio il silenzio, nel rispetto del loro dolore e della loro sofferenza. Anche in questo caso la meglio parola è quella che non si dice». Un motto che rievoca l’omertà mafiosa, che però Riina jr contesta: «Non è omertà, è che io ho scritto il libro non per dare conto delle condanne subite da mio padre, anche perché sarebbe inutile. A me interessava far capire che esiste ed è esistita una famiglia che non aveva niente a che fare coi processi e quello che succedeva fuori, e che nessuno conosce anche se tutti pensano di poterla giudicare».

Un papà premuroso e amorevole Ne viene fuori un’immagine di papà premuroso e amorevole che contrasta con la realtà giudiziaria e storica del boss protagonista delle più cruente trame criminali. «Non è quello che ho conosciuto io — ribatte convinto suo figlio —. Io sono orgoglioso di Totò Riina come uomo, non come capo della mafia. Io di mafia non parlo, se lei mi chiede che cosa ne penso non le rispondo. Io rispetto mio padre perché non mi ha fatto mai mancare niente, principalmente l’amore. Il resto l’hanno scritto i giudici, e io non me ne occupo». Quello che scrive Salvo Riina diventa così un racconto asciutto ma ricco di dettagli sulla vita fra le mura domestiche di una famiglia di latitante: Totò Riina e, di conseguenza, la moglie e i figli nati mentre lui era ricercato; continui cambi di case, ma sempre tra Palermo e dintorni; i bambini regolarmente registrati all’anagrafe ma impossibilitati ad andare a scuola, con la mamma che insegnava loro a leggere e scrivere; giochi e divertimenti garantiti ma niente amici in casa né visite a casa di amici; il papà che esce la mattina per andare a lavorare — «il geometra Bellomo», si faceva chiamare — e puntuale a cena si mette a tavola con la famiglia: «Mai saltata una sera», garantisce Salvo; l’attrazione per i motorini e le belle ragazze, i primi amori.

Infanzia e adolescenza felici Infanzia e adolescenza felici, assicura il figlio del boss, trascorse senza fare domande: né sull’improbabile lavoro di un «terza elementare», né sulla necessità di non avere contatti con l’esterno o sul continuo girovagare, che col passare del tempo diventa consapevolezza di una vita in fuga. «A mio padre non ho mai chiesto perché dovessimo nasconderci, e nemmeno se era vero ciò che cominciai a sentire in tv o in giro, quando ho scoperto che ci chiamavano Riina, e non Bellomo». Strano, perché? «Per rispetto e pudore». Nei confronti di chi? «Di mio padre e mia madre: siamo cresciuti abituati a non chiedere». Si potrebbe chiamare cultura mafiosa. «Io invece lo chiamo rispetto, un’educazione a valori magari arcaici e tradizionali, che però a me piacciono; valori forti e sani».

Con l’arresto cambia tutto Con l’arresto di Riina sr, il 15 gennaio 1993, cambiò tutto: l’arrivo a Corleone, l’esistenza non più clandestina ma sotto i riflettori del mondo e il microscopio di investigatori e giudici, che poi hanno arrestato e condannato i due figli maschi, Giovanni e lo stesso Salvo. Che adesso narra quel che vuole (anche il carcere e la pena scontata, evitando di entrare nel merito dei reati, fino al matrimonio della sorella accompagnata all’altare in sostituzione del papà, e altro ancora) ma tace su tanti particolari: dall’ultimo «covo» in cui abitò con suo padre ai commenti del capomafia intercettati in carcere, quando confessò la «fine del tonno» riservata a Falcone e altri delitti: «Non mi interessa soddisfare le curiosità altrui. Io difendo la dignità di un uomo e della sua famiglia. E la sua coerenza, quando ha rifiutato di collaborare con i magistrati. “Non ci si pente di fronte agli uomini, solo davanti a Dio”, mi ripeteva».

