PAOLO BORSELLINO testimonianze – CULTURA e GIORNALISMO

 

GIUSEPPE D’AVANZO – Giornalista scrittore 

 E ORA BORSELLINO ATTENDE... Alle otto in punto, come sempre, Paolo Borsellino è nel suo ufficio di procuratore aggiunto di Palermo. Con un peso sulle spalle in più. Detto nel più semplice dei modi, il governo – il ministro degli Interni – vede in lui l’uomo che può raccogliere l’eredità di Giovanni Falcone, il giudice che può continuare il lavoro interrotto dal tritolo di Capaci. Vincenzo Scotti glielo chiede esplicitamente: deve essere Borsellino il nuovo procuratore nazionale antimafia. Paolo Borsellino è nervosissimo. Ha il volto tirato, ha modi inusualmente bruschi. E’ stato a Roma nel pomeriggio di giovedì, è tornato a Palermo nella notte. Dalle 8 in punto il telefono non smette di trillare. Paolo Borsellino è stanco di interviste. Lo dice chiaro e tondo: “Non posso vivere così, signori miei. Non sono abituato e non voglio abituarmi a lavorare con i giornalisti in attesa fuori la porta”. Ma è l’uomo del giorno, è l’uomo che la strage di Capaci ha chiamato sotto i riflettori. Procuratore Borsellino, quando il governo ha chiesto la sua disponibilità per la Procura nazionale antimafia? “Nessuno ha chiesto la mia disponibilità”. Nessuno le ha anticipato la proposta del ministro degli Interni Scotti? “No, ho ascoltato per la prima volta la proposta di Scotti in pubblico, come tutti alla presentazione del libro di Pino Arlacchi”. In ogni caso, ora, la proposta c’ è. Scotti, a nome del governo si augura che, dopo la morte di Giovanni Falcone, si riaprano i giochi per l’incarico di Superprocuratore e auspica che lei presenti la sua candidatura. Che cosa farà? “Io non considero questo problema attuale. Non posso non considerare che è in corso una procedura che deve avere, avrà i suoi sbocchi naturali”. Martelli ha annunciato oggi che sta predisponendo un provvedimento legislativo che possa riaprire i termini per la presentazione delle candidature. Ora ammettiamo che quest’ iniziativa vada in porto. Lei presenterà la domanda? “Quando, e se, il problema diventerà attuale come tutti gli altri possibili ed eventuali candidati valuterò l’opportunità di presentare domanda”. Della necessità di un organismo giudiziario che coordini le indagini antimafia Borsellino non ha dubbi. Lo ha ripetuto anche ieri dai microfoni del Gr1. Gli hanno chiesto: rimane l’esigenza di avere un nucleo centrale dove convogliare le indagini? Ha risposto: “La gestione del tutto insoddisfacente delle dichiarazioni di Calderone hanno inciso enormemente sulla decisione di Falcone di lasciare la procura di Palermo. Giovanni si era reso conto che, con l’imposizione di una visione parcellizzata del fenomeno mafioso, non fosse possibile da un’unica sede giudiziaria ripetere quello che era successo nella fase originaria del maxi- processo. Ebbe l’occasione di andare a lavorare al ministero di Grazia e Giustizia dove si impegnò soprattutto nello studio di un organismo giudiziario che potesse ricreare, anche se per diversa via, quelle condizioni che erano proprio alla base della filosofia del pool antimafia”. Allora, qual è la chiave? “Il lavoro di Falcone al ministero ebbe, sotto questo profilo, successo. Si è arrivati alla creazione di questo organismo in grado di avere una visione d’ assieme rispetto alle singole fette dei vari processi che si occupano di organizzazione mafiosa. Purtroppo l’assassinio ha stroncato la possibilità di utilizzare questo strumento che avrebbe, anche se per via diversa, ricreato le condizioni in cui operò, nel suo periodo migliore, il pool antimafia di Palermo”. Paolo Borsellino oggi più che della sua candidatura preferisce parlare di quanto sarebbe stato utile Falcone come procuratore nazionale antimafia. Procuratore, tuttavia, Giovanni Falcone si è trovato molto isolato quando ha sostenuto la nascita della Direzione nazionale antimafia. “Giovanni a volte peccava di ottimismo presupponendo che i magistrati potessero sostenere le sue iniziative. Peccò di ottimismo quando doveva prendere il posto di Antonino Caponnetto all’ ufficio Istruzione, quando si candidò al Consiglio superiore della magistratura, quando si mise in corsa per la Superprocura. In più occasioni non è stato sostenuto dall’ associazione dei magistrati, dal Csm”. Non è che a Palermo, Falcone abbia avuto miglior sorte “Voglio sfatare questo luogo comune. Io credo che a Palermo, presso la magistratura siciliana, la media del consenso nei suoi confronti sia stata più alta che altrove. La gran parte dei magistrati di Palermo, anche quelli che hanno avuto con lui dei disaccordi, sapevano che il procuratore nazionale antimafia doveva essere lui”. Lei si è dato molto da fare nella sua corrente per sostenere la candidatura di Giovanni Falcone… “Io ho assunto posizioni pubbliche. Ad un convegno a Torino di Magistratura Indipendente ho sostenuto che la corrente dovesse appoggiare Giovanni Falcone…”. Risulta, in verità, che lei abbia fatto di più: con la collaborazione di Ernesto Staiano, avrebbe conquistato il consenso per Falcone di quattro dei cinque membri di Magistratura Indipendente presenti nel Csm. Voti utilissimi che avrebbero dato a Falcone la maggioranza nel plenum del Consiglio. “Sì, io avevo tratto la conclusione che la nomina di Giovanni a procuratore nazionale antimafia era sostenuta dai numeri, era cosa fatta”. Ora potrebbe toccare a lei diventare procuratore antimafia. Hanno molto impressionato in questi giorni alcune sue dichiarazioni. L’ ultima in ordine di tempo è questa. Lei ha detto stamattina al Gr1: “Ciò che è difficile questa volta è trovare lo stesso entusiasmo. Spero che l’entusiasmo me lo possa far tornare una rapida conclusione delle indagini sull’ assassinio di Falcone”. “Non nascondo, l’ho detto pubblicamente, di avere paura di perdere l’entusiasmo per il mio lavoro di magistrato. Nonostante questo timore continuerò a lavorare in questo ufficio dove mi trovo benissimo, continuerò a lavorare come sempre, come da anni faccio, con lo stesso impegno”.  Repubblica 30 maggio 1992


