Mio padre non era un eroe

 


Molte persone definiscono mio padre un eroe
 però gli eroi sono persone che vivono in modo diverso e hanno abilità soprannaturali, mentre mio padre era una persona assolutamente normale. Una persona che svolgeva in modo corretto il proprio dovere». 

Mio padre non era un eroe, era solo una persona che faceva il proprio dovere” ha detto la figlia, lei non lo ha mai considerato come un eroe contemporaneo, piuttosto, dal punto di vista familiare un padre fantastico che ha fatto bene il suo lavoro di magistrato.

Mio padre appena aveva del tempo libero, andava nelle scuole a parlare ai giovani perché lui diceva che si poteva vincere la mafia solo grazie alla cultura.

In casa abbiamo sempre saputo che papà correva dei rischi, io sono cresciuta nella consapevolezza che poteva morire ogni giorno. Tutti gli anni Ottanta sono stati attraversati da lutti e delitti che ci hanno toccato da vicino, dal capitano Emanuele Basile al procuratore Gaetano Costa, dal generale Carlo Alberto dalla Chiesa a Rocco Chinnici, da Beppe Montana a Ninni Cassarà (tutte vittime della mafia, uccise insieme a molte altre tra il 1980 e il 1985, ndr).

Quando uscivo di casa con lui mi lanciavo in strada per prima, in modo che se qualcuno avesse spa rato avrebbe colpito me al posto suo. Mi illudevo di poterlo salvare così, nella mia immaginazione era un eroe invincibile. A proteggerlo c’era la scorta, ma anche noi: io che nella mia ingenuità ero pronta a morire per lui, e tutta la famiglia che l’ha sempre accompagnato e sostenuto in ogni momento e scelta della sua e della nostra vita. Io ero la più piccola, e fino all’ultimo non ho mai abbandonato questo ruolo che piaceva sia a mio padre che a me.

Io e mio padre avevamo un rapporto particolare perché a differenza di Lucia e Manfredi, sempre molto posati, studiosi e ubbidienti, io ero molto proiettata verso l’esterno, avevo un forte senso di indipendenza che poteva essere scambiato per ribellione: a 13 anni volevo viaggiare da sola, papà cercava di frenarmi e mi diceva: “Ma dove vai? Se poi m’ammazzano come fanno ad avvisarti?”. Era un modo per trattenermi, ma anche per esorcizzare il pericolo. E di prepararci a quello che poteva succedere: piccoli messaggi, lanciati di tanto in tanto, per non farci trovare impreparati.ersone che vivono in modo diverso e hanno abilità soprannaturali, mentre mio padre era una persona assolutamente normale. Una persona che svolgeva in modo corretto il proprio dovere». 

Io intuivo che la tragedia era sempre dietro l’angolo, l’assoluta precarietà della sua e della nostra esistenza, ma il suo modo di mescolare la minaccia con la normalità è stata una forma di protezione nei nostri confronti. Anche dopo il 23 maggio, il giorno della strage di Capaci, pur nel dramma più totale abbiamo proseguito la vita di sempre. Com’era accaduto in passato di fronte agli altri omicidi, o alla tragedia del liceo Meli che segnò mio padre più di ogni altra. La morte di quei due studenti (Biagio Siciliano e Giuditta Milella, di 14 e 17 anni, ndr) travolti da un’auto della sua scorta la visse come la perdita due figli. Non si dava pace. Che lui potesse morire, e con lui qualcuno di noi, era nel conto; ma che venissero colpiti gli uomini della sicurezza, o addirittura degli estranei coinvolti casualmente, non poteva accettarlo. «Con questi pesi nel cuore è andato avanti, trovando la forza in noi che abbiamo camminato sempre al suo fianco, come un monolite inarrestabile.

