QUANDO IL CSM BOCCIÒ FALCONE

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“Il CSM, a Roma, agisce ed opera in una logica del tutto particolare, secondo me aberrante. Una logica di schieramenti in cui gli interessi delle correnti prevalgono sugli interessi generali. Dove i rappresentanti laici sono portatori degli interessi dei rispettivi partiti, eletti come tali dal Parlamento. Tutto questo costituisce certamente una grossa palla al piede del CSM. A ciò si aggiunge l’incapacità di capire l’importanza di certe decisioni.” Il commento del dottor ANTONINO CAPONNETTO dopo la bocciatura del CSM di Giovanni Falcone in sua sostituzione a capo dell’Ufficio Istruzione di Palermo (19.1.1988)

Pagine da rileggere, il verbale che nel 1988 scelse il giudice Meli per l’ufficio Istruzione del Tribunale di Palermo  Palazzo dei Marescialli di Roma. Sede del Consiglio superiore della Magistratura. Ho tra le mani un faldone di 50 pagine: è il verbale della riunione del Csm tenutasi il 19 gennaio 1988, riunione che si concluse con il voto che nominò il nuovo capo dell’ufficio istruzione del Tribunale di Palermo, il successore del giudice Antonio Caponnetto. Fu scelto il giudice Antonino Meli, fu bocciato il giudice Giovanni Falcone. In quelle 50 pagine c’è l’esatta trascrizione degli interventi fatti dagli allora componenti dell’organo di autogoverno dei magistrati, che si pronunziarono pro e contro i due giudici che si contrapponevano, Giovanni Falcone e Antonino Meli: Passò quest’ultimo, per come proposto dalla commissione incarichi direttivi. Presidente della seduta del Csm era Cesare Mirabelli, il vice presidente del Csm.La seduta si apre con una richiesta del vice presidente Mirabelli e cioè di inserire all’ordine del giorno la organizzazione di un incontro di studi su criminalità organizzata e riforma del codice di procedura penale, e la visita in Sicilia di una delegazione del comitato antimafia preordinata a scrivere ipotesi normative e organizzative a proposito di contrato alla criminalità organizzata. Piccolo dibattito e Mirabelli decide che della missione in Sicilia se ne parlerà dopo avere votato nella stessa seduta il nuovo capo dell’ufficio istruzione di Palermo. Prima di parlare però della nomina, il Csm trova il tempo per deliberare un intervento assistenziale economico per una impiegata di Palazzo dei Marescialli che deve sposare il figlio. La fase preliminare è occupata dalla lettura del verbale della commissione conferimento uffici direttivi. In corsa per la poltrona appena lasciata dal giudice Caponnetto erano, Elio Spallitta e Pietro Giammanco, però nel frattempo nominati procuratori aggiunti a Palermo e quindi considerati fuori dalla corsa. Gli altri candidati risultarono essere, Antonino Meli, Giovanni Nasca, Rosario Gino, Marco Antonio Motisi, Giovanni Pilato e Giovanni FalconeLa proposta della commissione è a favore di Meli, “coniuga alla maggiore anzianità di ruolo, un quadro professionale apprezzabile, per cui pienamente idoneo”, e la stessa commissione chiosa: “L’uomo giusto non è pertanto quegli che si prospetta in ipotesi preliminarmente il più idoneo alla copertura di un determinato posto, volta per volta oggetto di concorso, nel quale le qualità professionali vengono commisurate anche alle specificità ambientali, ma è innanzitutto quello scelto con criteri giusti e cioè legittimi”. Come dire una scelta fuori da quella di Meli sarebbe stata “illegittima”. Già nella terza pagina del verbale si capisce che per Falcone, ma anche per tutti gli altri in corsa, che non sia Meli, non tira l’aria giusta, anzi a favore di Meli la commissione indica una presenza nel curriculum utilissima per i tempi, “fu pm a Varese nel 1951 e fino ad oggi è stato giudice oltremodo laborioso” La Commissione però dedica anche poche righe a Falcone, perché indubbiamente non è facile lasciarlo non considerato, ma la conclusione parla chiaramente: “Tutte le positive notazioni a favore non possono essere invocate per determinare uno scavalco (sull’anzianità ndr) di sedici anni”. Segue il dibattito. dott. Motisi “anche lui splendido magistrato” che potrebbe dolersi del voto a favore del giudice Meli. Dott.Abate. E’ il primo a pronunziarsi a favore di Falcone. Fa riferimento ”alla delicatezza del momento” che impongono al Consiglio “una scelta ben chiara che sia di continuità e non segni alcuno strappo”, “Falcone va preferito, senza toni da crociata, per il coraggio dimostrato in frangenti difficilissimi che non vanno assolutamente dimenticati”. Dott. Letizia: “Preferire Falcone significa contravvenire alla legge, in Italia non c’è solo lui a combattere la mafia e ricordo i tanti magistrati che lottano contro il traffico di stupefacenti. Della professionalità poi fa parte la modestia, il miglior segnale del Csm è quello di non scegliere Falcone”. Dott. Racheli: “Ma questa professionalità come la valutiamo, le spinte per cambiare sono tante ma poi rinviamo al momento opportuno, la commissione ci propone un giudice che è alle soglie della pensione, io voto contro questa indicazione”. Avv. Contri: “Falcone è titolare di una esperienza unica non solo in Italia contro la mafia, magistrato eccezionale”. Prof. Brutti: “Forse non ci si è resi conto che bisogna nominare il capo di un ufficio di frontiera, che sia degno successore del giudice Caponnetto, oggi la mafia continua a sfidarci, la risposta è scegliere l’uomo giusto al posto giusto, le norme ci consentono di superare il divario dell’anzianità tra i candidati in virtù di specifica motivata valutazione a favore del candidato meno anziano”. E poi aggiunge indicando circostanze nelle quali il dott. Meli ha mostrato “una caratteriale instabilità”. E da questo punto in poi per un paio di pagine si coglie una fase nervosa nei lavori del Csm .Dott. Tatozzi (che dichiara di essere amico di Falcone e componente della stessa componente): “Nomina Falcone potrebbe essere interpretata come una sorta di dichiarazione di stato di emergenza degli uffici giudiziari di Palermo”. Dott. Morozzo Della Rocca: “La nomina non può essere caricata da significati simbolici, nominare Falcone non giova all’unità dell’ufficio”. Dott.Caselli: “La mafia non è una semplice emergenza è un problema strutturale italiano, è una realtà quotidiana in molte zone, è un pericolo per la Democrazia, e lo Stato si difende sul versante giudiziario dalla mafia garantendo agli uffici giudiziari la migliore attrezzatura, l’essere astratti nel decidere provoca svuotamento degli uffici di ogni valore, per questo oggi l’ufficio istruzione deve fare un passo in avanti, il candidato indicatoci dalla commissione presenta elementi di rischio, mentre la scelta non è tra Meli e Falcone ma verso un uomo del pool. Mi chiedo come si possa parlare di privilegi per chi ha fatto determinate esperienze per chi stando a Palermo vive in condizioni a tutti note e che rappresentano forte penalizzazione”. Dott. D’Ambrosio: “Ricordo una frase del generale Dalla Chiesa, quelli che sono lasciati soli dallo Stato sono destinati ad essere abbattuti dalla mafia”. Dott Calogero: elenca le ragioni per non votare Meli, “contro il buon senso, contro le esigenze organizzative dell’ufficio, contro le esigenze di continuità”. Il dott. Papa propone una pausa di riflessione. Dott. Paciotti, vota Meli: “Mi preoccupa che la scelta da farsi venga dipinta con un più o con un meno impegno antimafia”. Prof. Smuraglia: “Scegliere Falcone significa attribuire un altro onere ad un magistrato costretto già a grandi sacrifici”. Prof. Ziccone, vota Falcone: “Individuare il candidato che meglio di altri può dirigere l’ufficio istruzione”. Avv. Pennacchini, vota Meli “per l’impegno profuso durante la lotta di liberazione”. Dott. Geraci (di lui è sempre detto che sarebbe il “giuda” nelle parole che Paolo Borsellino pronunciò durante il famoso dibattito alla biblioteca di Palermo, dopo la strage di Capaci, ma non esistono riferimenti diretti e tali da attribuire al giudice Geraci la figura del “traditore”): chiama in causa il consigliere D’Ambrosio che in altra occasione (1986, Borsellino procuratore di Marsala) disse che “il Consiglio non poteva lasciarsi influenzare dalla notorietà dei magistrati interessati”. E aggiungeva: “Falcone con la nomina assumerebbe le funzioni di Cassazione senza avere mai assunto quelle di appello”. Geraci celebra Falcone bocciandolo, rivendicando di avere fatto parte con lui “di una pattuglia di samurai contro la mafia…Falcone è stato (così è scritto, al passato ndr) il migliore di tutti noi”. E infine: “Le notorie doti di Falcone e i rapporti personali e professionali mi indurrebbero a sceglierlo ma mi è di ostacolo la personalità di Meli cui l’altissimo e silenzioso senso del dovere costò la deportazione nei campi nazisti, con sofferenza e umiltà esprimo questo voto”. A seguire ci fu il voto per rinviare la pratica in commissione, proposta respinta con 15 voti contrari, 12 a favore e 2 astensioni. Poi il voto sulla nomina e quindi sul verbale della commissione che indica Meli. A favore di Meli: Agnoli, Borrè, Buonajuto, Cariti di Persia, Geraci, Lapenta, Letizia, Maddalena, Marconi, Morozzo della Rocca, Paciotti, Suraci, e Tatozzi. Contrari: Abbate, Brutti, Calogero, Caselli, Contri, D’Ambrosio, Gomez d’Ayala, Racheli, Smuraglia, Ziccone. Astenuti: Lombardi, Mirabelli, Papa, Pennacchini, Sgroi. Meli passa con 14 voti.Era il 1988.Oggi, 28 anni dopo quel voto, Falcone non c’è più ma alcune di quelle parole restano attuali. Restano affidate alla storia, ma alcuni passaggi sembrano scritti per magistrati di oggi che come Falcone stanno provando sulla loro pelle le avversità che arrivano anche dall’interno del corpo giudiziario. Ci sono anche nuovi “giuda”, magari li potremo trovare nelle prime file delle celebrazioni di oggi. Amduemila 23 Maggio 2016 di Rino Giacalone


Verbale di nomina a consigliere istruttore di Palermo di Antonino Meli   Resoconto integrale della seduta del Csm del 19 gennaio 1988, con gli interventi stenodattilografati.  Antonino Meli 15 voti, Giovanni Falcone 10 voti. Astenuti: 3.

Cesare Mirabelli (vicepresidente del Csm):  Il consiglio passa all’esame della seguente proposta della Commissione per il conferimento degli uffici direttivi concernente il conferimento direttivo di consigliere istruttore presso il tribunale di Palermo.  La Commissione per il conferimento degli uffici direttivi, esaminate le domande per il posto di epigrafe, rileva in primis che i dottori Elio Spalitta e Pietro Giammanco sono stati, nelle more della procedura, trasferiti su istanza e con delibera 13 dicembre 1987 alla procura della repubblica di Palermo con funzione, entrambi, di procuratore aggiunto.

Ritiene, quindi, che all’esito della relazione – che qui tutta si richiama – e della valutazione comparativa degli aspiranti (dottori Antonino Meli, Giovanni Nasca, Rosario Gino, Marco Antonio Motisi, Giovanni Pilato e Giovanni Falcone), nella contemperata applicazione dei criteri contemplati dalla legge, prima ancora che dalla circolare, – dell’anzianità, delle attitudini e dei meriti «opportunamente integrati tra loro» – sia ineludibile la prioritaria considerazione in favore del dott. Antonino Meli, il quale adeguatamente coniuga alla maggiore anzianità di ruolo, un quadro professionale più che apprezzabile sui profili attitudinali e di merito e, conclusivamente, del tutto tranquillamente circa la sua piena idoneità alla reggenza di un ufficio direttivo di tanta delicatezza e importanza.

La titolarità di quest’ultimo postula, certo, l’assolvimento di compiti direttivi e organizzativi che si caricano (alla luce delle emergenze specifiche della repressione dei delitti perpetrati dalla criminalità organizzata mafiosa) di valenze e impegni particolarissimi; la ricerca, che ne consegue, di un adeguato tasso attitudinale non può, a questo punto, prescindere dal possesso da parte dell’aspirante di un’apprezzabile concreta conoscenza di quella peculiare problematica; ciò, d’altra parte, in piena coerenza con i già richiamati criteri di legge e di circolare, giacché anche la normativa consiliare sottace il recepimento del principio della concorsualità concreta (connotato essenzialmente dal rilievo che in esso assume rilevanza «la idoneità professionale a un posto determinato, non solo per il tipo di funzione che questo esprime, ma anche per le peculiarità ambientali che possono caratterizzarlo»).

Tuttavia, la giusta rilevanza del dato attitudinale e la sua lettura secondo i criteri ampi che precedono, non può trasmodare in una sopravvalutazione «a schiacciamento» di questo requisito sugli altri (anzianità e merito), che debbono ex lege concorrere nella valutazione complessiva e armonicamente coordinarsi nella individuazione del cosiddetto «uomo giusto al posto giusto».

L’uomo giusto» non è, pertanto, quegli che si prospetta in ipotesi, preliminarmente il più idoneo alla copertura di un determinato posto, volta per volta oggetto di concorso, nel quale le qualità professionali vengano commisurate anche alle specificità ambientali, ma, innanzitutto quello scelto con criteri «giusti», e cioè legittimi. Non è chi non veda come solo per tali profili l’organo di governo autonomo possa dar luogo, in un settore così delicato ed essenziale delle sue attribuzioni tipiche, a corretto esercizio dei suoi poteri discrezionali tale da rafforzarne la credibilità all’interno come all’esterno della istituzione giudiziaria; come, d’altra parte, poco valga invocare la peculiarissima necessità di tutela degli spazi di legalità in aree geografiche e sociali di particolare compromissione, giacché la legalità va salvaguardata, innanzitutto e come essenziale momento propedeutico, assicurando la coerenza dell’operato dell’organo amministrativo ai criteri di legge nei momento della scelta, coerenza della quale il consiglio non può spogliarsi, cedendo a moti emozionali ovvero alla opinione del cosiddetto «uomo della strada» (fattore questo, ove esista, rispettabile quanto estraneo allo Stato, alla legge e alla circolare).

Su tali premesse, e ritornando sui binari della valutazione comparativa, va ribadito che il dott. Meli per il suo curriculum professionale si prospetta più che adeguato ai delicati compiti già accennati, secondo le oggettive emergenze del suo fascicolo, rappresentate dai vari pareri redatti in occasione delle fasi di progressione in carriera. Questi, che ebbe a esercitare nel sia pur lontano periodo marzo 1950/aprile 1951 anche funzioni di sostituto procuratore presso la procura di Varese, – tra l’altro molto encomiabilmente, secondo gli attestati – ha poi svolto funzioni di pretore e giudice a Varese, pretore a Trapani e a Palermo, giudice del tribunale di Palermo (dal 27 maggio 1964 al 12 luglio 1970), presidente di sezione del tribunale di Caltanissetta dal 13 luglio 1970 e, infine e in atto, presidente di sezione della Corte di appello di Caltanissetta dal 20 maggio 1985.

Focalizzandosi, in particolare, l’attenzione sull’ultimo ventennio, emerge che il presidente del tribunale di Palermo, in relazione alle funzioni assolte dal Meli in quell’ufficio come «addetto alle sezioni penali», attesta aver lo stesso svolto «considerevole attività con particolare impegno, notevole capacità e non comune senso di responsabilità e vivo attaccamento al dovere», provvedendo alla stesura di «numerose sentenze, anche in processi gravi e complessi».

Tali sue capacità di magistrato versato ed esperto, in particolare nella materia penale, si articolavano e arricchivano con la successiva esperienza di presidente di sezione dei tribunale di Caltanissetta, nella quale, come riferito, mostrava «grandissime capacità, affrontando con sicurezza e prestigio i processi più complessi e difficili», in particolare «dirigendo il dibattimento con grande prestigio, dignità, serenità, diligenza e zelo», e provvedendo, personalmente, alla «redazione delle sentenze dei processi più complessi».

Appare, pertanto, innegabile una lunga e preziosa esperienza, nel Meli, di organizzazione e direzione dell’istruttoria dibattimentale (nelle funzioni per molto tempo espletate di presidente della Corte di assise di primo grado – per oltre dieci anni – e poi di appello) anche in relazione a processi di grande rilievo, quale, ad esempio, quello relativo all’assassinio dei dott. Rocco Chinnici. D’altra parte il Meli, che ha presieduto anche la sezione istruttoria presso la Corte di appello di Caltanissetta dal 20 maggio 1985, ha affinato sul campo le sue attitudini dirigenziali organizzative mercé sia l’esercizio protratto di funzioni semidirettive, come già notato, sia l’assolvimento di compiti direttivi vicari già nel periodo gennaio 1975/settembre 1976, in cui ebbe ad assumere la difficile reggenza del tribunale di Caltanissetta («carente di giudici e di funzionari di cancelleria»), e, quindi e in ultimo, di presidente della Corte di appello nissena dal 22 giugno 1987.

A fronte di questo quadro professionale alimentato da una notevole indiscutibile laboriosità e di questi dati attitudinali spiccati, anche alla luce delle specifiche esigenze ambientali e tipiche dell’ufficio ad quem, e sulla premessa del possesso sicuro, da parte dei predetto, di quei requisiti di indipendenza e refrattarietà a ogni condizionamento coessenziali alla funzione giudiziaria come voluta dal Costituente, deve ritenersi che gli altri candidati sopra rassegnati siano corredati da requisiti attitudinali e di merito, che se per taluni di essi appaiono notevoli e in particolare per l’ultimo secondo l’anzianità, il dott. Giovanni Falcone, si prospettano notevolissimi, per tutti non possono reputarsi tali, con riferimento ai requisiti di legge e ai criteri ex circolare già richiamati, da giustificare nella comparazione specifica con il Meli, e anche in relazione alle esigenze concrete del posto da coprire, il superamento della maggiore anzianità, né, comunque, il convincimento di una idoneità specifica tanto maggiore rispetto a quella già lumeggiata e ritenuta in capo al Meli.

A tale conclusione, d’altronde, non può non pervenirsi anche nel confronto specifico con l’aspirante dott. Giovanni Falcone; osservandosi, per tale particolare profilo e sulla premessa del richiamo delle considerazioni più generali sopra svolte, che se innegabili e particolarissimi sono i meriti acquisiti da questo ultimo nella gestione razionale, intelligente ed efficace – animata da una visione culturale profonda del fenomeno criminale in oggetto e da un coraggio e da una abnegazione a livelli elevatissimi – dei compiti istruttori attinenti ai più gravi processi per la repressione della criminalità mafiosa (per i quali può richiamarsi in sintesi il contenuto della comunicazione agli atti del consigliere istruttore del 17 luglio 1987), tuttavia, queste notazioni non possono essere invocate per determinare uno «scavalco» di 16 anni circa.

Una siffatta scelta condurrebbe, secondo quanto già evidenziato, all’annullamento sostanziale di un requisito di legge e renderebbe arbitrario, anzi illegittimo, l’operato dell’organo. Ciò tanto più ove si sia raggiunta la tranquillante sicurezza di una incondizionata idoneità del più anziano alla dirigenza dell’ufficio in oggetto.

P.M.Q.
La commissione a maggioranza (tre voti favorevoli per il dott. Meli e due per il dott. Falcone) propone il conferimento dell’ufficio direttivo di consigliere istruttore presso il tribunale di Palermo, a sua domanda, al dott. Antonino Meli magistrato di Cassazione nominato alle funzioni direttive superiori, attualmente presidente di sezione della Corte di appello di Caltanissetta.

Umberto Marconi (relatore in commissione, eletto di Unità per la Costituzione):  L’inefficienza della giustizia, nel settore fondamentale, anzi vitale per il paese della repressione della criminalità organizzata, deve alimentarsi della forza della intera compagine giudiziaria, vista come attivazione diffusa, volontà diffusa di impegno, responsabile potere diffuso, ai vari livelli.

Accentrare il tutto in figure emblematiche, pur nobilissime, è di certo fuorviante e pericoloso. Ciò è titolo per alimentare un distorto protagonismo giudiziario, incentivare una non genuina gara per incarichi giudiziari di ribalta, degradare un così ampio impegno in una cultura da personaggio, pericolosa tentazione in chi si sia accinto su ben altre premesse a tanto encomiabile servizio. Si trasmoda nel mito, si postula una infungibilità che non risponde al reale, mortifica l’ordine giudiziario nel suo complesso ed espone a gravissimi rischi soggettivi – e oggettivi – chi vi indulga.

E non è tutto: perché ciò che – solo apparentemente – si acquista per un verso, si disperde assai più e per mille rivoli altrove, in termini di concreta disincentivazione dei colleghi che, umilmente e silenziosamente, ma con notevole impegno, abnegazione e coraggio, si accaniscono nel loro lavoro. Ed è pensabile che questi siano a ciò sospinti dalla ambizione per la cosiddetta carriera? O non è il caso, piuttosto, di ritenere che costoro, destinati a operare, a volte per decenni, in condizioni di paurosa carenza di strutture, con strumenti normativi inadeguati e incerti, nella ostilità oggi cristallizzata di immensi e/o più modesti centri di potere esterni, siano fondamentalmente motivati dall’orgoglio, dalla onorabilità morale e professionale, dal senso di una pubblica funzione umile quanto bella, perché più di ogni altra permeata di valori costituzionali di autonomia, indipendenza e terzietà, ideale nutrimento per le libertà fondamentali del cittadino?

Ed e a questi, e sono tanti, che noi dobbiamo rispetto, e siamo stretti, nel nostro specifico, a tributarlo in concreto, garantendo legalità ed equilibrio nelle procedure tutte di nostra spettanza, e anche in quelle di nomina per posti direttivi, perché si possa dire che senza abusi, senza sussulti, senza «scavalchi» (indecifrabili se non in termini di logiche di potere e comunque extralegali) noi assicuriamo a ciascuno il suo.

Che il giudice si occupi del suo lavoro, sicuro che la giusta aspirazione a percorrere le varie tappe della sua formazione professionale sarà esaudita dall’organo a ciò preposto senza che egli si turbi, senza che si veda costretto ad agire in prevenzione per costruire, mercé una opportuna serie di contatti con centri di potere esterni e/o interni all’ordine giudiziario, le premesse per il suo esaudimento, magari nell’ottica di una sua necessitata tutela rispetto a prevedibili concorrenti più aggressivi e competitivi. Ed è questa una logica certo corretta, perché coerente alla legge e alle aspettative dei giudici, quanto tendenzialmente inesorabile e intollerante di eccezioni.

L’eccezione, in ipotesi supportata – nella più perfetta buona fede – dalla eccezionalità, anche oggettiva, delle circostanze esteriori, vulnera il principio con la stessa efficacia maligna e dirompente dell’accordo di potere; e costringe ogni volta, secondo la mitologica immagine, a riportare il macigno sulla china nello sforzo di Sisifo di ricostruire la credibilità dell’organo, l’immagine di correttezza istituzionale infranta. Ecco perché, con sofferenza, non è possibile anteporre l’ultimo aspirante nella graduatoria di anzianità, di 16 anni professionalmente più giovane dei primo, al più anziano e meritevole Meli, né a questi né ad altri, tutti pregressi nel ruolo. La diversa impostazione, da altri espressa, non è d’altra parte nuova nelle dialettiche consiliari.

Questa aula in certo senso ancora riecheggia degli animati dibattiti, sia delle pregresse consiliature che di quella odierna relativi ai cosiddetti casi Vigna, Gagliardi, Borsellino e altri, la cui eco si è proiettata ben oltre, a testimonianza della trascendenza indiscutibile dei valori in discussione, che impongono direttamente nell’area dei fondamentali requisiti costituzionali della funzione, innanzi richiamati.

Ma non ci è possibile condividere quella filosofia, non solo e non tanto per ragioni di coerenza imposte dalla linea seguita costantemente nelle vicende richiamate, ma soprattutto perché essa rimane e a tutt’oggi ancora una volta si disvela – al di là delle migliori intenzioni dei suoi animatori – illegale nella sua essenza e perversa nei suoi effetti. Essa è tale, infatti, da condurre a calpestare le regole dello Stato di diritto, da sfiancare pericolosamente e contra lege gli spazi di discrezionalità pure insiti nel potere di amministrazione confidato a quest’organo in un momento fondamentale delle sue attribuzioni tipiche, deraglia, in definitiva, il consiglio dai binari voluti dal Costituente.

Una crisi così profonda quale quella che mostra travagliare, secondo profili vieppiù marcati e crudi, la giustizia, non si risolve con i fuochi di artificio di segnali emblematici. Lo sforzo troppo spesso individualistico quanto nobile gravante su larghe fasce della magistratura italiana – per esempio sui giudici calabresi oppressi da una criminalità dilagante, cresciuta paurosamente in termini percentuali e qualitativi, secondo quanto si evince dalla impressiva relazione dell’avvocato generale Belmonte, ma al contempo su tanti, tanti altri, tra i quali, in primissima linea, il collega Falcone – esige, al di là della stessa abnegazione dei magistrati, ben altro.[…]

Ed ecco lo strano, ma non casuale parallelismo, di una siffatta, ampia alternativa con il più modesto, ma analogo bivio, che oggi vede questo Consiglio superiore della magistratura travagliato nella vicenda qui in discussione, che, pure, attiene alla efficienza di un piccolo, ma essenziale segmento della complessiva struttura giudiziaria: segno incisivo, permanente, nella coerenza del rispetto della legge, o segnale, reclamistico, a effetto; buono per l’uomo della strada e per la cultura perversa del protagonismo giudiziario.

Ai cari colleghi, sciogliere il nodo di questa alternativa. Appello non retorico, al quale, sono certo, e concludo, saprete, con la vostra odierna espressione di voto, sofferta quanto bella perché consapevole, libera, pubblica, dare una risposta coerente a quelle complessive, fervide attese dei colleghi, degli operatori giudiziari, dei cittadini più avvertiti e consapevoli; una risposta che non dia un effimero segnale, ma sia segno profondo, irreversibile, del nuovo corso di politica della giustizia.

Antonino Abbate (membro togato, eletto di Unicost)  La nomina del dirigente dell’ufficio istruzione dei tribunale di Palermo avviene in un momento delicato ma non nuovo della vita politica, istituzionale, giudiziaria della intera regione siciliana e deve indurre tutti noi a valutare coraggiosamente la realtà, a operare una scelta chiara, professionalmente attendibile sulla quale non siano consentite strumentali «ricognizioni», «dietrologie» di moda, presentate magari come verità inconfutabili ai cittadini che di verità, e di verità soltanto, hanno oggi concretamente bisogno.

In un simile contesto i giudici hanno una strada obbligata, quella di esercitare correttamente la propria attività nell’ambito di un ruolo disegnato in maniera netta dalla Costituzione, rifiutando l’assunzione di ulteriori supplenze e riaffermando il primato delle procedure, privilegiando quei contenuti di professionalità, di competenza, di indipendenza, di equilibrio e di terzietà che non tollerano protagonismi, approssimazioni e scorciatoie finalizzate al raggiungimento del risultato.

Questi criteri – non certamente emergenze contingenti, né impressive notazioni localistiche – impongono che il Consiglio adotti nel caso concreto una scelta ben chiara, responsabile, idonea a garantire una continuità di azione, che non suoni in ogni caso strappo alle norme che sovraintendono al conferimento di particolari incarichi direttivi.

Proprio in tale ottica ho espresso in commissione il mio voto in favore del collega Giovanni Falcone e voglio qui ribadire la validità della mia opzione, che si preoccupa della esigenza di assicurare a un ufficio di grande importanza la direzione di un magistrato che, per la sua preparazione, le sue specifiche esperienze, le sue doti di inquirente, la sua conclamata professionalità, le capacità organizzative evidenziate sul campo, appare oggettivamente meritevole di ogni considerazione, anche per il coraggio dimostrato in frangenti difficilissimi che non vanno assolutamente dimenticati.

Senza toni da crociata e senza nulla togliere alla professionalità e ai meriti degli altri aspiranti, ritengo personalmente che designando Giovanni Falcone il Consiglio superiore della magistratura compie oggi una scelta legittima e comprensibile.

Sergio Letizia (membro togato, eletto per il Sindacato magistrati)  La legge individua due criteri fondamentali per la scelta dei dirigenti degli uffici giudiziari: l’anzianità e il merito. Esprimere un voto a favore del dott. Falcone significherebbe contravvenire alla legge in ordine a uno di quei due criteri; nonostante infatti gli indiscussi meriti del dott. Falcone, ben sei altri candidati, tutti meritevoli, possono vantare una anzianità maggiore, in particolare il dott. Meli, primo nella graduatoria di anzianità, e entrato in servizio addirittura sedici anni prima del dott. Falcone.

Ribadendo che non intendo affatto disconoscere l’impegno e la professionalità di Falcone, non credo comunque ai geni o ai superuomini, e che, al posto di Falcone, io, come del resto ho fatto in diverse occasioni, non avrei nemmeno presentato la domanda in presenza di candidati molto più anziani.

Non si deve del resto dimenticare che tanti altri magistrati in tutta Italia, con la stessa anzianità di Falcone, possono vantare gli stessi meriti nella lotta contro la mafia, una lotta che non si conduce soltanto a Palermo ma che si realizza, ad esempio, in tutti i luoghi in cui si promuovono processi penali contro il traffico degli stupefacenti. Né si deve dimenticare che della professionalità fa parte anche la modestia. E miglior segnale che il Consiglio può dare per la lotta contro la mafia non è assegnare l’ufficio in esame al dott. Falcone, il quale può continuare il suo meritevole impegno di giudice del tribunale di Palermo, ma mostrare che in Italia non è soltanto Falcone a essere capace di lottare contro il fenomeno mafioso.

Stefano Racheli (membro togato, eletto per Magistratura indipendente)  Signor presidente, io affermo qui che non possiamo sottrarci all’obbligo di leggere la legge e le nostre circolari in modo che finalmente emerga quella professionalità specifica che sola è in grado di non avvilire l’istituzione giudiziaria precipitandola in una pseudo professionalità fatta, alla resa dei conti, di sola anzianità.

Deve essere assolutamente chiaro che non intendo assolutamente mandare messaggi spendibili nel senso che qui si voglia celebrare la scomparsa dell’anzianità quale parametro di valutazione. Meno che mai intendo premiare i rischi che alcuno tra i candidati deve subire per effetto del Suo ufficio. Voglio solo mettere a capo dell’ufficio istruzione di Palermo la persona che meglio di tutti può condurre questo ufficio. Questo è il nostro dovere in questo momento.

Mi limiterò a due dati telegrafici: il magistrato proposto dalla commissione è alle soglie della pensione e non ha mai (dico mai) fatto il giudice istruttore. Signor presidente, l’anzianità senza demerito è criterio che non può bastare per l’ufficio istruzione di Palermo. Ognuno deve prendere una responsabilità che è personale e forte – al di là di gruppi e schieramenti – perché troppa storia dei nostro paese è legata a decisioni come questa. Preannunzio perciò voto contrario alla proposta della commissione.

Fernanda Contri (membro laico, eletto per il Psi)   Non risponderò ad alcuna delle provocazioni troppo facilmente proposte in questa sede. Ciò che è importante è riaffermare con forza la responsabilità della scelta cui è chiamato il Consiglio, che non è un computer nel quale basta inserire dati obiettivi per ottenerne soluzioni automatiche, ma che deve mettere in opera un iter logico, motivato e sofferto.

Il mio netto orientamento è a favore dei dott. Falcone, la cui specializzazione nella lotta contro la mafia è unica, non soltanto in Italia, e tale da far superare ogni perplessità. Se in passato è stato sufficiente prendere in considerazione la specifica professionalità di un candidato per consentirgli di superare una barriera di due o di quattro anni di minore anzianità, ebbene io non ho alcun dubbio nell’affermare che la professionalità del dott. Falcone è talmente eccezionale da consentirgli di superare un divario di anzianità anche maggiore rispetto a quello attuale.

Oltre alla professionalità, un altro fattore che mi induce a dare il mio voto a Giovanni Falcone è la garanzia di continuità nella direzione dell’ufficio che la scelta dei medesimo assicurerebbe: continuità di un lavoro e di un impegno che sono stati seri, corretti ed efficaci. Egli ha dimostrato il massimo di professionalità, di coraggio, di impegno, di vitalità; e di fronte alla dimostrazione di tali doti è auspicabile che almeno una delle amministrazioni dello Stato, quella giudiziaria, dia un concreto segno di voler cominciare a funzionare in Sicilia.

Massimo Brutti (membro laico, eletto per il Pci)  È doveroso ricordare che negli ultimi 10 anni due consiglieri istruttori del tribunale di Palermo sono stati uccisi, il dott. Terranova nel 1979 e il dott. Chinnici nel 1983, e che questa strategia intimidatoria messa in atto dalla mafia non è stata certamente ancora sconfitta. La mafia, che ha a Palermo il suo quartiere generale, continua a mostrare la propria pretesa di impunità e dunque ha bisogno di una giurisdizione timida, lenta e inefficiente.

Il Consiglio deve rispondere a questa sfida usando giudiziosamente la propria discrezionalità con la scelta di un uomo giusto al posto giusto che più volte in passato ha mostrato di saper adeguatamente valutare le particolari condizioni di isolamento in cui sono costretti a operare i magistrati di Palermo. La scelta compiuta nel 1983 a favore dei dott. Caponnetto è stata una decisione meditata.

Ciò premesso, ricordo come la nuova circolare in materia di conferimento di incarichi direttivi, preveda la possibilità di superare un divario di anzianità, anche considerevole, in virtù di una specifica e motivata valutazione che evidenzi il possesso da parte del candidato meno anziano di specifiche doti attitudinali o di merito di spiccato rilievo, anche con riferimento alle esigenze organizzative ed eventualmente a particolari profili ambientali.

Tenuto conto di tale referente normativo e avuto riguardo al particolare contesto ambientale palermitano, ritengo doveroso, oltreché opportuno, sottolineare il carattere eccezionale dell’impegno specifico del dott. Falcone, per cui preannuncio il mio dissenso dalla proposta della commissione a favore del dott. Meli. Questa proposta non tiene conto delle doti, dei meriti particolari e dell’esperienza prolungata nel tempo del dott. Falcone e, al contempo, attribuisce un’importanza esorbitante al requisito dell’anzianità.