ALESSANDRA TURRISI – Giornalista scrittrice 

PAOLO BORSELLINO: LA FEDE DI UN UOMO GIUSTO – Nell’anniversario della morte, un ritratto inedito del giudice antimafia che fondava il suo servizio per la giustizia su una vita cristiana profonda ma non ostentataPer Paolo Borsellino l’attenzione all’uomo veniva prima di tutto. Si trattasse di un amico sincero, di un testimone di giustizia, di un criminale, il giudice ucciso nella strage di via D’Amelio il 19 luglio 1992 assieme ai suoi cinque “angeli custodi” – gli agenti di scorta Emanuela Loi, Claudio Traina, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Agostino Catalano – aveva una parola di sostegno, di incoraggiamento, di rispetto per la persona che aveva davanti. A distanza di 25 anni dalla terribile strage, costellata ancora da troppi misteri e buchi neri, ciò che resta sono i preziosi ricordi custoditi nella memoria di chi lo ha conosciuto nel quotidiano e ne può testimoniare una integrità morale fatta non di gesti eroici, ma di piccole azioni. Il rispetto per l’uomo e per la giustizia prevede che per mandare in carcere un accusato le prove debbano essere di ferro, altrimenti «meglio un criminale fuori che un innocente dentro». È il ricordo di Giovanni Paparcuri, ex autista del giudice istruttore Rocco Chinnici, solo per un caso scampato alla strage di via Federico Pipitone a Palermo, il 29 luglio 1983, diventato poi collaboratore informatico di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino per microfilmare gli atti dell’istruttoria del maxiprocesso a Cosa nostra. 

SOLO PROVE CERTE «Un giorno dobbiamo spiccare il mandato di cattura per alcune persone coinvolte nell’omicidio del capitano Basile. Nella stesura del mandato all’inizio ne sono indicate cinque. Io batto a macchina tutti i fogli, li porto al dottor Borsellino, li riprendo e vedo che la quinta persona è depennata. Penso a un errore, così riscrivo quella pagina e gliela riporto. Ma lui toglie di nuovo quel nome. A un certo punto, si alza e viene nella mia stanza: “Insomma, a cosa stiamo giocando? Giovanni, questo non lo devo arrestare. Se le prove non reggono al dibattimento, che figura facciamo?”. Lo guardo negli occhi, capisco cosa vuole dire». Quando Paparcuri racconta questo episodio al figlio del giudice, Manfredi Borsellino, oggi commissario di Polizia, questi lo ringrazia: «Hai fatto bene a dirmelo, perché episodi come questo mi fanno capire che mio padre non era forcaiolo». Un senso fortissimo della giustizia che tocca anche chi è al di fuori di quel mondo di fascicoli e leggi. «Forse l’eredità che mi ha lasciato Paolo è proprio il suo credere nella giustizia. Non ha mai infierito sulle persone, pur facendo bene il suo lavoro», osserva il cardiologo Pietro Di Pasquale, da cui quel terribile pomeriggio del 1992 il giudice doveva accompagnare la madre che aveva problemi al cuore. E don Cesare Rattoballi, parroco di periferia che nell’ultimo periodo fu molto vicino al giudice: «Vedo ancora gli occhi e il sorriso di Paolo, la conferma della sua vicinanza: un sorriso di accoglienza. Borsellino non tratta nessuno come un illustre sconosciuto. Ha una cordialità che mette a proprio agio, come se ti conoscesse da sempre». 