Lui ci aiutava sdrammatizzando. Ogni tanto scherzava: “Dopo che mi avranno ammazzato diventerete ricchi con i risarcimenti che lo Stato dovrà versare”. Oggi so che era un modo per farci capire quanto le istituzioni sarebbero state responsabili della sua dipartita.

L’estate del ‘92 volevo andare in Africa, ma un po’ per le apprensioni di mio padre e un po’ per la tragedia di Giovanni Falcone trovammo un compromesso: mi lasciò partire per l’Indonesia insieme alla famiglia del suo migliore amico, Alfio Lo Presti. Un altro spicchio di normalità, ritagliato nel momento più buio. Telefonavamo a casa ogni volta che potevamo, ma spesso non lo trovavamo, per lui erano giorni di lavoro incessante. Ho ancora davanti a me l’immagine di Alfio chiuso in una cabina che sbatte la cornetta contro il telefono e scoppia in lacrime, quando venimmo a sapere della strage. Poi l’incubo del ritorno verso casa. Il giorno in cui morì eravamo riusciti a parlare con papà quando in Italia era ancora molto presto, ma nella mia mente i ricordi si sovrappongono. Di sicuro ho cominciato a pensare, e lo penso ancora oggi, che quel viaggio potrebbe avermi salvato la vita. Perché se fossi stata a Palermo, dopo la domenica trascorsa al mare, probabilmente l’avrei accompagnato dalla nonna, e sarei morta con lui. Invece sono sopravvissuta, e per essere la donna che sono diventata ho dovuto affrontare un lungo percorso, seguendo il principale insegnamento di papà: fare il proprio dovere. Ho continuato a studiare, ho costruito il mio futuro gettando le basi per mettere su una famiglia. A 19 o 20 anni non puoi avere gli strumenti per comprendere appieno quello che ti sta accadendo intorno, il che non significa delegare ad altri la domanda di verità: noi quella l’abbiamo sempre chiesta, a partire dal 20 luglio 1992. Ma ci sono consapevolezze che si acquisiscono nel tempo.

 

 

Dopo la strage ho terminato gli studi all’università, ho cominciato a lavorare con una dedizione che non mi concedeva molto spazio per l’impegno civile. Insieme ai miei fratelli abbiamo seguito mia madre nella sua lunga malattia, e siamo rimasti in rispettosa attesa nei confronti delle istituzioni giudiziarie che dovevano darci delle risposte. In fondo anche questo è stato un insegnamento di nostro padre: avere fiducia nell’amministrazione della giustizia. C’erano i processi, abbiamo aspettato che si concludessero. Nel frattempo ho messo al mondo due bambine, Felicita e Futura, che oggi hanno 8 e 6 anni e rappresentano il mio paradiso: sono loro a darmi la forza di guardare l’inferno che s’è spalancato davanti ai miei occhi quando ho scoperto i depistaggi fabbricati da alcuni investigatori, di fronte ai quale i magistrati non hanno sorvegliato o si sono voltati dall’altra parte. Ora che le mie figlie sono cresciute mi posso permettere di dedicarmi anche ad altro, la mia famiglia mi concede il tempo e il sostegno necessario a studiare le carte processuali e girare l’Italia per denunciare uno scandalo di cui ancora non si vede la fine. Forse in passato qualcuno ha scambiato la nostra educazione e il nostro rispetto verso le istituzioni per superficialità e buonismo, ma ha sbagliato i suoi calcoli. Prima la nostra casa era sempre piena di amici, falsi amici, mitomani, controllori che volevano verificare le nostre reazioni e tenerci buoni; adesso non ci cerca più nessuno, siamo soli. Ma non importa, abbiamo ugualmente la forza per andare avanti.