Ma anche a voler dedicare una particolare attenzione ai meriti trascorsi dei dott. Meli, emerge come la sua esperienza sia maturata nel settore della magistratura giudicante e come non abbia mai svolto nella sua lunga carriera le funzioni di giudice istruttore. Certo, il dott. Meli ha esercitato funzioni requirenti, ma in tempi molto lontani (intorno al 1949) e per un breve periodo (circa 9 mesi). Né si può tralasciare, se si vuole pervenire a una visione esaustiva, di soffermarsi su alcuni comportamenti tenuti dal dott. Meli nel corso degli ultimi anni e alla luce dei quali l’elemento in apparenza a suo favore, quello dell’anzianità, potrebbe addirittura rivelarsi controproducente.

Infatti il dott. Meli si è caratterizzato negli ultimi anni per una reiterata impulsività che non costituisce certo un dato caratteriale ideale per l’assunzione dell’ufficio direttivo di consigliere istruttore. Cito una discutibile intervista rilasciata dal dott. Meli nel 1984 all’indomani della pubblicazione di un’intervista della vedova del dott. Terranova.

Indipendentemente dalla valutazione di certe formulazioni espressive di dubbio gusto adoperate in quella occasione, il dott. Meli si comportò in maniera poco consona all’autocontrollo richiesto a un magistrato nella sua posizione. Ma non si trattò di un episodio isolato; infatti questa instabilità caratteriale ha avuto modo di manifestarsi in modo ancora più vistoso nel corso della nota vicenda in cui il dott. Meli si è contrapposto al dott. Patanè.

In tale occasione, il Consiglio ebbe modo di venire a conoscenza di affermazioni del dott. Meli troppo leggere e non meditate, che confermano il convincimento della inadeguatezza del dott. Meli ad aspirare a un incarico tanto importante. Voglio infine ricordare l’atteggiamento oscillante del dott. Meli nelle more del conferimento dell’ufficio direttivo di presidente del tribunale di Palermo. Non solo il dott. Meli ha revocato la domanda inizialmente presentata, ma è addirittura arrivato a revocare la revoca della domanda, alimentando il sospetto di una caratteriale instabilità di cui il Consiglio deve in questo momento tener conto. In conclusione, sulla base di questi elementi, preannuncio il mio voto contrario alla proposta della commissione.

Franco Tatozzi (membro togato, eletto per Unità per la Costituzione)  Una scelta a favore del dott. Falcone potrebbe essere interpretata come una sorta di dichiarazione di stato di emergenza degli uffici giudiziari di Palermo decretata da un organo che, senza essere politicamente responsabile, si arrogherebbe il diritto di sospendere l’applicazione delle regole legali.

Esprimo le mie perplessità sul fatto che l’assegnazione del posto di consigliere istruttore al dott. Falcone – al quale peraltro mi legano non solo sentimenti di stima e amicizia ma anche l’appartenenza allo stesso gruppo – costituirebbe un effettivo rafforzamento della risposta giudiziaria all’attacco portato dalla mafia. Come consigliere istruttore, infatti, Falcone sarebbe obbligato a far fronte a esigenze di organizzazione generale di un ufficio senz’altro oneroso, mentre, proprio al fine di non depotenziare la sua capacità di incidenza nella lotta alla mafia, appare preferibile che il dott. Falcone possa continuare a occuparsi di tale fenomeno in una posizione di prima linea. Annuncio quindi il voto favorevole alla proposta della commissione.

Giuseppe Borrè (membro togato, eletto per Magistratura democratica)  Dichiaro che il mio voto sarà favorevole alla proposta della commissione. Non sono molti gli anni che ci separano da quando ancora si diceva che la mafia non esiste, o da quando, pur ammettendosi il fenomeno, si tendeva a ridurlo a un semplice fatto di sottocultura.

Giovanni Falcone, inserendosi con intelligenza nel solco aperto da una nuova intellettualità democratica, ha capito che le cose non stanno così e che ampi e doverosi spazi si aprono a un magistero penale razionalmente esercitato. Ciò egli ha compreso e si è comportato, nei fatti, con lucida coerenza.

I meriti di tale candidato sono dunque alti: tanto da suscitare perplessità e incomprensione in larga parte dell’opinione pubblica verso una scelta che non sia a lui favorevole. Mi è facile contrastare tale diffuso stato d’animo nella parte in cui pretende fondarsi su un concetto da premialità, peraltro sicuramente estraneo alla domanda proposta dal collega Falcone. Molto egli ha fatto, – si sente dire in giro, e non solo dall’uomo della strada, – molto ha realizzato, molto ha rischiato di persona, e dunque molto egli merita. In realtà non può esservi premio per l’adempimento del dovere, neppure quando si tratti di inedito e straordinario adempimento. L’adempimento del dovere sarebbe non onorato, ma inquinato dal premio.

Giancarlo Caselli(membro togato, eletto per Magistratura democratica)  La soluzione del caso in esame, quando sia riferita alla specificità del caso concreto, ha un percorso obbligato: deve puntare su un uomo del pool antimafia, deve puntare sulla struttura che a questo pool fa capo. Il pool di magistrati dell’ufficio istruzione di Palermo ha saputo attrezzarsi (prima di tutto culturalmente) realizzando così una struttura nuova affiatata, che ha diffuso professionalità.

Non bisogna infatti dimenticare che si è trattato di una struttura aperta, nel senso che ha formato professionalmente magistrati che, prima di entrare a far parte del pool, di questi problemi non si erano mai occupati e che viceversa, grazie al pool, hanno conseguito livelli di capacità decisamente di grande rilievo.

Alla fine, operando in questo modo, il pool di giudici istruttori del tribunale di Palermo ha ottenuto risultati di grande rilievo, basati sulla individuazione dei caratteri della nuova mafia. I primi risultati, dopo anni, decenni e decenni di sostanziale impunità. In alcuni interventi si è parlato di premio, in particolare di premio al protagonismo, come di un criterio da non seguire, e la storia del protagonismo e un po’ come la storia di quando le donne portavano il velo.

A quel tempo le donne erano tutte belle, ma quando il velo cadde si cominciarono a constatare delle differenze. Un po’ la stessa cosa è successa per la magistratura. Quando i giudici non davano «fastidio», quando non erano scomodi, erano tutti bravi e belli. Ma quando hanno cominciato ad assumere un ruolo preciso, a dare segni di vitalità, a pretendere di esercitare il controllo di legalità anche verso obiettivi prima impensati, ecco che è cominciata l’accusa di protagonismo. Mentre quei giudici che si tirano indietro (ed è successo sia a Torino in occasione del processo d’Assise ai capi storici delle Brigate rosse, sia a Palermo, in occasione dei processo d’Assise alla mafia da poco concluso) non rischiano proprio nulla e nessuno si leva a protestare o levar critiche nei loro confronti.

In altri interventi si è parlato di premio nel senso di carriera che correrebbe lungo corsie «privilegiate» per quei giudici che abbiano fatto determinate esperienze professionali. Ma è inconcepibile, perfino un po’ scandaloso,. che si parli di privilegio con riferimento ai giudici di Palermo che vivono nelle condizioni a tutti note; che semmai rappresentano una pesante penalizzazione. Nel caso della lotta alla mafia, questi interessi sono gli interessi della democrazia, ciò che rende questa seconda visione (non settoriale) del tutto giustificata. Per questi motivi esprimo avviso contrario alla proposta della commissione.

Vito D’Ambrosio (membro togato, eletto per Unità per la Costituzione)  Sarebbe certamente una sciocchezza considerare Falcone un Superman capace da solo di battere la mafia, ma è altrettanto sicuro che Falcone non ha soltanto la capacità di lavorare al meglio, ma anche di organizzare e di far lavorare al meglio l’ufficio istruzione; egli non è soltanto un bravo giudice istruttore, ma è anche un bravo organizzatore del pool che gode di prestigio a livello nazionale e internazionale.

E il dott. Falcone ha però anche un altro merito: operando in una situazione estremamente difficile non è diventato un nuovo prefetto Mori; ha dimostrato di saper rispettare le regole del processo penale e di avere le capacità di aggregare un gruppo di giudici che non sono certo le sue marionette, ma sono riuniti intorno a uno o due punti di riferimento; Falcone non può quindi considerarsi eccezionale, ma certamente e propriamente può definirsi un punto di riferimento unico, perché unica è la situazione operativa in cui agisce e perché unico è il patrimonio conoscitivo, operativo e tecnico che è riuscito ad accumulare in un contesto come quello palermitano.

Sebastiano Suraci (membro togato, eletto per Unità per la Costituzione)  Le naturali difficoltà che caratterizzano una decisione delicata quale quella che il Consiglio si accinge ad assumere sono accresciute dalla circostanza che il dott. Falcone aderisce alla corrente di Unità per la Costituzione, alla quale anche io aderisco.

Ritengo corretta l’impostazione di quei colleghi che si sono impegnati per una sdrammatizzazione della vicenda e concordo con il giudizio di eccellenza formulato nei confronti del dott. Falcone, al quale devono essere riconosciute una straordinaria capacità professionale e una rara competenza come giudice istruttore in relazione a fenomeni di criminalità organizzata. Tale competenza è indubbiamente necessaria nel magistrato che andrà a ricoprire l’ufficio di consigliere dirigente all’ufficio istruzione di Palermo, e non vi e dubbio che il dott. Meli non può vantare una capacità specifica pari a quella del dott. Falcone.

Tuttavia il merito di quest’ultimo, come emerge dall’articolata motivazione della proposta, non può essere messo in discussione: tale magistrato svolge attività giudiziaria da quarant’anni con una competenza, dignità e prestigio che lo rendono meritevole del posto in discussione. Se a ciò si aggiunge l’enorme divario di anzianità tra il dott. Meli e gli altri candidati e il fatto che da anni egli esercita funzioni equiparate a quelle di legittimità, la scelta non può che essere a suo favore.

Elena Paciotti (membro togato, eletto per Magistratura democratica) Mi preoccupa che da qualche parte si voglia presentare la scelta che dobbiamo compiere come leggibile in termini di maggiore o minore impegno antimafia del consiglio e della magistratura. Mi preoccupa che questo suggestivo messaggio venga raccolto da chi onestamente si batte per un corretto intervento di tutte le istituzioni pubbliche contro il potere mafioso.

È con tranquilla coscienza che indico il mio voto per il dott. Meli, nella speranza che – quale che sia la scelta del Consiglio – l’eccellente lavoro dell’ufficio istruzione di Palermo possa proseguire con la collaborazione di tutti pur nella gravissima situazione che i tragici avvenimenti di questi giorni hanno ancora una volta sottolineato.

Carlo Smuraglia (membro laico, eletto per il Pci)  Nessuno dovrebbe preoccuparsi del ricorso alla formula dell’«uomo giusto al posto giusto» che, anche se corrisponde a una frase fatta, è espressione di una logica di scelta fondata e corretta.

Quando si afferma che il dott. Meli possiede certamente doti incontestabili, ma doti non sufficientemente tranquillizzanti per un posto di tanta responsabilità, non si compie nessun attentato contro il dott. Meli, ma si compie il dovere proprio del Consiglio di interrogarsi sulle specifiche attitudini di ogni candidato.

Mi preoccupa invece il fatto che si voglia assegnare al dott. Meli la direzione di un ufficio che nella sostanza esplica funzioni di natura inquirente e istruttoria, che egli non ha mai svolto, affidandosi quindi a una sorta di sperimentazione, mentre tutti dovrebbero essere consapevoli che non c’è assolutamente tempo da perdere.

Si debbono scegliere uomini che abbiano anche una particolare conoscenza del fenomeno mafioso, perché istruire un processo in materia di mafia non è la stessa cosa che istruire un processo per furto. Al riguardo è da ricordare che una parte della magistratura ha aiutato tutti a compiere passi in avanti nella conoscenza della mafia anche dal punto di vista culturale. Se il maxiprocesso di Palermo si è potuto celebrare, lo si deve anche a chi ha saputo condurre l’istruttoria nel rispetto delle regole e adottando tecniche di indagine estremamente sofisticate: ciò è stato fatto dall’ufficio istruzione di Palermo e in particolare dal dott. Falcone.

L’opinione pubblica non chiede di assegnare un premio, perché non di questo si tratta, ma di compiere scelte sicure e trasparenti, che tranquillizzino anche la collettività. Nominare il dott. Falcone consigliere istruttore significherebbe attribuire un altro onere a un magistrato già costretto dal suo impegno a grandi sacrifici e a rinunciare alla propria vita privata. Non si tratta dunque di assegnare né premi, né medaglie, né hanno ragione di dolersi coloro che hanno preferito affrontare le tranquille strade delle cause di sfratto.

Vincenzo Geraci (membro togato, eletto per Magistratura indipendente)  È proprio dal ricordo, per me ancora bruciante, della copertura dell’ufficio marsalese, che voglio prendere le mosse per ripassare la tetragona, compatta e irriducibile opposizione espressa proprio in quest’aula soprattutto dal maggioritario gruppo togato del Consiglio il quale, pur col buon gusto di non contestare le indiscusse doti di professionalità, abnegazione e coraggio del collega Borsellino, aspirante al posto, ritenne in quell’occasione che le stesse non potessero fare aggio sul dato della maggiore anzianità dell’altro concorrente.

Ricordo, in particolare, le parole pronunciate dal collega D’Ambrosio e puntualmente riportate nel Notiziario straordinario n. 17 del 10 settembre 1986 di questo Consiglio che si volle appositamente pubblicare, su iniziativa del collega Abbate, per informare i colleghi magistrati della scelta compiuta dal consiglio.

Ebbene, nell’occasione, D’Ambrosio dichiarò che il Consiglio non poteva lasciarsi influenzare dalla notorietà dei magistrati interessati, perché ciò avrebbe significato incentivare il protagonismo dei giudici che, tra i suoi effetti deleteri, avrebbe avuto anche quello del ritorno a un deprecabile carrierismo già alimentato dalle infelici sentenze della Corte costituzionale e del Consiglio di Stato.

Pur con il disagio di dover ripercorrere momenti autobiografici rimasti indelebilmente impressi nel vissuto di quella sparuta pattuglia di «samurai» che si buttò generosamente a corpo morto, con immani sacrifici e rischi personali, nel contrasto giudiziario alla barbarie mafiosa in un momento in cui le strade di Palermo erano letteralmente lastricate di morti e i vertici istituzionali dell’isola venivano impietosamente decapitati uno dopo l’altro, sento di dover adempiere a un obbligo morale di testimonianza personale nel rappresentare che Giovanni Falcone è stato il migliore di tutti noi, e che io ascrivo a mio esaltante e irripetibile privilegio quello di aver lavorato assieme a lui che ha scritto pagine di riscatto civile nel libro della storia, non solo giudiziaria, del nostro paese.

Ricordo, in particolare, l’emozione che ci prese quando, per primi, verbalizzammo le rivelazioni di un boss di primaria grandezza come Tommaso Buscetta che finalmente squarciava la cortina d’omertà che aveva fin lì protetto la mafia, sottoscrivendosi egli stesso mafioso e consentendoci approdi processuali impensabili solo due anni prima, allorquando era stato presentato il famoso rapporto dei «162», e fin lì lambiti soltanto dalle più intelligenti e audaci intuizioni politiche e sociologiche. Così come ricordo la commozione purtroppo tante volte provata nel ritrovarci davanti ai cadaveri sfigurati di tanti amici e collaboratori, fedeli servitori dello Stato, solo più sfortunati di noi nello sfuggire alla barbara vendetta mafiosa.

Consentirete che io esprima il mio personale, indicibile tormento per l’intera vicenda e per l’inestricabile dilemma in cui rimango avviluppato. Se da un lato, infatti, le notorie doti di Falcone e i rapporti personali e professionali che coltivo con lui mi indurrebbero a preferirlo nella scelta, a ciò mi è però di ostacolo la personalità di Meli, cui l’altissimo e silenzioso senso del dovere, poi sempre manifestato, costò in tempi drammatici la deportazione nei campi di concentramento nazisti della Polonia e della Germania, dove egli rimase prigioniero per due anni dal settembre 1943 al settembre 1945, sopravvivendo a stento.

Credo, anzi, che nonostante il ravvedimento dell’ultima ora, proprio il riconoscimento di questa altissima tempra morale e dignità d’uomo, in uno alle incontestate doti professionali, abbia mosso il collega Brutti nel formulare, nella seduta antimeridiana dei 15 luglio 1987, l’auspicio che lo stesso collega Meli potesse quanto prima conseguire quell’ufficio direttivo – di cui oggi finalmente gli si presenta l’occasione – ove continuare a profondere il suo indiscusso impegno professionale. In tali condizioni, pertanto, vi chiedo di comprendere con quanta sofferenza e umiltà mi sento portato a esprimere il mio voto di favore verso la proposta della commissione.

Deliberazioni finali

Il Consiglio passa alla votazione per appello nominale della proposta della commissione relativa al conferimento dell’ufficio direttivo di consigliere istruttore, presso il tribunale di Palermo, a sua domanda, al dott. Antonino Meli magistrato di Cassazione nominato alle funzioni direttive superiori, attualmente presidente di sezione della Corte di appello di Caltanissetta.


  • Votano a favore di Meli i consiglieri:Agnoli, Borrè, Buonajuto, Cariti, Di Persia, Geraci, Lapenta, Letizia, Maddalena, Marconi, Morozzo Della Rocca, Paciotti, Suraci e Tatozzi.
  • Votano contro (e per Falcone) i consiglieri: Abbate, Brutti, Calogero, Caselli, Contri, D’Ambrosio, Gomez d’Ayala, Racheli, Smuraglia e Ziccone.
  • Si astengono i consiglieri: Lombardi, Mirabelli, Papa, Pennacchini e Sgroi.

PAOLO BORSELLINO: CSM bocciò Falcone con motivazioni risibili e grazie anche a qualche Giuda

Video – PAOLO BORSELLINO: ricorda la bocciatura del CSM 

L’ULTIMO DISCORSO A PALERMO DI PAOLO BORSELLINOIl 25 giugno 1992 Paolo Borsellino interviene ad un dibattito organizzato dalla rivista MicroMega presso l’atrio della Biblioteca Comunale di Palermo. Con lui, il sindaco Leoluca Orlando, l’avvocato difensore di familiari di vittime al Maxiprocesso Alfredo Galasso e Nando dalla Chiesa. Il magistrato giunge nell’atrio gremito della biblioteca a dibattito iniziato. Il suo arrivo è accolto da un lunghissimo e fragoroso applauso, è la Palermo che si stringe intorno lui, è la Palermo che vive il lutto del 23 maggio. Questo è l’ultimo intervento pubblico di Paolo Borsellino prima della strage di via d’Amelio del 19 luglio 1992 in cui persero la vita, oltre al magistrato, gli agenti di scorta Agostino Catalano, Walter Eddie Cosina, Vincenzo Li Muli, Claudio Traina, Emanuela Loi.

Io sono venuto questa sera soprattutto per ascoltare. Purtroppo ragioni di lavoro mi hanno costretto ad arrivare in ritardo e forse mi costringeranno ad allontanarmi prima che questa riunione finisca. Sono venuto soprattutto per ascoltare perché ritengo che mai come in questo momento sia necessario che io ricordi a me stesso e ricordi a voi che sono un magistrato. E poiché sono un magistrato devo essere anche cosciente che il mio primo dovere non è quello di utilizzare le mie opinioni e le mie conoscenze partecipando a convegni e dibattiti ma quello di utilizzare le mie opinioni e le mie conoscenze nel mio lavoro. In questo momento inoltre, oltre che magistrato, io sono testimone. Sono testimone perché, avendo vissuto a lungo la mia esperienza di lavoro accanto a Giovanni Falcone, avendo raccolto, non voglio dire più di ogni altro, perché non voglio imbarcarmi in questa gara che purtroppo vedo fare in questi giorni per ristabilire chi era più amico di Giovanni Falcone, ma avendo raccolto comunque più o meno di altri, come amico di Giovanni Falcone, tante sue confidenze, prima di parlare in pubblico anche delle opinioni, anche delle convinzioni che io mi sono fatte raccogliendo tali confidenze, questi elementi che io porto dentro di me, debbo per prima cosa assemblarli e riferirli all’autorità giudiziaria, che è l’unica in grado di valutare quanto queste cose che io so possono essere utili alla ricostruzione dell’evento che ha posto fine alla vita di Giovanni Falcone, e che soprattutto, nell’immediatezza di questa tragedia, ha fatto pensare a me, e non soltanto a me, che era finita una parte della mia e della nostra vita. Quindi io questa sera debbo astenermi rigidamente – e mi dispiace, se deluderò qualcuno di voi – dal riferire circostanze che probabilmente molti di voi si aspettano che io riferisca, a cominciare da quelle che in questi giorni sono arrivate sui giornali e che riguardano i cosiddetti diari di Giovanni Falcone. Per prima cosa ne parlerò all’autorità giudiziaria, poi – se è il caso – ne parlerò in pubblico. Posso dire soltanto, e qui mi fermo affrontando l’argomento, e per evitare che si possano anche su questo punto innestare speculazioni fuorvianti, che questi appunti che sono stati pubblicati dalla stampa, sul “Sole 24 Ore” dalla giornalista – in questo momento non mi ricordo come si chiama… – Milella, li avevo letti in vita di Giovanni Falcone. Sono proprio appunti di Giovanni Falcone, perché non vorrei che su questo un giorno potessero essere avanzati dei dubbi. 

Ho letto giorni fa, ho ascoltato alla televisione – in questo momento i miei ricordi non sono precisi – un’affermazione di Antonino Caponnetto secondo cui Giovanni Falcone cominciò a morire nel gennaio del 1988. Io condivido questa affermazione di Caponnetto. Con questo non intendo dire perché dell’evento criminoso avvenuto a fine maggio, per quanto io possa sapere qualche elemento che possa aiutare a ricostruirlo, come ho detto ne riferirò all’autorità giudiziaria; non voglio dire che cominciò a morire nel gennaio del 1988 e che questo, e questa strage del maggio 1992, sia il naturale epilogo di questo processo di morte. Però quello che ha detto Antonino Caponnetto è vero; perché oggi che tutti ci rendiamo conto quale è stata la statura di quest’uomo, ripercorrendo queste vicende della sua vita professionale, ci accorgiamo come in effetti il Paese, lo Stato, la magistratura, che forse ha più colpe di ogni altro, cominciò proprio a farlo morire il 1° gennaio del 1988, se non forse l’anno prima, in quella data che ha or ora ha ricordato Leoluca Orlando: cioè quell’articolo di Leonardo Sciascia sul “Corriere della Sera” che bollava me come un professionista dell’antimafia e l’amico Orlando come professionista della politica, dell’antimafia nella politica. Ma nel gennaio del 1988, quando Falcone, solo, per continuare il suo lavoro, propose la sua aspirazione a succedere ad Antonino Caponnetto, il Consiglio superiore della magistratura con motivazioni risibili gli preferì il consigliere Antonino Meli. C’eravamo tutti resi conto che c’era questo pericolo e a lungo sperammo che Antonino Caponnetto potesse restare ancora a passare gli ultimi due anni della sua vita professionale a Palermo. Ma quest’uomo, Caponnetto, il quale rischiava, perché anziano, perché conduceva una vita sicuramente non sopportabile da nessuno, già da anni, il quale rischiava di morire a Palermo, perché temevamo che non avrebbe superato lo stress fisico cui da anni si sottoponeva, a un certo punto fummo noi stessi, Falcone in testa, pure estremamente convinti del pericolo che si correva così convincendolo; lo convincemmo, riottoso, molto riottoso, ad allontanarsi da Palermo. Si aprì la corsa alla successione all’ufficio istruzione al tribunale di Palermo. Falcone concorse, qualche Giuda si impegnò subito a prenderlo in giro, ed il giorno del mio compleanno il Consiglio superiore della magistratura ci fece questo regalo: preferì Antonino Meli.

Giovanni Falcone, dimostrando l’altissimo senso delle istituzioni che egli aveva e la sua volontà di continuare comunque a fare il lavoro che aveva inventato e nel quale ci aveva tutti trascinato, cominciò a lavorare con Antonino Meli, nella convinzione che, nonostante lo schiaffo datogli dal Consiglio superiore della magistratura, egli avrebbe potuto continuare il suo lavoro. E continuò a crederlo nonostante io, che ormai mi trovavo in un osservatorio abbastanza privilegiato, perché ero stato trasferito a Marsala e quindi guardavo abbastanza dall’esterno questa situazione, mi fossi reso conto subito che nel volgere di pochi mesi Giovanni Falcone sarebbe stato distrutto. E ciò che più mi addolorava era il fatto che Giovanni Falcone sarebbe allora morto professionalmente nel silenzio e senza che nessuno se ne accorgesse. Questa fu la ragione per cui io, nel corso della presentazione del libro “La mafia ad Agrigento”, denunciai quello che stava accadendo a Palermo con un intervento che venne subito commentato da Leoluca Orlando, allora presente, dicendo che quella sera l’aria ci stava pesando addosso per quello che era stato detto. Leoluca Orlando ha ricordato cosa avvenne subito dopo: per aver denunciato questa verità io rischiai conseguenze professionali gravissime, ma quel che è peggio, questa iniziativa che allora sembrava soltanto nei miei confronti del Consiglio superiore, immediatamente scoprì quale era il suo vero obiettivo. Proprio approfittando del problema che io avevo sollevato, doveva essere eliminato al più presto Giovanni Falcone. E forse questo io lo avevo pure messo nel conto perché ero convinto che lo avrebbero eliminato comunque. Almeno, dissi, se deve essere eliminato, l’opinione pubblica lo deve sapere, lo deve conoscere, il pool antimafia deve morire davanti a tutti, non deve morire in silenzio.

Allora l’opinione pubblica fece il miracolo, perché ricordo quella caldissima estate dell’agosto del 1988, l’opinione pubblica si mobilitò e costrinse il Consiglio superiore della magistratura a rimangiarsi in parte la sua precedente decisione dei primi di agosto; tant’è che il 15 settembre, seppur zoppicante, il pool antimafia fu rimesso in piedi. La protervia del consigliere istruttore, l’intervento nefasto della Cassazione cominciato allora e continuato fino a ieri, perché, nonostante quello che è successo in Sicilia, la Corte di cassazione continua sostanzialmente ad affermare che la mafia non esiste, continuarono a fare morire Giovanni Falcone. E Giovanni Falcone, uomo che sentì sempre di essere uomo delle istituzioni, con un profondissimo senso dello Stato, nonostante questo, continuò incessantemente a lavorare. Approdò alla procura della Repubblica di Palermo dove, a un certo punto ritenne, e le motivazioni le riservo a quella parte di espressione delle mie convinzioni che deve in questo momento essere indirizzata verso altri ascoltatori, ritenne a un certo momento di non poter lì continuare ad operare al meglio. Giovanni Falcone è andato al ministero di Grazia e Giustizia, e questo lo posso dire sì prima di essere ascoltato dal giudice, non perché aspirasse a trovarsi a Roma in un posto privilegiato, non perché si era innamorato dei socialisti, non perché si era innamorato di Claudio Martelli, ma perché a un certo punto della sua vita ritenne, da uomo delle istituzioni, di poter continuare a svolgere a Roma un ruolo importante e nelle sue convinzioni decisivo, con riferimento alla lotta alla criminalità mafiosa. Quando io, apprendendo dalla radio della sua nomina a Roma (in quei tempi ci vedevamo un po’ più raramente perché io ero molto impegnato professionalmente a Marsala e venivo raramente a Palermo), Giovanni Falcone alla presenza del collega Leonardo Guarnotta e di Ayala tirò fuori, non so come si chiama, l’ordinamento interno del ministero di Grazia e Giustizia, e scorrendo i singoli punti di non so quale articolo di questo ordinamento, mi cominciò fin da allora, fin dal primo giorno, ad illustrare quel che lì egli poteva fare e che riteneva di poter fare per la lotta alla criminalità mafiosa.

Certo anch’io talvolta ho assistito con un certo disagio a quella che è la vita, o alcune manifestazioni della vita e dell’attività di un magistrato improvvisamente sbalzato in una struttura gerarchica diversa da quelle che sono le strutture, anch’esse gerarchiche ma in altro senso, previste dall’ordinamento giudiziario. Si trattava di un lavoro nuovo, di una situazione nuova, di vicinanze nuove, ma Giovanni Falcone è andato lì solo per questo. Con la mente a Palermo, perché sin da quel primo momento mi illustrò quello che poteva, riteneva di poter e di voler fare lui per Palermo. E in fin dei conti, se vogliamo fare un bilancio di questa sua permanenza al ministero di Grazia e Giustizia, il bilancio anche se contestato, anche se criticato, è un bilancio che riguarda soprattutto la creazione di strutture che, a torto o a ragione, lui pensava che potessero funzionare soprattutto con riferimento alla lotta alla criminalità organizzata e soprattutto con riferimento al lavoro che aveva fatto a Palermo. Cercò di ricreare in campo nazionale e con leggi dello Stato quelle esperienze del pool antimafia che erano nate artigianalmente senza che la legge le prevedesse e senza che la legge, anche nei momenti di maggiore successo, le sostenesse. Questa, a torto o a ragione, ma comunque sicuramente nei suoi intenti, era la superprocura, sulla quale anch’io ho espresso nell’immediatezza delle perplessità, firmando la lettera sostanzialmente critica sulla superprocura predisposta dal collega Marcello Maddalena di Torino; ma mai neanche un istante ho dubitato che questo strumento, sulla cui creazione Giovanni Falcone aveva lavorato, servisse nei suoi intenti, nelle sue idee, a torto o a ragione, per ritornare, soprattutto, per consentirgli di ritornare a fare il magistrato, come egli voleva. Il suo intento era questo e l’organizzazione mafiosa – non voglio esprimere opinioni circa se si è trattato di mafia e soltanto di mafia, ma di mafia si è trattato comunque! – e l’organizzazione mafiosa, quando ha preparato ed attuato l’attentato del 23 maggio, l’ha preparato ed attuato proprio nel momento in cui, a mio parere, si erano concretizzate tutte le condizioni perché Giovanni Falcone, nonostante la violenta opposizione di buona parte del Consiglio superiore della magistratura, era ormai a un passo, secondo le notizie che io conoscevo, che gli avevo comunicato e che egli sapeva e che ritengo fossero conosciute anche al di fuori del Consiglio, al di fuori del Palazzo, dico, era ormai a un passo dal diventare il direttore nazionale antimafia.

Ecco perché, forse, ripensandoci, quando Caponnetto dice “cominciò a morire nel gennaio del 1988”, aveva proprio ragione, anche con riferimento all’esito di questa lotta che egli fece soprattutto per potere continuare a lavorare. Poi possono essere avanzate tutte le critiche, se avanzate in buona fede e se avanzate riconoscendo questo intento di Giovanni Falcone, si può anche dire che si prestò alla creazione di uno strumento che poteva mettere in pericolo l’indipendenza della magistratura, si può anche dire che per creare questo strumento egli si avvicinò troppo al potere politico, ma quello che non si può contestare è che Giovanni Falcone in questa sua breve, brevissima esperienza ministeriale lavorò soprattutto per potere al più presto continuare, ritornare a fare il magistrato. Ed è questo che gli è stato impedito, perché è questo che faceva paura. (Trascrizione a cura di Samuele Motta da Stampo Antimafioso | Gen 26, 2017)

 Caponnetto Falcone Borsellino


  • Via Emanuele Notarbartolo, 21,  Palermo ALBERO FALCONE

Il giudice che quasi nessuno ha rispettato in Italia, un mese dopo la morte è commemorato al Congresso americano. A Washington votano all’unanimità una risoluzione per mettere tutti in guardia: la sua uccisione (è un delitto commesso anche contro gli Stati Uniti d’America). Nel grande atrio della scuola dell’FBI, a Quantico, in Virginia, c’è un suo busto in bronzo. L’hanno messo li, proprio in quel punto, perché gli allievi che vogliono diventare agenti speciali, devono passare davanti a Giovanni Falcone almeno due volte al giorno. Per rendere onore a un grande italiano. Attilio Bolzoni


 GIOVANNI FALCONE E PAOLO BORSELLINO, DUE VITE INTRECCIATE DAL MEDESIMO DESTINO



Le parole di Falcone – video 


  • La STRAGE di CAPACI

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“Sono semplicemente un servitore dello Stato in terra infidelium… Il mio conto con Cosa Nostra resta aperto. Lo salderò solo con la mia morte, naturale o meno”Giovanni Falcone



Le vittime della strage di Capaci Allo svincolo di Capaci, sull’autostrada da Punta Raisi a Palermo, 500 kg di tritolo uccisero Giovanni Falcone, la moglie e 3 agenti della sua scorta. Ecco chi erano: Francesca Morvillo, 46 anni, nata a Palermo, era la seconda moglie di Giovanni Falcone e morì al suo fianco. Sorella di Alfredo Morvillo, sostituto procuratore che fece parte del pool antimafia, aveva conosciuto Falcone a Palazzo di giustizia e lo aveva sposato nel 1986. Rocco Dicillo 30 anni, di Triggiano (Bari.) Quando superò il concorso in polizia, interruppe gli studi universitari e partì per Bolzano, prima sede di servizio. Nel 1989 iniziò a fare parte della scorta di Falcone, e con altri colleghi contribuì a sventare l’attentato alla villa dell’Addaura. Antonio Montinaro 30 anni, di Calimera (Lecce). Agente scelto, era stato inviato in Sicilia e temporaneamente assegnato al servizio scorte di Falcone. All’inizio sognava di tornare a casa, poi decise di rimanere e aprì un piccolo negozio di detersivi per la moglie. Da quando Falcone lavorava a Roma seguiva altre personalità, ma non mancava mai all’appuntamento quando il magistrato tornava in Sicilia nel weekend. Era padre di due figli piccoli. Vito Schifani 27 anni, di Ostuni (Brindisi). Guidava la prima delle tre Fiat Croma che scortavano Giovanni Falcone e Francesca Morvillo. Lasciò la moglie di 22 anni, Rosaria, e un figlio di 4 mesi. L’immagine di Rosaria ai funerali è rimasta nella memoria di molti. Sull’altare, piangendo, urlò ai mafiosi: “Io vi perdono, però vi dovete mettere in ginocchio, se avete il coraggio di cambiare…”.

Giovanni Falcone, Paolo Borsellino: il coraggio di essere eroi


Il 23 maggio 1992, una micidiale carica di esplosivo piazzata sotto l’autostrada, nei pressi di Capaci (Palermo), uccide il giudice Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e gli agenti di scorta Rocco Di Cillo, Antonio Montinaro e Vito Schifani.

Il processo  Il 26 settembre 1997, la corte d’assise di Caltanissetta presieduta da Carmelo Zuccaro ha emesso 24 ergastoli per l’eccidio avvenuto a Capaci. La decisione ha riguardato: Salvatore Riina, Bernardo Provenzano e tutti i componenti della commissione provinciale di Cosa nostra. I giudici hanno inflitto 26 anni di reclusione a Giovanni Brusca, che azionò il telecomando dell’esplosivo piazzato sotto l’autostrada. Pene minori per i collaboratori di giustizia rei confessi di aver preso parte all’esecuzione dell’eccidio: Salvatore Cancemi (21 anni), Giovan Battista Ferrante (17 anni); Gioacchino La Barbera (15 anni e due mesi); Calogero Ganci e Mario Santo Di Matteo (15 anni).