FEDE E RISERVATEZZA Una cura per l’altro che probabilmente era frutto della sua profonda fede cristiana, mai ostentata, eppure vissuta ogni giorno, alimentata dalla partecipazione alla Messa domenicale, dalle assidue confessioni, dai colloqui con alcuni sacerdoti nei momenti più difficili della sua esistenza. Una voce “laica” come quella del suo giovanissimo sostituto alla procura di Marsala, alla metà degli anni Ottanta, Diego Cavaliero, lo descrive con efficacia: «Credo che la fede lo abbia aiutato in quello che è il concetto di morale, che va anche al di là della religione, ma individua ciò che è giusto o sbagliato in senso assoluto. Borsellino era credente, cattolico praticante, ciò gli indicava la strada nell’applicazione della pietas cristiana, nel rispetto dell’altro, perché Paolo era convinto che dietro a ogni imputato ci sia un uomo che va anche rispettato. La fede non faceva altro che rafforzare la sua personalità votata alla ricerca del rapporto con l’altro. Il suo rapporto con la fede era intimo. È certamente un uomo di misericordia». La domenica mattina, alla prima Messa delle 8.30 di Santa Luisa di Marillac, il dottor Borsellino manca raramente, proclama quasi sempre una delle letture. Oltre ai numerosi abitanti di questa zona residenziale, ne è testimone monsignor Francesco Ficarrotta, dal 1979 al novembre 1991 guida della parrocchia che si trova proprio davanti all’alto condominio di via Cilea in cui vive il giudice con moglie e figli. «Un giorno mi confessa il rammarico per non avere la forza, quando gli capita di partecipare ai funerali di uomini importanti, magari uccisi dalla mafia, di disporsi in fila per ricevere la Comunione», spiega Ficarrotta. «Vuole evitare di mettersi in mostra, ma così, e questo è il suo cruccio, non dà la giusta testimonianza di cristiano. Borsellino è veramente un uomo di fede» continua l’ex parroco. 

PRONTO AL SACRIFICIO Don Cosimo Scordato, rettore della chiesa di San Francesco Saverio all’Albergheria, un antichissimo quartiere del centro storico di Palermo, riesce a catturare un altro aspetto di questa figura di magistrato cristiano, ucciso a causa della giustizia. Di tanto in tanto, il giudice fa capolino all’Albergheria, attirato dall’intensa attività di volontariato che la figlia più piccola, Fiammetta, svolge con i bambini più poveri del quartiere. «In realtà, incontro Paolo in occasioni molto disparate. Ricordo un evento in particolare. Siamo negli anni Ottanta e stiamo celebrando i venticinque anni di matrimonio di un suo cugino omonimo, Paolo Borsellino», racconta don Cosimo. «Dopo la Messa, molto partecipata, andiamo a festeggiare tutti insieme. In quell’occasione ho scoperto che il giudice Paolo è una persona di grande carattere, ha voglia di divertirsi». Una ricchezza d’animo che don Cosimo impara a conoscere poco a poco. «Alcune volte Paolo si reca a San Saverio per partecipare alla Messa domenicale. Si siede quasi in fondo, durante la consacrazione, è tra i pochissimi fedeli a mettersi sempre in ginocchio. Rientra tra quelle persone il cui cammino di fede è segnato da un incontro particolare, magari un parroco, qualcuno che diventa determinante non per i tanti discorsi ma perché va all’essenziale. La dimensione religiosa la intravedo come il dato unificante della sua vita. E, nell’osservarlo, mi fa piacere vedere come quella persona riesca a tenere uniti due aspetti della sua vita apparentemente così lontani, ma invece vicinissimi. Sa essere un ragazzone scherzoso, che diverte con tutta la sua verve, e insieme un uomo con un’interiorità profonda». Il giorno prima della strage don Rattoballi incontra il magistrato al Palazzo di giustizia. Quello che si trova davanti è un uomo che ha consapevolezza di andare incontro all’estremo sacrificio: «Vado a trovarlo in Procura alla vigilia della sua morte e, dopo un lungo colloquio, mi dice: “Fermati, voglio confessarmi. Vedi, mi sto preparando”. Aveva un senso profondo di ciò che doveva accadere». 

GLI AGENTI DELLA SCORTA Nell’attentato di via D’Amelio insieme a Paolo Borsellino morirono cinque agenti di età compresa tra i 22 e i 43 anni. Tra le vittime, anche la prima donna a cadere in servizio nella Polizia italiana. Solo un poliziotto si salvò. Altre 23 persone rimasero gravemente ferite. Come mandante, insieme a numerosi altri mafiosi, è stato condannato Totò Riina.

ALESSANDRA TURRISIè autrice de Paolo Borsellino. L’uomo giusto (San Paolo 2017 In tutte le testimonianze emerge la figura di un uomo che mostra a tutti lo stesso volto: in compagnia di un alto magistrato e di un amico, di un criminale e di un testimone di giustizia, tenendo sempre presente il rispetto della persona umana. 

Ci racconti quel giorno, il 19 luglio del 1992. Cosa ricorda? Come molti palermitani, ricordo perfettamente dove mi trovavo e cosa stavo facendo nel preciso momento in cui l’autobomba scoppiò in via D’Amelio, 57 giorni dopo la strage di Capaci, cambiando per sempre la storia d’Italia e la vita di molti di noi. Avevo diciotto anni e in quel torrido pomeriggio di domenica stavo dormendo nella casa di campagna dei miei genitori, quando mio fratello Alberto spalancò la porta gridando: “Hanno ucciso pure Borsellino”. Mi crollò il mondo addosso, capii in quel momento che la storia stava passando da Palermo e l’avrebbe trasformata per sempre. Ne ebbi la certezza quando, dopo le ferie d’agosto, tornando a Palermo, vidi le camionette dell’esercito piene di ragazzi in mimetica. Era l’operazione Vespri Siciliani, presidi militari a ogni angolo di strada e l’impressione di essere in un clima di guerra, con un nemico invisibile, infiltrato e stragista. 