A forza di studiare verbali, perizie e sentenzemi sono fatta una certa competenza, e posso dire che la responsabilità dei depistaggi portati alla luce dal pentito Gaspare Spatuzza nel 2008 (si autodenunciò per la strage smascherando il falso pentito Vincenzo Scarantino, ndr) non è solo degli investigatori che hanno costruito a tavolino una falsa verità. I pubblici ministeri che negli anni Novanta hanno condotto le indagini e sostenuto l’accusa nei processi, non hanno visto o non hanno voluto vedere. A parte il balletto delle ritrattazioni e controritrattazioni, dopo un confronto tra Scarantino e un collaboratore del calibro di Salvatore Cancemi che implorava i magistrati di non credere alle bugie di quel personaggio, hanno evitato di depositare le trascrizioni lasciando che il depistaggio proseguisse. E chi s’è accorto che qualcosa non andava s’è limitato a un paio di lettere messe agli atti. Mio padre nel 1988 denunciò pubblicamente lo smantellamento del pool antimafia, e per questo rischiò di finire sotto processo disciplinare davanti al Csm; è stato lui a insegnare a me, ma prima ancora ai suoi colleghi, che le ingiustizie vanno svelate.

Il male non lo commette solo chi uccide, anche l’indifferenza è colpevole. Sulla strage di via D’Amelio c’è stata una regia occulta per sviare le indagini agevolata dalle sentinelle rimaste in silenzio. È come se un medico vedesse una cartella clinica palesemente falsa e non dicesse nulla. La cosa più incredibile di questa vicenda non è che qualcuno abbia depistato, perché questo purtroppo è accaduto più volte nella storia d’Italia, ma che nessuno si sia messo di traverso nonostante le carte parlassero da sole, fin da subito. Nella migliore delle ipotesi i magistrati sono stati funzionali al depistaggio con la loro incapacità o insipienza, e ancora oggi non ho sentito nessuno ammettere di aver sbagliato e chiedere scusa.

Sono andata in carcere a trovare gli assassinie ho capito i veri morti erano loro, perché non possono vedere crescere i figli, stare con le loro mogli. Personalmente credo che questa sia veramente la punizione peggiore».

Quando ho chiesto e ottenuto di incontrare in carcere i fratelli Giuseppe e Filippo Graviano (due dei capimafia responsabili della strage di via D’Amelio, ndr) l’ho fatto per l’urgenza emotiva di condividere il dolore non solo con le persone vicine e affini, ma anche con chi quel dolore ha provocato. Guardarli e farmi vedere in faccia. E seppure non ci sono stati risultati tangibili, penso che per loro trovarsi di fronte a una vittima qualche effetto l’abbia provocato. Giuseppe è stato arrogante e quasi offensivo chiamando Paolo Borsellino “la buonanima di suo padre”, e ho notato una certa strafottenza mentre si vantava del figlio che è riuscito ad avere durante il “carcere duro”. Ma sono convinta che ad uscire rafforzata da quei colloqui sono stata io, non loro; loro sono i veri morti di questa storia, non io che vivo insieme a mio padre in ogni momento della mia esistenza. Ho fatto un salto nel buio che è servito a farmi sentire più forte, più determinata a chiedere spiegazioni. Io non cerco altre risposte precostituite, voglio solo ricostruire gli anelli di una catena. Lo ritengo un mio dovere, se ognuno avesse fatto il suo in questi anni oggi non saremmo a questo punto. Mio padre ha fatto tutto ciò che ha potuto non solo per processare i mafiosi ma anche per sconfiggere la cultura mafiosa, senza mai smettere di parlare ai giovani che sono la speranza per il futuro. È quello che provo a fare anch’io, perché in fondo pure le coperture e l’omertà istituzionale che hanno avallato i depistaggi rientrano nella cultura mafiosa.

E’ importante ricordare i fatti successi, così poi, quando ricapiteranno tu sarai libero di scegliere. I mafiosi non hanno avuto scelta, non avevano alternative.