In appello, sono state ribaltate alcune assoluzioni: il 7 aprile 2000 la corte d’assise d’appello presieduta da Giancarlo Trizzino infligge l’ergastolo anche a Salvatore Buscemi, Francesco Madonia, Antonino Giuffrè, Mariano Agate e Giuseppe Farinella, che in primo grado erano stati assolti. Ridotte le pene per i collaboratori di giustizia.

Il 30 maggio 2002, la Cassazione conferma 21 condanne e annulla quelle riguardanti Pietro Aglieri, Salvatore Buscemi, Pippo Calò, Giuseppe Farinella, Antonino Giuffrè, Antonino Geraci, Francesco Madonia, Giuseppe Madonia, Giuseppe Salvatore Montalto, Matteo Motisi e Benedetto Spera. Un nuovo processo d’appello, che viene fissato a Catania, riguarda anche le posizioni di alcuni mandanti ed esecutori della strage di via d’Amelio, su cui la Cassazione aveva sollecitato un nuovo esame. (La sentenza, nella scheda “Processo stralcio per Capaci e via d’Amelio).

Le dichiarazioni del pentito Gaspare Spatuzza ai magistrati di Caltanissetta hanno offerto nuovi spunti d’indagine su chi fornì l’esplosivo per l’eccidio del 23 maggio.


Un palermitano autentico, il giudice Falcone. Palermo e la storia ne è testimone, è capace di dare “tutto il peggio” ma anche “tutto il meglio”. Certo, appartengono a questa città gli orrori della mafia: la camera delle torture, le stragi, le violenze, la lupara bianca, i cadaveri sciolti nell’acido, i bambini uccisi come gli adulti, le donne divenute spacciatrici o criminali come padri e mariti. Ma è anche vero che sono patrimonio di Palermo molti degli anticorpi che si sono opposti alla cultura della morte, sino al sacrificio finale. Non solo Giovanni Falcone, ma anche Paolo Borsellino, Ninni Cassarà, Pio La Torre, Carlo Alberto Dalla Chiesa, Gaetano Costa, Piersanti Mattarella, Rocco Chinnici, Libero Grassi, Boris Giuliano, Cesare Terranova, don Pino Puglisi e tutti gli altri. Oppositori di un regime che governa da anni. Una dittatura che si fa forte del cosiddetto “consenso dal basso” e che neutralizza sistematicamente i suoi avversari uccidendoli o “cooptandoli”. Con Giovanni Falcone hanno tentato tutti i sistemi. Dall’adulazione si è passati alle minacce. Poi è stata la volta della delegittimazione con la disinformazione, le accuse di protagonismo, di vocazione accentratrice, di smania di potere. Lo hanno accusato cose più inaudite, persino di aver usato il pentito Salvatore Contorno come “giustiziere di Stato”. Per non parlare delle accuse di servilismo verso il potere, di mancanza di autonomia, di opportunismo. E’ stato attaccato da tutti: democristiani, socialisti, comunisti, magistrati, alti commissari, investigatori. Spesso anche da quelli che erano stati o che sarebbero divenuti suoi amici. Chi lo ha difeso una volta lo ha flagellato subito dopo. Basti pensare a due estremi: Orlando, amico di un tempo, pubblico accusatore davanti al Consiglio superiore della magistratura; Martelli, l’uomo che aveva avversato l’attività del pool antimafia, non solo diventa difensore di Falcone, ma addirittura sostenitore convinto della sua candidatura alla Superprocura. Se, tutto ciò, lo facevi notare a lui, era pronto a risponderti: “Forse è proprio questa la dimostrazione migliore della mia autonomia. Io faccio il magistrato, non devo cercare consensi. Quando arresti qualcuno, specialmente negli ambienti della cosiddetta criminalità dei colletti bianchi, scontenti alcuni e fai felici altri. Ma il giudice deve guardare il reato e niente altro”.(dal libro di Francesco La Licata -STORIA DI GIOVANNI FALCONE)


GIOVANNI FALCONE 

  • Sono nato in uno di quei quartieri ieri nobili, oggi più disgregati della vecchia Palermo, dove ho vissuto fino all’età di ventuno anni. Mio padre era una persona seria, onesta, legata alla famiglia. Mia madre una donna energica, autoritaria. Entrambi furono genitori che da me pretesero il massimo, con i sette e gli otto, la mia pagella veniva considerata brutta. Il tempo lo trascorrevo nella biblioteca di famiglia, divorando libri di avventura, storia di Francia di Sicilia ecc.ecc.. Dopo il liceo entrai all’accademia navale, volevo laurearmi in ingegneria, ma mi spedirono allo Stato Maggiore perché dicevano che avevo attitudini al comando, mio padre non ostacolò questa scelta ma mi iscrisse in legge e nel 1961 mi laureai con 110 e lode. Tentai così il concorso per entrare in magistratura che vinsi senza alcuna raccomandazione. A ventisei anni ero Pretore a Lentini con uno stipendio di 110 mila lire al mese, poi il trasferimento d’ufficio a Trapani con la qualifica di Sostituto Procuratore, dove scoprì progressivamente il penale. Era la valutazione oggettiva dei fatti che mi affascinava. Durante la guerra ci trovammo sfollati a Corleone, in casa di alcuni parenti, mamma era nata lì. “Corleone” no, quell’episodio non ha avuto un peso particolare nelle mie scelte future certo, era il paese nativo di Luciano Liggio anche se con mio padre non si parlava mai di mafia. Tornato a Palermo ottenni di misurarmi con l’attività di giudice istruttore. Che idea avevo allora della mafia? allora ogni fascicolo giudiziario era un fatto a se stante, una storia nata in un certo punto e conclusa in un altro. Ci sfuggiva la veduta d’insieme, l’unicità del fenomeno. Istruì molti processi per delitti di mafia, il lavoro non mi metteva paura e neppure i mafiosi. Erano già avvenuti delitti gravissimi e a tutti ormai era chiaro un messaggio inequivocabile, più si indaga seriamente sulla mafia, più si corrono pericoli di vita. Quando fu assassinato il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa in via Carini, sul luogo della strage qualcuno tracciò la scritta: <<qui è morta la speranza dei palermitani onesti>> frase disperata e sinistrica. I palermitani onesti sono molti di più di quanto si possa immaginare.  Le abitudini peggiori del palazzo di Giustizia a Palermo? i pettegolezzi, le chiacchiere da corridoio, una riserva mentale costante. Di me hanno detto: affogherà nelle sue stesse carte, non caverà un ragno dal buco, ama atteggiarsi a sceriffo, ma chi si crede di essere il ministro della giustizia? No, io ho la coscienza tranquilla. Nel ruolo di accusatore non ho mai prevaricato i diritti della difesa, non sono mai ricorso a strumenti che non fossero propri del giudice. Un interrogatorio è una partita a scacchi, un confronto fra intelligenze. Bisogna compenetrarsi fino in fondo in chi ci sta di fronte, pur sentendosi sempre Giudice. Bisogna capire, ma capire non è perdonare. Eppure ho sempre rispettato persino chi ha ordinato decine di delitti. Mai dimenticare che anche nel peggiore assassino, vive sempre un barlume di dignità.   
  • Per vent’anni l’Italia è stata governata da un regime fascista in cui ogni dialettica democratica era stata abolita. E successivamente un unico partito, la Democrazia cristiana, ha monopolizzato, soprattutto in Sicilia, il potere, sia pure affiancato da alleati occasionali, fin dal giorno della Liberazione. Dal canto suo, l’opposizione, anche nella lotta alla mafia, non si è sempre dimostrata all’altezza del suo compito, confondendo la lotta politica contro la Democrazia cristiana con le vicende giudiziarie nei confronti degli affiliati a Cosa Nostra, o nutrendosi di pregiudizi: “Contro la mafia non si può far niente fino a quando al potere ci sarà questo governo con questi uomini”. La paralisi c’è stata quindi su tutti i fronti. La classe dirigente, consapevole dei problemi e delle difficoltà di ogni genere connesse a un attacco frontale alla mafia, senza peraltro alcuna garanzia di successo immediato, ha compreso che a breve aveva tutto da perdere e poco da guadagnare nell’impegnarsi sul terreno dello scontro. E ha preteso quindi di fronteggiare un fenomeno di tale gravità coi soliti pannicelli caldi, senza una mobilitazione generale, consapevole, duratura e costante di tutto l’apparato repressivo e senza il sostegno delle società civile. I politici si sono preoccupati di votare leggi di emergenza e di creare istituzioni speciali che, sulla carta, avrebbero dovuto imprimere slancio alla lotta antimafia, ma che, in pratica, si sono risolte in una delega delle responsabilità proprie del governo a una struttura dotata di mezzi inadeguati e priva dei poteri di coordinare l’azione anticrimine. 
  • Di me hanno detto: affogherà nelle sue stesse carte, non caverà un ragno dal buco, ama atteggiarsi a sceriffo, ma chi si crede di essere il ministro della giustizia? No, io ho la coscienza tranquilla. Nel ruolo di accusatore non ho mai prevaricato i diritti della difesa, non sono mai ricorso a strumenti che non fossero propri del giudice. Un interrogatorio è una partita a scacchi, un confronto fra intelligenze. Bisogna compenetrarsi fino in fondo in chi ci sta di fronte, pur sentendosi sempre Giudice. Bisogna capire, ma capire non è perdonare. Eppure ho sempre rispettato persino chi ha ordinato decine di delitti. Mai dimenticare che anche nel peggiore assassino, vive un barlume di dignità
  • Sono nato in uno di quei quartieri ieri nobili, oggi più disgregati della vecchia Palermo, dove ho vissuto fino all’età di ventuno anni. Mio padre era una persona seria, onesta, legata alla famiglia. Mia madre una donna energica, autoritaria. Entrambi furono genitori che da me pretesero il massimo, con i sette e gli otto, la mia pagella veniva considerata brutta. Il tempo lo trascorrevo nella biblioteca di famiglia, divorando libri di avventura, storia di Francia di Sicilia ecc.ecc.. Dopo il liceo entrai all’accademia navale, volevo laurearmi in ingegneria, ma mi spedirono allo Stato Maggiore perché dicevano che avevo attitudini al comando, mio padre non ostacolò questa scelta ma mi iscrisse in legge e nel 1961 mi laureai con 110 e lode. Tentai così il concorso per entrare in magistratura che vinsi senza alcuna raccomandazione. A ventisei anni ero Pretore a Lentini con uno stipendio di 110 mila lire al mese, poi il trasferimento d’ufficio a Trapani con la qualifica di Sostituto Procuratore, dove scoprì progressivamente il penale. Era la valutazione oggettiva dei fatti che mi affascinava. Durante la guerra ci trovammo sfollati a Corleone, in casa di alcuni parenti, mamma era nata lì. “Corleone” no, quell’episodio non ha avuto un peso particolare nelle mie scelte future certo, era il paese nativo di Luciano Liggio anche se con mio padre non si parlava mai di mafia. Tornato a Palermo ottenni di misurarmi con l’attività di giudice istruttore. Che idea avevo allora della mafia? allora ogni fascicolo giudiziario era un fatto a se stante, una storia nata in un certo punto e conclusa in un altro. Ci sfuggiva la veduta d’insieme, l’unicità del fenomeno. Istruì molti processi per delitti di mafia, il lavoro non mi metteva paura e neppure i mafiosi. Erano già avvenuti delitti gravissimi e a tutti ormai era chiaro un messaggio inequivocabile, più si indaga seriamente sulla mafia, più si corrono pericoli di vita. Quando fu assassinato il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa in via Carini, sul luogo della strage qualcuno tracciò la scritta: <<qui è morta la speranza dei palermitani onesti>> frase disperata e sinistrica. I palermitani onesti sono molti di più di quanto si possa immaginare.  Le abitudini peggiori del palazzo di Giustizia a Palermo? i pettegolezzi, le chiacchiere da corridoio, una riserva mentale costante. Di me hanno detto: affogherà nelle sue stesse carte, non caverà un ragno dal buco, ama atteggiarsi a sceriffo, ma chi si crede di essere il ministro della giustizia? No, io ho la coscienza tranquilla. Nel ruolo di accusatore non ho mai prevaricato i diritti della difesa, non sono mai ricorso a strumenti che non fossero propri del giudice. Un interrogatorio è una partita a scacchi, un confronto fra intelligenze. Bisogna compenetrarsi fino in fondo in chi ci sta di fronte, pur sentendosi sempre Giudice. Bisogna capire, ma capire non è perdonare. Eppure ho sempre rispettato persino chi ha ordinato decine di delitti. Mai dimenticare che anche nel peggiore assassino, vive sempre un barlume di dignità.  
  • “La Sicilia è una terra dove, purtroppo, la struttura statale è deficitaria. La mafia ha saputo riempire il vuoto a suo modo e a suo vantaggio, ma tutto sommato ha contribuito a evitare per lungo tempo che la società siciliana sprofondasse nel caos totale. In cambio di servizi offerti (nel proprio interesse, non c’è dubbio) ha aumentato sempre più il proprio potere. E’ una realtà che non si può negare.”  
  • “Ci si dimentica che il successo delle mafie è dovuto al loro essere dei modelli vincenti per la gente. E che lo Stato non ce la farà fin quando non sarà diventato esso stesso un «modello vincente».” 
  • Le leggi non servono se non sono sorrette da una forte e precisa volontà politica, se non sono in grado di funzionare per carenza di strutture adeguate e soprattutto se le strutture non sono dotate di uomini professionalmente qualificati. Professionalità significa innanzitutto adottare iniziative quando si è sicuri dei risultati ottenibili. Per seguire qualcuno per un delitto senza disporre di elementi irrefutabili a sostegno della sua colpevolezza significa fare un pessimo servizio. Il mafioso verrà rimesso in libertà, la credibilità del magistrato ne uscirà compromessa e quella dello Stato peggio ancora. Meglio è, dopo avere indagato su numerose persone, accontentarsi di perseguire solo quelle due o tre raggiunte da sicure prove di reità. 
  • Ho imparato che ogni atteggiamento di compromesso -il tradimento, o la semplice fuga in avanti- provoca un sentimento di colpa, un turbamento dell’anima, una sgradevole sensazione di smarrimento e di disagio con se stessi. 
  • Tutte le volte che istintivamente diffido di qualcuno, le mie preoccupazioni trovano conferma negli eventi. Consapevole della malvagità e dell’astuzia di gran parte dei miei simili, li osservo, li analizzo e cerco di prevenirne i colpi bassi.
    Il mafioso è animato dallo stesso scetticismo sul genere umano. “Fratello, ricordati che devi morire” ci insegna la Chiesa cattolica. Il catechismo non scritto dei mafiosi suggerisce qualcosa di analogo: il rischio costante della morte, lo scarso valore attribuito alla vita altrui, ma anche alla propria, li costringono a vivere in stato di perenne allerta. Spesso ci stupiamo della quantità incredibile di dettagli che popolano la memoria della gente di Cosa Nostra. Ma quando si vive come loro in attesa del peggio si è costretti a raccogliere anche le briciole. Niente è inutile. Niente è frutto del caso. La certezza della morte vicina, tra un attimo, una settimana, un anno, pervade del senso della precarietà ogni istante della loro vita. 
  • Mi rimane comunque una buona dose di scetticismo, non però alla maniera di Leonardo Sciascia, che sentiva il bisogno di Stato, ma nello Stato non aveva fiducia. Il mio scetticismo, piuttosto che una diffidenza sospettosa, è quel dubbio metodico che finisce col rinsaldare le convinzioni. Io credo nello Stato, e ritengo che sia proprio la mancanza di senso dello Stato, di Stato come valore interiorizzato, a generare quelle distorsioni presenti nell’animo siciliano: il dualismo tra società e Stato; il ripiegamento sulla famiglia, sul gruppo, sul clan; la ricerca di un alibi che permetta a ciascuno di vivere e lavorare in perfetta anomia, senza alcun riferimento a regole di vita collettiva. Che cosa se non il miscuglio di anomia e di violenza primitiva è all’origine della mafia? Quella mafia che essenzialmente, a pensarci bene, non è altro che espressione di un bisogno di ordine e quindi di Stato. E’ il mio scetticismo una specie di autodifesa? Tutte le volte che istintivamente diffido di qualcuno, le mie preoccupazioni trovano conferma negli eventi. Consapevole della malvagità e dell’astuzia di gran parte dei miei simili, li osservo, li analizzo e cerco di prevenirne i colpi bassi. Ho imparato a riconoscere l’umanità anche nell’essere apparentemente peggiore; ad avere un rispetto reale, e non solo formale, per le altrui opinioni. Ho imparato che ogni atteggiamento di compromesso il tradimento, o la semplice fuga in avanti provoca un sentimento di colpa, un turbamento dell’anima, una sgradevole sensazione di smarrimento e di disagio con se stessi.
  • In Sicilia, per quanto uno sia intelligente e lavoratore, non è detto che faccia carriera, non è detto neppure che ce la faccia a sopravvivere. La Sicilia ha fatto del clientelismo una regola di vita. Difficile, in questo quadro far emergere pure e semplici capacità professionali. Quel che conta è l’amico o la conoscenza per ottenere una spintarella. E la mafia, che esprime sempre l’esasperazione dei valori siciliani, finisce per far apparire come un favore quello che è il diritto di ogni cittadino.
  • Appartengo a quella categoria di persone che ritiene che ogni azione debba essere portata a termine. Non mi sono mai chiesto se dovevo affrontare o no un certo problema, ma solo come affrontarlo.
  • Sono stato pesantemente attaccato sul tema dei pentiti. Mi hanno accusato di avere con loro rapporti “intimistici”, del tipo “conversazione accanto al caminetto”. Si sono chiesti come avevo fatto a convincere tanta gente a collaborare e hanno insinuato che avevo fatto loro delle promesse mentre ne estorcevo le confessioni. Hanno insinuato che nascondevo “nei cassetti” la “parte politica” delle dichiarazioni di Buscetta. Si è giunti a insinuare perfino che collaboravo con una parte della mafia per eliminare l’altra. L’apice si è toccato con le lettere del “corvo”, in cui si sosteneva che con l’aiuto e la complicità di De Gennaro, del capo della polizia e di alcuni colleghi, avevo fatto tornare in Sicilia il pentito Contorno affidandogli la missione di sterminare i “Corleonesi”!
    Insomma, se qualche risultato avevo raggiunto nella lotta contro la mafia era perché, secondo quelle lettere, avevo calpestato il codice e commesso gravi delitti. Però gli atti dei miei processi sono sotto gli occhi di tutti e sfido chiunque a scovare anomalie di sorta. Centinaia di esperti avvocati ci hanno provato, ma invano.
  • Se non si comprenderà che, per quanto riguarda Cosa nostra e altre organizzazioni similari, è assolutamente improprio parlare di “emergenza”, in quanto si tratta di fenomeni endemici e saldamente radicati nel tessuto sociale, e se si continuerà a procedere in modo schizofrenico, alternando periodi intensificata repressione con altri di attenuato impegno investigativo, si consentirà alle organizzazioni criminali di proseguire indisturbate nelle loro attività e, in definitiva, sarà stato vano il sacrificio di tanti fedeli servitori dello Stato. E’ necessario, dunque, prescindere da fattori emozionali e procedere ad una analisi razionale della situazione attuale; analisi che, è bene ribadirlo, è non solo legittima, ma doverosa anche in sede giudiziaria, senza perciò ledere prerogative istituzionali di altri organismi statuali.
  • Ci troviamo di fronte e menti raffinatissime che tentano di orientare certe azioni della mafia. Esistono punti di collegamento tra i vertici di Cosa nostra e centri occulti di potere che hanno altri interessi. Ho l’impressione che sia questo lo scenario più attendibile se si vogliono capire davvero le ragioni che hanno spinto qualcuno ad assassinarmi.
  • Di me hanno detto: affogherà nelle sue stesse carte, non caverà un ragno dal buco, ama atteggiarsi a sceriffo, ma chi si crede di essere il ministro della giustizia? No, io ho la coscienza tranquilla. Nel ruolo di accusatore non ho mai prevaricato i diritti della difesa, non sono mai ricorso a strumenti che non fossero propri del giudice. Un interrogatorio è una partita a scacchi, un confronto fra intelligenze. Bisogna compenetrarsi fino in fondo in chi ci sta di fronte, pur sentendosi sempre Giudice. Bisogna capire, ma capire non è perdonare. Eppure ho sempre rispettato persino chi ha ordinato decine di delitti. Mai dimenticare che anche nel peggiore assassino, vive un barlume di dignità.  
  • Niente è ritenuto innocente in Sicilia, né far visita al direttore di una banca per chiedere un prestito perfettamente legittimo, Né un alterco tra deputati né un contrasto ideologico all’interno di un partito. Accade quindi che alcuni politici a un certo momento si trovino isolati nel loro stesso contesto. Essi allora diventano vulnerabili e si trasformano inconsapevolmente in vittime potenziali. Al di là delle specifiche cause della loro eliminazione, credo sia incontestabile che Mattarella, Reina, La Torre erano rimasti isolati a causa delle battaglie politiche in cui erano impegnati. Il condizionamento dell’ambiente siciliano, l’atmosfera globale hanno grande rilevanza nei delitti politici: certe dichiarazioni, certi comportamenti valgono a individuare la futura vittima senza che la stessa se ne renda nemmeno conto. 
  • Si muore generalmente perché si è soli o perché si è entrati in un gioco troppo grande. Si muore spesso perché non si dispone delle necessarie alleanze, perché si è privi di sostegno.  In Sicilia la mafia colpisce i servitori dello Stato che lo Stato non è riuscito a proteggere.  
  • A volte ci si chiede se ci sono pentiti « veri » e pentiti «falsi ». Rispondo che è facile da capire se si conoscono le regole di Cosa Nostra. Un malavitoso di Adrano (Catania), un certo Pellegriti che aveva già collaborato utilmente coi magistrati per delitti commessi in provincia di  Catania, aveva stranamente dichiarato di essere informato sull’assassinio a Palermo del presidente della Regione Siciliana, Piersanti Mattarella. Nel 1989 mi reco con alcuni colleghi a trovarlo in  prigione per saperne di più e il Pellegriti racconta di essere stato incaricato da mafiosi palermitani e catanesi di recapitare nel capoluogo siciliano le armi destinate all’assassinio. Era chiaro fin dalle primissime battute che mentiva. Infatti è ben strano che un’organizzazione come Cosa Nostra, che ha sempre avuto grande disponibilità di armi, avesse la necessità di portare pistole a Palermo; né è poi pensabile, conoscendo le ferree regole della mafia, che un omicidio «eccellente », deciso al più alto livello della Commissione, venga affidato ad altri  che a uomini dell’organizzazione di provata fede, i quali ne avrebbero dovuto preventivamente  informare solo i capi del territorio in cui l’azione si sarebbe svolta; mai comunque estranei come il  Pellegriti. I riscontri delle dichiarazioni di Pellegriti, subito disposti, hanno confermato, come era  previsto, che si trattava di accuse inventate di sana pianta.  Nel 1984 ci viene segnalato un altro «candidato» al pentimento: Vincenzo Marsala. Nel corso del processo per l’omicidio del padre, aveva pronunciato accuse molto gravi contro le famiglie di Termini e di Caccamo, sostenendo di aver ricevuto le informazioni in suo possesso dal padre.  Lo faccio condurre a Palermo e dal tenore di alcune sue risposte mi convinco che si tratta al novantanove per cento di un uomo d’onore, nonostante i suoi dinieghi. Gli dico allora: «Signor  Marsala, a partire da questo momento lei è indiziato di associazione per delinquere di tipo mafioso.  Decida che cosa fare». Mi guarda e insiste di non far parte di Cosa Nostra. Interrompo l’interrogatorio e lo rinvio. Qualche settimana dopo ha fatto sapere di essere pronto a parlare seriamente.” da ” Cose di cosa nostra
  • La mafia, non è un cancro proliferato per caso su un tessuto sano. Vive in perfetta simbiosi con la miriade di protettori, complici, informatori, debitori di ogni tipo, grandi e piccoli maestri cantori, gente intimidita o ricattata che appartiene a tutti gli strati della società. Questo è il terreno di coltura di Cosa nostra con tutto quello che comporta di implicazioni dirette o indirette, consapevoli o no, volontarie o obbligate, che spesso godono del consenso della popolazione.

MA LA MAFIA NON È SPETTACOLO di GIOVANNI FALCONE  Ho preso parte anch’io alla trasmissione di Costanzo e Santoro in memoria di Libero Grassi. Ho discusso (e sono stato al centro di discussioni) per cinque ore. Confesso che non mi aspettavo tanta attenzione, un ascolto così elevato, la forte partecipazione della gente, testimoniata dalle luci accese nelle case. Ne è uscita un’interessante mappa italiana in cui la mafia sembra essere un problema più avvertito al Nord che al Sud. Ed è venuto fuori il primo timido tentativo di superare, sia pure dialetticamente, le lacerazioni del fronte antimafia.

Sì, nonostante i contrasti fra il pubblico del teatro Biondo, nonostante taluni accenni ripetuti a episodi ormai obsoleti e di scarso significato, mi pare che s’è cercato di ragionare partendo da fatti e non da tesi precostituite. Eppure, a mio parere, la lezione che si ricava da questa esperienza invita a un uso molto accorto, per il futuro, del potente mezzo televisivo. Non bisogna lasciar prevalere la tentazione di fare spettacolo: perché dietro l’angolo c’è sempre il pericolo che accada ciò che è già accaduto per la guerra del Golfo: quando tutti stavamo attaccati al video perdendo la percezione della realtà e della morte che ogni guerra porta con sé. Se la confusione prevale sulla discussione, c’è il rischio che si faccia un polverone in cui ciascuno possa trasformarsi da accusatore a imputato, da condannato a perseguitato, da sospettato a colpevole e così via. Un gran pasticcio in cui tutto, appunto, diventa mafia. 

Certo, era molto diverso fino a qualche tempo fa. Quando ero alla mia prima indagine antimafia, ricordo ancora che un collega più anziano mi avvicinò con tono scettico chiedendomi: credi davvero che esista la mafia? Ma oggi prevale il rischio opposto: se tutto assume i colori della mafia, non si capisce da dove cominciare per fare una seria antimafia. Rosario Spatola, un condannato per associazione mafiosa che col pentito intervistato mercoledì sera in tv ha in comune solo un’omonimia, nella sua cella alcuni anni fa custodiva un biglietto con su scritto: la vera mafia non è in Sicilia. È a Roma, è una forma di potere che i governi usano contro i più deboli. 

Ecco l’esempio di un ragionamento squisitamente mafioso che può essere usato indistintamente in chiave antimafia. Lo dico non per polemica, ma per sottolineare che la mafia è un fatto troppo serio per essere trattata in modo poco serio. E un’esortazione del genere, credo debba valere per le istituzioni, i politici e la società. Perché sensibilizzare bene l’opinione pubblica e la società civile sul problema mafia è un fatto essenziale ed è il presupposto per mettere in mora le istituzioni e costringerle a intervenire seriamente. Per farlo, però, occorre non lasciarsi abbindolare o fuorviare; al contrario, è necessario distinguere e analizzare. Non è possibile, né utile, fare di tutta l’erba un fascio e appioppare l’etichetta mafia a tutto ciò che non va in questo Paese. Le generalizzazioni creano facili alibi: per anni s’è detto che la mafia era difficile da combattere perché connaturata al tessuto economico-sociale sottosviluppato del Sud; salvo ad accorgersi poi sul campo che la mafia si annida in tutti gli ingranaggi e le storture dello sviluppo. 

Allora, mi domando: che senso ha identificare la mafia con le malversazioni di pubbliche amministrazioni o lo scarso funzionamento della burocrazia? E la mafia con le clientele? E per quale ragione indagini giudiziarie debbono essere utilizzate strumentalmente per fini di parte? Qualche anno fa un famoso regista mi chiese collaborazione per preparare un film sulla mafia. Parlammo a lungo, ma alla fine mi comunicò che rinunciava perché temeva di fare un’opera agiografica. Una riserva del genere dovrebbe valere anche per la televisione. Certe trasmissioni possono diventare importanti per indurre la pubblica opinione alla coscienza critica di un problema del quale, fino a non molti anni fa, si preferiva perfino negare l’esistenza. Ma appunto, occorre distinguere la cultura del diritto da quella del sospetto, la criminalità comune o la cattiva amministrazione dalla mafia vera e propria. Della quale, in tv, con tutto il rispetto, non si dovrà mai discutere come se fosse il Processo del lunedì. La Stampa 28.9.1991


I discorsi sulla morte si facevano più frequenti. Era diventato un tema ricorrente, insieme con l’abitudine a un ordine quasi maniacale. Quella scrivania diventava ogni giorno più rassettata, come se la preoccupazione di Giovanni fosse solo quella di mettere ogni cosa al proprio posto. Una sera, dopo lettura dell’ennesimo articolo anti-Falcone, fece il discorso più amaro che gli abbia mai sentito pronunciare. Poche Parole; “Io non ho niente. Non posseggo neanche una casa, ho soltanto il mio lavoro e la mia dignità. Quella non me la possono togliere”.
No, forse razionalmente non pensava di essere così vicino alla morte. Era semmai la morte che inconsciamente gli entrava nella pelle. Quell’ansia di ordine non l’aveva mai avuta, la sua scrivania di Palermo era una bolgia di fascicoli, lo stesso quella del primo periodo romano. Era come se si stesse preparando a un distacco e “ripuliva” prima di andarsene. Un po’ come aveva fatto prima di lasciare la Procura.
Ma non mutava il suo comportamento, non cambiava il suo pensiero. Pochi giorni prima di saltare in aria sull’autostrada di Capaci, Giovanni tornava a difendere il “suo” maxiprocesso, ricordando che per la prima volta, “sia pure in un dibattimento con centinaia di imputati, l’organizzazione mafiosa denominata Cosa Nostra” era stata “processata in quanto tale”. Instancabile, Giovanni continuava a battere sui temi della lotta alla mafia, fino alla vigilia della morte: l’8 maggio all’istituto Gonzaga di Palermo, il 13 all’Università di Pavia, qualche giorno prima dell’attentato a Roma, in una conferenza presso il residence Ripetta. Quel giorno accadde un fatto assai strano: qualcuno gli fece trovare un biglietto vicino al posto dove si sarebbe seduto. Il contenuto del messaggio non era particolarmente allarmante, lasciava sorpresi il fatto che qualcuno, malgrado tutte le misure di sicurezza adottate, fosse riuscito a giungere fino alla poltrona di Giovanni Falcone. 
(da Storia di Giovanni Falcone di Francesco La Licata)


La solitudine di Giovanni Falcone – II giornalista Saverio Lodato, il 19 maggio 2002, su “l’Unità”, ricorda un colloquio avuto con Giovanni Falcone alla Procura di Palermo poco prima che il magistrato si trasferisse a Roma come Direttore dell’Ufficio Affari Penali del Ministero di Grazia e Giustizia, nel marzo 1991. Anche in quell’occasione il magistrato espresse privatamente l’amarezza per gli ostacoli alle sue indagini all’interno della Procura di Palermo.   […] Giovanni Falcone indossava una felpa e pantaloni da ginnastica. Al centro della felpa campeggiava a caratteri cubitali il logo della Dea, la Drug Enforcement Administration, regalo dei colleghi americani durante un recente viaggio negli States dove Falcone negli ultimi anni si recava sempre più frequentemente per ragioni di lavoro. Fra noi due si svolse il dialogo che segue. Io: «Sta partennu?». Lui: «Minni vaiu a Roma, a lavorare con Martelli». Io: «Lasci Palermo?». Lui: «Esatto. Lascio Palermo». E con un sorriso alquanto tirato: «Qualcosa in contrario?». Non so come, non so perché, mi venne fuori una frase che era nello stesso tempo molto sincera e molto irrispettosa: «Giovanni, ci conosciamo da tanti anni. Nell’amicizia posso dirti che secondo me fai una minchiata?».  Falcone girò attorno a una pila di scatoloni (ormai quasi tutti zeppi di atti giudiziari), si diresse alla porta – mentre velocemente cercavo di intuire quale sarebbe stata la sua reazione – e, da socchiusa che era, la chiuse rumorosamente. «Ah, io secondo te faccio una minchiata? Cosa vuoi che ti dica? Va bene, hai ragione tu: faccio una minchiata…».Tentai una difesa. Mi ignorò e ripete: «Cosa vuoi che ti dica? Che qui è diventato impossibile lavorare? Che a Palermo per me non c’è più spazio? Che ho chiuso?». Adesso era paonazzo. Girava per la stanza tenendo in mano un rotolo di nastro adesivo da imballaggio con il quale fino a quel momento aveva sigillato scatoloni. Poi, trattenendo a stento la rabbia, ricominciò: «Ma lo sai che ieri ho telefonato a un giovane collega di Enna per chiedergli notizie su un imputato di mafia? Il collega si è messo a disposizione. E lo sai che mi ha richiamato dieci minuti dopo ed era sconvolto?». Riuscii a chiedergli il perché. «Perché appena ha chiuso la telefonata con me, ne ha ricevuta un’altra. Da chi? Dal mio capo, dal procuratore Pietro Giammanco», E cosa c’era di strano? «Di strano c’è che Giammanco già sapeva che io avevo fatto quella telefonata, quali informazioni avevo chiesto e anche a chi le avevo chieste. E ha telefonato al collega di Enna per ricordargli che il capo di quest’ufficio resta lui e che non gli sfugge niente del lavoro che faccio. Ti basta come segnale? Così non posso più andare avanti». Gli chiesi se qualcuno fosse stato presente alla sua telefonata. Falcone preferì non rispondere. E a quel punto reagii: «E io adesso scrivo un bell’articolo sul “l’Unità” raccontando l’intera storia per filo e per segno. Dimmi solo come si chiama il collega e dammi qualche particolare in più». Non l’avessi mai detto. «Se tieni alla mia amicizia non dovrai mai dire una parola su questa storia. Mi faresti soltanto danno. E mi costringeresti a smentirti. Scordatilla… (dimenticala)». Tentai qualche ultima e inutile resistenza. Verificai che diceva molto sul serio. Che voleva davvero che di quell’episodio non trapelasse nulla. Per allentare la tensione dissi solo: «Ti posso confermare che secondo me fai una minchiata ad andartene a Roma?».  Si mise a ridere: «Certo, certo. Ma dammi la tua parola d’onore che di quello che ti ho detto non scriverai mai nulla… Altrimenti non ti farò più entrare da quella porta…». Mantenni il patto […].  (da “Le Ultime Parole di Falcone e Borsellino”, a cura di Antonella Mascali )