Conosceva personalmente il giudice? Lo avevo incontrato, o meglio ascoltato dal vivo, una sola volta, nel giugno 1992, quando trovò il tempo per incontrare i ragazzi delle scuole, pochi giorni prima che andassimo tutti in vacanza. Una mattina dei primi di giugno, il procuratore aggiunto piombò al liceo Umberto I, la scuola che hanno frequentato i suoi figli Manfredi e Fiammetta, dove lui era andato tante volte a parlare coi professori. I ragazzi entrarono a scuola come sempre, ma non andarono in classe. I professori li indirizzarono nella palestra all’aperto, un grande campo di basket all’interno della scuola dove erano state sistemate centinaia di sedie, in ordine. Sul tetto c’erano poliziotti armati. Arrivò quel giudice tante volte visto in tv, era un volto familiare. Il suo migliore amico era stato ucciso due settimane prima e lui era lì per noi. Di quell’incontro non esiste nessun documento, né una foto, né un filmato, né una registrazione. Ricordo di aver provato un sentimento di immensa gratitudine. Per quell’uomo che sapeva di essere vicino alla morte e che aveva deciso di trascorrere così le sue ultime ore. Voleva lasciare la sua eredità a noi. Non lo capii subito. Il 19 luglio tutto mi fu più chiaro.  

In questa ricorrenza lei ha pubblicato un libro dal titolo: Paolo Borsellino. L’uomo giusto. Perché uomo giusto? Cosa era la giustizia per Borsellino? In tutte le testimonianze raccolte, molte delle quali inedite, emerge la figura di un uomo che mostra a tutti lo stesso volto, che sa essere sé stesso in qualsiasi situazione, in compagnia di un alto magistrato e di un amico, di un criminale e di un testimone di giustizia, tenendo sempre presente il rispetto della persona umana. Paolo Borsellino è un uomo integro, con le sue passioni e i suoi difetti, ma che crede profondamente nella verità e nella giustizia, tanto da portare questo suo impegno, che chiamerei missione, fino alle estreme conseguenze.  

Un capitolo del suo libro è intitolato: “Questa era la sua fede”. Che idea s’è fatta dell’esperienza religiosa di Borsellino? Direi che la fede è il dato unificante della sua vita. Prendendo in prestito le parole di don Cosimo Scordato, Borsellino riesce “a tenere uniti due aspetti della sua vita apparentemente così lontani, ma invece vicinissimi. Sa essere un picciuttunazzo (un ragazzone scherzoso, ndr), che diverte con tutta la sua verve, e insieme un uomo di preghiera, con un’interiorità profonda”. E, secondo un amico magistrato laico come Diego Cavaliero, la fede lo ha “aiutato in quello che è il concetto di morale, che va anche al di là della religione, ma individua ciò che è giusto o sbagliato in senso assoluto”. 

E’ noto l’attaccamento che Borsellino aveva per la famiglia. Come era Borsellino marito e padre? Quella alla paternità per Paolo Borsellino era una vocazione. Si tratta di una paternità esercitata nei confronti dei tre figli che adorava, ma anche nei confronti di tutti coloro che incontrava, dei colleghi magistrati più giovani, delle due testimoni di giustizia che trovarono in lui un sostegno prezioso, Rita Atria e Piera Aiello. Sapeva essere affettuoso, attento, protettivo, ma anche molto autorevole. 

 In questi 25 anni la famiglia, la moglie recentemente deceduta, i tre figli, il fratello Salvatore, hanno attraversato numerose vicissitudini che li hanno portati spesso sotto i riflettori. Come giudica il loro comportamento? Non è facile essere figlio, moglie, fratello di un uomo, per di più esponente delle istituzioni, ucciso in una strage dai contorni ancora non chiariti, malgrado siano trascorsi 25 anni e si siano celebrati numerosi processi. Pensare che non esista ancora una sentenza giudiziaria che individui i responsabili materiali della strage di via D’Amelio è incredibile. Sapere che sono state tenute in carcere per anni persone condannate all’ergastolo e che non avevano nulla a che fare con questo eccidio sconvolge e indigna. Allora non mi sembra che si possano esprimere giudizi sui familiari del giudice Borsellino, ma soltanto guardare a loro con profondo rispetto. 

Nel suo libro ha intervistato persone per così dire di secondo piano, cioè poco note all’opinione pubblica. Quale è quella che più l’ha impressionata? In generale mi ha colpito il pudore con cui queste persone hanno custodito per 25 anni il loro ricordo unico e personale del proprio rapporto con Borsellino, come un tesoro prezioso. Mi ha molto affascinato la testimonianza del giudice Diego Cavaliero, perché non è solo il ricordo di un giovane collega, bensì il racconto dettagliato di un rapporto nato in ufficio e diventato quasi familiare, oserei dire filiale. Straordinaria testimonianza della capacità del dottore Borsellino di riuscire a creare relazioni profonde con coloro che incontrava. 

Più volte nel suo libro ricorre la frase: “Paolo non è morto” oppure: “Paolo è vivo”. Che significa dopo 25 anni? Come si fa a tenere viva la memoria di un uomo come Borsellino e a cosa deve servire? Tenere viva la memoria significa non tradire l’eredità che un uomo come Paolo Borsellino ha lasciato a ogni cittadino: compiere il proprio dovere e tenere la schiena diritta sempre, anche quando la strada più comoda sarebbe un’altra, anche se questo rigore morale può non coincidere con le proprie ambizioni. Nell’ultima intervista rilasciata a Lamberto Sposini nel giugno 1992, Paolo Borsellino dice: “La sensazione di essere un sopravvissuto e di trovarmi in estremo pericolo è una sensazione che non si disgiunge dal fatto che io credo ancora profondamente nel lavoro che faccio, so che è necessario che lo faccia, so che è necessario che lo facciano tanti altri assieme a me. E so anche che tutti noi abbiamo il dovere morale di continuarlo a fare senza lasciarci condizionar dalla sensazione o financo, vorrei dire, dalla certezza che tutto questo può costarci caro”.