Ma non impiccherò la mia vita a questa storia, non voglio rimanere inchiodata all’ingiustizia subita. La verità sulla strage di via D’Amelio e quello che è successo dopo non riguarda solo la nostra famiglia, ma l’intero Paese. E anche se non arriveremo a ricostruirla per intero, e dopo 27 anni so bene che è molto difficile, avrò comunque la consapevolezza di non dovermi rimproverare nulla. A differenza di altri.

Cerco di trasmettere ai giovani l’esempio di mio padre. Condivido con loro la mia esperienza personale che sento come un dovere civile. La scuola è un importante avamposto educativo dove far lievitare la consapevolezza della legalità e del rispetto delle regole. Quando parlo ai ragazzi colgo la loro attenzione, il loro desiderio di costruire una società migliore. Vado spesso anche nelle parrocchieche aprono le loro porte ai cittadini perché credo sia indispensabile poter dialogare nella maniera più ampia possibile per scuotere le coscienze e arrivare al cuore della gente. Bisogna abbattere il muro dell’omertà, della paura.

L’eredità lasciata da Paolo Borsellino ha tracciato un solco indelebile per edificare un futuro migliore, nell’ attesa che venga fatta chiarezza sui punti oscuri che ancora avvolgono la strage di via D’ Amelio.

I lunghi anni delle indagini e dei processi hanno scandito l’inesorabile passare del tempo, che in casi come questo compromette quasi per sempre la possibilità di arrivare alla verità. Ma non si deve smettere di tendere a essa perché significherebbe veramente perdere la speranza. Non è ammissibile. 

Mio padre era un cristiano vero, un fervente cattolico, ma soprattutto era una persona credibile, che ha fatto dell’impegno costante e quotidiano nell’ antimafia la sua ragione di vita. Io porto dentro i valori positivi che mi ha insegnato: il senso di giustizia, la legalità, la comprensione dell’uomo. È questa la vera strada da seguire per diffondere e far sentire il fresco profumo della libertà a chi si oppone all’ onestà.

Mio padre amava usare il rasoio a mano per farsi la barba anziché il rasoio elettrico perché in questo modo era costretto ogni mattina a guardarsi allo specchio. Guardandosi in faccia tutti i giorni, se mai ce ne fosse stato bisogno, lo aiutava a convincersi che certe cose non si possono proprio fare.

Vi fu un intreccio molto forte fra mafia e istituzioni, un intreccio che passa anche per quelli che erano i forti poteri economici di allora: uno dei pallini di mio padre era il dossier mafia e appalti, che fu prontamente chiuso pochi mesi dopo l’eccidio di via D’Amelio. Per far luce davvero su tutto, ci vorrebbe un grande contributo di onestà da quegli uomini delle istituzioni che sanno.

Mio padre giocava a calcio con i figli dei mafiosima ha deciso di cambiare strada. Palermo non gli piaceva e per questo ha deciso di amarla perché il vero amore è amare le cose che non ci piacciono e cambiarle.

 È avvenuto tutto questo per indifferenza, perché molti si sono girati dall’altra parte per non avere problemi, per paura di opporsi al sistema, per ansia di carriera, per trovare subito una risposta usando anche la scorciatoia più breve. Noi possiamo soltanto chiedere che si faccia chiarezza.

Mio padre era quello che ogni sera si guardava allo specchio e si chiedeva se quel giorno avesse meritato lo stipendio.

 

 

Mio padre ancora vive con noi, nella mia famiglia, nella società, nelle esperienze belle e coinvolgenti. Sono invece loro che sono morti : quelli che da 27 anni restano chiusi in carcere nel loro mutismo, senza collaborare con gli organi che dovrebbe scoprire la verità su quanto accaduto in quel periodo buio per la Sicilia e l’Italia.

I pentiti sono attendibili ? , “Alcuni si Spatuzza ha aperto il proprio cuore nonostante i delitti commessi , e si è veramente pentito rilevando cose importanti. Altri invece no, come per esempio quello Scarantino che fin da subito ha depistato le indagini, facendo anche inquisire molte persone che con l’attentato di via D’Amelio non c’entravano nulla. Quindi bisogna andare avanti con determinazione – ha aggiunto – e fare in modo che tutti operino per chiarire i fatti, magistrati compresi.