I magistrati italiani non lo votano per il Csm. Non lo vogliono fra i piedi nemmeno lì. Sono pochi i giudici che gli vogliono bene. Una è Ilda Boccassini, il pubblico ministero di Milano che in quei mesi -è la fine dell’estate del 1989- inizia a indagare sulla mafia al Nord. E’ la Duomo Connection, trafficanti siciliani in combutta con amministratori pubblici milanesi. Giù a Palermo, la Procura ha chiuso intanto la sua inchiesta sui <<delitti politici>>, le uccisioni di Pio La Torre, del segretario provinciale della Dc Michele Reina e del presidente della Regione Piersanti Mattarella. E’ un’indagine superficiale, manca di approfondimenti sui mandanti. Come sempre, c’è solo Totò Riina.<<La mia firma su quell’inchiesta non ce la metto neanche se mi torturano>>, dice Falcone a Borsellino e a qualche altro collega. Ma ancora una volta prevale il senso del dovere, la disciplina, l’ubbidienza, il rispetto della gerarchia. Giovanni Falcone firma. E’ stremato dalle polemiche precedenti, non condividere ufficialmente quell’inchiesta equivarrebbe ad aprire un altro <<caso Palermo>> e ricominciare con le audizioni al Csm. Dopo il duello Falcone-Meli, lo scontro Falcone-Giammanco. Capisce che è finito in una trappola, E’ stanco. Gli spiace solo di non aver indagato di più su <<Gladio>>, l’organizzazione paramilitare nata nell’immediato dopoguerra per difendere le democrazie occidentali dal <<pericolo rosso>>. Falcone ha trovato alcuni indizi degli <<anticomunisti>> strutturati militarmente, tracce che lo portano alla morte di Pio La Torre.  E’ il procuratore Giammanco a fermarlo. Lui annota tutto sul suo computer. Consegna qualche appunto a Liana Milella, una giornalista di cui si fida. <<Non si sa mai>>, le confessa. E’ frastornato, sempre più solo. Si prende i rimproveri e gli insulti anche degli artefici della <<primavera>> di Palermo. Il sindaco Orlando lo attacca <<per le carte chiuse nei cassetti>>, il riferimento è alla sua firma in calce all’inchiesta sui cosiddetti delitti politici. E’ la fine di un’amicizia e la fine di un’epoca. (Attilio Bolzoni – UOMINI SOLI)


La scrivania del giudice è coperta di assegniTutti ordinati per data e per nome. Sulla prima fila ce ne sono undici firmati Gambino Tommaso. Sono tre cugini con lo stesso nome. Uno nato nel 1939, l’altro nel 1934, il terzo nel 1940.  Sulla seconda fila gli assegni portano la firma Inzerillo. Per non confondersi, il giudice Falcone dispone gli assegni con cura e comincia a disegnare sull’agenda un albero genealogico. La sua indagine è finita dentro una grande famiglia siciliana. In un intreccio di matrimoni, i Gambino sono uniti da legami di sangue agli Spatola, agli Inzerillo, ai Di Maggio. Da vicino o da lontano sono imparentati tutti con John Gambino, il mafioso più potente d’America. Sono quattro ceppi familiari che hanno radici da una parte e dall’altra dell’Atlantico.
Giovanni Falcone scopre che Rosario Spatola conquista appalti pubblici con estremi ribassi, ha un’enorme liquidità, alle aste non ha mai concorrenti. Il giudice segue i movimenti di denaro e li incrocia con le <<rimesse>> che arrivano da Cherry Hill, nel New Jersey, dove dal 1964 -emigrati dalla borgata palermitana di Passo di Rigano- vivono i suoi cugini americani. E’ la prima volta che, a Palermo, qualcuno si addentra negli istituti di credito. E’ anche la prima volta che un inquirente si concentra non sui singoli delitti ma sulle connessioni fra un delitto e l’altro, fra un mafioso e un altro mafioso.
Falcone indaga su un’organizzazione criminale. E capisce che è una e una sola. E’ una rivoluzione investigativa. Ancora non sa che l’inchiesta su Rosario Spatola stravolgerà la sua vita per sempre.
<<Ma dove vuole andare a parare questo Falcone?>>, sibila nell’atrio del Tribunale un famoso penalista, quando il giudice richiede la copia di un versamento di 300 mila dollari alla filiale palermitana della <<Cassa di Risparmio per le province siciliane>>. Soldi dall’America. In cambio di eroina dalla Sicilia.
Gli Spatola e i suoi parenti sono trafficanti di droga. I più ricchi dell’isola. I più protetti dalla politica. I più favoriti dalle pubbliche amministrazioni.Le prime lettere anonime, bare o croci disegnate su fogli bianchi, gli vengono recapitate dopo che ha ordinato l’acquisizione delle distinte di cambio in valuta estera a partire dal 1975. La sua piccola stanza, in fondo al corridoio buio del piano terra del Tribunale, si riempie di scatoloni. Tutti i movimenti di denaro da New Jersey a Palermo sono lì dentro. E’ la scoperta dell’America.  (Attilio Bolzoni -UOMINI SOLI)


<<Falcone lo devi vedere entrare in macchina, devi essere sicuro>> GIOVANNI BRUSCAIniziammo i turni il 21 maggio di pomeriggio. Eravamo sempre gli stessi ma Bagarella non c’era più. Infatti quando finimmo di collocare l’esplosivo, lui prese la moglie e se ne andò a Mazara del Vallo. In quel periodo era latitante. La squadra si ridusse a me, La Barbera e Gioè, del mandamento di San Giuseppe Jato; Troia e Battaglia perché avevano la disponibilità del villino di Capaci; e Biondino, che faceva da tramite fra noi e i Ganci che si trovavano a Palermo. Ci eravamo messi d’accordo su come fare. Non potevamo andare sulla montagna dieci minuti prima, all’ultimo momento. Appena arrivava il segnale della macchina che partiva, dovevamo andare a collocare la ricevente. Avevamo preparato degli spinotti che ormai si dovevano solo collegare. Avevamo l’antenna pronta e tutto il sistema era composto da un motorino che doveva andare a fare massa con un chiodo di ferro e poi sarebbe avvenuta l’esplosione. Avevo anche detto a Ferrante: <<Giovà, mi devi fare la cortesia che quando arrivi in aeroporto, tu devi scendere dalla macchina. Devi guardare dentro l’auto di Falcone: dobbiamo essere sicuri che dentro non c’è qualcun altro. Dovessimo fare qualche pasticcio…Quindi tu lo devi vedere, Giovà; lo devi vedere. Hai capito? Scendi dalla macchina, ti metti all’ingresso del passaggio di polizia, in aeroporto. Falcone lo devi vedere entrare in macchina, devi essere sicuro. Capito Giovà? Solo allora telefoni a La Barbera>>.Poteva fare quello che gli dicevo perché in quel momento era libero, non era latitante. Quindi lui vide in faccia il magistrato(Da -HO UCCISO GIOVANNI FALCONE- di Saverio Lodato. La confessione di Giovanni Brusca.)


 <<Corrado Carnevale disprezza il giudice Giovanni Falcone e non ne fa mistero>> E’ siciliano di Licata, terra agrigentina. Nasce nel 1930, a ventitré anni è già uditore giudiziario, poi giudice di Tribunale, giudice di Appello, giudice di Cassazione. Sempre per concorso, immancabilmente primo. E’ una carriera di glorie e fasti quella di CORRADO CARNEVALE, il giudice che ama il cavillo. Lavora per due decenni all’Ufficio del Massimario, alla prima sezione civile e alle sezioni unite della Suprema Corte, va alla Corte di Appello di Roma, rientra in Cassazione. Alla prima sezione penale dove approdano i delitti di mafia, terrorismo, omicidio, strage. Nel dicembre 1985 diventa il presidente della prima sezione penale (<< Il più giovane presidente titolare della storia della Cassazione>>, precisa lui), piega a livelli fisiologici l’arretrato. Quando si insedia sono 7065 i processi che attendono l’esame, nel maggio 1989 scendono a 837. Prima del suo arrivo la prima sezione è chiamata <<La corte dei rigetti>>, diventa la <<Corte di San Carnevale>>. Esamina 6 mila processi l’anno, uno su tre è <<cancellato>>, con o senza rinvio. Alla prima sezione ci resta per sette anni meno quattro giorni. E’ dotato di una memoria prodigiosa. I suoi colleghi dicono che conosce ogni carta del processo che giudica. Come giudica è altro argomento. La Cassazione è l’ultima spiaggia per la mafia di Palermo. Dopo le pesanti condanne in primo grado e l’ <<aggiustatina>> che il maxi processo ha subito in Appello, tutte le attese degli uomini d’onore si sono concentrate sulla Suprema Corte e nella persona di Carnevale, il presidente della prima sezione penale. Già a inizio del 1991, Carnevale ha rimesso in libertà Michele Greco e 42 boss per decorrenza dei termini di carcerazione. Giovanni Falcone studia una contromossa e il ministro Martelli ordina di riportarli all’Ucciardone dopo appena cinque giorni. <<Il mandato di cattura del governo>>, commentano i mafiosi con rabbia. Lo sanno tutti che dietro Martelli c’è Falcone. Corrado Carnevale disprezza il giudice di Palermo e non ne fa mistero. Dice: <<La Costituzione vuole il magistrato in toga e non in divisa>>. Lo sbeffeggia: <<C’è chi si è messo in testa di fare l’angelo vendicatore dei mali che affliggono la società>>. Aspetta pazientemente il maxi processo in Cassazione per farlo a pezzi. Ma, al ministero, da qualche mese, è partito un monitoraggio sui provvedimenti della prima sezione penale della Suprema Corte. Ne scelgono 12.500. Falcone e i suoi collaboratori li esaminano tutti, uno per uno. Si accorgono che i magistrati di quella sezione giudicano ogni singolo indizio autonomamente senza incrociarlo con gli altri. Una <<tecnica valutativa>> stravagante e sospetta, che finirebbe per demolire il maxi processo. Quante sentenze ha invalidato il presidente Carnevale fino a quel momento? Quasi 500. Ha assolto Licio Gelli dall’accusa di sovversione e banda armata, ha annullato la condanna a Michele Greco per l’omicidio Chinnici e il processo per la strage dell’Italicus, ha cancellato i provvedimenti di arresto del prete mafioso calabrese don Stilo e del camorrista Giuseppe Misso, ha ordinato un nuovo processo per la strage del rapido 904 Napoli-Milano, ha azzerato 19 ergastoli a Mommo Piromalli e agli affiliati della sua cosca, ha respinto il ricorso di Enzo Tortora che vuole il suo processo lontano da Napoli e al contrario ha trasferito quello sui <<fondi neri>> dell’Iri da Milano a Roma. Gli chiedono: <<Ma quante sentenze ha ammazzato, presidente?>> Risponde: <<Per ammazzare qualcosa, bisogna che questo qualcosa sia vivo>>. Corrado Carnevale si muove nell’ombra per ottenere il maxi processo. Ma non ci riesce, ci va un altro magistrato a presiederlo. Nelle carceri i boss si sentono perduti. Il 30 gennaio del 1992 la sentenza della Cassazione sfregia per sempre il potere della mafia. Gli ergastoli vengono confermati. L’unità verticistica di Cosa Nostra <<supera l’esame di legittimità>>. E’ la sconfitta più dura mai subita dalla mafia. E’ il prodigio di Giovanni Falcone. (Dal libro Uomini Soli di Attilio Bolzoni)


Nel 1939 via Castrofilippo non era il simbolo del degrado palermitano. E la piana della Magione raccoglieva i palazzi della buona borghesia. Gli enormi portoni di legno lasciavano intravedere gli atri all’aperto che anticipavano le bianche scalinate. I balconi lunghi, con le ringhiere in ferro battuto e le persiane verdi, rappresentavano lo status symbol dei palermitani che avevano conquistato almeno il “pezzo di pane sicuro” con lo stipendio statale. No, né la Magione, col gioiello arabo-normanno al centro dell’enorme slargo, né la Kalsa con le sue chiese barocche, Palazzo Butera e l’ultima residenza palermitana del Gattopardo, venivano considerati quartieri a rischio. Certo, il “popolino” c’era anche allora, ma non dava manifestazioni di turbolenze. Anche la mafia esisteva già, pur se non si faceva vedere. Presenza discreta e immanente per garantire una tranquilla convivenza tra classi sociali che avevano poche affinità, se non il “comune sentire” e la vocazione a “farsi i fatti propri”. Ciò assicurava alla mafia, ancora primitiva e scarsamente industrializzata, il controllo del territorio, agli abitanti -anche a quelli non mafiosi- di poter rincasare col buio senza essere derubati o infastiditi. Non erano tempi eccezionali. Di quel periodo Sciasca dirà che viveva “dentro una società doppiamente non giusta, doppiamente non libera, doppiamente non razionale. Gli analfabeti erano il venti per cento della popolazione. Palermo contava più di quattrocentomila abitanti e il reddito medio (ma non tutti avevano un reddito) era di 3029 lire al mese.I Falcone, che il reddito lo avevano, abitavano al numero 1 di via Castrofilippo, al “piano nobile” di un bel palazzo antico che era stato la casa del sindaco Pietro Bonanno, fratello della nonna, quello della villa con le palme davanti a Palazzo d’Orléans. Appartamento, grande, con le volte alte, gli affreschi sul soffitto e le maioliche pregiate del pavimento. Una famiglia tranquilla, né ricca né povera, quella del dottor Arturo Falcone, direttore del laboratorio provinciale di igiene e profilassi. Lavorava solo lui; la moglie, Luisa Bentivegna, stava in casa a badare ai figli.In quella casa, il 18 maggio del 1939, col fondamentale aiuto di una levatrice e di un medico, è nato Giovanni, terzogenito molto atteso dopo due femmine. Era un giovedì di primavera inoltrata, ma Palermo era spazzata da un fastidioso vento di scirocco. L’umidità raggiungeva punte altissime. Il calendario annunciava la festa di san Venanzio martire e il “Giornale di Sicilia”, come piatto del giorno, consigliava “Quaglie alla siciliana”. La cronaca, invece, non offriva grandi spunti, tranne un infortunio al cantiere navale e il caso di una bambina, Caterina Restuccia, caduta nella pentola di acqua bollente e morta per le ustioni. Il 18 maggio i nati erano venticinque. Allentante il cartellone degli spettacoli: al Teatro Massimo l’ultima rappresentazione della stagione con la Traviata interpretata da Attilia Archi e Gino Fratesi. Al cine-varietà del Massimo il Gruppo d’arte “Novecento” dava La Casa del peccato con la Negri. Quel 18 maggio le cronache sportive davano conto del fatto che la squadra di calcio del Palermo aveva superato “agevolmente la combattiva Salernitana” e si attestava sui 32 punti in classifica. La prima pagina annunciava l’imminente visita del principe Umberto. Ma in casa Falcone, quel giorno, non ci fu tempo per leggere il giornale. Era arrivato il maschio, dopo due femminucce: Maria, che aveva tre anni e Anna, la più grande, che ne aveva quasi nove.(Francesco La Licata -Storia di Giovanni Falcone)


Cosa Nostra ha buona memoria e non dimentica facilmente. Se poi un fantasma che credeva di aver esorcizzato le si presenta di nuovo come un incubo, come una persecuzione, la necessità di (rimuoverlo) diventa quasi fisiologica. Falcone era diventato l’ossessione della mafia, al (vecchio conto) si aggiungeva quello recente e, soprattutto, i timori per il futuro se il giudice fosse riuscito ad ottenere la giuda della Superprocura. Ciò che accade nei primi mesi del 1992 non fa che accrescere le preoccupazioni di Cosa Nostra. La Cassazione (fa acqua) il clima generale è cambiato: (Roma influenza l’orientamento della magistratura), (siamo alle sentenze politiche), così vengono vissute negli ambienti della (palude) le iniziative del governo contro i boss. Falcone entra sempre di più nel mirino dei commenti al vetriolo degli avvocati di mafia. Cresce il suo prestigio, ma aumenta il rischio. L’ultima (vittoria) è del 22 febbraio: il tribunale di Caltanissetta sancisce che Falcone fu calunniato dal (Corvo) il giudice Alberto Di Pisa, rinviato a giudizio perché ritenuto l’autore della lettera anonima, condannato a un anno e mezzo di reclusione (Storia di Giovanni Falcone di Francesco La Licata)


Con la nuova “squadra Molti avevano detto che all’esterno quella scelta sarebbe stata vissuta come una sconfitta. Ma lui non se ne curò. Falcone arrivò al ministero con un leggero ritardo. L’insediamento era previsto per i primi di marzo, ma fu rinviato perché bisognava attendere che si liberasse dell’ultimo impegno processuale palermitano: la chiusura dell’inchiesta sugli omicidi politici. Una volta firmata la sentenza, si trasferì. Non si può dire che a Roma fosse più amato che a Palermo. Ma certamente potè contare su un gruppo di amici che si era trovati vicini ai tempi non sospetti del lavoro preparatorio del maxiprocesso. Aveva in mente il “suo gruppo”, del quale “doveva” far parte Liliana Ferraro. Sorse qualche problema, dato che Martelli si accingeva a trasferirla. Falcone intervenne e propose al ministro che la Ferraro fosse nominata sua vice: “La voglio accanto”. Aveva i suoi buoni motivi per avanzare una richiesta così determinata: motivi di profonda amicizia, ma non solo. Falcone non conosceva la “macchina” del ministero, mentre la Ferraro la dominava, e poi aveva bisogno di sentirsi protetto da qualcuno che sicuramente non avrebbe tradito. Un’altra amicizia nascerà con Livia Pomodoro, che Martelli nominerà capo di gabinetto del ministro nel maggio 1991. Un terzo amico lo troverà in Giannicola Sinisi, un giovane magistrato pugliese anche lui appena giunto a Roma, che diventerà per Falcone “l’allievo”.

Giannicola SINISI (magistrato)  Mi colpì subito quell’uomo. Mi colpirono i suoi occhi mobilissimi, il suo sguardo leale e franco. Capii che mi trovavo di fronte una persona “difficile” ma estremamente ricca. Legammo immediatamente, ci trovammo d’accordo soprattutto sul programma che aveva accettato di portare avanti. Ricordo che cominciammo a lavorare quasi subito. Anche prima del 13 marzo, in una stanza che non era la sua, in condizioni precarie. Primo obiettivo fu quello di chiedersi come fare per dare una nuova organizzazione alla polizia giudiziaria. Organizzò degli incontri. Andammo a cena, io, lui e Liliana Ferraro con Pino Arlacchi, con Gianni De Gennaro e con Piero Grasso, che si accingeva a passare anch’egli al ministero. Questo accadeva in febbraio, e non abitava ancora a Roma. Poi si insediò e mi disse: “Preparati a cambiare ufficio, verrai da me”. Sorse qualche problema e allora ne parlò col ministro, quindi andò direttamente dal capo di gabinetto di allora, Filippo Verde, e gli cominciò: “Lui viene con me”. Qualche tempo dopo cominciò ad avvalersi della collaborazione di Loris D’ambrosio, un collega che lavorava all’ufficio riforme del ministero e che Giovanni chiamò alla direzione generale degli Affari penali. Ricordo ancora il suo ritorno dal primo weekend trascorso a Palermo. Si presentò con un questionario sul problema del coordinamento delle indagini preliminari, lo stesso che poi sarebbe stato inviato, senza riceverne grande riscontro, a tutti i procuratori generali. Mi colpì la concretezza di quell’uomo: le cose di cui parlava diventavano realtà. Mi disse che si era fatto aiutare da Francesca per scrivere a macchina i testi delle domande. (Francesco LA LICATA-storia di Giovanni FALCONE)


Isolato nella sua città Faceva paura, in quegli anni, la macchina da guerra che si muoveva attorno a Falcone. Quattro auto di scorta, gli agenti coi giubbetti anti proiettili e le mitragliette, le sirene e i lampeggiatori, le “sgommate” sulle corsie preferenziali. E l’elicottero assordante, quasi poggiato sui tetti dei palazzi di via Notarbartolo, avanscoperta di un piccolo esercito agguerrito. Falcone in ascensore con tre agenti, mentre altri due salivano a piedi e lo precedevano al piano. Se si andava a trovarlo, ci si doveva sottoporre a controlli accuratissimi. I palermitani guardavano attoniti alla nascita di quel “fenomeno”. La città malignava, le invidie prendevano corpo, i commenti acidi cominciavano a essere lo sport preferito dei garantisti dell’ultima ora. No, non era amore quello di Palermo per Falcone. Al punto che, quasi vergognandosi per “tanto fastidio arrecato alla comunità”, il giudice non poté fare a meno di ridimensionare ulteriormente i suoi spazi di libertà. Ne risentì ancora di più la sua privacy: la notte si decise a far montare la guardia dietro la porta di casa, una sorveglianza che ormai abbracciava l’intera durata delle ventiquattr’ore. E lui rinunciò al mare. Addio irruzioni a sorpresa allo stabilimento La Torre, a Mondello, l’unico posto che, dal punto di vista della sicurezza, garantiva qualche spiraglio di tranquillità. Il nuoto era rimasto praticamente l’unica “trasgressione” alle regole della vita blindata. Scelse di ripiegare sulla piscina comunale, con difficoltà perché doveva aver cura di andare in ore non di punta. E allora o si presentava praticamente all’alba o a sera tardissima. E sempre in momenti diversi. Smise anche di andare al cinema. Decisione obbligatoria, visto che ogni volta dovevano liberare quattro file di poltrone per fargli attorno una specie di cordone sanitario. Apprezzò l’utilità dell’invenzione di videoregistratori e cassette. Non parliamo, poi, dei ristoranti. Ci fu un periodo che la gente si alzava e cambiava tavolo.(da STORIA DI GIOVANNI FALCONE- di Francesco La Licata)

Di Paolo Borsellino

“FALCONE È VIVO!” Il 20 Giugno 1992 il Dott. Paolo Borsellino, al termine di una fiaccolata con una veglia di preghiera, organizzata per ricordare il suo amico Giovanni Falcone, teneva un discorso che è considerato il suo testamento morale, qualche giorno dopo avrebbe scandito le stesse parole a Casa Professa.

“Giovanni Falcone lavorava con perfetta coscienza che la forza del male, la Mafia, lo avrebbe un giorno ucciso. Francesca Morvillo stava accanto al suo uomo con perfetta coscienza che avrebbe condiviso la sua morte. Gli uomini della scorta proteggevano Falcone con perfetta coscienza che sarebbero stati partecipi della sua sorte. Non poteva ignorare, e non ignorava, Giovanni Falcone l’estremo pericolo che egli correva perché troppe vite di suoi compagni di lavoro e di suoi amici sono state stroncate sullo stesso percorso che egli si imponeva. Perché non è fuggito; perché ha accettato questa tremenda situazione; perché non si è turbato; perché è stato sempre pronto a rispondere a chiunque della speranza che era in lui? PER AMORE! La sua vita è stata un atto d’amore verso questa sua città, verso questa terra che lo ha generato. Perché se l’amore è soprattutto ed essenzialmente dare, per lui, e per coloro che gli sono stati accanto in questa meravigliosa avventura, amore verso Palermo e la sua gente, ha avuto ed ha il significato di dare a questa terra qualcosa, tutto ciò che era ed è possibile dare delle nostre forze morali. Intellettuali e professionali per rendere migliore questa città e la patria a cui essa appartiene. Qui Falcone cominciò a lavorare in modo nuovo. E non solo nelle tecniche d’indagine. Ma anche consapevole che il lavoro dei magistrati e degli inquirenti doveva entrare nella stessa lunghezza d’onda del sentire di ognuno. La lotta alla mafia (primo problema morale da risolvere nella nostra terra, bellissima e disgraziata) non doveva essere soltanto una distaccata opera di repressione, ma un movimento culturale e morale, anche religioso, che coinvolgesse tutti, che tutti abituasse a sentire la bellezza del fresco profumo di libertà che si oppone al puzzo del compromesso morale, dell’indifferenza, della contiguità e, quindi, della complicità. Ricordo la felicità di Falcone, quando in un breve periodo di entusiasmo conseguente ai dirompenti successi originati dalle dichiarazioni di Buscetta, egli mi disse : “La gente fa il tifo per noi”. E con ciò non intendeva riferirsi soltanto al conforto che l’appoggio morale della popolazione dà al lavoro del giudice. Significava soprattutto che il nostro lavoro, il suo lavoro, stava anche smuovendo le coscienze, rompendo i sentimenti di accettazione della convivenza con la mafia, che costituiscono la vera forza di essa. Questa stagione del “tifo per noi” sembrò durare solo poco perché ben presto sopravvennero il fastidio e l’insofferenza al prezzo che alla lotta alla mafia, alla lotta al male, doveva essere pagato dalla cittadinanza. Insofferenza alle scorte, insofferenza alle sirene, insofferenza alle indagini, insofferenza ad una lotta d’amore che costava però a ciascuno, non certo i terribili sacrifici di Falcone. Ma la rinuncia a tanti piccoli o grossi vantaggi, a tante piccole o grandi comode abitudini, a tante minime o consistenti situazioni fondate sull’indifferenza, sull’omertà o sulla complicità. Insofferenza che fini per invocare ed ottenere, purtroppo, provvedimenti legislativi che, fondati su una ubriacatura di garantismo, ostacolarono gravemente la repressione di Cosa Nostra e fornirono un alibi a chi, dolorosamente o colposamente, di lotta alla mafia non ha mai voluto occuparsene. In questa situazione Falcone andò via da Palermo non fuggì. Cercò di ricreare altrove, da più vasta prospettiva, le ottime condizioni del suo lavoro. Per continuare a “DARE”. Per continuare ad “AMARE”. Venne accusato di essersi avvicinato troppo al potere politico. MENZOGNA! Qualche mese di lavoro in un ministero non può fare dimenticare il suo lavoro di dieci anni. E come lo fece! Lavorò incessantemente per rientrare in magistratura. Per fare il magistrato, indipendente come sempre lo era stato, mentre si parlava male di lui, con vergogna di quelli che hanno malignato sulla sua buona condotta. Muore e tutti si accorgono quali dimensioni ha questa perdita. Anche coloro che per averlo denigrato, ostacolato, talora odiato e perseguitato, hanno perso il diritto di parlare! Nessuno tuttavia, ha perso il diritto, anzi il dovere sacrosanto, di continuare questa lotta. Se egli è morto nella carne, ma è vivo nello spirito, come la fede ci insegna, le nostre coscienze se non si sono svegliate debbono svegliarsi. La speranza è stata vivificata dal suo sacrificio, dal sacrificio della sua donna, dal sacrificio della sua scorta. Molti cittadini, è vero, ed è la prima volta, collaborarono con la giustizia per le indagini concernenti la morte di Falcone. Il potere politico trova incredibilmente il coraggio di ammettere i suoi sbagli, e cerca di correggerli, almeno in parte, restituendo ai magistrati gli strumenti loro tolti con stupide scuse accademiche Occorre evitare che si ritorni di nuovo indietro: occorre dare un senso alla morte di Giovanni, alla morte della dolcissima Francesca, alla morte dei valorosi uomini della sua scorta. Sono morti tutti per noi, per gli ingiusti, abbiamo un grande debito verso di loro e dobbiamo pagalo gioiosamente, continuando la loro opera: facendo il nostro dovere, rispettando le leggi, anche quelle che impongono sacrifici: rifiutando di trarne dal sistema mafioso anche i benefici che possiamo trarne (anche gli aiuti, le raccomandazioni, i posti di lavoro), collaborando con la giustizia, testimoniando i valori in cui crediamo, in cui dobbiamo credere, anche dentro le aule di giustizia, troncando immediatamente ogni legame di interesse, anche quelli che ci sembrano innocui, con qualsiasi persona portatrice di interessi mafiosi, grossi o piccoli, accentando in pieno questa gravosa e bellissima eredità di spirito: dimostrando a noi stessi ed al mondo che Falcone È VIVO!”   Paolo Borsellino” discorso alla Veglia per Falcone, Palermo 20 giugno 1992

  •  La morte di Falcone mi ha lasciato in uno stato di grave situazione psicologica per il dolore provato, in quanto non si tratta soltanto di un collega o compagno di lavoro ma, probabilmente del più vecchio degli amici che è venuto meno.  Ho temuto nell’immediatezza della morte di Falcone una drastica perdita di entusiasmo nel lavoro che faccio. Fortunatamente, non dico di averlo ritrovato, ho almeno ritrovato la rabbia di continuarlo a fare.  
  • Giovanni, ho preparato il discorso da tenere in chiesa dopo la tua morte: “Ci sono tante teste di minchia: teste di minchia che sognano di svuotare il Mediterraneo con un secchiello… quelle che sognano di sciogliere i ghiacciai del Polo con un fiammifero… ma oggi signori e signore davanti a voi, in questa bara di mogano costosissima, c’è il più testa di minchia di tutti… Uno che aveva sognato niente di meno di sconfiggere la mafia applicando la legge”.  
  • In pochi giorni mi sento invecchiato di almeno 10 anni, non solo perché ho perso un grande amico, ma anche perché ho perso il mio scudo. Mi sento solo.   
  • «Mio padre rimase invalido nel primo conflitto mondiale: in testa, trentatrè schegge d’osso che i medici, per non complicare le cose, evitarono di rimuovere. Da allora ebbe sempre difficoltà di deambulazione. Un mio zio, capitano d’aviazione, fu abbattuto».  Non si riferiva a Salvatore ma a Giuseppe, fratello del padre, caduto a ventiquattro anni nel corso di un duello aereo. Ma lo zio Salvatore era nel suo cuore e lo ricordo cosi: «Un altro zio, fratello di mia madre, falsificò i documenti anagrafici pur di arruolarsi come volontario: una granata lo colpi in pieno e l’uccise. Per questi nostri morti provavamo affetto e ammirazione, la loro vita era considerata un esempio. “Hanno servito la patria!” erano soliti ripetere i miei genitori». (da “Storia di Giovanni Falcone” di Francesco La Licata

Paolo Borsellino non era riuscito a far parte del pool di magistrati che investigavano sull’omicidio di Giovanni Falcone, ma questo non gli impedì di continuare le indagini. Era determinato a consegnare gli assassini alla giustizia. <<Stai tranquilla, ci arriveremo a capire chi è stato, stai tranquilla, fidati di me>>, promise a Liliana Ferraro, l’ex capo dell’ufficio privato di Giovanni Falcone.A un mese dall’omicidio, il pomeriggio del 25 giugno, Paolo Borsellino organizzò un incontro con il colonnello Mori e il capitano dei carabinieri De Donno. Per ragioni di segretezza, non li ricevette nel suo ufficio, ma in caserma. Prima chiese loro se avessero delle piste sugli assassini di Falcone, ma la risposta fu negativa, e poi di riprendere sull’infiltrazione della mafia negli appalti pubblici relativi ai lavori in Sicilia, portate avanti su richiesta di Falcone. Paolo Borsellino domandò ai due ufficiali di operare in gran segreto e di conferire con lui. Formalmente, il procuratore non aveva il diritto di condurre indagini simili. Con sua massima frustrazione, il suo mandato copriva soltanto l’inchiesta sui clan di Trapani e Agrigento.(JOHN FOLLAIN i 57 giorni che hanno sconvolto l’Italia)


Porta in spalla la bara di Giovanni Falcone, gli restano ancora cinquantacinque giorni. Una pioggia violenta lava Palermo, il carro funebre è già scomparso fra i vicoli che scendono verso il mare. Anche il becchino ha fretta di seppellire il morto.È solo, adesso è solo come non lo è stato mai. Neanche quando la sua vita è cambiata in una notte di maggio di tanti anni prima, il capitano di Monreale steso a terra e lui precipitato in un incubo. Dicono che è l’erede, l’ultimo testimone. Ora è diventato anche il bersaglio. Ha poco tempo. Vuole parlare. Non lo fanno parlare. Vuole indagare. Non lo fanno indagare. Si scopre abbandonato, mandato allo sbaraglio da gente di Roma che nell’ombra sta trattando la resa. Sono in molti a tremare per i suoi segreti. Forse aspettano un miracolo o un’altra bomba. Uomo di legge e di coraggio, siciliano di fibra forte, fino all’ultimo non si rassegna. Ha rabbia e orgoglio per non piegarsi nemmeno ai nemici più invisibili. Si getta nel vuoto Paolo Borsellino, magistrato di Palermo, assassinato dall’esplosivo mafioso e dal cinismo di un’Italia canaglia che l’ha visto morire senza fare nulla. Tradito e venduto. Va incontro al suo destino accarezzando i figli, tenta disperatamente di sopravvivere fino a quella domenica afosa di mezza estate. Il 19 luglio del 1992. L’agenda rossa che ha sempre con sé non si troverà mai.(Attilio Bolzoni)


” Il traffico dello svincolo per l’autostrada va ingrossandosi sempre di più , mentre corro in direzione opposta -racconta Lucia-. C’è già tanta gente di fronte all’ospedale , scopro che mio padre è arrivato tra i primi al pronto soccorso . Ha chiesto dov’è Falcone , è scomparso dietro una porta a vetri . No , non so quanto tempo sia passato dal suo arrivo . All’improvviso lo vedo: ho impresso nella memoria il suo sguardo smarrito , sconvolto, è invecchiato in pochi minuti . Mi viene incontro , mi abbraccia: “È morto così, tra le mie braccia”. Comincio a piangere senza freni , sento la sua voce che vuole essere ferma , altera: “Non piangere, Lucia, non dobbiamo dare spettacolo”. Dopo qualche secondo non ce la fa più neanche lui . Ora è tra le mie braccia , inizia a singhiozzare . Sento le sue lacrime bagnarmi il collo , lo stringo per paura che si lasci andare . “Papà, ma adesso come farai a continuare?” Chiedo. “Non lo so, non lo so”. Piange ancora , scuote la testa . Alle nostre spalle arriva Alfredo Morvillo , il fratello di Francesca. Lui e papà si conoscono da una vita . Capisce che anche per la sorella non c’è stato niente da fare . “No, pure Francesca no…”, Singhiozza ancora. È grande la sofferenza per la perdita di Giovanni e Francesca , gli volevamo tutti bene , in casa Borsellino . Ma il mio pianto , quel 23 maggio , non sembri egoistico , nasconde anche una consapevolezza: adesso la morte di mio padre diventa più vicina , anche per lui le ore sono ormai contate .  (Estratto da “Paolo Borsellino”, Umberto Lucentini)