L’editore Il risultato lo giudicheranno i lettori. L’editore, Mario Tricarico, chiarisce il senso di un’operazione che ritiene legittima e interessante: «È come se in casa del “Mostro” che ha governato l’impresa criminale forse più importante del mondo ci fosse stata una telecamera nascosta che ne registrava i momenti di normalità, e adesso chi vuole può vedere quel film». Scene di un interno mafioso che lasciano molte zone d’ombra, ma rivelano un punto di vista: il figlio del boss che non vuole parlare del boss bensì di un padre e di una madre «ai quali devo l’inizio della mia vita e l’uomo che sono», come ha scritto nel libro. Senza nessun imbarazzo? «No, nessun imbarazzo», risponde Salvo Riina rinforcando gli occhiali da sole.  6 aprile 2016 Corriere della Sera Giovanni Bianconi


NOTE

Nel 2009, è stato riferito che Riina e Provenzano avevano creato fan club per loro conto su Facebook , tra cui “Totò Riina, il vero capo dei boss” e “I fan di Totò Riina, un uomo incompreso”. Rita Borsellino , sorella della vittima della mafia siciliana Paolo Borsellino , è stata una dei tanti italiani di alto profilo che hanno condannato l’idolatria dei mafiosi, paragonando i siti a quelli “che lodano Hitler o il nazismo “. [91]

Riferimenti

  1. ” ‘ E Toto’ Riina Ci Ordino ‘Uccidete I Bimbi Dei Pentiti ‘ “ (in italiano). repubblica.it. Archiviata dall’originale il 6 dicembre 2019 . Estratto 6 dicembre 2019 .
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  3. “Dal primo omicidio all’arresto Una lunga scia di orrori” (in italiano). livesicilia.it. Archiviata dall’originale il 6 dicembre 2019 . Estratto 6 dicembre 2019 .
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  5. bItaly Arrests Sicilian Mafia’s Top LeaderArchiviato l’ 8 dicembre 2008 in Internet  , The New York Times , 16 gennaio 1993
  6. “#AccaddeOggi: 16 maggio 1974, arrestato a Milano Luciano Liggio, la” . L’Unione Sarda.it . 16 maggio 2018 Archiviata dall’originale il 16 maggio 2018 . Estratto il 30 settembre 2019 .
  7. ^ (In italiano) E ora la ‘ndrangheta Supera Cosa Nostra: Intervista a Enzo Ciconte archiviati 8 dicembre 2008 presso la Wayback Machine , Polizia e democrazia, Novembre-Dicembre 2007
  8. “E LEGGIO SPACCO ‘IN DUE COSA NOSTRA – la Repubblica.it” . Archivio – la Repubblica.it(in italiano). Archiviata dall’originale il 6 marzo 2019 . Estratto 6 dicembre 2019 .
  9. ^ Follain, J., Vendetta, 2012
  10. ^ “Il bacio d’onore” tra Andreotti e il capo della mafia non è mai accaduto Archiviato il 9 dicembre 2008 in Internet , The Independent, 26 luglio 2003
  11. b Stille, Excellent Cadavers , p. 392
  12. bAndreotti and Mafia: A Kiss RelatedArchiviato l’ 8 dicembre 2008 in Internet  , The New York Times, 21 aprile 1993.
  13. ^ (in italiano) Le dichiarazioni di Baldassare Di Maggio , in Sentenza Andreotti Archiviato il 28 febbraio 2013 in Internet
  14. “Heat on the Mob” . Archiviata dall’originale il 17 agosto 2000.Time , 3 giugno 1996
  15. ^ (in italiano) La confessione di Balduccio: “Ho ucciso anche da pentito” Archiviato il 17 febbraio 2011 in Internet , La Repubblica , 4 ottobre 1999
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Bibliografia

link esterno



Al CINEMA

    A cura di Claudio Ramaccini – Direttore Centro Studi Sociali contro la mafia – PSF