Mio padre cercò sempre la verità ma dopo la sua morte questa ricerca non è stata perseguita. Tutti sapevano e mio padre si definì un morto che camminava, ma nulla fu fatto per tutelare la sua incolumità. Dietro questa inerzia ci sono stati solo trasferimenti, molti testimoni non furono sentiti al processo per la sua morte e per quella degli uomini della scorta.

Abbiamo convissuto tutta la vita con il pericolo. Sapevamo che quella era l’unica strada percorribile e questo ci ha dato la forza di combattere e di vincere la paura. In quei 57 giorni (il periodo fra la strage di Capaci e quella di via D’Amelio, ndr) si distaccò da noi, era avvolto in una tristezza di fondo, la tristezza di chi andava incontro al sacrificio.

Mio padre e Falcone non erano santi ma uomini comuni che compievano il loro dovere». Una curiosità: «Mio padre era appassionato di linguaggi: sapeva interpretare le allusioni, le ambiguità, i silenzi e i gesti della Sicilia e dei siciliani, dove spesso le parole significano altro. Con Giovanni Falcone capì che per muoversi nella giungla del linguaggio mafioso bisognava parlare la stessa lingua, che lui stesso aveva appreso sin da ragazzo nel quartiere palermitano La Kalsa, giocando con i figli dei mafiosi. Apprese quel linguaggio e lo utilizzò negli interrogatori. Buscetta fu come un insegnante di lingua straniera.

La morte di mio padre arrivò al culmine dell’odio della compagine mafiosa contro coloro che combattevano l’illegalità». L’isolamento di Falcone e Borsellino. «Quando mafia e Stato si mettono d’accordo gli uomini come mio padre restano isolati. Dalle istituzioni, dai colleghi, dalle persone. Lo strumento mafioso più potente è l’omertà che si combatte con lo studio e la cultura.

Mio padre diceva sempre ‘morirò quando la mafia avrà assoluta certezza che sarò rimasto da solo e quando altri lo permetteranno.

Mi piace innanzitutto ricordare un uomo e un padre meraviglioso, sempre presente, arguto, Paolo Borsellino, di cui voglio conservare un ricordo intimo e riservato. Ma voglio rammentare anche il giudice Paolo, proprio attraverso le parole che egli ha dedicato ai giovani – forse le frasi più belle e ricche di significati perché lui amava i ragazzi – che oggi devono costituire un monito per ciascuno di noi. La lotta alla mafia prima di tutto è un movimento morale e culturale che deve abituare tutti a sentire il profumo della libertà, in opposizione al puzzo, al marciume delle infiltrazioni mafiose. Mafia e politica rappresentano due poteri che agiscono per il controllo dello stesso territorio e, pertanto, o si fanno la guerra oppure scendono a compromessi. I libri, non le pistole servono per combattere la mafia, non dobbiamo ricorrere alle conoscenze giuste ma possedere la giusta conoscenza che solo la scuola ci può dare. Siamo invitati a fornire esempi concreti e a porre in essere azioni visibili per realizzare e onorare gli ideali perseguiti da mio padre, promuovendo la legalità, i principi di buona amministrazione e di non complicità con le organizzazioni malavitose. 

 

 

Anche nei momenti più difficili non smetteva mai di sorridere anche utilizzando come antidoto alla paura l’ironia, che permetteva di sdrammatizzare. Il 19 luglio 1992 noi eravamo ragazzi adolescenti, tra i 19 e i 22 anni. A quell’età è facile lasciarsi un po’ andare e se non si trovano delle risorse interiori. Abbiamo scelto la strada della vita, se non avessimo fatto così avremmo totalmente sconfessato quelli che sono stati gli insegnamenti di mio padre”.