Enzo Biagi ricorda Giovanni Falcone L’ultima immagine che è rimasta nei suoi occhi è quella di un lembo di Sicilia: il mare, l’erba verde di un pascolo, gli ulivi saraceni. Le lancette dell’orologio di Francesca Morvillo coniugata Falcone sono ferme alle 18:08. Parlai di Giovanni Falcone con Maria, la sorella, intelligente, pacata, alla quale Giovanni, timido, riservato, confidava: <<Il pensiero della morte mi accompagnava sempre>>. E ripeteva: <<Il coraggioso muore una volta sola, il codardo cento al giorno>>. Quando la mafia uccise Lima, il magistrato rivelò a un amico: <<Adesso tocca a me>>. Davanti alla sua casa, a Palermo, c’era una magnolia; non so se la chiamano ancora <<l’albero Falcone>>. Aveva detto: <<A questa città vorrei dire: gli uomini passano, le idee restano, restano le loro tensioni morali, e continueranno a camminare sulle gambe di altri uomini>>. Ero a cena con Giovanni e Francesca a Palermo, una sera del 1987, in casa di un comune amico: a mezzanotte andarono a sposarsi. <<Come due ladri>>, dissero poi; solo quattro testimoni, così vuole la legge. Uscivano da tristi vicende sentimentali e si erano ritrovati con la voglia di andare avanti insieme. <<Perché non fate un bambino?>>, chiesero una volta a Giovanni. <<Non si fanno orfani>>, rispose. E Buscetta lo aveva avvertito: <<Se lei non va via da Palermo, non si salva>>. E spiegò: <<Si salva chi fa vita irregolare, niente abitudini, casa, ufficio>>. Buscetta e Falcone si incontrarono a Brasilia e il giudice ebbe subito l’impressione di trovarsi di fronte a una persona molto seria. Lo avvertì: <<Tutti e due siamo palermitani. Ci capiamo>>. E Buscetta: <<Intendo premettere che non sono uno spione e non intendo propiziarmi i favori della giustizia. Voglio raccontare quello che so sulla mafia senza pretendere sconti, affinché le nuove generazioni possano vivere in modo più degno e umano>>. Si sa come è andata a finire: una bomba, località Capaci.Una buona parte di Palermo, l’ha odiato, mentre era in vita. Quando è morto la città è scesa in piazza. Una moltitudine di gente ha preteso di ereditarne il pensiero, i meriti e il carisma. No, non erano in molti ad amare veramente Giovanni Falcone. Se i gesti concreti hanno un senso, basta misurarli per comprendere quanto pochi siano stati i suoi veri amici. Forse la verità è che Palermo, ma non solo lei, aveva dato a Falcone una silenziosa delega in bianco: “Liberarci dalla mafia”. Un alibi per nascondere la paura, l’impotenza, l’assenza di qualunque volontà di opporsi al malaffare. Paura? Certo, la paura c’è. Ma dove finisce la paralisi da terrore, per lasciare il posto al calcolato immobilismo, all’acquiescenza, in nome di una vita più agevole, di una tranquilla convivenza con un modo apparentemente innocuo, ma spietato e violento nella sua essenza? Qual è il confine tra il disimpegno e la complicità? Tra l’inettitudine e la collusione? Chi ha osteggiato Giovanni Falcone, l’ha fatto sempre “in buona fede”? La storia del giudice si identifica con quella degli ultimi, terribili anni palermitani: i morti, quelli di mafia e quelli che con una brutta parola abbiamo imparato a chiamare “eccellenti”, le defezioni, le inadempienze, i sospetti, le colpe della politica e dei governi, le protezioni concesse a governanti infedeli, l’impunità garantita agli assassini, l’illegalità elevata a sistema. Anni di piombo, molto più di quanto lo siano stati quelli del terrorismo: un lungo filo rosso che affonda la sua origine nel buio di un infinito “pozzo nero” e marcia verso una direzione che, dopo le stragi di Capaci e via D’Amelio, appare senza traguardo. La vita e la morte di Giovanni Falcone rappresentano una sorta di guida da questo passato pesante come un macigno a un futuro ancora poco rassicurante. (Francesco La Licata  in STORIA DI GIOVANNI FALCONE)


QUEL MAGISTRATO HA FATTO COSE DA PAZZI  <Nessuno ha mai potuto dire: i Salvo sono mafiosi. Oppure: Nino Salvo è un boss. Io sono nato con la democrazia cristiana, essere fedeli non paga. Sulla nostra pelle stiamo subendo sia l’attacco di chi sta tentando di strumentalizzare tutta l’imprenditoria siciliana, sia l’attacco di chi vuole colpire la DC e gli uomini che le stanno vicini…alcune forze politiche, soprattutto all’interno della sinistra, adoperano spesso come strumento di lotta politica una rozza e selvaggia aggressione fatta di ammiccamenti, di insinuazioni, di maldicenze.> <Ne hanno dette di tutti i colori sul nostro conto, perfino che ricicliamo i soldi sporchi del racket dell’eroina. Ma noi Salvo guadagniamo tanti di quei soldi con le esattorie che cerchiamo qualcuno che ricicli i nostri miliardi. Siamo i più ricchi dell’isola, siamo il più grande gruppo finanziario siciliano, abbiamo una liquidità enorme. Se nel 1983 non ci confermeranno l’appalto decennale delle esattorie, ci scateneremo.> <Non so come la Guardia di Finanza si orienterà a chiudere l’indagine tributaria sulle nostre esattorie, per quanto mi riguarda ho la coscienza tranquilla. Ma mi dispiacerebbe molto scoprire un domani che qualcuno, approfittando dell’emozione seguita all’assassinio dell’onorevole Pio La Torre, abbia voluto cogliere un’occasione di immediato vantaggio politico. Questo blitz nasce in un momento particolare, e per capirlo basta ripercorrere alcune date. Il 30 aprile 1982 viene ucciso il deputato comunista La Torre, il 10 maggio si riunisce il comitato centrale del Pci. Il giorno successivo, i giornali diffondono uno stralcio dell’intervento di Ugo Pecchioli che indica nel sistema delle esattorie il reliquiario di ogni nefandezza passata e presente e futura. Bene, dopo due giorni la Guardia di finanza è nei nostri uffici. Solo una coincidenza?> <<E’ vero, io stato tirato in ballo molto spesso. e, direi, con puntuale insistenza. Ma da chi? Certamente né dalla magistratura, né da alcun altro organo inquirente. Sfido chiunque a trovare la benché minima traccia di valore processuale nei miei confronti. Il mio nome è stato tirato in ballo da qualche foglio locale troppo zelante nel costruire, attorno ai Salvo, una letteratura facile da smistare a tutti gli altri giornali. Il discorso dei miei rapporti con la mafia è stantìo. In venticinque anni di carriera, non sono mai entrato in un processo di mafia, non ho mai avuto un avviso di reato. Se fossi un mafioso, tutto questo sarebbe possibile?> <So bene che quando si parla di gruppo di pressione si allude a tante cose…alla pratica della corruzione o alle consorterie clientelari…ma simili metodi non ci appartengono. Ciò non significa che i Salvo non abbiano un peso nella realtà siciliana. Ce l’hanno, eccome. Le nostre cooperative funzionano, a differenza di molte altre. Le nostre iniziative nel settore turistico marciano a gonfie vele e siamo noi che esportiamo il vino in Unione sovietica, mentre le cooperative rosse stanno a guardare. Alla luce di tutto questo perché la gente non dovrebbe avere fiducia nei Salvo e nelle idee, politiche ed economiche, che i Salvo rappresentano all’interno della DC?> <Quel magistrato ha fatto cose da pazzi. E’ andato a guardare dentro le banche, dove passa il denaro. Cose da pazzi!> e’ il 1982. Quel magistrato è Giovanni Falcone.  (Da PAROLE D’ONORE di Attilio Bolzoni)


Giannicola Sinisi (Magistrato) racconta:I discorsi sulla morte si facevano sempre più frequenti. Era diventato un tema ricorrente, insieme con l’abitudine a un ordine quasi maniacale. Quella scrivania diventava ogni giorno più rassettata, come se la preoccupazione di Giovanni fosse solo quella di mettere ogni cosa al proprio posto. Una sera, dopo la lettura dell’ennesimo articolo anti-Falcone, fece il discorso più amaro che gli abbia mai sentito pronunciare. Poche parole: “io non ho niente. Non posseggo neanche una casa, ho soltanto il mio lavoro e la mia dignità. Quella non me la possono togliere”. No, forse razionalmente non pensava di essere così vicino alla morte. Era semmai la morte che inconsciamente gli entrava nella pelle. Quell’ansia di ordine non l’aveva mai avuta, la sua scrivania di Palermo era una bolgia di fascicoli, lo stesso quella del primo periodo romano. Era come se si stesse preparando a un distacco e “ripuliva” prima di andarsene. Un pò come aveva fatto prima di lasciare la Procura. Ma non mutava il suo comportamento, non cambiava il suo pensiero. Pochi giorni prima di saltare in aria sull’autostrada di Capaci, Giovanni tornava a difendere il “suo” maxiprocesso, ricordando che per la prima volta, “sia pure in un dibattimento con centinaia di imputati, l’organizzazione mafiosa denominata Cosa Nostra” era stata “processata in quanto tale”. “Ed è un processo che non si è concluso con la solita litania, con la solita sequela di assoluzioni per insufficienza di prove, che adesso sarebbero tutte con formula piena, ma è un processo che si è concluso con ben dodici ergastoli e gli annullamenti in Cassazione sicuramente porteranno ad altri ergastoli.” Instancabile, Giovanni continuava a battere sui temi della lotta alla mafia, fino alla vigilia della morte: l’8 maggio all’Istituto Gonzaga di Palermo, il 13 all’università di Pavia, qualche giorno prima dell’attentato a Roma, in una conferenza presso il residence Ripetta. Quel giorno accadde un fatto assai strano: qualcuno gli fece trovare un biglietto vicino al posto dove si sarebbe seduto. Il contenuto del messaggio non era particolarmente allarmante, lasciava sorpresi il fatto che qualcuno, malgrado tutte le misure di sicurezza adottate, fosse riuscito a giungere fino alla poltrona di Giovanni Falcone(Da STORIA DI GIOVANNI FALCONE di Francesco La Licata)


L’infanzia di Giovanni Falcone fu uguale a quella dei bambini del suo ambiente, che allora si chiamava “ceto sociale”. Scuola, Azione cattolica, qualche divertimento: un film o una partita a ping-pong. Non frequentava spesso altri bambini: le relazioni della sua famiglia non erano estese e neppure i rapporti tra parenti. Così, ormai magistrato, Giovanni si confessò: “Mio padre? Era una persona seria, onesta, legata alla famiglia. Cosa mi insegnò? A lavorare sodo, a rispettare gli impegni, a preoccuparmi delle mie sorelle, vecchi valori forse…Era cattolico e tra noi c’era una stima reciproca. Ma era molto più anziano di me. Anche gli interessi culturali erano diversi”. Come si viveva in casa? “Mio padre ci stava molto. Per lui era punto d’orgoglio non aver mai bevuto al bar una tazzina di caffè. Di conseguenza niente mare, niente villeggiatura. Mia madre? Donna molto energica, autoritaria. Da lei pochissimi segni esteriori d’affetto. Entrambi furono genitori molto esigenti che da me pretesero il massimo. Con i 7 e gli 8 la mia pagella veniva considerata brutta. Comunque ero il prediletto.” Era piccolissimo, quando arrivò la guerra e la famiglia dovette sfollare. I primi bombardamenti indussero i Falcone a trasferirsi nella borgata marinara di Sferracavallo, in una villa con la terrazza. Ma le bombe arrivavano anche lì, per questo decisero di raggiungere le campagne di Corleone, paese dov’era nata la madre. Anni difficili, certamente determinanti, quanto l’educazione familiare, per la formazione di un carattere duro e tenace. (Francesco La Licata in Storia di Giovanni Falcone)


Faceva paura, in quegli anni, la macchina da guerra che si muoveva attorno a Falcone. Quattro auto di scorta, gli agenti coi giubbetti anti proiettili e le mitragliette, le sirene e i lampeggiatori, le “sgommate” sulle corsie preferenziali. E l’elicottero assordante, quasi poggiato sui tetti dei palazzi di via Notarbartolo, avanscoperta di un piccolo esercito agguerrito. Falcone in ascensore con tre agenti, mentre altri due salivano a piedi e lo precedevano al piano. Se si andava a trovarlo, ci si doveva sottoporre a controlli accuratissimi. I palermitani guardavano attoniti alla nascita di quel “fenomeno”. La città malignava, le invidie prendevano corpo, i commenti acidi cominciavano a essere lo sport preferito dei garantisti dell’ultima ora. No, non era amore quello di Palermo per Falcone. Al punto che, quasi vergognandosi per “tanto fastidio arrecato alla comunità”, il giudice non poté fare a meno di ridimensionare ulteriormente i suoi spazi di libertà. Ne risentì ancora di più la sua privacy: la notte si decise a far montare la guardia dietro la porta di casa, una sorveglianza che ormai abbracciava l’intera durata delle ventiquattr’ore. E lui rinunciò al mare. Addio irruzioni a sorpresa allo stabilimento La Torre, a Mondello, l’unico posto che, dal punto di vista della sicurezza, garantiva qualche spiraglio di tranquillità. Il nuoto era rimasto praticamente l’unica “trasgressione” alle regole della vita blindata. Scelse di ripiegare sulla piscina comunale, con difficoltà perché doveva aver cura di andare in ore non di punta. E allora o si presentava praticamente all’alba o a sera tardissima. E sempre in momenti diversi. Smise anche di andare al cinema. Decisione obbligatoria, visto che ogni volta dovevano liberare quattro file di poltrone per fargli attorno una specie di cordone sanitario. Apprezzò l’utilità dell’invenzione di videoregistratori e cassette. Non parliamo, poi, dei ristoranti. Ci fu un periodo che la gente si alzava e cambiava tavolo.  (da STORIA DI GIOVANNI FALCONE di Francesco La Licata)


Porta in spalla la bara di Giovanni Falcone, gli restano ancora cinquantacinque giorni. Una pioggia violenta lava Palermo, il carro funebre è già scomparso fra i vicoli che scendono verso il mare. Anche il becchino ha fretta di seppellire il morto.È solo, adesso è solo come non lo è stato mai. Neanche quando la sua vita è cambiata in una notte di maggio di tanti anni prima, il capitano di Monreale steso a terra e lui precipitato in un incubo. Dicono che è l’erede, l’ultimo testimone. Ora è diventato anche il bersaglio. Ha poco tempo. Vuole parlare. Non lo fanno parlare. Vuole indagare. Non lo fanno indagare. Si scopre abbandonato, mandato allo sbaraglio da gente di Roma che nell’ombra sta trattando la resa. Sono in molti a tremare per i suoi segreti. Forse aspettano un miracolo o un’altra bomba. Uomo di legge e di coraggio, siciliano di fibra forte, fino all’ultimo non si rassegna. Ha rabbia e orgoglio per non piegarsi nemmeno ai nemici più invisibili. Si getta nel vuoto Paolo Borsellino, magistrato di Palermo, assassinato dall’esplosivo mafioso e dal cinismo di un’Italia canaglia che l’ha visto morire senza fare nulla. Tradito e venduto. Va incontro al suo destino accarezzando i figli, tenta disperatamente di sopravvivere fino a quella domenica afosa di mezza estate. Il 19 luglio del 1992. L’agenda rossa che ha sempre con sé non si troverà mai. (Attilio Bolzoni)


” Il traffico dello svincolo per l’autostrada va ingrossandosi sempre di più , mentre corro in direzione opposta-racconta Lucia-. C’è già tanta gente di fronte all’ospedale , scopro che mio padre è arrivato tra i primi al pronto soccorso . Ha chiesto dov’è Falcone , è scomparso dietro una porta a vetri . No , non so quanto tempo sia passato dal suo arrivo . All’improvviso lo vedo: ho impresso nella memoria il suo sguardo smarrito , sconvolto, è invecchiato in pochi minuti . Mi viene incontro , mi abbraccia: “È morto così, tra le mie braccia”. Comincio a piangere senza freni , sento la sua voce che vuole essere ferma , altera: “Non piangere, Lucia, non dobbiamo dare spettacolo”. Dopo qualche secondo non ce la fa più neanche lui . Ora è tra le mie braccia , inizia a singhiozzare . Sento le sue lacrime bagnarmi il collo , lo stringo per paura che si lasci andare . “Papà, ma adesso come farai a continuare?” Chiedo. “Non lo so, non lo so”. Piange ancora , scuote la testa . Alle nostre spalle arriva Alfredo Morvillo , il fratello di Francesca. Lui e papà si conoscono da una vita . Capisce che anche per la sorella non c’è stato niente da fare . “No, pure Francesca no…”, Singhiozza ancora. È grande la sofferenza per la perdita di Giovanni e Francesca , gli volevamo tutti bene , in casa Borsellino . Ma il mio pianto , quel 23 maggio , non sembri egoistico , nasconde anche una consapevolezza: adesso la morte di mio padre diventa più vicina , anche per lui le ore sono ormai contate .  ”  Estratto da “Paolo Borsellino”, Umberto Lucentini)


“Io vado, ci vediamo lunedì” La giornata del 22 maggio 1992 fino a sera, Giovanni Falcone l’aveva trascorsa a mettere ordine nelle sue cose. Aveva utilizzato la macchina tritacarte per distruggere alcuni documenti che non gli servivano più. Chi gli è stato vicino è rimasto molto impressionato da tanta meticolosità. Presagiva la fine? Forse è più consolante pensare che si preparasse psicologicamente a lasciare quell’ufficio, in vista della Procura nazionale che, chissà per quale convinzione, sentiva vicina. Nulla fa pensare che temesse: non avrebbe portato con sé Francesca, non l’avrebbe attesa per un giorno e mezzo. Anzi, il ritardo della moglie sarebbe stata la scusa ideale per poter viaggiare da solo, salvaguardandola così senza metterla in apprensione. Invece ha spostato più volte la partenza, si è mosso con estrema tranquillità, trovando persino la voglia e il tempo di fare un salto a casa per cucinarsi un piatto di spaghetti. E quando ha lasciato la sua stanza si è rivolto alla segretaria, salutandola in un modo che non lasciava trasparire timori: “Io vado, ci vediamo lunedì”.(Storia di Giovanni Falcone di Francesco La Licata)


“Nel luglio del ’78 una mattina nella mia stanza dell’ufficio istruzione. Sapevo che Rocco Chinnici, nel frattempo divenuto consigliere istruttore, mi aveva affidato il processo Spatola, e la voce in giro s’era sparsa velocemente. Da più parti mi si fece notare che questa decisione avrebbe creato notevoli problemi di sicurezza. Non provai né paura né ansia, bensì un comprensibile stupore per una problematica per me inedita. Ma quella mattina rimasi sbalordito: una delegazione composta da noti avvocati, il fior fiore dei collegi di difesa palermitani, chiese di essere ricevuta. Non ebbi difficoltà a concedere l’incontro. Fu brevissimo: venivano a dirmi che mi consideravano persona per bene, che si fidavano della mia equità, della mia freddezza di giudizio. Mi sentii imbarazzato. Fra l’altro da parte dei miei colleghi non ho mai goduto di grandi simpatie, poiché non avevo il problema di apprendere i rudimenti del mestiere. Molti, con sufficienza, mi consideravano il braccio destro di Chinnici, quasi fossi un acritico e impersonale esecutore dei suoi indirizzi. Perciò quando Chinnici mi assegnò un compito così gravoso si convinsero definitivamente che fossi una persona che subiva i suoi ordini. Quando si resero conto che ero capace di valutare in piena autonomia fecero di tutto per metterci l’uno contro l’altro. Un bel giorno, quando la misura fu colma, fui io stesso a parlarne a Chinnici. La storia si concluse lì.”  Giovanni Falcone in Falcone vive di Galluzzo, La Licata, Lodato


Giovanni Falcone sapeva come sarebbe finita. <<Sono siciliano, non ho paura di morire>>. La stagione del Corvo, con accuse insensate da cui deve difendersi persino davanti al Csm, e lo strappo di Orlando con la polemica per le presunte <<carte nei cassetti>> serbate dai magistrati palermitani sui delitti eccellenti sono altrettanti passi che lo avvicinano all’uscita dalla scena siciliana. Dopo l’Addaura, lo nominano procuratore aggiunto. Ma basta scorrere gli appunti consegnati all’amica giornalista Liana Milella per comprendere il travaglio di quell’ultimo anno, di quell’ultimo incarico sotto <<il capo>>, Piero Giammanco. Emarginazione, sospetti, <<quel posto sta diventando una sevizia>>, dice alla moglie Francesca. <<E’ colpa di Giammanco se mio fratello abbandonò Palermo. E Giovanni glielo disse pure, al momento dei saluti. Lui, imperturbabile, gli diede una pacca sulla spalla e lo baciò due volte sulle guance, come Giuda>>, ha raccontato la sorella Maria.Ancora una volta, invidie, rancori professionali, calcoli politici: la miscela contro Falcone è sempre la stessa. Lui reagisce con un rilancio: <<Posso anche parlare col diavolo, non sarà certo il diavolo a convincere me>>. E accetta la direzione degli Affari penali che gli offre Claudio Martelli, solo pochi anni prima nella trincea opposta alla sua con la campagna sulla <<giustizia giusta>> e il referendum sulla responsabilità civile dei giudici. Forse è un azzardo reciproco, forse semplice realpolitik, ma funziona. Falcone prende servizio in via Arenula a marzo 1991, a undici mesi dall’avvio di Mani pulite a Milano, in un clima già pesante per la Prima Repubblica. Il delfino di Craxi sa di avere sulle spalle una somma segreta, il conto Protezione. L’eroe antimafia di Palermo è, probabilmente, l’unico che può traghettarlo fuori del craxismo, nel mondo nuovo si profila. Ma sarebbe ingiusto ridurre tutto al calcolo. <<Martelli da ministro della Giustizia, si è comportato benissimo con mio fratello>>, gli dà atto Maria. Giovanni Falcone immagina di poter avviare da Roma quel progetto che a Palermo gli è impedito: la Superprocura può diventare realtà nella capitale. E da subito cambia qualcosa d’importante, introducendo quel principio di rotazione in Cassazione che sfilerà la sentenza definitiva del maxiprocesso a Corrado Carnevale. Totò Riina e i suoi corleonesi hanno antenne lunghe nei palazzi, presagiscono la stangata che sta per piovere da Roma, capiscono come dietro quel verdetto micidiale che li seppellisce per sempre in galera ci sia la mano di Falcone, <<La mia partita con Cosa Nostra si chiuderà solo con la morte>>, si sfoga lui. (Da UN SIMBOLO DI SPETANZA di Goffredo Buccini)

da “Le Ultime Parole di Falcone e Borsellino”, a cura di Antonella Mascali  Il Diario

  • Il 24 giugno 1992 la giornalista de «Il Sole 24 Ore» Liana Milella pubblica alcuni appunti del diario di Giovanni Falcone, che il magistrato le aveva affidato a luglio del 1991 dicendole: «E per questo che sono andato via da Palermo. Tienili questi fogli, non si sa mai». «Come in tante altre occasioni – racconta Liana Milella – si discute della sua decisione di lasciare il posto di procuratore aggiunto di Palermo. “Che ci rimanevo a fare? Per fare polemiche ogni giorno? Per subire umiliazioni? Per non lavorare? O soltanto per fornire un alibi? No, meglio Roma. Qui al ministero c’è tantissimo da fare. E alla mafia, anche da qui, si può dare molto fastidio».
  • Primi di dicembre 1990: [Pietro Giammanco, Procuratore di Palermo, n.d.r.] si è lamentato col maggiore Inzolia [Vincenzo Inzolia, comandante di un reparto operativo dei Carabinieri di Palermo, n.d.r.] di non essere stato avvertito del contrasto fra PS e CC a Corleone su Riina.
  • 7 dicembre 1990: [Giammanco, n.d.r.] ha preteso che Rosario Priore [giudice istruttore di Roma, n.d.r.] gli telefonasse per incontrarsi con me e gli ha chiesto di venire a Palermo anziché andare io da lui.
    Si è rifiutato di telefonare a Giudiceandrea [Ugo Giudiceandrea, Procuratore di Roma, n.d.r.] per la Gladio [struttura paramilitare clandestina, n.d.r.] prendendo pretesto dal fatto che il procedimento non era stato assegnato ancora ad alcun sostituto.
  • 10 dicembre 1990: [Giammanco, n.d.r.] sollecitato la definizione di indagini riguardanti la Regione al capitano [Giuseppe, n.d.r.] De Donno [procedimento affidato a Enza Sabatino, n.d.r.], assumendo che altrimenti la Regione avrebbe perso finanziamenti. Ovviamente qualche uomo politico gli ha fatto questa sollecitazione ed è altrettanto ovvio che egli prevede un’archiviazione e che solleciti l’ufficiale dei Ce in tale previsione.
  • 13 dicembre 1990: Nella riunione del pool per la requisitoria Mattarella [Piersanti Mattarella, presidente della Regione siciliana ucciso il 6 gennaio 1980 a Palermo, n.d.r.] mi invita in maniera inurbana a non interrompere i colleghi infasti¬dito per il fatto che io e Lo Forte [Guido Lo Forte, pm di Palermo, n.d.r.] ci eravamo alzati per andare a fumare una sigaretta, rimprovera aspramente il Lo Forte.
  • Dicembre 1990: Dopo che ieri pomeriggio si è deciso di riunire i processi Reina [Michele Reina, segretario provinciale della De ucciso il 9 marzo 1979, n.d.r.], Mattarella e La Torre [Pio La Torre, segretario regionale del Pei ucciso il 30 aprile 1982, n.d.r.], stamattina gli [a Giammanco, n.d.r.] ho ricordato che vi è l’istanza della parte civile nel processo La Torre (Pei) di svolgere indagini sulla Gladio. Ho suggerito, quindi, di richiedere al gi [giudice istruttore, n.d.r.] di compiere noi le indagini in questione, incompatibili col vecchio rito, acquisendo copia dell’istanza in questione. Invece sia egli sia Pignatone [Giuseppe Pignatone, allora pm di Palermo e attuale procuratore di Roma, n.d.r.] insistono per richiedere al gi soltanto la riunione riservandosi di adottare una decisione soltanto in sede di requisitoria finale. Un modo come un altro per prendere tempo.
  • Dicembre 1990: altra riunione con lui [Giammanco, n.d.r.], con Sciacchitano [Giusto Sciacchitano, n.d.r.] e con Pignatone. Insistono nella tesi di rinviare tutto alla requisitoria finale e, nonostante io mi opponga, egli sollecita Pignatone a firmare la richiesta di riunione dei processi nei termini di cui sopra. [Giammanco, n.d.r.] Non ha più telefonato a Giudiceandrea e così viene meno la possibilità di incontrare i colleghi romani che si occupano della Gladio. Ho appreso per caso che qualche giorno addietro ha assegnato un anonimo su Partinico, riguardante tra gli altri l’onorevole Avellone [Giuseppe Avellone, deputato democristiano, n.d.r.], a Pignatone, Teresi e Lo Voi [Vittorio Teresi e Franco Lo Voi, sostituti procuratori a Palermo, n.d.r.], a mia insaputa.
  • 10 gennaio 1991: I quotidiani riportano la notizia del proscioglimento da parte del gi Grillo [Renato Grillo, n.d.r.] dei giornalisti Bolzoni e Lodato [Attilio Bolzoni de «la Repubblica» e Saverio Lodato de «l’Unità», n.d.r.], arrestati [il 16 marzo 1988, n.d.r.] per ordine di Curti Giardina [Salvatore Curti Giardina, n.d.r.] tre anni addietro con imputazione di peculato [per la pubblicazione dei verbali del pentito Antonino Calderone su mafia-politica-imprenditoria, n.d.r.]. Il gi ha rivelato che poteva trattarsi soltanto di rivelazione di segreti di ufficio e che l’imputazione di peculato era cervellotica. Il pm Pignatone aveva sostenuto invece che l’accusa in origine era fondata ma che le modificazioni del codice penale rendevano il reato di peculato non più configurabile. Trattasi di altra manifestazione di furbizia di certuni che, senza averne informato il pool, hanno creduto, con una «ardita» ricostruzione giuridica, di sottrarsi a censura per un’iniziativa (arresto di due giornalisti) assurda e faziosa di cui non può non esser ritenuto responsabile certamente il solo Curti Giardina, procuratore capo dell’epoca.
  • 16 gennaio 1991: Apprendo oggi che, durante la mia assenza ha telefonato il collega Moscati, sost. proc. della Rep. a Spoleto, che avrebbe voluto parlare con me per una vicenda di traffico di sostanze stupefacenti nella quale era necessario procedere ad indagini collegate; non trovandomi, il collega ha parlato col capo [Giammanco, n.d.r.] che, naturalmente, ha disposto tutto ed ha proceduto all’assegnazione della pratica alla collega Principato [Teresa Principato, n.d.r.], naturalmente senza dirmi nulla. Ho appreso quanto sopra solo casualmente telefonando a Moscati.
  • 17 gennaio 1991: Solo casualmente, avendo assegnato a Scarpinato [Roberto Scarpinato, n.d.r.] il fascicolo relativo a Ciccarelli Sabatino, ho appreso che Sciacchitano aveva proceduto alla sua archiviazione senza dirmi nulla. Ho riferito quanto sopra al capo che naturalmente è caduto dalle nuvole. Sul Ciccarelli, uomo d’onore della famiglia di Napoli, il capo mi ha esternato preoccupazioni derivanti dal fatto che teme di contraddirsi con le precedenti, note, prese di posizione della Procura di Palermo in tema di competenza nei processi riguardanti Cosa nostra.
  • 26 gennaio 1991: Apprendo oggi da Pignatone, alla pre¬senza del capo [Giammanco, n.d.r.], che egli e Lo Forte si erano recati dal cardinale Pappalardo per sentirlo in ordine a quanto riferito, nel processo Mattarella, da Lazzarini Nara [segretaria di Licio Gelli, capo della loggia massonica P2, n.d.r.]. Protesto per non essere stato previamente informato sia con Pignatone sia con il capo, al quale faccio presente che sono prontissimo a qualsiasi diverso mio impiego ma che, se si vuole mantenermi il coordinamento delle indagini antimafia, questo coordinamento deve essere effettivo. Grandi promesse di collaborazione e di lealtà per risposta.
  • 6 febbraio 1991: oggi apprendo che Giammanco segue personalmente un’indagine affidata da lui stesso a Vittoria Randazzo e riguardante dei CC di Partinico coinvolti in attività illecite. Uno dei CC è stato arrestato a Trapani e l’indagine sembra abbastanza complessa.

Il “metodo Falcone” era lui stesso, uomo e giudice  di Pietro Grasso–  Giudice a latere della Corte di Assise del maxi processo, Procuratore nazionale antimafia, ex Presidente del Senato della Repubblica Le mie conoscenze ed esperienze personali, professionali ed istituzionali mi inducono ad affermare che l’espressione “metodo Falcone” è una approssimazione generica e superficiale, usata spesso per riferirsi ad ambiti diversi e che riesce a dare l’immagine, di volta in volta parziale, solo di talune peculiarità dell’azione di Falcone, senza riuscire a coglierne per intero la complessità e l’importanza. Ricordo che lui stesso non amava quell’espressione, ritenendola quasi alla stregua di quell’altra dispregiativa qualificazione dei risultati delle sue indagini come “teorema Falcone”. In realtà il “metodo Falcone” era Falcone medesimo, la sua stessa personalità, il suo modo di essere e di concepire in maniera rivoluzionaria la funzione del giudice istruttore del vecchio codice di procedura penale. Anziché, come in passato, limitarsi a verificare gli elementi raccolti dalla polizia giudiziaria nei rapporti presentati, Falcone iniziò a dirigere direttamente le indagini, compiendo personalmente tanti atti, come interrogatori di imputati e assunzioni di testimoni, o delegandone altri specificatamente volti a trovare riscontri obiettivi. Io stesso potei rendermi conto personalmente di questa sua nuova concezione del ruolo di giudice istruttore.

ERA DIVERSO, ERA UN FUORICLASSE Giovanni Falcone aveva iniziato la sua carriera in magistratura dapprima come Pretore a Lentini, poi come giudice a Trapani, finché nell’estate del 1978 chiese e ottenne il trasferimento presso il Tribunale di Palermo. Dopo una prima esperienza alla sezione fallimentare, nell’autunno del 1979 e dopo l’omicidio del giudice Terranova e la nomina a capo dell’ufficio istruzione di Rocco Chimici, venne accolta la sua domanda di essere assegnato a quest’ultimo ufficio. Io in quel periodo, giovane sostituto procuratore presso la Procura di Palermo, mi trovai a seguire da P.M. il caso di rinvenimento di una carcassa di un ciclomotore rubato, con numero di matricola abraso. Un fatto assolutamente insignificante destinato a concludersi, come tanti altri, con una richiesta di archiviazione contro gli ignoti autori del furto. Grande fu la mia sorpresa quando mi resi conto che Falcone, nel restituirmi il fascicolo per le mie ulteriori richieste, trattò questa istruttoria con lo steso scrupolo con cui si indaga su un omicidio. Affidò una perizia al medico legale Paolo Giaccone (ucciso da Cosa Nostra l’11 agosto 1982), che aveva frattanto sperimentato un sistema per ricostruire il numero di matricola; attraverso questo risalì al derubato, cui restituì il motorino; trovò dei testimoni e fece arrestare i ladri, individuandoli in ragazzi del quartiere. Scoprii così che Falcone era un magistrato che non trascurava nulla, neanche le cose minime, che prendeva a cura i diritti delle vittime, che manifestava una tenacia investigativa ed un impegno eccezionali. Mi resi subito conto che era diverso da tutti noi: era un fuoriclasse. Anche Rocco Chimici intuì subito le sue qualità e gli affidò sin dal maggio 1980 alcuni rilevanti indagini sulla mafia e sul fiorente traffico di stupefacenti fra Italia e USA, come quelle contro  Spatola Rosario + 120 imputati e contro Mafara Francesco ed altri. Il primo processo riguardava i rapporti tra la mafia siciliana e quella statunitense nel traffico di eroina fra i due continenti, l’affare Sindona e il reinvestimento dei profitti; il secondo aveva avuto origine con l’arresto all’aeroporto di Roma Fiumicino di un belga con 8 kg di eroina destinata ad una famiglia mafiosa palermitana. Frattanto al quadro generale investigativo Falcone collegò altri fatti: il sequestro da parte del Capo della Squadra mobile di Palermo Boris Giuliano (ucciso il 19 luglio 1979) di 4 kg di eroina nel covo di via Pecori Giraldi, frequentato da Leoluca Bagarella; il sequestro di una valigia all’aeroporto di Palermo contenente 500.000 dollari e magliette di pizzerie di New York (da qui nasce il nome dell’indagine “Pizza Connection”), cui seguì dopo pochi giorni il sequestro a New York di valigie piene di eroina purissima. Infine la scoperta presso una villetta di Trabia (nei pressi di Palermo) di un laboratorio per la produzione di eroina gestito da Gerlando Alberti, a cui si arrivò seguendo tre chimici francesi inviati a Palermo dal “clan dei marsigliesi” per far apprendere ai mafiosi il procedimento di raffinazione e trasformazione della morfina base in eroina purissima. 