UMBERTO LUCENTINI –  giornalista- scrittore e amico di Borsellino 

 “A fine mese, quando ricevo lo stipendio, faccio l’esame di coscienza e mi chiedo se me lo sono guadagnato”: servitore dello Stato fino in fondo, Paolo Borsellino, magistrato nato e morto a Palermo, ha portato all’estremo la sua scelta professionale e di vita. Ucciso insieme agli uomini della scorta, il 19 luglio del 1992, nella strage di via D’Amelio, Paolo Borsellino è stato inserito dalla speciale commissione della Santa Sede nell’elenco dei martiri della giustizia del XX secolo. E da martire, Borsellino, ha vissuto gli ultimi giorni della sua vita: dopo un’altra strage, quella del collega e amico Giovanni Falcone (era il 23 maggio del ’92, con il giudice c’erano la moglie Francesca Morvillo e tre agenti della scorta). Borsellino era diventato il “nemico numero uno della mafia”. Ma, a esser più precisi, nel mirino dello cosche Borsellino è da anni, almeno dall’80, quando inizia ad indagare con il capitano dei carabinieri Emanuele Basile sul clan dei “corleonesi” di Totò Riina e Bernardo Provenzano, allora sconosciuti “picciotti” destinati a diventare i sanguinari capi della mafia siciliana. Da quel momento, la “missione” antimafia di Borsellino diventa una strada senza ritorno. Nato a Palermo il 19 gennaio del 1940, in un quartiere borghese e popolare insieme, quello della Magione, Borsellino respira un’aria di rigore morale senza però chiudere gli occhi davanti al piccolo mondo della delinquenza che lo circonda. Figlio di farmacisti, quindi appartenente ad una delle famiglie più in vista del quartiere, Borsellino resta molto affezionato alla Magione, dove da bambino frequenta l’oratorio di San Francesco e gioca con un altro bimbo della zona, Giovanni Falcone. Cresciuto in una famiglia che aderisce al fascismo, il piccolo Paolo durante i bombardamenti degli americani si trasferisce ad Alcamo con la famiglia. E al momento dello sbarco degli alleati riceve un ordine dalla madre: “Non accettare nulla dagli americani”. Queste vicende e i racconti di “Zio Ciccio”, reduce della Campagna d’Africa, gli suscitano curiosità sulle vicende del periodo fascista: una delle prime “bravate” di Paolo è una tappa a Belmonte Mezzagno, un paesino che dista mezzora di autobus da Palermo, dove va a prendere informazioni sui suoi nonni. Dopo avere frequentato il Liceo classico “Meli” si iscrive alla facoltà di Giurisprudenza. All’Università, nel 1959 Borsellino aderisce all’organizzazione Fuan Fanalino, un gruppo studentesco legato alla destra. Membro dell’esecutivo provinciale, delegato al congresso provinciale, viene eletto come rappresentante studentesco nella lista del Fuan Fanalino: l’attività politica lo coinvolge, ma riesce a conciliare politica e studio senza grossi problemi . Il 27 giugno 1962, all’età di 22 anni, Borsellino si laurea con 110 e lode. Pochi giorni dopo, subisce la perdita del padre: ora è affidato a lui il compito di provvedere alla famiglia. Tra piccoli lavoretti e le ripetizioni Borsellino studia per superare il concorso in magistratura. Ci riesce nel 1963. Per non perdere la licenza della farmacia impegna il primo stipendio di giudice per riscattarla: la sorella Rita, più piccola di lui, ne diventerà la titolare dopo la laurea. Nel 1965 Borsellino inizia la sua carriera di magistrato: è destinato al tribunale civile di Enna, come uditore giudiziario. Nel 1967 il primo incarico operativo: pretore a Mazara del Vallo, nel periodo del dopo terremoto. Intanto, il 23 dicembre del 1968, Borsellino si sposa con Agnese Piraino Leto, una giovane palermitana che gli darà tre figli. Il giudice continua a lavorare a Mazara facendo la spola ogni giorno da Palermo. Nel 1969 il trasferimento alla pretura di Monreale, praticamente il ritorno a casa. È lì che Borsellino comincerà a conoscere da vicino la mafia, quella “selvaggia e spietata” dei “corleonesi”, e lavora fianco a fianco con il capitano dei carabinieri Emanuele Basile. I due costituiscono un tandem investigativo affiatato, che continuerà a lavorare anche dopo il 1975, quando Borsellino viene trasferito al tribunale di Palermo e a luglio entra all’Ufficio istruzione processi penali sotto la guida di Rocco Chinnici. Con il capitano Basile lavora alle indagini antimafia, scopre verità fino ad allora solo immaginate, ordina arresti sulla base delle indagini del capitano Basile. È l’80 quando il capitano viene ucciso in un agguato. E per la famiglia Borsellino arriva la prima scorta. Da quel momento il clima in casa Borsellino cambia. Il giudice comincia a vivere sotto protezione, le sue abitudini di vita cambiano, anche se si sforzerà di non farlo pesare ai tre figli che intanto crescono. Il suo modo di fare, la sua decisione, influenzano il “sentire” dei suoi familiari. La moglie ricorderà così quegli anni: “Il suo modo di esercitare la funzione di giudice lo condivido, perché anch’io credo nei valori che lo ispirano… Non penso mai, per egoismo, per desiderio di una vita facile, di ostacolarlo… Non è stato un sacrificio immolare la sua vita al mestiere di giudice: Paolo ama tantissimo cercare la verità, qualunque essa sia”. La scorta costringe il giudice e la sua famiglia a convivere con un nuovo sentimento: la paura. Borsellino ne parla e la affronta così: “La paura è normale che ci sia, in ogni uomo, l’importante è che sia accompagnata dal coraggio. Non bisogna lasciarsi sopraffare dalla paura, sennò diventa un ostacolo che ti impedisce di andare avanti”. Nell’ufficio istruzione nasce il “pool antimafia” di Falcone, Borsellino e Barrile, sotto la guida di Rocco Chinnici. Borsellino comincia a partecipare ai dibattiti nelle scuole, parla ai giovani nelle feste giovanili di piazza, alle tavole rotonde per spiegare e per sconfiggere una volta per sempre la cultura mafiosa. Parallelamente continua il lavoro nel pool. Questa squadra funziona bene, ma si comprende che per sconfiggere la mafia il pool, da solo, non è sufficiente. Si chiede la promozione di pool di giudici inquirenti, coordinati