Aveva capito molto del marcio che c’è all’interno delle istituzioni e, ahimè, anche all’interno della sua stessa categoria. Nonostante ciò ha lottato sino alla fine per dare un’immagine diversa della magistratura e conoscendo la sua ironia probabilmente ora si sta facendo una bella risata. Gli hanno intitolato vie, piazze e aule di tribunali, ma l’unico modo concreto per rendergli onore era fare giustizia e invece si è lavorato in direzione opposta.

Gli esempi di questi uomini, il loro vissuto anche se conclusosi tragicamente, deve essere patrimonio comunee ci insegna che nella vita è importante dire da che parte stiamo e se scegliamo di stare dalla parte giusta, compiamo un atto d’amore nei confronti della nostra terra e dei nostri simili. È ciò che fece mio padre, mise la sua esistenza, il suo operato, a disposizione della sua gente, per liberarla dalla schiavitù della mafia, che non è altro che un organizzazione criminale che segue la via della ricchezza acquisita attraverso affari illeciti.

Ma la mafia è anche nella mentalità che portiamo dentro. Ognuno di noi è un po’ mafioso, quando cediamo alle scorciatoie e usiamo la prepotenza e la sopraffazione per raggiungere degli obiettivi. Spesso le organizzazioni criminali, si nutrono proprio del consenso dei giovani, e quando questi ultimi smetteranno di essere solidali e compiacenti, si comincerà a respirare un’aria di libertà.

La mafia si alimenta della paura di chi non ha il coraggio di denunciaremio padre ha sempre creduto nello stato e nonostante fosse cresciuto in un quartiere popolare di Palermo, dove frequentava anche i figli dei mafiosi, già da piccolo scelse da che parte stare e maturò molto presto, la necessità di fare qualcosa per la sua terra, diventando un giovane magistrato.

 

 

Si occupò di mafia dopo che il capitano Basile e sua figlia piccola, furono uccisi, in un periodo storico durante il quale, molti innocenti persero la vita, a dimostrazione che tutti siamo vittime di questo sistema e tutti paghiamo un prezzo.

Soltanto la scuola, la cultura, la verità, la libertà, che sono diritti che nessuno può violare «possono darci la consapevolezza dei nostri doveri e la lotta alla mafia, si può fare con la conoscenza giusta, denunciando i soprusi e superando la paura.

Paolo Borsellino non era un eroe ma un uomo che voleva meritare il suo stipendio, come tutti noi, anch’egli aveva spesso paura, ma è necessario che insieme ad essa, conviva anche il coraggio.

Ha avuto sempre la sua famiglia accanto e anche quando i pericoli erano concreti, non gli abbiamo chiesto di fermarsi.

Mio padre sapeva che sarebbe mortonel momento in cui le istituzioni deviate lo avrebbero permesso e i suoi principali nemici, oltre alla mafia stessa, erano collocati proprio all’interno delle istituzioni, che non ebbero la reale volontà di combattere questo mostro. E mio padre, nonostante non si fosse mai sentito solo, in quel preciso momento fu abbandonato, non venne protetto, e la mancanza di responsabilità morale, prese il sopravvento, segnando il suo destino. 

 

 Mio padre è morto con dignità, perché è anche vissuto con dignità. Però credo anche che possa vivere e morire con dignità chi, avendo fatto del male, riconosce il danno che ha fatto alle famiglie e alla società e ripara il danno. Credo che la giustizia in sé non sia un giudizio eterno e incontrovertibile, si configura come un equilibrio di molteplici poteri e verità. Avendo delle figlie, so che una verità non è davvero sensata se non può essere spiegata a una bambina di 8 anni. Io dico sempre alle mie figlie che non bisogna mai smettere di sognare, forse io stessa sono una bambina che crede nel cambiamento, quello vero, delle coscienze.”

 

La denuncia di Fiammetta Borsellino