LA SCOPERTA DELLE RAFFINERIE DI EROINA  Nel prosieguo dell’indagine sul sequestro all’aeroporto di Roma di 8kg di eroina, Falcone ottenne dal belga arrestato (Gillet) e da altri due corrieri (un altro belga, Barbé, e uno svizzero, Charlier) delle sensazionali dichiarazioni che aprirono degli scenari assolutamente inaspettati. Rivelarono infatti di essere stati, tra l’altro, incaricati di reperire in Medio Oriente, ed in particolare in Turchia e in Libano, morfina base da portare a Palermo, che, una volta trasformata in eroina con alto grado di purezza, provvedevano essi stessi a consegnare in Usa da dove, di ritorno, portavano a Palermo e in Svizzera ingenti quantità di dollari, provento della droga. Si ebbe così l’importante riscontro che la mafia non importava più l’eroina, ma la produceva direttamente. E sull’onda di tale svolta investigativa si accertò che per il traffico di stupefacenti si era riproposta una struttura analoga a quella del contrabbando di tabacchi, con partecipazione per quote e con utilizzazione, da parte dei mafiosi Nunzio La Mattina, Tommaso Spadaro e Giuseppe Savona, dei canali del “Triangolo d’oro” del sud est asiatico (Thailandia, Laos, Birmania), per l’approvvigionamento della morfina. Falcone si trovava proprio a Bangkok a seguire le tracce di tali traffici in collaborazione con la polizia thailandese il 29 luglio 1983, giorno della strage del suo capo, Rocco Chinnici. Aveva compreso che la mafia siciliana operava non solo in Sicilia, ma anche in altre zone d’Italia e all’estero, per cui attraverso la cooperazione internazionale, basata soprattutto sui rapporti personali, bisognava viaggiare e cercare contatti e prove al di fuori degli uffici. I primi contatti furono stabiliti con i magistrati di Milano nell’ambito del processo Spatola, perché in quella città era stato sequestrato il più grosso quantitativo di eroina (40kg), che, provenendo da Palermo, avrebbe dovuto raggiungere gli U.S.A., eludendo i pervasivi controlli agli aeroporti di Palermo e di Roma. Falcone convinse il collega milanese a trasmettere per competenza l’indagine a Palermo, istaurando un clima di fiducia e di collaborazione, che si rivelò particolarmente fruttuoso, anche coi magistrati della Procura milanese Colombo e Turone nel corso delle indagini sul caso Sindona, riuscendo a ricostruire tutti i suoi movimenti ed il ferimento compiacente da parte del medico Miceli Crimi.

I SUOI RAPPORTI CON L’FBI E CON RUDOLPH GIULIANI Identica e feconda attività di cooperazione internazionale venne svolta da Falcone con l’ufficio del Procuratore distrettuale di New York, Rudolph Giuliani e coi suoi collaboratori Louis Free e Richard Martin. Al di là dei trattati internazionali e di precedenti significativi, gli strettissimi e amichevoli rapporti personali instaurati gli consentirono di muoversi con concretezza e speditezza, al di fuori delle formalità delle rogatorie internazionali, nello scambio di informazioni sui rapporti tra le famiglie mafiose siciliane ed i componenti di cosa nostra americana. Falcone fece tesoro anche degli strumenti investigativi usati in maniera pragmatica dai colleghi statunitensi, come i collaboratori di giustizia e gli infiltrati, figure che sarebbero state dopo molti anni (1991), introdotte anche nel nostro ordinamento. Si gettarono anche le basi per un accordo Italia-Usa su collaborazione giudiziaria ed estradizioni che venne sottoscritto nel 1984. Poiché molti indagati nelle intercettazioni telefoniche disposte sia dalla DEA e poi dall’FBI parlavano in dialetto siciliano stretto, per accorciare i tempi delle trascrizioni in inglese e in italiano, di comune accordo, squadre della polizia italiana si trasferirono da Palermo in Usa, per procedere direttamente all’ascolto delle conversazioni. L’idea di squadre investigative comuni era per quei tempi assolutamente innovativa, realizzabile soltanto per la fiducia e il rispetto dei ruoli e delle regole che Falcone aveva il pregio di saper infondere. Frattanto erano stati scoperti, a Palermo, altri laboratori per la raffinazione dell’eroina. Un’altra importante indagine, che poi confluì formalmente nella “pizza connection” e nel Maxiprocesso, venne generata dall’attività di un infiltrato dagli agenti americani, tale Amendolito, reclutato dalla mafia siculo-americana per trasferire valigie piene di dollari in piccolo taglio dapprima a Nassau, nelle Bahamas, e poi in Svizzera in banche di Lugano e Zurigo. Parte di quei soldi venivano reinvestiti nel traffico, una parte tornava a Palermo e veniva depositata in banche con false attestazioni di vendita di prodotti agroalimentari e parte ancora finiva nell’impresa edile di Rosario Spatola. Falcone, per ricostruire i flussi di denaro, spulciava ogni singolo assegno, chiedendone la causale ad ogni emittente o giratario con una tenacia ed uno scrupolo quasi maniacale, che però gli consentì di entrare nelle banche allora a completo ed omertoso servizio dei mafiosi, ricostruendo legami, rapporti e relazioni, che avrebbero in seguito fornito adeguati riscontri alla ricostruzione delle famiglie mafiose e della struttura piramidale di Cosa Nostra, rivelata dalle dichiarazioni dai più importanti collaboratori di giustizia.Falcone non si consentiva nessuna distrazione o superficialità e si dedicava con la massima attenzione ai penetranti controlli bancari, alla certosina ricostruzione di società (vere e proprie scatole cinesi), affari, rapporti di “comparatico” (compare di battesimo, di cresima o d’anello) e relazioni parentali frutto di matrimoni reciprocamente intrecciati tra rampolli di famiglie mafiose, per cementare coi rapporti di sangue i legami associativi. Falcone non tralasciava nulla e si precipitava ovunque in Italia e all’estero avesse notizia dell’arresto di un trafficante di droga, di esperti in materie specialistiche, avulse dalla diretta competenza dell’organizzazione, come chimici, riciclatori, professionisti o imprenditori, per cercare connessioni con cosa nostra. Manteneva contatti con giudici, investigatori e polizie di mezzo mondo, per mettere insieme tutte le informazioni possibili a disegnare un quadro probatorio complesso. Inoltre, aveva inaugurato la prassi di essere presente con attenti sopralluoghi dove erano stati commessi omicidi o stragi. Tutti questi comportamenti innovativi per il ruolo del giudice istruttore gli avevano fatto affibbiare la denigrante nomea di “giudice sceriffo” e “giudice planetario”. A tutti i soggetti con cui veniva in contatto, Falcone garantiva rispetto delle loro funzioni, reciprocità nello scambio delle informazioni, rigorosa difesa del segreto istruttorio: ciò gli conferiva un patrimonio di credibilità, di imparzialità e di fiducia che convincerà anche tanti mafiosi a collaborare, e solo con lui. Tutto ciò faceva parte del suo “metodo “? Certamente sì, ma non si può liquidare solo con questo. Falcone credeva anche nell’importanza del lavoro di gruppo, del coordinamento delle indagini, e nella necessità di non disperdere, attraverso nuove tecnologie, la memoria dei singoli fatti d’indagine.

UNA NUOVA STRADA FINO AL MAXI PROCESSO Ad aprire questa strada giuridico-organizzativa fu Chinnici. Quando, dopo l’omicidio del collega Cesare Terranova divenne capo dell’ufficio Istruzione del Tribunale di Palermo, del quale già faceva parte come giudice anziano, diede nuovo impulso all’ufficio, dirigendo personalmente tutte le indagini più importanti come quelle sui cosiddetti omicidi eccellenti (Mattarella, La Torre, Dalla Chiesa) e affidando a magistrati di indubbio valore, come Falcone, Borsellino, Di Lello e Guarnotta, le altre inchieste più rilevanti come quelle sul costruttore Rosario Spatola, sull’omicidio del Capitano dei carabinieri Emanuele Basile, e su Michele Greco + 161, così creando i presupposti per quel pool antimafia, che avrebbe sviluppato al massimo la sua potenzialità con il successore, Antonino Caponnetto. Questi, infatti, col pieno accordo dei citati magistrati, validissimi sotto il profilo delle tecniche investigative e dotati di ineguagliabile tensione morale, formò attraverso la co-assegnazione di tutte le istruttorie pendenti, un gruppo coeso, capace di una particolare efficienza e laboriosità, l’unico idoneo a indagare sui mille rivoli dell’attività della mafia. Superando i problemi procedurali e sostanziali del vecchio codice, che prevedeva la monocraticità del giudice istruttore, e adottando soluzioni già sperimentate, anche per la condivisione dei rischi, dai giudici di altri uffici del nord nel contrasto al terrorismo, fu possibile coordinare e ricondurre ad un’unica centrale investigativa, diretta nel quotidiano da Giovanni Falcone, una massa innumerevole di episodi delittuosi, di documenti e di pregresse indagini. Così inaugurando un nuovo metodo di indagine, che collegava i tanti filoni legati unicamente, più che da connessioni soggettive o oggettive, dalla riferibilità dei reati all’organizzazione mafiosa cosa nostra, di cui era intuita quella struttura unitaria, verticistica, che sarà svelata successivamente da Buscetta e avallata da altri collaboratori di giustizia. Per la prima volta, attraverso le risultanze degli ultimi dieci anni di indagine, si potè tracciare un’immagine più aderente alla realtà criminale di Cosa Nostra, già tracciata, in passato, ed in ultimo col rapporto Michele Greco +161, dalla polizia giudiziaria attraverso fonti confidenziali, che, in mancanza di riscontri documentali e testimoniali, avevano portato sempre all’assoluzione dei mafiosi. Fu un lavoro di gruppo, ma che si fondava sulla capacità strategica di Giovanni Falcone, sulla capacità di trovare rimedi e soluzioni a problemi che apparivano insuperabili, che andavano dall’ottenere dal Ministero risorse materiali e addirittura di costruire un’aula bunker ad hoc per il Maxiprocesso sino all’interpretazione inedita di una norma. L’enorme quantità di lavoro, la sua singolare abilità nel prevedere gli sviluppi delle indagini e nell’organizzare il lavoro degli altri componenti del pool, il necessario coordinamento di tutto il materiale raccolto, anche tramite precise e puntuali deleghe alla polizia giudiziaria, trovarono poi, il prezioso, determinante e valido contributo di Buscetta che, a partire dal luglio del 1984, svelò regole, strutture e storie delle famiglie di cosa nostra, avallate da una miriade impressionante di riscontri. A questo apporto, seguì quello di numerosi altri collaboratori, che mostrarono anche il volto violento della mafia, descrivendo nei minimi dettagli decine e decine di omicidi, strangolamenti, cadaveri sciolti nell’acido. E si deve allo scrupolo investigativo di Giovanni Falcone, se, seppur, dopo tanti anni dai fatti, a seguito di ispezioni, sequestri, rilievi e perizie anche su una vecchia corda, rinvenuta nella cosiddetta ”camera della morte”, vennero trovate tracce di sangue e di cellule umane, inequivocabile riscontri che resero credibili i racconti dei pentiti e rafforzarono l’impianto probatorio del maxiprocesso. Così come fatti apparentemente non conducenti, come le minacce epistolari ad una famiglia non gradita sul territorio per costringerla a sloggiare, furono utilizzati per dimostrare in maniera inequivocabile la condizione di assoggettamento, intimidazione e di omertà in cui vivevano i cittadini, a riprova dell’elemento costitutivo dell’associazione di tipo mafioso. L’arresto poi di Ciancimino e dei cugini Nino e Ignazio Salvo, potenti esattori siciliani, il rinvio a giudizio di questi ultimi tra gli imputati del maxiprocesso (fu processato solo il secondo, essendo Nino deceduto in Svizzera prima della fase processuale), furono utilizzati da Falcone per dimostrare che cosa nostra, come dichiarato da Buscetta, non era una comune organizzazione criminale, da contrastare soltanto con operazioni di polizia, ma un potere con ramificazioni nascoste nell’imprenditoria, nella pubblica amministrazione, nella politica, tra i professionisti e nella società, dato che i cugini Salvo, appartenenti a cosa nostra ed in particolare alla famiglia di Salemi (Trapani), erano stati per anni il fulcro tra affari, mafia e politica regionale e nazionale. Infine, a maggiori riprova dei rapporti di cosa nostra con entità eversive esterne, di notevole interesse si rivelò il coinvolgimento, riferito da Buscetta in istruttoria e confermato in aula dallo stesso Luciano Liggio, dell’organizzazione, attraverso i suoi vertici del tempo, nella fase preparatoria del Golpe Borghese del 1970. Liggio voleva delegittimare il pentito, attribuendogli delle interessate omissioni e si ritrovò in aula come un boomerang le puntuali dichiarazioni di Buscetta nei verbali precedentemente rese a Falcone, trattenute per approfondimenti istruttori. Anche in questo consisteva il “metodo Falcone”: saper prevedere e disinnescare preventivamente le trappole. Sapeva perfettamente che un processo poteva essere distrutto da un solo errore, bastava un nonnulla per poter incrinare irrimediabilmente la credibilità di un pentito o di un perfetto impianto accusatorio. Per questo era maniacale nella revisione e nel controllo di ogni singola carta, di ogni atto, di ogni riscontro. Cercava di evitare al massimo gli incidenti di percorso provocati da leggerezza, superficialità e sciatteria.

LA “GESTIONE” DEI COLLABORATORI DI GIUSTIZIA Con questo metodo, con queste qualità, potè impostare una istruttoria, prima ed un processo, poi, come il maxiprocesso di Palermo, con 475 imputati, 438 capi di imputazione che comprendevano non solo l’associazione per delinquere di tipo mafioso, ma anche tutti i reati contestati a componenti o a criminali collegati a cosa nostra, come estorsioni, rapine, traffico di stupefacenti e 120 omicidi, che comprovassero le attività anche a livello internazionale dell’organizzazione. E questa fu una ben precisa scelta di Giovanni Falcone, dato che qualcuno aveva prospettato la possibilità di portare a giudizio solo gli imputati detenuti, proprio per accelerare i tempi ed evitarne la scarcerazione, ma Falcone giustamente ritenne che solo una visione complessiva di tutti i fatti ed i soggetti collegati a cosa nostra potesse fornire ai giudici di una corte di assise, composta anche da cittadini non togati, l’inequivocabile contesto probatorio sull’esistenza dell’organizzazione, fino ad allora sempre negata. Sarebbero, peraltro, rimasti fuori dal processo tanti capi allora latitanti, come Riina e Provenzano e difficile da comprendere il loro contributo alla commissione provinciale di Palermo, organo propulsivo dell’associazione che ne testimoniava la struttura unitaria e verticistica. Il metodo Falcone, avuto riguardo al maxiprocesso, fu quindi quello di ripercorrere i fatti e i delitti di mafia a partire dalla prima fase successiva alla strage Ciaculli e di viale Lazio, cui partecipò anche Provenzano, sino alla cosiddetta seconda guerra di mafia, caratterizzata dalla supremazia delle famiglie appartenenti alla fazione dei “corleonesi”, che si impadronirono di tutti traffici, anche quello lucroso degli stupefacenti, mettendo insieme tutte le pregresse indagini bancarie, cementate dalle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, primo fra tutti Tommaso Buscetta, nonchè le relazioni esterne di cosa nostra con le realtà imprenditoriali e politiche, rappresentate dei cugini Salvo e da Ciancimino. Cioè con quell’area che riusciva a far realizzare investimenti produttivi e grandi profitti, a persone che allora non avevano la competenza e la professionalità per farlo. Il “metodo” comprendeva anche magistrati e strutture di polizia giudiziaria specializzate, centralizzate e coordinate, che mettessero insieme tutti quegli indizi provenienti dalla captazione delle intercettazioni telefoniche e soprattutto ambientali, da eventuali infiltrati e soprattutto dai collaboratori di giustizia. La gestione di questo piccolo esercito di coloro che via via uscivano dall’organizzazione fu estremamente difficile per il pool antimafia, per l’assenza di norme che ne regolassero i rapporti con i requirenti e con gli addetti alla loro tutela. Per tanti anni la loro protezione fu affidata al volontarismo, all’improvvisazione e alla genialità dei singoli uffici investigativi. Falcone per Buscetta, prima, e per Contorno e Marino Mannoia, in un secondo momento, si dovette “inventare” un accordo con le autorità statunitensi, che prevedesse “il prestito” temporaneo dei pentiti per farli testimoniare nel processo americano della “Pizza connection”, in cambio di un’adeguata protezione. Si dovettero attendere ben sette lunghi anni dalle prime dichiarazioni di Buscetta (luglio 1984) per ottenere nel 1991 la prima legge che stabilisse i requisiti della collaborazione, i diritti e i doveri dello status di collaboratore, oltre che misure di protezione e di copertura dell’identità, compatibili con il nuovo processo penale, anche sotto il profilo dei benefici. A Falcone non mancò mai la piena consapevolezza (tant’è che ne incriminò qualcuno per calunnia come il catanese Pellegriti) delle insidie che, in una procedura assolutamente garantista dei diritti della difesa, comportasse l’uso di tale strumento di indagine. Il suo metodo, che era solito suggerire ai giovani magistrati, era quello che, in senso figurato, si doveva sempre mettere un tavolo tra l’inquirente e il pentito, senza confidenziali incontri al caminetto, per rendere manifestamente visibile all’interlocutore che davanti aveva un rappresentante di quello Stato, che fino a poco prima aveva considerato un nemico da battere, e a cui doveva dare contezza della sua assoluta credibilità. Il metodo Falcone applicato ai pentiti suggeriva di acquisire il maggior numero possibile di dettagli, particolari, circostanze, anche apparentemente insignificanti, circa i fatti caduti sotto la loro diretta percezione, per potere trovare più agevolmente i relativi riscontri. Per dare il giusto rilievo alle motivazioni che avevano portato alla determinazione di rompere il vincolo di sangue acquisito col giuramento di appartenenza a cosa nostra, bisognava approfondire ed esemplificare con fatti concreti quelle espressioni gergali spesso usate dai dichiaranti, come, ad esempio, ”Tizio è nelle mani di…”, “Caio è un uomo di…”, “Sempronio è collegato con…, Mevio è coinvolto in…”, così come valutazioni e opinioni assertive e spesso immotivate. Naturalmente, in applicazione del rigore metodologico di Falcone, bisognava evitare di mostrare particolare interesse per un argomento o per taluno degli indagati; accertare se il pentito avesse eventuali ragioni personali di vendetta o di ritorsioni nei confronti degli accusati; impedire qualsiasi possibilità di incontro dei collaboratori, in modo da poterli utilizzare, senza sospetti di preventivi accordi, come riscontri reciproci; ed, infine, mantenere un atteggiamento critico, non supinamente acquiescente, attento ad approfondire ogni elemento utile per un giudizio di piena attendibilità, come, ad esempio, la spontanea ammissione di responsabilità per reati non contestati. Il rigore metodologico di Falcone era un giusto equilibrio tra l’estrema cautela nel raccogliere dichiarazioni da soggetti che si erano macchiati di gravissimi delitti e l’ovvia considerazione che in una organizzazione criminale, che aveva fatto del segreto e dell’omertà uno dei suoi fattori di sopravvivenza, solo dalla viva voce dei protagonisti era possibile trarre elementi di conoscenza, altrimenti non acquisibili, di gravissimi episodi delittuosi.

SEMPRE ALLA RICERCA DI VERITA’ Sono queste le ragioni per cui il maxiprocesso di Palermo riuscì a resistere a 1000 eccezioni di nullità, impugnazioni, critiche anche da parte della politica, dell’informazione e soprattutto di una folta schiera di grandi avvocati di tutta Italia. Fu così che il 30 gennaio del 1992 la corte di Cassazione presieduta da Arnaldo Valente (cui aveva ceduto il posto il collega Carnevale per ragioni di opportunità, stante l’infuriare di aspre polemiche per la mancata rotazione nelle cariche) pronunciò la sentenza definitiva che sanciva l’esistenza di cosa nostra e della sua struttura unitaria e verticistica, accogliendo in pieno l’impianto accusatorio della sentenza di primo grado. Un colpo durissimo per un’organizzazione che per la prima volta, dalla sua ultracentenaria esistenza, vide i suoi vertici condannati all’ergastolo, col vantaggio, per gli altri giudici che si sarebbero occupati di cosa nostra, di potersi limitare a provarne l’appartenenza. Si infranse così il mito dell’invincibilità e dell’impunità della mafia e si realizzò la concreta azione di uno Stato che in tutte le sue componenti, magistratura, forze di polizia, governo e Parlamento, si mostrò finalmente deciso a interrompere il rapporto di connivenza, di sudditanza e di indifferenza di cittadini e istituzioni. Del “metodo Falcone” non bisognerebbe trascurare un particolare e cioè che Falcone, nonostante tutte le accuse rivoltegli in vita: di essere dapprima comunista, poi andreottiano, infine socialista (quando fu chiamato al ministero della giustizia da Martelli), non si fece mai influenzare da idee o motivazioni che non rientrassero nella sua strategia di politica giudiziaria. Seguendo la sua visione della lotta alla mafia, cercava di volta in volta di ottenere l’aiuto e la collaborazione di chi poteva dargli l’opportunità di realizzare il suo obiettivo: l’ostinata ricerca di verità e di giustizia nel solo interesse di liberare i cittadini e le istituzioni dalla pesante oppressione della mafia.

IL “METODO FALCONE” COME MATERIA DI STUDIO In conclusione, tutti i successi ed i risultati ottenuti sino ad oggi nel contrasto a cosa nostra e alle altre organizzazioni di tipo mafioso, non ho remore ad affermarlo con convinzione, costituiscono il frutto diretto del “metodo”, se vogliamo chiamarlo così, o meglio della estrema capacità personale e professionale di Giovanni Falcone. Infatti, le fondamenta della legislazione antimafia furono edificate proprio da lui, quando, dopo gli ostacoli che lo avevano convinto a lasciare la procura di Palermo, si trasferì, come direttore generale degli affari penali presso il ministero della giustizia. In quell’anno (era il 1991), oltre la già citata legge sui pentiti e sui sequestri di persona, videro la luce norme per obbligare le banche e gli istituti finanziari a segnalare le operazioni sospette ai fini di riciclaggio di proventi illeciti; furono istituiti i servizi centrali (ROS, SCO, GICO) e interprovinciali di polizia giudiziaria, costituiti rispettivamente da carabinieri, polizia di stato e guardia di finanza, per assicurare il collegamento investigativo. Fu creata, per accentrare tutte le indagini sulla mafia, la direzione investigativa antimafia, organo interforze accostato dei giornali ad una sorta di FBI italiana,  la procura nazionale antimafia (DNA) e le direzioni distrettuali antimafia DDA), strutture indispensabili per coordinare tutte le indagini svolte dalle procure distrettuali sulla criminalità organizzata nazionale e transnazionale e sui traffici collegati. Questo modello, questo metodo di lavoro condiviso era, per Giovanni Falcone, null’altro che la trasposizione sul piano nazionale dell’esperienza del pool antimafia maturata negli anni del suo eccezionale impegno a  Palermo. È difficile oggi spiegare, soprattutto a chi non ha vissuto quegli anni eroici, quali forze, quale coraggio, quale capacità di resistenza siano state necessarie per superare migliaia di ostacoli personali, materiali e giuridici. È difficile oggi raccontare come Falcone portasse avanti il suo lavoro nonostante le invidie, le calunnie, i veleni e gli schizzi di fango lanciati contro di lui. Così come far comprendere con quale spirito di servizio e rispetto dei ruoli istituzionali, dopo il trasferimento di Caponnetto e la nomina di Antonino Meli come nuovo capo dell’ufficio istruzione, pur preferito dal consiglio superiore della magistratura a lui, che più di tutti la meritava, collaborò, suo malgrado, a smantellare e a smembrare tutte le indagini, trasferendole ad altri uffici giudiziari, dal suo capo ritenuti, con ottuso formalismo, competenti per territorio, secondo una logica e una strategia giudiziaria completamente opposta rispetto a quella da lui precedentemente seguita. Ritengo che oggi sia giusto che tutti gli operatori di giustizia e tutti i cittadini sappiano quanto dobbiamo a Falcone e a quello che, genericamente, è stato più volte definito come il “metodo Falcone”. Se proprio vogliamo accettare questa definizione con tutto quello però che la contraddistingue, ritengo che il miglior riconoscimento a tutta la sua vita fatta di dedizione, di sacrifici e di professionalità sia quello di istituire presso la Scuola Superiore della Magistratura, per meglio formare i giovani magistrati, che si apprestano a svolgere funzioni così importanti per i cittadini e per la società, una nuova materia: il”metodo Falcone”.


Io, uditore nella stanza del dottor Falcone Accompagno mia nipote di dieci anni a visitare il Museo Falcone e incontro Giovanni Paparcuri (che si occupa con grande passione della gestione del Museo e di organizzarne le visite guidate), il quale nel percepire una mia conversazione con la bambina apprende che ero stata uditore del giudice Giovanni Falcone e mi chiede di entrare in contatto con Attilio Bolzoni, che cura un blog, nel quale a breve si dibatterà sul “metodo Falcone”, per offrire un mio contributo conoscitivo. Perplessa, tentenno non avendo mai dismesso in tanti anni quell’atteggiamento di assoluto e quasi religioso riserbo col quale ho ritenuto di dover custodire le mie preziose memorie del periodo nel quale ebbi il privilegio di incontrare il Giudice Giovanni Falcone, ma alla fine, trovandomi in un momento particolare della mia vita professionale, sulla soglia del pensionamento anticipato (compirò a breve 63 anni), mi lascio tentare dal bisogno di rivisitarle proprio nel momento conclusivo della mia carriera. Già prima di giurare (sono stata nominata con Decreto Ministeriale del 13. 5.1980), ero stata presentata fuori dal Palazzo, e gli avevo fatto poi una visita deferente in ufficio, al Procuratore capo della Repubblica di Palermo Gaetano Costa, che nell’agosto di quello stesso anno sarebbe stato vittima di un vile agguato mafioso. Lo “zio Tano”, com’era affettuosamente chiamato dai parenti di un mio ex fidanzato dell’epoca, che gli erano particolarmente vicini e che me lo avevano fatto incontrare, era un gentiluomo di vecchio stampo, piccoletto, ma dalla personalità forte e dal ferreo credo nelle istituzioni del quale non aveva mancato di rendermi partecipe. Il Procuratore, proprio nei giorni a seguire, avrebbe dato prova di quella fermezza e del suo grande coraggio, così segnando irreparabilmente il proprio destino, coll’assumersi a titolo quasi esclusivo (perché isolato da quasi tutti gli altri suoi sostituti dissenzienti, eccettuato il sostituto procuratore Vincenzo Geraci) la responsabilità di firmare la convalida di oltre 50 ordini di arresto di pericolosissimi mafiosi, fra i quali i noti Rosario Spatola e Salvatore Inzerillo. Questo il mio primo contatto con la realtà giudiziaria palermitana. Era la calda estate del 1980 ed a Palermo si erano già perpetrati numerosi e gravissimi fatti di sangue (il 4 maggio precedente l’omicidio del Capitano dei carabinieri di Monreale Emanuele Basile) che preconizzavano quella che sarebbe stata un lunga e sanguinosa vera e propria guerra di mafia. Nell’allora Ufficio Istruzione di Palermo, diretto dal Consigliere Istruttore Rocco Chinnici, compagno di scuola del fratello di mia madre, in ragione del privilegiato familiare rapporto di conoscenza col capo dell’Ufficio venni accolta personalmente da lui che ci affidò – me e l’altro mio collega uditore giudiziario – al magistrato affidatario “prescelto”: il Giudice Giovanni Falcone. Appena entrata in magistratura, avevo ottenuto, infatti, dal mio magistrato coordinatore del piano di tirocinio, rinunziando appositamente al godimento delle ferie estive (condicio sine qua non perché non era possibile in alcun altro periodo – adesso non ricordo per quale ragione), di essere affidata al collega Dott. Giovanni Falcone, giudice istruttore, per svolgere sotto la sua direzione il mio periodo di uditorato. Quell’assegnazione (senza precedenti che io sappia) era stata il frutto di mie vivaci pressioni presso il magistrato coordinatore, previo un contatto e l’assenso del giudice Falcone, che avevano vinto ogni resistenza del primo. Già allora, infatti, fra i giovani magistrati si era diffusa la fama di Giovanni Falcone, come quella di un magistrato non soltanto competente e tecnicamente ben attrezzato, ma soprattutto era già ampiamente conosciuta la forte motivazione e una spinta ideale senza precedenti nella lotta al fenomeno mafioso. Come ho accennato, la mia richiesta di essere assegnata al dottor Falcone non era stata accolta con grande favore dal magistrato coordinatore. A quell’epoca non me ne era stato subito evidente il motivo, ma oggi so bene – ed anche allora mi fu più chiaro in breve torno di tempo – che fra i magistrati dell’epoca (la maggior parte degli anziani, comunque) si era già diffuso un grande pregiudizio circa le così decantate capacità e professionalità di Giovanni Falcone. Tuttavia, alla fine, l’insistenza della postulante e l’entusiasmo con cui la richiesta era stata caldeggiata, avevano avuto la meglio su quelle evidenti remore ascrivibili a non troppo sotterranea malevolente invidia nei confronti di quel collega che, così giovane, riscuoteva già tanta ammirazione fra i giovanissimi che guardavano a lui come un faro. Fu, dunque, lo stesso consigliere istruttore Rocco Chinnici che ci affidò (me e il mio collega Filippo Gullotta) al Giudice Falcone. Io già avevo avuto il privilegio di farne la conoscenza perché la moglie, Dottoressa Francesca Morvillo, aveva frequentato in precedenza la casa dei miei genitori, essendone anche gradita commensale e perché un professore di università comune amico, molto vicino al vice questore Ninni Cassarà, mi aveva procurato un informale abboccamento con il Giudice Giovanni Falcone perché potessi chiedergli la sua generica disponibilità ad accogliere uditori giudiziari. Allora, le cose si facevano più alla buona rispetto ad oggi, molta meno burocrazia; non esistevano rigidi criteri per la formazione dei piani di tirocinio e questo aveva giocato un punto a mio favore, rendendo possibile il soddisfacimento della mia aspirazione. E la fortuna volle che quando si concretizzò la mia assegnazione (insieme al collega Filippo Gullotta) al Dottor Falcone all’Ufficio Istruzione di Palermo erano appena (all’incirca nel maggio precedente) transitati dalla procura per essere istruiti, con la formale, i famosi processi a carico di “Spatola Rosario + 120” e a carico di “Mafara Francesco ed altri”, che erano stati per l’appunto assegnati entrambi dal consigliere istruttore Chinnici al Giudice Falcone. Fu proprio istruendo questi processi che Falcone prese a testare il suo nuovo metodo di indagine, ricusando il ruolo attendista della vecchia figura di giudice istruttore disegnata dall’allora vigente codice di rito (che in sostanza aspettava il rapporto redatto dalla Polizia giudiziaria per esaminarlo) ed assumendo in prima persona il controllo e la direzione delle investigazioni, compiendo anche personalmente alcuni atti, o delegandone singoli altri, ma non mai più genericamente, come per il passato, tutta l’attività di investigazione. Quelle indagini vennero portate avanti con criteri del tutto innovativi. Giovanni Falcone, infatti, facendo tesoro delle sue competenze nel ramo civile e del diritto bancario, essendo stato giudice fallimentare, aveva sviluppato una tecnica di investigazione che partiva dal presupposto che per colpire la mafia ed i suoi affari illeciti, occorreva seguire i flussi di denaro, nella consapevolezza che in qualunque attività lucrosa sul territorio controllato l’organizzazione criminale si insinuava con sapienza, con i suoi metodi, ora violenti, ora sotterranei, a seconda della bisogna. Fu così che noi uditori trovammo la scrivania del Giudice Falcone (che allora naturalmente chiamavo, come si fa fra colleghi, familiarmente, Giovanni, dandogli del tu, ed oggi mi guardo bene, come ritengo doveroso, dal continuare a chiamare così) diuturnamente “affollata” – quel che colpiva particolarmente – da numerosissimi assegni, vere e proprie mazzette di assegni, lì pronti per essere meticolosamente passati al setaccio ed esaminati nelle loro girate per individuare i destinatari finali dei crediti portati da quei titoli. E fu quindi proprio in quei giorni per l’innalzarsi della soglia di rischio dei magistrati in dipendenza della qualità degli imputati, e, quindi, dei processi da istruire che venivano fatti i sopralluoghi tecnici per il montaggio dei vetri blindati nell’Ufficio d’Istruzione e Processi Penali (così si chiamava). Fino ad allora, nessuna sofisticata misura di protezione era stata ancora adottata a tutela di quelli che sarebbero diventati i paladini della lotta a Cosa Nostra (e recentissimi erano l’uso da parte del Giudice Falcone e dei suoi colleghi di auto blindate e l’assegnazione di scorte). Ricorderò solo per inciso che quei vetri ben presto si sarebbero rivelati non sufficienti a fermare le armi letali di Cosa Nostra, che aveva utilizzato, con soddisfacenti risultati, proprio i vetri blindati della gioielleria Contino di via Libertà per provare i suoi kalashnikov poi serviti nell’agguato in cui trovò la morte nel maggio 1981 Salvatore Inzerillo. Tornando agli assegni, il giudice Falcone ci mise al corrente della necessità di una verifica capillare dei diversi passaggi di mano dei titoli di credito e ci insegnò a porre attenzione alla lettura delle “girate”. Al di là di quelle indicazioni di metodo del tutto anodine (nessun riferimento all’identità dei primi prenditori e dei giratari e all’eventuale loro inserimento nell’organizzazione mafiosa) necessarie ad illustrarci nelle linee generali la sua nuova metodologia di indagine, però, con mia grande incosciente delusione, Falcone ci tenne sempre ben lontani dalle notizie e dai fatti potenzialmente pericolosi, quelli cioè emergenti dalle indagini su Cosa Nostra, spiegandoci con grande delicatezza che non era certo per mancanza di fiducia sulla nostra serietà e riservatezza, ma che si trattava di tutelare la nostra sicurezza. A noi venne affidata, quindi, la stesura di ordinanze o di ordinanze-sentenze riguardanti i fascicoli “ordinari”. Ma Giovanni Falcone, nonostante oberato da una mole di lavoro veramente spaventosa (la quantità di fascicoli che affollavano la sua stanza e i diversi armadi la diceva lunga al riguardo) che lo costringeva ad orari veramente stressanti, trovava, comunque, il tempo di indirizzarci nella lettura delle carte processuali e nella redazione dei provvedimenti a noi assegnati; le minute che gli sottoponevamo venivano da lui attentamente corrette e le correzioni antecedentemente discusse e concordate con noi. Anche nello svolgere il compito di “magistrato affidatario”, quindi, il giudice Falcone non mancava di essere, come sempre nello svolgimento della sua attività professionale, attento, infaticabile, preciso, puntuale; ma il suo essere in tutto eccellente non gli faceva perdere di vista l’indulgenza. Potrei dire, con quasi assoluta certezza (anche se, estremamente riservato nell’esternazione dei suoi sentimenti, nulla avrebbe mai verbalizzato al riguardo) che dietro alcuni dei suoi indimenticabili sorrisi sornioni, che non ci faceva mancare mai, si nascondesse anche una tenera benevolenza e comprensione per i nostri primi incerti passi. Sono ancora in possesso – e le custodisco gelosamente – di quelle bozze di provvedimenti che recano le correzioni vergate a mano da Giovanni Falcone. Una di queste mi è particolarmente cara, perché rammento ancora l’interesse e l’impegno che prodigò per aiutarmi ad addivenire alla decisione più giusta di quella vicenda giudiziaria così delicata, riguardante un caso umano veramente pietoso. Si trattava di un processo penale per tentato omicidio plurimo e pluriaggravato a carico di tale C. F., della quale non ho mai potuto dimenticare il nome. Il 29 novembre 1979, a Palermo, la donna, madre di due figli adolescenti (di 17 e 14 anni), entrambi portatori di handicap, perchè gravemente cerebrospatici, dopo aver messo a letto i ragazzi nel letto matrimoniale della propria stanza nella quale aveva collocato una bombola di gas liquido da 15 Kg, aprendone la valvola, si era distesa, a sua volta su un lettino vicino. L’odore di gas proveniente dalla casa aveva allarmato una vicina che aveva chiamato il 113 e provocato l’intervento di un altro vicino che entrato nella casa aveva tratto in salvo i ragazzi e la mamma ancora vivi e coscienti, apprestando loro i primi soccorsi in attesa dell’intervento dell’autoambulanza. Si era, dunque, proceduto con la formale istruzione, nel corso della quale era stata disposta perizia tecnica “per accertare la possibilità di esito letale dell’avvelenamento da gas” (sic la correzione del dottor Falcone riportata nella mia minuta, come sempre rigorosamente con la sua inseparabile stilografica). Il PM aveva concluso chiedendo il proscioglimento dell’imputata con la formula perché il fatto non è previsto dalla legge come reato. Ho molto apprezzato il fatto che il Giudice Falcone mi avesse assegnato proprio quel processo così delicato e spinoso, per lo studio degli atti e la stesura del provvedimento conclusivo, perché avevo avuto modo di comprendere come Egli avesse preso molto a cuore quel caso umano veramente straziante; infatti, dimentico delle migliaia di carte sul suo tavolo (assegni e quant’altro) in attesa di essere studiate meticolosamente, posponendo anche i mille abboccamenti quotidiani con la PG (i cui dirigenti – alcuni dei quali oggi tristemente noti, vuoi perché caduti per mano mafiosa, vuoi perché condannati per collusioni con Cosa Nostra – quotidianamente facevano la fila nel corridoio antistante la sua stanza per relazionargli gli ultimi esiti delle attività di indagine), si era messo a spiegarmi qual’era la via migliore per giungere alla “giusta” conclusione della vicenda processuale, facendo ricorso all’istituto, ben poco usato, del reato impossibile. Ricordo bene che infervorandosi, a dispetto dell’ostentata sempiterna imperturbabilità, si era raccomandato di redigere una motivazione molto accurata perché la sentenza di proscioglimento non fosse passibile di impugnazione. Quella sfortunata donna andava prosciolta e messa al riparo da conseguenze giudiziarie negative del suo gesto disperato. Il mio “Affidatario”, noncurante e dimentico degli altri impegni, si era prodigato, quindi, in ogni possibile chiarimento soffermandosi a rammentarmi quali fossero i criteri per ritenere applicabile l’istituto, sostanzialmente facendomi una dotta disquisizione sul reato impossibile, argomento che mostrava di avere “fresco” nella memoria come lo avesse studiato il giorno prima. Questi era il giudice istruttore Falcone, una persona profonda con doti umane non comuni e grande sensibilità come deve essere un Giudice, prima ancora che un raffinatissimo giurista, un eccellente investigatore ed un tecnico espertissimo dotato di una memoria degna di Pico della Mirandola. Da quest’uomo di dirittura morale inimitabile, di mentalità moderna, dallo straordinario coraggio e dalla prorompente personalità, dalle doti umane superiori, dall’intelligenza poliedrica (o piuttosto genio) ed eclettica, all’humor pungente e salace, che faceva capolino in battutine buttate lì a fare da contrappunto ed alleggerire le non dissimulate, né dissimulabili atmosfere pesanti e spesso grevi di quell’Ufficio, e dalla volontà ferrea nel perseguire la sua missione, con energia inconsumabile, ho appreso il fortissimo senso delle istituzioni e del dovere ed è questo “metodo Falcone” (l’unico che ho potuto apprendere) che ha guidato ogni passo della mia carriera, nella quale con i miei limiti e nel mio piccolo, ho cercato di non dimenticare mai gli insegnamenti ricevuti, con l’opera, ed in ogni gesto quotidiano, da un uomo dalla statura morale superiore quale era il giudice istruttore dottor Giovanni Falcone.  (Di Vincenzina Massa – Magistrato di Palermo, nel 1980 uditore nell’ufficio del giudice istruttore Giovanni Falcone)