tra loro ed in continuo contatto, il potenziamento della polizia giudiziaria, l’istituzione di nuove regole per la scelta dei giudici popolari e di controlli bancari per rintracciare i capitali mafiosi. I magistrati del pool pretendono l’intervento dello Stato perché si rendono conto che il loro lavoro, da solo, non basta. E infatti la mafia reagisce: il 4 agosto 1983 viene ucciso il giudice Rocco Chinnici con un’autobomba. Borsellino è intimamente distrutto, dopo Basile anche Chinnici viene strappato alla vita. Il “capo” del pool, il punto di riferimento, viene a mancare. Borsellino con molta preoccupazione commenta: “La mafia ha capito tutto: è Chinnici la testa che dirige il Pool”. A sostituire Chinnici arriva a Palermo da Firenze il giudice Antonino Caponnetto e il pool, sempre più affiatato, continua nell’incessante lavoro raggiungendo i primi risultati: “Sentiamo la gente fare il tifo per noi”. Nel 1984 viene arrestato il potente ex sindaco democristiano Vito Ciancimino, si pente il boss Tommaso Buscetta, e Borsellino sottolinea in ogni momento il ruolo fondamentale dei “pentiti” nelle indagini e nella preparazione dei processi. Comincia la preparazione del maxiprocesso, e i protagonisti delle indagini continuano a cadere sotto il piombo mafioso. Falcone e Borsellino vengono immediatamente trasferiti sull’isola dell’Asinara per concludere l’istruttoria del maxi-processo e predisporre gli atti senza correre ulteriori rischi. Falcone è con la moglie, Borsellino porta con sé la famiglia. Lucia, la figlia più grande, si ammala di anoressia psicogena, Tornato a Palermo, il giudice dovrà affrontare anche questa battaglia. La figlia guarisce, il maxi-processo decolla, e Borsellino chiede il trasferimento alla Procura di Marsala per ricoprire l’incarico di Procuratore Capo. Borsellino scopre i legami tra i clan della provincia e quelli palermitani, raccoglie le confidenze dei primi collaboratori di giustizia. E quando, nel 1987, Caponnetto è costretto a lasciare la guida del pool di Palermo, Borsellino si schiera a favore di Falcone: criticherà il successore di Caponnetto per aver “smembrato” il pool, finisce sotto processo al Consiglio superiore della magistratura. Riabilitato, torna a lavorare e continua ad assestare nuovi colpi alle cosche. Finché, con l’istituzione della Procura nazionale antimafia e delle Direzioni distrettuali antimafia, rientra a Palermo come procuratore aggiunto, dove si occuperà delle indagini sulla mafia di Agrigento e Trapani. Nuovi pentiti, nuove rivelazioni confermano il legame tra la mafia e la politica, riprendono gli attacchi al magistrato e lo sconforto ogni tanto si manifesta. In una dichiarazione si può riassumere lo stato d’animo di Borsellino in quel momento: “Un pentito è credibile solo se si trovano i riscontri alle sue dichiarazioni. Se non ci sono gli elementi di prova, la sua confessione non vale nulla. È la legge che lo dice… e io sono un giudice che questa legge deve applicarla. I rapporti tra mafia e politica? Sono convinto che ci siano. E ne sono convinto non per gli esempi processuali, che sono pochissimi, ma per un assunto logico: è l’essenza stessa della mafia che costringe l’organizzazione a cercare il contatto con il mondo politico. È maturata nello Stato e nei politici la volontà di recidere questi legami con la mafia? A questa volontà del mondo politico non ho mai creduto”. Si apre la corsa alla Superprocura, e nel maggio del ’92 sembra che Falcone abbia raggiunto i numeri necessari per essere nominato. Ma il 23 maggio, Falcone, che nel frattempo era stato nominato direttore generale degli Affari penali al ministero di Grazia e Giustizia, torna a Palermo e viene ucciso nella strage di Capaci. Per Borsellino è un colpo durissimo. Gli viene offerto di prendere il posto di Falcone nella candidatura alla superprocura, ma Borsellino rifiuta, sebbene sia consapevole che quella sia l’unica maniera che ha per condurre in prima persona le indagini sulla strage di Capaci. Ad un mese dalla morte dell’amico Falcone, tra le fiaccole e con molta emozione parla di lui, cerca di raccontarlo: “Perché non è fuggito, perché ha accettato questa tremenda situazione… per amore. La sua vita è stata un atto d’amore verso questa città, verso questa terra che lo ha generato. Perché se l’amore è soprattutto ed essenzialmente dare, per lui, amare Palermo e la sua gente ha avuto e ha il significato di dare a questa terra qualcosa, tutto ciò che era possibile dare delle nostre forze morali, intellettuali e professionali per rendere migliore questa città e la patria a cui essa appartiene. Sono morti tutti per noi, per gli ingiusti, abbiamo un grande debito verso di loro e dobbiamo pagarlo, continuando la loro opera, dimostrando a noi stessi e al mondo che Falcone è vivo”. Borsellino vuole collaborare alle indagini sull’attentato di Capaci di competenza della procura di Caltanissetta. Le indagini proseguono, i pentiti aumentano e il giudice cerca di sentirne il più possibile. Arriva la volta di Messina e Mutolo, ormai Cosa Nostra comincia ad avere sembianze conosciute. Spesso i pentiti hanno chiesto di parlare con Falcone o con Borsellino perché sapevano di potersi fidare, perché ne conoscevano le qualità morali e l’intuito investigativo. Continua a lottare per poter avere la delega per ascoltare il pentito Mutolo. Ma il 19 luglio 1992 va in via D’Amelio, a prendere la madre per accompagnarla dal medico. Un’autobomba, posteggiata tra tante altre auto, senza che nessuna autorità si preoccupasse di istituire una zona rimozione, esplode. Il giudice muore con i suoi cinque agenti di scorta. Amava ripetere, lui religiosissimo, scherzandoci su per esorcizzare la morte: “Non sono né un eroe né un kamikaze, ma una persona come tante altre. Temo la fine perché la vedo come una cosa misteriosa, non so quello che succederà nell’aldilà. Ma l’importante è che sia il coraggio a prendere il sopravvento. Se non fosse per il dolore di lasciare la mia famiglia, potrei anche morire sereno”.