Da vivo perde quasi tutte le sue battaglie .da morto è esaltato e osannato, il più delle volte dagli stessi nemici che ne hanno voluto le sconfitte.  un ‘ indagine come tante è all’origine del grande processo che segna l’inizio della fine per i padroni della Sicilia, un giudice come tanti diventa il magistrato più amato e più odiato d’Italia.  Sepolto in una piccola stanza dietro una porta blindata , in mezzo ai codici e alla sua collezione di papere di terracotta, è il primo a mettere veramente paura alla mafia. Prigioniero nella sua Palermo, è l’uomo che cambia Palermo e l’Italia.  Detestato, denigrato, guardato con sospetto dai suoi stessi colleghi in toga, temuto e adulato dalla politica, resiste fra i tormenti schivando attentati dinamitardi di e tranelli governativi. Prima tremano per la forza delle sue idee, poi si impossessano della sua eredità. E’ celebrato come eroe nazionale solo quando è nella tomba.  Per tredici lunghissimi anni provano ad annientarlo in ogni momento e in tutti i modi per quello che fa o per quello che non fa. Ci riescono alle 17:56 minuti e 48 secondi del 23 maggio 1992 su una curva dell’autostrada che dall’aeroporto di Punta Raisi corre verso la città. A quell’ora, gli strumenti dell’Istituto di Geofisica e di Vulcanologia di mone Erice registrano un piccolo evento sismico con epicentro fra i comuni di Isola delle Femmine e Capaci. Non è un terremoto . E’ una carica di cinquecento chili di tritolo che fe saltare in  aria GIOVANNI FALCONE.  (di  Attilio Bolzoni -Storia di Giovanni Falcone)


Non c’è stato uomo in Italia che ha accumulato nella sua vita più sconfitte di Falcone: bocciato come consigliere istruttore, bocciato come procuratore di Palermo, bocciato come candidato al CSM e sarebbe stato bocciato anche come procuratore nazionale antimafia se non fosse stato ucciso. Eppure ogni anno si celebra l’esistenza di Giovanni come fosse stata premiata da pubblici riconoscimenti o apprezzata nella sua eccellenza. Un altro paradosso. Non c’è stato uomo la cui fiducia e amicizia è stata tradita con più determinazione e malignità. Ilda Boccassini.


Lo stile dell’uomo e del magistrato di Giovanni Paparcuri Più del metodo mi piacerebbe parlare dello stile, lo stile di uomo che faceva un mestiere difficile: il magistrato. E in questo stile bisogna aggiungerci il carattere, il modo di rapportarsi con la gente e principalmente con i mafiosi, con alcuni suoi colleghi forse ha peccato di ingenuità, cioè si è fidato di qualcuno di cui non doveva. Il metodo Falcone, comunque, era rappresentato anche dagli sguardi, da gesti e da quello che non diceva. Era coerente in tutto e per tutto, un vero uomo d’onore e come tale si comportava.
Tuttavia seguire la traccia del denaro era nato col Consigliere Chinnici, poi il dr. Falcone lo perfezionò e raggiunse importanti risultati, in primis sul processo Spatola, e sempre grazie a questo metodo scoprì attraverso un assegno la vicenda del falso sequestro Sindona.
Oramai è stato detto tutto sul metodo che usava il dr. Falcone, ma il suo metodo non serviva esclusivamente a scoprire intrallazzi, ma serviva pure per altro. Intanto si fidava del suo intuito e in poche battute si accorgeva se colui il quale aveva di fronte diceva la verità.
Quando conduceva un interrogatorio, come mi raccontava il maresciallo dei carabinieri, che era addetto alla verbalizzazione, non andava subito sull’argomento da trattare, ma con calma li invitava a raccontare la loro vita, fino a quando non arrivavano al punto di interesse, e qui li “fregava”, infatti spesso e volentieri da semplici testi li imputava per falsa testimonianza o per favoreggiamento.
Comunque valutava  sempre chi aveva di fronte, non scordando mai, anche se era un mafioso, che si trattava pur sempre di un essere umano. Basta leggere un passo di una sua intervista, se non ricordo male del 1985: “Comprendo il dramma umano di chi mi sta di fronte. Questo lavoro non può essere svolto se si è privi di umanità”. Era molto metodico, quasi maniacale, il pool antimafia si avvaleva per le indagini bancarie e patrimoniali di una squadra di sottufficiali della Guardia di Finanza diretti dal capitano Ignazio Gibilaro, struttura voluta proprio dal giudice e i loro uffici erano ubicati accanto al bunkerino, oggi Museo Falcone Borsellino. Ebbene, nonostante questo gruppo era deputato a fare ciò, il dr. Falcone spesso e volentieri controllava personalmente la documentazione bancaria e in particolar modo gli assegni, sequestrati a seguito di mandati di cattura o indagini, l’operazione più significativa e che, tra l’altro, mi riguarda personalmente fu quella denominata “Charlie”, la racconto perché mette in risalto una sfaccettatura forse poco conosciuta di un metodo che solo il dr. Falcone sapeva usare, perché non credo che altri avrebbero fatto la stessa cosa.
Dunque, una mattina il dr. Falcone mi chiamò con un tono un po’ diverso, e già dal tono capii che c’era qualcosa che non andava. Entrato nella sua stanza vidi una montagna di assegni e documentazione bancaria sulla sua scrivania, sequestrati, appunto, in seguito all’operazione Charlie, io pensai che voleva essere aiutato per la solita spunta, o che magari voleva che confrontassi alcune firme attraverso verbali di interrogatorio o di sommarie informazione, quindi mi misi di fronte a lui, invece mi disse di girare e di mettermi proprio al suo fianco, nelle sue mani teneva un assegno, che subito dopo mi mostrò, chiedendomi di chi era quella firma. La firma era di mio padre. In quel momento se mi avessero tagliato le vene non sarebbe uscita una goccia di sangue, e già pensavo: “Giovanni qua è finita la tua storia”. Comunque gli dissi che quella firma era di mio padre e l’assegno fu emesso come anticipo per la compravendita di un appartamento, il sogno di ogni famiglia. Dopodiché mi domandò se c’era il compromesso, “certo dr. Falcone”. Non aggiunse altro e quell’assegno lo rimise assieme agli altri, ma io impietrito non sapevo che fare, mi aspettavo altro, fino a quando non mi disse: “ancora qua è? vada a lavorare”, mentre stavo per uscire mi fece tornare indietro e con tono ancora più severo mi disse: Signor Paparcuri (non più papa) se lei è qui un motivo c’è, vada a lavorare”. Io tornai a lavorare e quell’assegno con la relativa documentazione l’ho microfilmato e inserito in banca dati: ho fatto semplicemente il mio dovere.
Per l’uomo-giudice non occorreva altro, si è fidato della mia parola e del suo istinto, il metodo Falcone era anche questo, ma guai a prenderlo in giro. Il suo metodo era anche quello di trasmettere a noi collaboratori il senso dello Stato; per noi era un punto di riferimento.
Un altro aspetto del suo metodo è rappresentato anche da altro, cioè alcune volte dal mio ufficio notavo che il dr. Falcone accompagnava alla porta alcune persone che lo venivano a trovare, e dall’espressione del suo volto e da alcuni comportamenti capivo se lo aveva fatto per educazione oppure perché lo aveva mandato letteralmente a quel paese, dove stava la differenza? Se la presenza era gradita accompagnava con lo sguardo e con un sorriso quella determinata persona fino a quando non scendeva le scale, viceversa se non era gradita, aveva il viso tirato e appena il visitatore varcata la soglia della porta blindata, la chiudeva immediatamente. Ecco, con parole mie ho cercato nel mio piccolo di raccontare il metodo Falcone, all’inizio ho specificato che era fatto anche da sguardi, ma quelli non li posso descrivere con semplici e freddi caratteri, occorrerebbero dei colori, ma non ci riesco, forse perché preferisco tenerli per me. Rimane comunque il fatto che seguire la traccia del denaro è un ottimo metodo per contrastare il malaffare, ma quello del dr. Falcone, sommandolo ad altri comportamenti, era uno stile, era lo stile del dr. Falcone, prima uomo e poi magistrato.


La mossa vincente di seguire il denaro  La lotta dello Stato alla mafia ha origini che risalgono, quanto meno, agli ultimi anni dell’ 800 e, verosimilmente, al 1° febbraio 1893, giorno in  cui venne assassinato per mano mafiosa il marchese Emanuele Notarbartolo, persona incline all’etica e al rispetto della legge, già sindaco di Palermo per alcuni anni e direttore del Banco di Sicilia, storico istituto di credito dell’isola. E’ stato considerato il primo eccellente delitto di mafia che, all’epoca, accese un importante dibattito sulla situazione della mafia in Sicilia e, soprattutto, sulla collusione tra mafia e politica, anche se inizialmente nessuno osò fare nomi. Da allora e, per moltissimi anni, la lotta alla mafia è stata quasi sempre emergenziale consistendo in provvedimenti susseguenti a singoli fatti delittuosi, come la commissione antimafia del 1963 dopo la strage di Ciaculli, una borgata di Palermo, regno di Michele Greco il “Papa”, in cui perirono sette carabinieri e due civili, dilaniati da una carica di tritolo nascosta nel portabagagli di una Alfa Romeo “Giulietta”. Poi gli anni settanta con la Palermo dei delitti eccellenti ad opera dei corleonesi Salvatore Riina e Bernardo Provenzano quando, in proditori agguati mafiosi, vennero uccisi, tra gli altri, il Procuratore Pietro Scaglione, il colonnello dei carabinieri Giuseppe Russo, il vice questore Boris Giuliano, il giornalista di inchiesta Mario Francese, il dottore Paolo Giaccone, il consigliere istruttore Cesare Terranova, il Presidente della Regione Sicilia Piersanti Mattarella, il Procuratore Gaetano Costa, Pio La Torre e il generale Carlo Alberto dalla Chiesa. Era questo il fosco, nebuloso contesto temporale in cui approdarono all’Ufficio di Istruzione del Tribunale di Palermo, alla fine degli Anni Settanta, Rocco Chinnici, Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Giuseppe Di Lello e, dopo l’uccisione di Rocco Chinnici per mano mafiosa, il dottor Antonino Caponnetto che gli subentrò nelle funzioni di consigliere istruttore. Con il loro avvento e con la creazione del pool antimafia, nel quale era stato nel frattempo cooptato il giudice Leonardo Guarnotta – io – i rapporti di forza tra Stato e mafia cambiarono e venne sferrato un attacco senza precedenti a “cosa nostra” grazie  all’impegno quotidiano profuso da quei magistrati, alla inaspettata collaborazione di Tommaso Buscetta il cui “esempio” venne seguito da Salvatore Contorno, Giuseppe Calderone e Marino Mannoia, passati dalla parte dello Stato, le cui propalazioni, accuratamente riscontrate, hanno consentito di infrangere il  muro dell’ omertà che, da sempre, è stato uno dei pilastri sui si basa la stessa esistenza di Cosa nostra, ma grazie anche e soprattutto alla professionalità, alla competenza, alla preparazione ed all’intuito investigativo di Giovanni Falcone. In una stagione giudiziaria in cui le conoscenze dell’apparato strutturale e funzionale di Cosa Nostra erano frammentarie e parziali e, correlativamente, episodica e discontinua era stata l’azione repressiva e punitiva dello Stato, diretta prevalentemente a colpire, con risultati ovviamente deludenti, le singole manifestazioni criminose (si pensi alle numerosissime assoluzioni per insufficienza di prove con le quali, negli anni ’60 e ’70 si erano chiusi i processi di Catanzaro e Palermo a carico di centinaia di mafiosi), Giovanni Falcone seppe cogliere la struttura unitaria, verticistica, piramidale di Cosa Nostra, intuì che il fenomeno mafioso andava affrontato con una strategia diversa da quella posta in essere sino ad allora (e che si era dimostrata inefficace) ed elaborò un metodo investigativo del tutto innovativo e straordinariamente incisivo che, a ragione, è stato definito “rivoluzionario”. Nei primissimi mesi del 1980, il consigliere Rocco Chinnici aveva incaricato Giovanni Falcone di istruire il procedimento penale a carico di Rosario Spatola, un costruttore e faccendiere siciliano su cui gravava l’accusa di gestire un grosso traffico di sostanze stupefacenti tra Palermo e New York, dove coesistevano ben cinque “famiglie” mafiose dedite al commercio di armi e allo spaccio della droga. Quel processo, in cui erano coinvolti importanti  soggetti legati a Cosa nostra, consentì a Falcone di comprendere che la potenza economica della mafia aveva superato i confini della Sicilia, che era riduttivo e fuorviante indagare solo a Palermo e che, soprattutto, era necessario penetrare nei “santuari” degli istituti di credito nei quali affluivano e venivano “puliti” gli ingentissimi capitali accumulati con i traffici internazionali di armi e droga. Perchè, argomentava Falcone, se la droga non lascia quasi tracce (se non nella salute di colore i quali l’assumono, viene da osservare), il denaro ricavato dal suo commercio non può non lasciare dietro di sé tracce, segni, orme del suo percorso, del suo passaggio da chi fornisce la droga a chi l’acquista. Ed allora era necessario fare un passo in avanti, dare una svolta definitiva alla strategia di attacco alla mafia economica e finanziaria operante anche all’estero, in particolare negli Stati Uniti ed in Canada, intensificando la collaborazione con gli organi investigativi e giudiziari di quelle nazioni . Vedeva così la luce il “metodo Falcone”, mediaticamente inteso “follow the money”, inseguire il denaro . Venivano svolte accurate e mirate indagini bancarie, patrimoniali e societarie, in Italia ed ora anche all’estero, nei confronti di centinaia di soggetti al fine di rintracciare e portare alla luce, infrangendo il segreto bancario, sino ad allora considerato alla stregua di un totem inviolabile, rapporti di affari, contatti, trasferimenti di somme di denaro da un soggetto all’altro, venivano passate al setaccio migliaia di assegni bancari e numerosissima altra documentazione bancaria (il tutto compendiato in ben sei dei quaranta volumi della ordinanza-sentenza depositata l’8 novembre 1985) al fine di acquisire la prova inconfutabile, sino ad allora quasi mai raggiunta, di rapporti di conoscenza e di affari illeciti tra mafiosi, trafficanti di denaro sporco e colletti bianchi, ostinatamente negati dagli interessati. Ma il successo della vincente strategia attuata con il “metodo Falcone” è stato dovuto anche allo straordinario lavoro di squadra posto in essere dal pool antimafia, fortemente voluto e mirabilmente guidato dal consigliere Antonino Caponnetto,  un organo giudiziario non previsto dall’allora vigente codice di procedura penale, ai cui componenti, in attuazione di un disegno non del tutto innovativo ( era stato sperimentato, alcuni anni prima, nella azione di contrasto al terrorismo), vennero affidate le indagini sul fenomeno della criminalità organizzata di tipo mafioso in modo che, lavorando in stretto collegamento fra di loro, fosse possibile un scambio di notizie ed informazioni sui risultati delle indagini espletate da ciascuno di essi ed il patrimonio di notizie così acquisite da ognuno degli inquirenti non fosse disperso ma fosse portato a conoscenza degli altri colleghi. Ma alla strategia vincente del pool antimafia  ha contribuito anche la fattiva collaborazione di appartenenti ai reparti investigativi della polizia, dell’arma dei carabinieri e della guardia di finanza, dotati di una elevata professionalità e di un non comune spirito di servizio, divenuti anche essi protagonisti di quel perfetto “gioco di squadra” che ha reso possibile esperire la prima, efficace e vincente azione di contrasto a “cosa nostra”, quella “pericolosissima associazione criminosa che, con la intimidazione e la violenza, ha seminato e semina morte e terrore”, come venne definita nell’incipit dell’ordinanza-sentenza depositata l’8 novembre 1985. Oggi, a distanza di circa trentacinque anni, il “metodo Falcone” è comunemente utilizzato, con risultati mai raggiunti prima, in Italia ed all’estero, avendo segnato una svolta epocale, fissato un punto di non ritorno, delineato uno spartiacque definitivo con i precedenti sistemi di indagine utilizzati nella lotta di contrasto a qualsiasi forma di criminalità organizzata.  (Di  Leonardo Guarnotta – Già Presidente del Tribunale di Palermo, nei primi anni ’80 componente del pool antimafia dell’ufficio istruzione)


La collocazione dell’esplosivo avvenne a fine aprile La collocazione dell’esplosivo avvenne a fine aprile, questa volta di notte. Il buco era già stato scelto: era perfetto, stretto, piccolino, come mi aveva detto il mio parente. Poteva avere un’efficacia come quella che poi in realtà ebbe. Avevamo le idee abbastanza chiare. Sapevamo anche che l’auto di Falcone correva sempre nella corsia dei sorpassi.Misurammo l’autostrada, da un punto all’altro, con una corda. Dovevamo riempirne di esplosivo solo metà. Ci siamo riportati questa misura all’interno del cunicolo. Per arrivare a metà dell’autostrada bastava contare i tubi del cunicolo che misuravano un metro ciascuno e avevano un diametro di 50 centimetri. Nell’altra corsia non collocammo l’esplosivo: si solleverà solo per effetto dell’esplosione… Mettevamo nel conto anche il passaggio di qualche auto di <<civili>>. Ma era una possibilità su mille e ci augurammo che non si affiancasse nessuno alla macchina di Falcone. La consideravamo un’ipotesi molto remota perché, di solito, le macchine di scorta fanno allontanare le altre auto. Avevamo previsto anche questo. Quindi, fatti tutti questi conteggi, tutte le prove, sistemato il frigorifero, arriviamo ai primi di maggio. La notte in cui completammo l’operazione eravamo io, Gioè, Bagarella, Biondino, Salvatore Biondo il <<corto>>, Ferrante, Giovanni Battaglia, Pietro Rampulla e la Barbera. Abbiamo cominciato al tramonto. Avevamo i telefonini. Biondino e Ferrante, quando li avremmo chiamati, avrebbero dovuto portarci l’esplosivo che avevamo depositato nella villa di Troia. (da HO UCCISO GIOVANNI FALCONE di Saverio Lodato)


 Il primo lavoro era quello di riuscire a entrare nel cunicolo e vedere com’era fatto. Io ero un po stanco per tutto ciò che avevo fatto poco prima. Nel momento in cui provai a infilarmi nel cunicolo sentii un po d’affanno, mi mancò l’aria. E pensai: <<Se entro qua dentro muoio>>. La stessa cosa accadde a La Barbera. Nel frattempo arrivò Gioè, più riposato, più fresco. E disse: <<Voglio provare io>>. Entrò al buio, tranquillo. Si infilò nel cunicolo e gridò: <<Ma io qui ci posso fare il viaggio con la fidanzata. Non ci sono problemi>>. Ci eravamo procurati uno skateboard, quello che usano i ragazzini per giocare. Pensavamo di metterci i fustini sopra e di trasportarli in posizione orizzontale. All’inizio, abbiamo fatto una vita da cani. Prima entravamo con le mani davanti e i piedi che restavano fuori, spingendo i fustini uno a uno. Dentro il cunicolo c’era un tubo da un pollice che usavamo come guida e che ci consentì di individuare il punto esatto dove collocare l’ultimo fustino a metà dell’autostrada. Entravamo a turno, io, Gioè, La Barbera. Bagarella e Battaglia, in quella fase, ci coprivano le spalle. Mentre noi lavoravamo, loro, armati, si guardavano intorno. Tant’è vero che arrivò una pattuglia dei carabinieri, ma erano due poveretti che forse erano andati a fare pipì. Scesero, si fermarono, fecero quello che dovevano fare e se ne andarono senza vederci perché in quella zona ci sono alberi e cespugli e noi ci eravamo nascosti in tempo. Hanno rischiato di essere uccisi, e l’attentato sarebbe saltato. Continuammo il nostro lavoro. Avevamo piazzato solo tre fustini e con difficoltà enormi. Con le mani in avanti e la faccia a terra. Per non lasciare impronte, calzavamo guanti da muratore, quelli di cuoio. Fu a questo punto che mi venne un’idea. Dissi a Gioè:<<Perché non ci mettiamo con la pancia sopra lo skateboard? Mettiamoci al contrario: con i piedi all’interno e spingiamo i fustini con i piedi, con la testa verso l’uscita. Tanto il primo fustino che ci fa da segnale c’è già. Ci leghiamo una corda al torace. Basta strattonarla e tu capisci che è il momento di tirarmi fuori>>. E così abbiamo fatto. Appena arrivavamo in fondo, ci fermavamo e quello che era fuori tirava senza fare fatica e ci faceva uscire. Con i primi tre fustini avevamo impiegato un tempo infinito e con sforzi non indifferenti. Con gli altri, in un’oretta e mezzo, ci eravamo sbrigati. Infatti avevamo già posizionato il fustino più grosso con il detonatore dentro. Per evitare di rompere il filo del detonatore lo passammo sotto il tubo, in modo che non venisse danneggiato. Il filo attraversava i fusti, dal detonatore all’uscita.  Infine sistemammo altri fusti. Il cunicolo non lo chiudemmo. Mettemmo solo un po di erbacce. Non l’abbiamo murato perché avremmo suscitato sospetti. Poi c’era Troia che, abitando a Capaci, poteva controllarlo giornalmente. Fra l’altro, l’ultimo tratto del cunicolo era libero e quindi dall’esterno non si vedeva niente. Lì vicino c’erano dei materassi che servivano da punto di riferimento.  (da HO UCCISO GIOVANNI FALCONE – La confessione di Giovanni Brusca di Saverio Lodato)


In quel mese di maggio del 1992 a Roma arrivano i sicari di mafia. Seguono Giovanni Falcone. Controllano tutti i suoi movimenti, si preparano ad ucciderlo. E’ un bersaglio facile. Falcone passeggia per le strade della capitale senza poliziotti dietro, incontra amici, niente blindate, mitragliette, scorte. Poi, i mafiosi incaricati di ammazzarlo ricevono l’ordine di tornare in Sicilia. Giovanni Falcone deve morire ma non deve succedere a Roma, in un agguato con armi corte -pistole e fucili- dentro un delitto mafioso tradizionale. Deve morire a Palermo con l’esplosivo, in un’azione terroristica. Nella dinamica che cambia si rintraccerà la matrice della strage, che non è solo mafiosa. Qualcuno indica ai boss il <<modo>> per farlo fuori. E’ una di quelle <<convergenze di interessi>> di cui Giovanni Falcone ha parlato per anni sui delitti politici di Palermo. Adesso tocca a  lui. (Da UOMINI SOLI di Attilio Bolzoni)

Alla fine del 1984 il pool è al massimo dell’impegno e dei risultati. Falcone si muove lento ma inesorabile, passo dopo passo. Come un bulldozer rimuove ogni ostacolo ed evita le bordate dei suoi avversari che, secondo la peggior tradizione palermitana, non potendolo uccidere col piombo, ci tentano con le maldicenze. Cosa dicono, stavolta, le solite voci di corridoio? Cantano una vecchia e collaudata filastrocca: “Falcone arresta solo i deboli, i potenti non li tocca”. In verità ha già inviato comunicazioni giudiziarie a Nino e Ignazio Salvo, ipotizzando il reato di associazione per delinquere. E ha cominciato a ronzare pericolosamente attorno a Vito Ciancimino, il “padrone di Palermo”. Bella forza, insinua il tam-tam. Perché non passa alle manette?
Giovanni incassa e non fiata. Sa che la fretta e l’approssimazione giocherebbero contro di lui, che il nemico in agguato aspetta un suo errore, anche minimo, per delegittimarlo. Confida ai pochi amici: “Io faccio il giudice e per firmare un provvedimento devo avere la certezza di non essere smentito. Se arresti uno di questi signori e dopo un pò sei costretto a metterlo fuori, hai chiuso”. Le maldicenze montano, lui continua a subire senza reagire.
Ottobre era stato il mese del “raccolto”. In Canada Falcone cominciò a ottenere le prove che gli avrebbero consentito di incastrare l’ex sindaco Vito Ciancimino: i riscontri bancari di operazioni per milioni di dollari. Contemporaneamente Buscetta sottoscrisse un verbale con cui ammetteva di essere stato in contatto diretto coi Salvo, durante la sua latitanza del 1980. Diede anche una particolareggiata descrizione della casa dove aveva trascorso le feste di Natale: la villa che gli esattori possedevano a Casteldaccia e che gli avevano “messo a disposizione”.
Due volte Palermo finì in prima pagina. La prima, il 3 novembre, quando il commissario Ciccio Accordino si presentò al quinto piano di via Sciuti per dire all’ex “padrone di Palermo”: Signor Ciancimino lei è in arresto, l’accusa è di associazione mafiosa ed esportazione di capitali all’estero”. Quindi passò qualche giorno e Falcone replicò. Fu la volta degli intoccabili Nino e Ignazio Salvo: in manette, accusati di associazione per delinquere di stampo mafioso. 
Era il 12 novembre: la città guardava sbigottita, nessuno avrebbe mai creduto di poter assistere a tanto. Solo qualche anno prima, per interrogare gli esattori, tanto potenti da riuscire a imporre alle elezioni i “loro” deputati, i magistrati dovevano chiedere un appuntamento telefonico.  
(Storia di Giovanni Falcone di Francesco La Licata

Falcone e quel verbale dopo l’attentato all’Addaura E’ un fatto noto che all’indomani del fallito attentato all’Addaura nel giugno 1989, il giudice Giovanni Falcone parlò in un’intervista a Saverio Lodato, allora giornalista dell’Unità ed oggi nostro editorialista, di “menti raffinatissime” che si nascondevano dietro quell’attentato. 

In una delle ultime udienze del processo d’appello sulla trattativa Stato-mafia, in corso a Palermo, è stato acquisito, su richiesta della difesa del generale Mori, il verbale della testimonianza di Giovanni Falcone al procuratore di Caltanissetta Salvatore Celesti

L’intento, ovviamente, è quello di dimostrare che il magistrato palermitano, ucciso poi a Capaci il 23 maggio 1992, non abbia mai fatto riferimento ad entità esterne, e che per la proprietà transitiva non si possa parlare di mandanti esterni o concorrenti esterni nelle successive stragi di mafia.

Analisi di un testimone Leggendo le carte è chiaro che emergono degli interrogativi.  In primo luogo appare assurdo come il magistrato, nonostante quelle dichiarazioni forti pubblicate su l’Unità, sia stato chiamato a testimoniare solo un anno e mezzo dopo dei fatti. 

Una lentezza negli accertamenti che ricorda quel che avvenne con Borsellino qualche anno dopo, quando nel celebre discorso di Casa Professa di fatto chiese di essere sentito come testimone dalla Procura di Caltanissetta che indagava sulla strage di Capaci. Non fu mai chiamato, e il 19 luglio 1992 morì assieme agli agenti della sua scorta. 

Ma leggendo il verbale del 4 dicembre 1990 in cui Falcone venne interrogato come parte lesa nell’inchiesta sul fallito attentato all’Addaura non si può non evidenziare come non gli sia stata fatta alcuna domanda su cosa intendesse dire con quella terminologia, “menti raffinatissime”, detta appena un anno e mezzo prima.

Ovviamente l’allora giudice istruttore del capoluogo siciliano aveva chiaro come “il mio perdurante collegamento con i colleghi svizzeri in tema di indagini concernenti il riciclaggio rafforza ancora di più il sospetto che si sia inteso in qualche modo lanciare un avvertimento per rendere ‘meno pronta’ (le virgolette sono nel verbale, ndr) l’assistenza giudiziaria da parte della Svizzera”.

E sempre Falcone, in quell’occasione, dimostrava di avere un’idea di quelli che potevano essere, sul piano pratico, gli esecutori (Marino Mannoia mi ha detto di essere certo che non poteva essere estranea la famiglia Madonia, sarebbe interessante comparare l’identikit con la fotografia dei componenti della famiglia Madonia, e in particolare con Salvatore Madonia). 

Quindi, in altri punti del verbale, riportati oggi da Il Fatto Quotidiano, si legge anche che “per completezza” Falcone aggiunse due valutazioni: la prima riguardo all’ipotesi improbabile di coinvolgimenti nell’attentato diversi da quelli comunque riferibili a Cosa Nostra (“se avesse avuto una matrice diversa, in un modo o nell’altro l’organizzazione mafiosa avrebbe fatto sapere di essere estranea”); la seconda sull’esclusione di un possibile ruolo degli agenti Emanuele Piazza (al tempo scomparso) e Nino Agostino (ucciso assieme alla moglie il 5 agosto 1989), su cui al tempo la Procura di Palermo stava indagando (“Dalle indagini non è emerso nulla di particolare che possa far ritenere che i due fossero in qualche modo collegati con il mio attentato”).

Bastano queste convinzioni per dimostrare che non esistono mandanti esterni?

Assolutamente no, specie se si considerano gli elementi acquisiti nel tempo.

Non solo. 

Guardando sempre al verbale Falcone inquadra ulteriormente il contesto di quei giorni in cui si sarebbe dovuto consumare l’attentato. I 58 candelotti di esplosivo Brixia erano stati piazzati davanti alla sua casa di villeggiatura.

“Visto il luogo ove era stata ubicata la borsa con l’esplosivo – spiegava il magistrato – sono sicuro che l’esplosione dell’ordigno avrebbe provocato effetti letali solo per le persone che stazionavano nei pressi, ma avrebbe provocato danni solo eventuali alla villa e ai suoi abitanti”.