FRANCESCO PIRA – GIORNALISTA 


Sono passati 26 anni e restano tante domande a cui non sono mai arrivate le giuste risposte. Il sacrificio di un uomo, un giudice, una storia di legalità. Ventisei anni trascorsi da quel 19 luglio del 1992 . Il giudice Paolo Borsellino era andato in Via D’Amelio a Palermo a prendere la sua mamma per accompagnarla dal medico. Alle 16,58  una fortissima esplosione uccide persone, abbatte case, fa saltare in aria auto.

Tutto per uccidere un simbolo della lotta alla mafia. Ho avuto il privilegio di intervistare il giudice Paolo Borsellino per un quotidiano regionale agli inizi degli anni 90. Dalla Procura di Marsala stava per tornare a Palermo. Oggi, come spesso mi è capitato da quando non c’è più e sento parlare di lui, risento la sua voce. Quel tono pacato con cui riusciva a pronunciare piccole e grandi verità.

Fui diretto quella volta. Gli chiesi se aveva paura di tornare a Palermo. La sua risposta fu onesta e sincera, come lo è stata la sua straordinaria vita. Mi disse di si. Che la paura era un sentimento umano.”E normale che esista la paura, in ogni uomo, l’importante è che sia accompagnata dal coraggio. Non bisogna lasciarsi sopraffare dalla paura, altrimenti diventa un ostacolo che impedisce di andare avanti”. 

E’ un episodio che mi ha segnato perché ci è capitato tanto volte di avere paura ma è difficile immaginare che un uomo come Paolo Borsellino, nonostante la paura continuava la sua battaglia contro il male. Un’intervista tra quelle che non dimenticherò mai nella mia esistenza. Incancellabile. Piena di vita, anche se annunciava la morte.

Le sue parole non possono e non devono essere dimenticate“Politica e mafia sono due poteri che vivono sul controllo dello stesso territorio: o si fanno la guerra o si mettono d’accordo”.

La paura forse per Paolo Borsellino era anche la quasi certezza che l’avrebbero eliminato: “Mi uccideranno, ma non sarà una vendetta della mafia, la mafia non si vendica. Forse saranno mafiosi quelli che materialmente mi uccideranno, ma quelli che avranno voluto la mia morte saranno altri”.

Vivere e lottare sapendo che il destino era segnato. Ventisei anni dopo ancora ci sono misteri che non sono risolti, legati alla morte di Paolo Borsellino e che mai si risolveranno.

Una strage difficile da dimenticare. Persero la vita oltre al giudice Paolo Borsellino e gli agenti della scorta, Eddie Cosina, Emanuela Loi, Claudio Traina e Vincenzo Li Muli. La mafia aveva ucciso Falcone dopo Borsellino.

Ma noi in questa ricorrenza, in questo giorno di riflessione non possiamo non trovare il senso della speranza. La voglia di pensare che come diceva Paolo Borsellino “la Sicilia un giorno sarà bellissima”.

C’è un’altra intervista che mi porto dentro. Quella fatta al giudice Antonino Caponnetto, Capo del Pool Antimafia. Mi piacevano tantissimo i messaggi che era capace di lanciare ai giovani: “Ragazzi godetevi la vita, innamoratevi, siate felici ma diventate partigiani di questa nuova resistenza, la resistenza dei valori, la resistenza degli ideali. Non abbiate mai paura di pensare, di denunciare e di agire da uomini liberi e consapevoli”.

Ma sulla tragica uccisione del giudice Borsellino aveva fatto dichiarazioni molto precise. Cercato risposte che non sono arrivate: “Ancora oggi aspetto di sapere chi fosse il funzionario responsabile della sicurezza di Paolo, se si sia proceduto disciplinarmente nei suoi confronti e con quali conseguenze”.

Se potessi incontrare ancora Paolo Borsellino mi piacerebbe chiedergli cosa pensa della Sicilia di oggi, delle sue contraddizioni, dei silenzi, delle eccellenze, dei giovani costretti a scappare al nord o all’estero. Di tutto quello che non funziona e di quello che la nostra Sicilia potrebbe essere. Ma non posso chiederglielo. Perché non c’è più. E non avremmo mai voluto celebrare questa e tante altre ricorrenze. Ma siamo consapevoli che è il tempo di andare oltre le parole, occorrono gesti concreti, risposte, verità. Già verità… troppo nascoste…Verità sepolte, come un giudice onesto.


BIANCA STANCANELLI

 
QUEGLI OCCHI DI UN UOMO CHE GUARDA LA PROPRIA MORTE – Il 28 maggio 1992, nella sede romana della Mondadori, in via Sicilia, a pochi metri dall’ambasciata americana e dalle belle vetrine dei bar di via Veneto, il giudice Paolo Borsellino fu l’ospite più atteso alla presentazione di un libro. S’intitolava Gli uomini del disonore e ne era autore il sociologo Pino Arlacchi, che in quel volume aveva raccolto le confessioni di un mafioso di prima grandezza, il catanese Antonino Calderone. Cinque giorni appena erano trascorsi dalla strage di Capaci; Borsellino avrebbe avuto ottime ragioni per rinunciare a un appuntamento preso da lungo tempo, prima che Cosa Nostra precipitasse l’intero Paese nel lutto e nell’orrore. Ma era persona seria e onorò l’impegno.
C’era con lui, al tavolo dei relatori, con il direttore della Mondadori e con il capo della polizia, anche il ministro dell’Interno, il democristiano Vincenzo Scotti. C’erano, anche, decine e decine di giornalisti che facevano ressa nell’elegante sala rettangolare al pianterreno dove la Mondadori ospitava le presentazioni. Tanta era la folla che una seconda sala, contigua, venne aperta e attrezzata con uno schermo per trasmettere in diretta l’evento. Non bastava neanche quello: il pubblico tracimava nel corridoio, nella strada, stretto nelle maglie fitte del cordone di agenti chiamati a proteggere il giudice più esposto, dopo la morte di Falcone, nella sfida a una Cosa nostra che aveva mostrato di voler imporre con 500 chili di tritolo il proprio potere.
Lavoravo allora nella redazione romana di Panorama, che aveva i suoi uffici al secondo piano di quella palazzina liberty in via Sicilia (che Marina Mondadori avrebbe disinvoltamente venduto anni dopo per far cassa). Quel 28 maggio era un giovedì, giorno di “chiusura” in redazione; non ricordo più quale pezzo dovessi consegnare, di certo riuscii a scendere tardi, quando la presentazione volgeva ormai al termine. Mi ritagliai un angolo tra la folla stipata in corridoio; dei discorsi fatti in sala, era impossibile sentire anche soltanto una parola.
Così solo più tardi venni a sapere che quel pomeriggio il ministro Scotti si era rivolto a Paolo Borsellino offrendogli platealmente la nomina a capo della Procura nazionale antimafia, la Superprocura come allora si diceva, organismo pensato e voluto proprio da Giovanni Falcone e non ancora entrato in funzione. Offerta impropria (la nomina spettava al Consiglio superiore della magistratura, non certo a un ministro) e intempestiva, che nell’angoscia e nello sgomento di quei giorni aveva perfino il torto di apparire un modo goffo e involontario per esporre a un pericolo mortale un uomo, un magistrato che tutti consideravano il secondo nella lista dei nemici di Cosa Nostra.
Sull’esito dell’offerta si può leggere, sul sito di Rai Televideo, una cronaca della giornalista Paola Scaramozzino: «Nella sala scende il gelo. Occhi puntati sul giudice che tradisce con il rossore la rabbia […] Accenna un sorriso ma subito si adombra: Non so, risponde».
Pochi minuti più tardi Paolo Borsellino uscì dalla sala. È l’ultima immagine che ho di lui, indimenticabile. Lo vidi passare lungo il corridoio come una statua in processione; il suo viso galleggiava sulle teste delle persone addossate alle pareti in una lentissima progressione verso l’uscita. Ebbi l’impressione che gli uomini della scorta, al massimo della tensione, lo avessero sollevato e lo portassero via così. Ma fu il suo sguardo a colpirmi: uno sguardo che andava oltre, al di là della folla, al di là di quel momento. Uno sguardo intenso, concentrato, fisso, infinitamente lontano.
Anni dopo un fotografo americano pubblicò le foto di decine di detenuti reclusi nel braccio della morte, in attesa – anche da anni – di finire sulla sedia elettrica. Guardandole, mi ricordai di Paolo Borsellino, dell’espressione dei suoi occhi. Gli occhi di un uomo che guarda la propria morte.