E poi ancora evidenziava come in quel giorno erano presenti anche i colleghi elvetici Carla Del Ponte e Claudio Lehmann, giunti a Palermo per una rogatoria sul riciclaggio dell’inchiesta “Pizza connection”.

“La coincidenza dell’attentato con la presenza dei giudici svizzeri che sarebbero rimasti sicuramente coinvolti nell’esplosione mi induce a una seria riflessione ove si consideri le abitudini e metodi operativi di Cosa Nostra – analizzava con lucidità – Quasi sicuramente non sarebbero stati uccisi dei magistrati di un altro Paese ove ciò non fosse stato ritenuto opportuno e necessario”. E dopo avere premesso che “ove si fosse voluto prendere di mira soltanto la mia persona avrei potuto essere oggetto di attentati in mille altri modi e in mille altri luoghi”.

L’avvertimento  Quel fallito attentato, secondo Falcone, era un “avvertimento”, aggiungendo che “proprio i colleghi svizzeri in quel periodo si stavano occupando di indagini soprattutto finanziarie riguardanti notissimi esponenti della mafia siciliana” e sottolineando che in quel procedimento, al tempo condotto dai colleghi svizzeri vi erano figure di peso come “Vito Roberto Palazzolo, Leonardo Greco, Salvatore Amendolito e Oliviero Tognoli“. Soggetti in qualche maniera borderline il cui ruolo “non era del tutto chiaro”. 

Non solo. Falcone mise a verbale di essere convinto che Tognoli non avesse detto tutta la verità “sui suoi collegamenti con la mafia siciliana e su inquietanti vicende riguardanti la sua fuga da Palermo subito dopo l’emissione di un ordine di cattura nei suoi confronti”. Sempre Falcone disse che lo stesso ammise “di essere stato avvertito da qualcuno che non può non essere un uomo delle istituzioni, ma sul punto Tognoli è ancora reticente”.

Non solo. Falcone rivela a Celesti di avere “espletato una rogatoria internazionale” chiedendo il verbale di Tognoli reso ai colleghi svizzeri. Il documento però, “non ci viene trasmesso per l’opposizione del suo difensore per il timore palesato da Tognoli che le sue dichiarazioni venissero in qualche modo conosciute in Italia”.

Per comprendere questi passaggi, forse, sarebbe utile risentire le parole della giudice Carla Del Ponte, intervenuta nel maggio 2020 alla trasmissione Atlantide.

Le parole di Carla Del Ponte  Oliviero Tognoli decise di farsi arrestare a Lugano perché diceva che lì la mafia non c’era. Lui sapeva di essere ricercato in Italia. – aveva raccontato rispondendo alle domande del conduttore Andrea Purgatori – Però non voleva far sapere di essersi costituito quindi si parlò solo di arresto. Una delle prime domande che gli posi fu chiedergli chi l’avvertì di aver avuto un ordine di arresto in Italia, e lui mi disse che era vero di essere stato avvertito e a farlo era stato il funzionario di polizia e dei servizi segreti Bruno Contrada. Per me non era nessuno, quindi presi l’informazione e la passai subito a Giovanni Falcone, col quale eravamo naturalmente in contatto perché io stavo bloccando a Lugano tutti i conti bancari di riciclaggio di denaro proveniente dai traffici di droga”.”Non glielo dissi al telefono – aveva ricordato il giudice svizzero – perché nel frattempo avevo oramai imparato che al telefono non si dicono certe cose. Quindi la prima volta che ci vedemmo a Lugano glielo dissi. Rimasi sorpresa nel vedere Falcone non sorpreso che questo Bruno Contrada avesse avvertito Tognoli dell’ordine di arresto. Naturalmente voleva che Tognoli lo mettesse a verbale e lì Tognoli quando poi ci siamo incontrati tutti ha sempre rifiutato. Io ricordo che non gli aveva mai detto a Falcone che fosse Contrada, lo ha lasciato capire, intendere, perché naturalmente era in mia presenza e quindi era difficile negarlo però ripeto non l’ha detto spontaneamente il suo nome. O magari l’ha detto a lui. Perché devo dire anche è stata forse l’unica volta che vidi Falcone arrabbiarsi. Falcone non si arrabbiava mai quando interrogava, invece con Tognoli sì. Si arrabbio con lui perché praticamente negava l’evidenza. Sono passati molti anni ma credo che non ha mai verbalizzato che fosse Bruno Contrada, tant’è che andai io stessa a testimoniare a Palermo”. Sono questi dunque i contesti investigativi dietro cui lavoravano Falcone ed i colleghi svizzeri al tempo del fallito attentato. Contesti di mafia, sì, ma non solo.  Aaron Pettinari 25 Novembre 2020 ANTIMAFIA DUEMILA


PREMIO INTERNAZIONALE GIOVANNI FALCONE AL PROGETTO SAN FRANCESCO

PALERMO – PSF al XX Anniversario Strage di Capaci – 23.5.2012

PSF Falcone

Il Centro Studi sociali contro le mafie – Progetto San Francesco,  a Palermo per ricordare il lavoro giudiziario e culturale di Giovanni Falcone. Nel giorno del ventesimo anniversario della strage di Capaci, in cui morí il magistrato palermitano con la moglie Francesca Morvillo e gli agenti di scorta. Il Progetto San Francesco ha incontrato Maria Falcone all’arrivo delle navi della legalità. “Avervi qui a Pelermo, insieme a tutti questi ragazzi, con questi giovani scout genovesi è per noi la prosecuzione di un percorso comune iniziato a Como, proseguito a Milano e che certamente ci vedrà uniti in tutt’Italia” Così Maria Falcone alla squadra del Progetto San Francesco, ricordando anche gli atti vandalici a danno della targa posta sul lungo lago lariano.

Cisl Como e Progetto San Francesco a Palermo con Maria Falcone al XX Anniversario della strage di Capaci

Maria FALCONE pianta l’Albero FALCONE e incontra gli studenti COMO 5.3.2011


CHI ERA GIOVANNI FALCONE  Giovanni Falcone è stato un magistrato italiano che ha dedicato la sua vita alla lotta alla mafiaTra i primi a comprendere la struttura unitaria e verticistica di Cosa Nostra, ha creato un metodo investigativo diventato modello nel mondo.

Rigorosa ricerca della prova, indagini patrimoniali e bancarie, ostinata caccia alle tracce lasciate dal denaro e lavoro di squadra sono stati i suoi fari, le armi con le quali, insieme al pool antimafia, ha istruito il primo maxiprocesso a Cosa nostra, il suo capolavoro. L’eccezionale impegno di un manipolo di magistrati guidati da Falcone dopo anni di assoluzioni per insufficienza di prove portò alla sbarra 475 tra boss e gregari di Cosa nostra e si concluse con 19 ergastoli e condanne a 2665 anni di carcere.

Oltre 40 anni fa Giovanni Falcone capì che le mafie si apprestavano a varcare i confini italiani e teorizzò l’importanza della cooperazione giudiziaria internazionale. A lui, al suo lavoro, al suo sacrificio è stata intitolata la risoluzione approvata all’unanimità da 190 Paesi nel corso della X Conferenza delle Parti sulla Convenzione di Palermo del 2000 contro il crimine transnazionale che si è tenuta a Vienna ad ottobre del 2020.

Giovanni Falcone non si è mai sentito un eroe, ma solo un uomo dello Stato chiamato a fare il proprio dovere. Contro il mito negativo dell’invincibilità di Cosa nostra diceva: “la mafia è un fenomeno umano e come tutti i fenomeni umani ha un principio, una sua evoluzione e avrà una fine”.

L’INFANZIA  Giovanni Falcone nasce a Palermo il 18 maggio del 1939. Il padre, Arturo, era direttore del Laboratorio chimico provinciale. La madre, Luisa Bentivegna era casalinga. Terzo figlio dopo due sorelle, Anna e Maria, amava lo sport.  Cresce alla Kalsa, l’antico quartiere arabo nel cuore di Palermo, dove si intrecciavano destini diversi e dove era normale ritrovarsi a giocare a pallone col figlio del capomafia. A cinque anni comincia le elementari al Convitto nazionale. Ma è nell’ambiente familiare che assorbe i valori che lo guidano per tutta vita: la madre gli parla spesso dello zio bersagliere caduto sul Carso e il padre dell’altro zio, capitano in aviazione, morto durante un combattimento. Esempi di sacrificio e attaccamento al dovere che hanno ispirato il magistrato per la vita.  Dirà lui stesso: “Occorre compiere fino in fondo il proprio dovere, qualunque sia il sacrificio da sopportare, costi quel che costi, perché è in ciò che sta l’essenza della dignità umana”.

LA FORMAZIONE  Giovanni Falcone frequenta il liceo classico Umberto I. Grazie al suo insegnante, Franco Salvo, professore di storia e filosofia, scopre il materialismo storico e il marxismo, si appassiona allo studio critico della storia e inizia a guardare con altri occhi alle dinamiche sociali. Alla licenza liceale, conseguita con il massimo dei voti e il diritto all’esonero dalle tasse universitarie, segue una breve esperienza all’Accademia navale, dove viene subito spedito allo Stato Maggiore perché, si sostiene, ha attitudini al comando. Ma Falcone scopre presto che la vita militare non fa per lui e si iscrive alla facoltà di Giurisprudenza. Quando entra all’università, sa già che la sua strada sarà la magistraturaQuesto è anche il periodo in cui riesce a coltivare lo sport, una passione mai abbandonata: atletica, ginnastica, canottaggio e nuoto. Frequenterà la piscina comunale fino a metà degli anni ‘80, quando la vita blindata a cui è costretto non glielo consentirà più.  Nel 1962, ad una festa, conosce Rita e se ne innamora. Due anni dopo, mentre sostiene il concorso per entrare in magistratura, decidono di sposarsi.

L’ESORDIO IN MAGISTRATURA: TRAPANI  Nel 1965 ottiene il primo incarico come pretore a Lentini, dove si ferma due anni. Nel 1967 viene trasferito a Trapani, città in cui inizia la sua vera storia professionale e matura la sua cultura giuridica e politica. È lì, durante il processo contro le cosche del trapanese, che avviene il suo primo incontro con i clan e con un capomafia: Mariano Licari.
Dirà di lui Falcone nel 1985: “Mi imbattei in un boss di rango. Era Mariano Licari, un patriarca trapanese. Lo vidi in dibattimento, in Corte d’Assise. Era sufficiente osservare come si muoveva per intravedere subito il suo spessore di patriarca”. 
Alla fine il processo contro Licari viene trasferito in una sede diversa e naufraga: ancora una volta vince il cavillo della legittima suspicione la ricusazione di una Corte ritenuta dagli imputati “prevenuta”). Trapani non potè giudicare la sua mafia. “La giustizia subì una sconfitta”, dirà Falcone, ma quella battaglia gli fece intravedere una nuova strada da percorrere per potenziare le indagini e trovare altre prove: gli accertamenti patrimoniali sulla consistenza economica dei boss. È ancora a Trapani che il giovane magistrato si trova a rischiare per la prima volta la vita: mentre è in carcere come giudice di sorveglianza, a Favignana, un terrorista appartenente ai nuclei armati proletari lo prende in ostaggio puntandogli un coltello alla gola. In cambio del rilascio chiede e ottiene di poter fare delle dichiarazioni alla radio. Nel 1978 Giovanni Falcone chiede il trasferimento a Palermo e viene assegnato alla sezione fallimentare. Nel 1979 si separa dalla moglie e approda alla giustizia penale.

L’ARRIVO AL PALAZZO DI GIUSTIZIA DI PALERMO  L’attività di Giovanni Falcone al Palazzo di Giustizia di Palermo coincide con un momento molto grave per la città, che nel settembre del 1979 aveva assistito all’uccisione del giudice Cesare Terranova.

Rocco Chinnici, il magistrato che era stato mandato a dirigere l’Ufficio Istruzione e che da tempo invitava Giovanni Falcone a seguirlo, riesce finalmente a convincerlo. Da quel momento inizia per lui l’avventura professionale e umana più importante della sua vita.

IL PROCESSO A ROSARIO SPATOLA: IL BUSINESS DELLA DROGA OLTREOCEANO Appena Falcone comincia a leggere le carte delle indagini sull’imprenditore mafioso italo-americano Rosario Spatola, si rende conto di essersi imbattuto in un’inchiesta che riguarda i piani alti della mafia economica e finanziaria.  Un’inchiesta che, muovendo da Cosa nostra militare palermitana, passa per il mondo politico-finanziario di Michele Sindona e arriva fin negli Stati Uniti e al gruppo mafioso legato al faccendiere siciliano. Si tratta della più potente associazione criminale dell’epoca, che controlla in quegli anni il commercio mondiale della droga di cui reinveste gli enormi proventi in attività lecite dopo averli “ripuliti” attraverso le banche. Aprendo quel libro Falcone capisce subito di trovarsi di fronte a una realtà criminale di straordinaria pericolosità.Lo confermeranno la lunga catena di sangue che parte dagli omicidi interni a Cosa nostra e arriva ai delitti di servitori dello Stato come il vice-questore Boris Giuliano, il capitano dei carabinieri Emanuele Basile e il procuratore Gaetano Costa. Falcone non si ferma nonostante sappia bene quali rischi corra. Il metodo investigativo che rivoluzionerà la storia della lotta a Cosa nostra nasce allora. Estende le ricerche al campo patrimoniale, una via fino ad allora poco esplorata, riuscendo a superare il segreto bancario e ottiene la collaborazione di istituti di credito e finanziarie nazionali ed estere per ricostruire i movimenti di capitali sospetti. Il suo metodo lo espone ulteriormente, perché permette di indagare in modo efficace sui capitali del clan mafioso degli Spatola-Inzerillo. Si decide quindi di assegnargli la scorta: è il 1980. Da quel momento la vita blindata condiziona la sua quotidianità e il rapporto sentimentale da poco nato con Francesca Morvillo, magistrato alla Procura dei Minorenni. Lei, donna riservata, starà al suo fianco fino alla fine condividendo difficoltà e rinunce. Le indagini danno il risultato sperato e il processo Spatola si conclude con condanne esemplari. È la prima incrinatura nel muro dell’invincibilità di Cosa nostra. Ma la reazione non si fa attendere: il 29 luglio 1983 un’autobomba massacra Chinnici insieme alla scorta e al portiere della sua casa in via Pipitone. Le immagini di “Palermo come Beirut”, il palazzo di Chinnici devastati, fanno il giro del mondo. La città, che si sente profondamente violata e scossa, affida a Giovanni Falcone le paure e le speranze di riscatto. Il giudice diventa un simbolo. Chinnici è l’ennesima vittima dello Stato: la mafia aveva già ucciso il colonnello dei carabinieri Giuseppe Russo, il vice-questore Boris Giuliano, il capitano dei carabinieri Emanuele Basile, il giornalista Mario Francese, i presidenti della Regione Pio La Torre e Pier Santi Mattarella, il procuratore Gaetano Costa, il giudice Cesare Terranova, l’agente di polizia Calogero Zucchetto, il medico Paolo Giaccone, e, come estrema sfida, il prefetto Carlo Alberto Dalla Chiesa, mandato a Palermo, senza poteri e senza mezzi, per contrastare i clan. Verrà ucciso a colpi di kalashnikov con la moglie Emanuela Setti Carraro e l’agente Domenico Russo il 3 settembre del 1982, a 100 giorni dal suo insediamento.

IL POOL ANTIMAFIA  All’indomani dell’assassinio di Rocco Chinnici, come suo successore a dirigere l’Ufficio Istruzione viene mandato Antonino Caponnetto. È un magistrato siciliano quasi sconosciuto ai palermitani. Ha lavorato a lungo a Firenze e crede nelle capacità di Giovanni Falcone, che appoggerà e sosterrà.  Nasce il “pool antimafia”, la squadra che dovrà affrontare Cosa nostra per quel che è: non un insieme di bande, ma, secondo l’ipotesi di Falcone, che Caponnetto condivide, un’organizzazione unica con struttura verticistica al cui interno non esistono gruppi con capacità decisionale autonoma. Il lavoro parcellizzato di un tempo viene sostituito con l’indagine équipe, la condivisione delle informazioni per cogliere le relazioni e le dinamiche delle strategie di Cosa nostra.

Il frutto più importante dell’attività del pool, composto da Giovanni Falcone, Giuseppe Di Lello, Paolo Borsellino e Leonardo Guarnotta, sarà il maxi-processo. All’origine della mega-inchiesta c’è il rapporto di polizia redatto da Ninni Cassarà, vice questore della squadra mobile e stretto collaboratore di Falcone: è la ricostruzione minuziosa dell’origine della guerra di mafia che porterà i corleonesi di Totò Riina ai vertici dell’organizzazione criminale.

Alla fine del 1984 il pool è al massimo dell’impegno e dei risultati: a ottobre, in Canada, Falcone ottiene le prove che gli consentiranno di arrestare Vito Ciancimino con l’accusa di associazione mafiosa e di esportazione di capitali all’estero. Qualche giorno dopo vengono arrestati per mafia anche gli intoccabili esattori di Palermo, Nino ed Ignazio Salvo. La città guarda sbigottita la sfilata di manette eccellenti. Giovanni Falcone diventa simbolo di una Sicilia che cambia.

Mentre le indagini vanno avanti, il 28 luglio del 1985 la mafia reagisce con l’uccisione del commissario Beppe Montana, amico e braccio destro di Cassarà, e, qualche giorno, dopo, il 6 agosto, dello stesso Ninni Cassarà.  È un momento drammatico e Falcone corre un grave pericolo.

Così, quando Caponnetto viene informato che dal carcere è partito l’ordine di uccidere anche Giovanni Falcone e il collega Paolo Borsellino, che devono scrivere l’ordinanza sentenza di rinvio a giudizio del maxiprocesso, fa trasferire immediatamente entrambi all’Asinara, un’isola sperduta della Sardegna che ospita un carcere di sicurezza. I due magistrati e le loro famiglie per alcune settimane si trovano a vivere quasi da reclusi. Tornano a Palermo dopo un mese per consultare alcuni documenti custoditi nella cassaforte della Procura, carte necessarie a concludere il lavoro. Dopo qualche tempo gli verrà inviato dallo Stato il conto del soggiorno sull’isola: 415mila lire.

IL MAXIPROCESSO  L’8 novembre del 1985 il pool deposita l’ordinanza di rinvio a giudizio contro 475 imputati. Il 10 febbraio 1986 inizia il primo maxiprocesso a Cosa nostra, il traguardo più importante di Giovanni Falcone: ventidue mesi di udienze in un’aula bunker appositamente costruita in cemento armato, in grado di resistere anche ad attacchi missilistici e di dimensioni tali da poter contenere il gran numero di imputati e permettere ai giudici di lavorare in sicurezza. Alla sbarra il gotha di Cosa nostra.

Gli imputati sono accusati di 120 omicidi, traffico di droga, estorsione e associazione mafiosa. Le prove più significative – pazientemente riscontrate –vengono dal collaboratore di giustizia Tommaso Buscetta, il “boss dei due mondi”, catturato in Brasile due anni prima.

Il 16 dicembre del 1987 il presidente della Corte d’Assise, Alfonso Giordano, legge la sentenza. Tutti, il giudice a latere Piero Grasso, il pubblico ministero Giuseppe Ayala, i giurati popolari, centinaia di avvocati, restano in piedi per ore ad ascoltare il lungo elenco di condanne. Ai 339 imputati vengono inflitti 19 ergastoli e 2665 anni di carcere. Palermo, l’Italia scoprono che la mafia non è impunibile. L’“astronave verde”, come viene definita dai giornalisti di tutto il mondo l’aula bunker per il colore dei muri delle celle, diventa il simbolo del riscatto dello Stato e della Sicilia.

E’ passata la tesi dell’unicità di Cosa nostra nata all’epoca dell’inchiesta Spatola, confermata durante il maxiprocessoda Tommaso Buscetta. Ed è proprio l’ex boss, nato a poche centinaia di metri dalla piazza della Magione in cui era cresciuto Giovanni Falcone, a condurlo per mano nel labirinto di Cosa nostra.

“Prima di lui non avevo, non avevamo, che un’idea superficiale del fenomeno mafioso. – dirà nel libro ‘Cose di Cosa nostra’ – Con lui abbiamo cominciato a guardarvi dentro. Ci ha fornito numerosissime conferme sulla struttura, sulle tecniche di reclutamento, sulle funzioni di Cosa nostra. Ma soprattutto ci ha dato una visione globale, ampia, a largo raggio del fenomeno. Ci ha dato una chiave di lettura essenziale, un linguaggio, un codice. È stato per noi come un professore di lingue che ti permette di andare dai turchi senza parlare a gesti”. Qualche mese dopo, nel maggio del 1986, il giudice si sposa con Francesca Morvillo.

Ma la reazione al grande successo conseguito col maxiprocesso non si fa attendere. Caponnetto va in pensione ed è costretto a lasciare il pool. Tutti si aspettano che sia Falcone a prendere il suo posto, anche Caponnetto, che lo considera il suo erede naturale per esperienza e capacità di indagine. Non la pensa così il Consiglio Superiore della Magistratura che nomina alla guida dell’ufficio istruzione Antonino Meli, un magistrato di vecchia scuola che non condivide il metodo Falcone e di fatto smantella il pool.  Meli nega il principio cardine del maxiprocesso, cioè la struttura unitaria di Cosa nostra, e asseconda invece la vecchia tesi della mafia come insieme di bande criminali. Frantuma i processi e li distribuisce in vari uffici, col risultato disastroso di far perdere il nesso tra vicende che, senza un filo conduttore, diventano poco comprensibili. Comincia per Giovanni Falcone un periodo molto difficile.

L’ATTENTATO ALL’ADDAURA E LA CONGIURA DEL “CORVO”  Il 1989 è l’anno dei veleni al palazzo di giustizia di Palermo. Falcone viene accusato in un anonimo di aver fatto ritornare in Italia il pentito Salvatore Contorno, esponente della mafia perdente, sterminata dai corleonesi di Totò Riina, e di averlo coperto nel progetto di eliminazione dei capimafia nemici usciti vincitori dalla guerra tra clan. Falsità espresse in lettere anonime, passate alla storia come le lettere del “corvo”, ed inviate a vari rappresentanti delle istituzioni.

Il 20 giugno del 1989 Falcone sfugge a un agguato tesogli nella villa all’Addaura in cui trascorreva l’estate: un borsone con cinquantotto candelotti di dinamite posto sulla scogliera dove era solito fare il bagno, viene trovato per caso da un agente della scorta. La bomba viene disinnescata e l’attentato fallisce. È lo stesso Falcone a spiegare il senso di un attentato i cui reali contorni non sono mai stati chiariti. Il giudice parla di una manovra ideata in maniera perfetta da “menti raffinatissime”, adatta a dar credito alle accuse delle lettere diffamatorie del “corvo”. “Il contenuto delle accuse doveva essere il movente che aveva spinto la mafia a uccidermi. Sarei stato un giudice delegittimato perché scorretto, l’omicidio sarebbe stato giudicato quasi naturale”.

Dopo l’attentato dell’Addaura, per diretto interessamento del Presidente della Repubblica Francesco Cossiga, Falcone viene nominato dal Consiglio superiore della Magistratura procuratore aggiunto di Palermo. Ma il “corvo” continua ad avvelenare il clima del Palazzo di Giustizia. Pur avversato e ostacolato, Falcone va avanti. Già nel 1988 aveva collaborato con Rudolph Giuliani, procuratore distrettuale di New York, nell’operazione “Iron Tower”, inchiesta che aveva disarticolato due famiglie mafiose coinvolte nel traffico di eroina, quelle dei Gambino e degli Inzerillo. Nel gennaio ’90 coordina un’indagine che porterà all’arresto di quattordici trafficanti colombiani e siciliani. Il clima ostile del Palazzo cresce e Falcone si rende presto conto di trovarsi isolato. Teso il rapporto con il procuratore Piero Giammanco che ne ostacola sistematicamente il lavoro costringendolo a limiti angusti nella manovra delle indagini. Falcone avverte che a Palermo, non riesce più a lavorare come vorrebbe e che i quotidiani dissensi lo logorano. Decide così di accogliere l’invito del ministro di Grazia e Giustizia Claudio Martelli a ricoprire il ruolo di Direttore degli Affari Penali al Ministero dove prende servizio nel novembre del 1991.

AL MINISTERO DI GRAZIA E GIUSTIZIA Martelli dimostra subito di voler dare alla sua azione una forte connotazione antimafia e Falcone capisce quanto pot rebbe essere determinante il suo ruolo nell’elaborazione di nuovi strumenti legislativi per rendere più efficace il lavoro della magistratura contro la criminalità organizzata. Perciò fa in modo di semplificare e razionalizzare il rapporto tra pubblico ministero e polizia giudiziaria, istituendo una forma di coordinamento tra le varie procure. In un primo momento pensa di rivolgersi ai procuratori generali, ma vista la reazione negativa delle gerarchie della magistratura, decide di istituire una serie di Procure distrettuali con esclusive competenze di contrasto alla mafia e direttamente dipendenti dai capi degli uffici.  Per garantire, inoltre, la circolazione delle notizie in tutto il territorio nazionale e un’azione coordinata ed efficace suggerisce con successo la costituzione di un ufficio centrale nazionale che prenderà il nome di Direzione Nazionale Antimafia, generalmente nota come Superprocura. Ma quando Falcone viene indicato come il naturale candidato a questo nuovo ufficio, come un copione che si ripete, subisce l’ostilità di molti colleghi, che lo accusano di voler impadronirsi di uno strumento di potere da lui stesso ritagliato sulla sua persona.

Non è la Superprocura l’unico strumento di contrasto alla mafia pensato da Falcone. In quello stesso periodo vengono gettate le basi per la nascita di norme e leggi che regolano la gestione dei collaboratori di giustizia. Sul piano della necessità di impedire la comunicazione tra i boss in carcere e i mafiosi in libertà, prende corpo il cosiddetto carcere duro: cioè una forma di carcerazione differenziata (il 41 bis) per mafiosi e terroristi che solo dopo la morte di Falcone verrà però realizzato.

Il 30 gennaio del 1992, con una sentenza storica, la Cassazione riconosce valido l’impianto accusatorio che aveva portato alla sentenza di primo grado del maxi processo. La Suprema Corte ripristina gli ergastoli e le condanne per boss e gregari annullati in appello. Il cosiddetto “teorema Buscetta” è sancito definitivamente. Il maxi-processo ha retto alla prova finale.

L’apice del successo sarà proprio l’inizio della fine del giudice. Cosa nostra si trova a fare i conti con le condanne definitive. Totò Riina lo condanna a morte. Falcone sa da anni che il conto con la mafia è aperto e vive con la certezza che prima oi poi quel conto Cosa nostra lo salderà.

LA STRAGE DI CAPACI  Il 23 maggio 1992, Giovanni e la moglie Francesca, di ritorno da Roma, atterrano a Palermo con un jet del Sisde, un aereo dei servizi segreti partito dall’aeroporto romano di Ciampino alle ore 16,40.  Tre auto blindate li aspettano.  È la scorta di Giovanni, la squadra che ha il compito di sorvegliarlo dopo il fallito attentato del 1989 dell’Addaura   Dopo aver imboccato l’autostrada che porta a Palermo, all’altezza dello svincolo di Capaci, una terrificante esplosione disintegra il corteo di auto e uccide Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e agli agenti della scorta, Rocco Dicillo, Antonio Montinaro e Vito Schifani.

LA RINASCITA  La morte di Giovanni Falcone rappresenta paradossalmente l’inizio della fine per Cosa nostra. Scossa dal tritolo di Capaci, Palermo si risveglia, scende in piazza e grida forte il suo no alla mafia.

Il 19 luglio del 1992, a 57 giorni dall’attentato, la mafia torna ad alzare il tiro e uccide Paolo Borsellino, collega e amico di una vita di Falcone, e la sua scorta.
Lo Stato decide di fare sul serio nella lotta alle cosche. 
Tutti i più grandi latitanti, tranne il boss Matteo Messina Denaro, sono in prigione e l’azione della magistratura e delle forze dell’ordine non si è mai fermata. Nella società è certamente cresciuta e si è consolidata una coscienza antimafiosa. Un risorgimento civile che, però, deve essere tenuto vivo. Nella guerra allo Stato la mafia è pronta ad approfittare di ogni indecisione. Per questo è fondamentale l’impegno delle istituzioni e, soprattutto, la vigilanza della societàSpetta a tutti noi mantenere alto l’esempio lasciato da Giovanni Falcone e portare avanti la lezione di legalità e di amore per lo Stato che il magistrato ci ha lasciato.  Fondazione Giovanni Falcone

19 Gennaio1987,  mentre il maxiprocesso di Palermo si avviava alla sua conclusione, il Dott. Caponnetto dovette per ragioni di salute e suo malgrado fare ritorno a Firenze. Il Dott. Caponnetto si convinse di dare le dimissioni anche perché gli era stata data rassicurazione che il suo posto sarebbe andato al Dott. Falcone, tanto da dichiararlo anche pubblicamente. Tutti dunque si aspettavano che il successore fosse il Dott. Giovanni Falcone, ma il 19 gennaio 1988 il Consiglio Superiore della Magistratura gli preferì Antonino Meli, un magistrato a due anni dalla pensione che non aveva alcuna esperienza in materia di processi di mafia e che di fatto smembrerà il pool antimafia. Questa decisione del CSM venne presa anche per merito delle polemiche emerse un anno prima con l’articolo di Sciascia sui “Professionisti dell’Antimafia”, dunque il CSM era orientato a tornare al criterio dell’anzianità rispetto a quello della competenza che aveva fatto vincere il posto di Procuratore Capo a Marsala al Dott. Borsellino.

I nemici di Falcone dentro e fuori allo Stato riuscirono a reclutare contro il magistrato giudici togati e di nomina politica provenienti da tutta italia. Le correnti si spaccarono. Il relatore Umberto Marconi sostenne che “Accentrare il tutto in figure emblematiche pur nobilissime è di certo fuorviante e pericoloso… c’è un distorto protagonismo giudiziario… si trasmoda nel mito”. L’affondo finale venne da Vincenzo Geraci (definito dal Dott. Borsellino un giuda), il pubblico ministero che aveva accompagnato Falcone in Brasile per l’interrogatorio di Buscetta: “Se da un lato, infatti, le notorie doti di Falcone e i rapporti personali e professionali che coltivo con lui mi indurrebbero a preferirlo nella scelta, a ciò mi è però dì ostacolo la personalità di Meli, cui l’altissimo e silenzioso senso del dovere, costò in tempi drammatici la deportazione nei campi di concentramento della Polonia e della Germania, dove egli rimase prigioniero per due anni. In tali condizioni vi chiedo pertanto di comprendere con quanta sofferenza e umiltà mi sento portato ad esprimere il mio voto di favore.”.

Fu così che il Plenum del CSM il 19 gennaio 1988 votò: A favore di Meli si espressero in 14:

Agnoli Francesco Mario, Borrè Giuseppe, Buonajuto Antonio, Cariti Giuseppe, Di Persia Felice, Geraci Vincenzo, Lapenta Nicola, Letizia Sergio, Maddalena Marcello, Marconi Umberto, Morozzo della Rocca Franco, Paciotti Elena Ornella, Suraci Sebastiano, Tatozzi Gianfranco

A favore di Falcone invece si espressero in 10: Abbate Antonio Germano, Brutti Massimo Calogero Pietro, Caselli Gian Carlo (in dissenso con la corrente di Magistratura Democratica cui apparteneva), Contri Fernanda, D’Ambrosio Vito, Gomez d’Ayala Mario, Racheli Stefano, Smuraglia Carlo, Ziccone Guido

Si astennero in 5: Lombardi Bartolomeo, Mirabelli Cesare (Vicepresidente), Papa Renato Nunzio, Pennacchini Erminio, Sgroi Vittorio

In quegli anni il Dott. Falcone, unitamente al pool, oltre ad essere accusato venne anche isolato, e quella nomina di Meli rese il Dott. Falcone un bersaglio molto più facile per la mafia (due anni dopo subirà un attentato, che fortunatamente fallirà), perché la sua sconfitta aveva dimostrato che non era stimato come si credeva. C’è da fare una precisazione molto importante, il Dott. Meli aveva fatto domanda per un altro posto, quello di Presidente del Tribunale di Palermo. Ma la notte prima della scadenza del bando per il nuovo capo dell’Ufficio Istruzione, ricevette una telefonata da un collega che lo convinse a candidarsi per quel posto, anche se meno prestigioso. 

La sconfitta personale del Dott. Falcone era sotto gli occhi di tutti: il Dott. Caponnetto prima e il Dott. Borsellino poi avrebbero dichiarato dopo la sua morte che il Dott. Falcone aveva iniziato a morire proprio quella notte, quando Meli diventò Consigliere istruttore al suo posto. Il risultato 14 a 10 con le strategiche astensioni fu il frutto di una strategia costruita a tavolino. In particolare il Dott. Borsellino, in un convegno organizzato da La Rete e da MicroMega il 25 giugno 1992, a proposito della mancata nomina del Dott. Falcone come capo del pool antimafia e in riferimento all’articolo di Sciascia, disse: 

“Tutto incominciò con quell’articolo sui professionisti dell’antimafia” e aggiunse “Il vero obiettivo del CSM era eliminare al più presto Giovanni Falcone” e continuó “Quando Giovanni Falcone solo per continuare il suo lavoro, propose la sua aspirazione a succedere ad Antonino Caponnetto, il Consiglio superiore della magistratura, con motivazioni risibili gli preferì il consigliere Antonino Meli. Falcone concorse, qualche Giuda si impegnò subito a prenderlo in giro, e il giorno del mio compleanno il CSM ci fece questo regalo. Gli preferì Antonino Meli.”

cosa nostra intanto assassinò l’ex sindaco di Palermo Giuseppe Insalaco (il 12 gennaio 1988), che aveva denunciato le pressioni subite da parte di Vito Ciancimino durante il suo mandato. Tempo dopo, i due membri del pool Di Lello e Conte si dimisero polemicamente. Non ultimo, persino la Cassazione sconfessò l’unitarietà delle indagini in fatto di mafia affermata da Falcone.

Il 30 luglio Falcone richiese addirittura di essere destinato a un altro ufficio, e Meli, ormai in aperto contrasto con Falcone, come predetto da Borsellino, sciolse ufficialmente il pool. Un mese dopo, Falcone ebbe l’ulteriore amarezza di vedersi preferito Domenico Sica alla guida dell’Alto Commissariato per la lotta alla Mafia. Nonostante gli avvenimenti, tuttavia, Falcone proseguì ancora una volta il suo straordinario lavoro, realizzando un’importante operazione antidroga in collaborazione con Rudolph Giuliani, allora procuratore distrettuale di New York.  (Fonte: WikiMafia)


a cura di Claudio Ramaccini – Direttore Centro Studi Sociali contro le mafie – PSF