“BISOGNA FARE MEMORIA OGNI GIORNO, GRIDARE IL NOSTRO NO ALLE MAFIE” Per una cultura del rispetto contro ogni forma di violenza – Una riflessione di Fiammetta Borsellino, figlia del magistrato ucciso. Parlare di memoria non vuol dire semplicemente ricordare, ma appropriarsi delle testimonianze di vita di chi si è sacrificato per portare avanti dei valori affinché diventino memoria pubblica e patrimonio di un popolo.
Questo fondamentalmente vuol dire vittoria della vita sulla morte, vuol dire attualizzare nel presente quelli che sono stati gli insegnamenti di chi ha creduto così tanto nel proprio lavoro da sacrificare ad esso la sua stessa vita. Questo è memoria. Io oggi non mi accontento del semplice ricordo circoscritto a giornate particolari, all’intitolazione di una strada, di una piazza, di un’aula magna, perché ritengo che fare memoria, nel presente, voglia dire percorrere con le proprie gambe quelle strade che ci sono state indicate dagli insegnamenti di chi ci ha preceduto.
Oggi, parlare ad esempio di quanto mio padre tenesse alla scuola come principale forma di contrasto alla criminalità organizzata, vuol dire avere uno sguardo critico verso tutto ciò che sta accadendo. Non si può disquisire su quanto importante fossero per mio padre la cultura e l’istruzione per combattere il crimine se oggi quello che è evidente è proprio il fatto che non viene garantito il diritto allo studio. In un momento di crisi e di difficoltà, il primo messaggio che stiamo dando alle nuove generazioni è proprio questo, ossia che la cultura e l’istituzione della scuola sono le prime cose a dover essere sacrificate. Allora è ovvio che tutto questo pone un enorme interrogativo rispetto a come noi stiamo portando avanti i valori di quelli che definiamo martiri, cioè gli eroi che si sono sacrificati per la giustizia e per l’affermazione della legalità.
Come si può celebrare la memoria nelle giornate dedicate, quando nella pratica quotidiana gli insegnamenti di coloro che omaggiamo e onoriamo vengono in qualche modo sconfessati? Allora io dico che bisogna fare memoria ogni giorno, ogni giorno della nostra vita gridare il nostro NO alle mafie. E affermare il nostro NO alle mafie significa portare avanti non proclami ma atteggiamenti concreti, quelli che io definisco “pratiche dell’antimafia quotidiana”, con l’esempio e l’insegnamento. TRUSCIA WEB 21.3.21
PAOLO BORSELLINO: UN LAVORATORE ONESTO Ieri la figlia Fiammetta ha dialogato con gli studenti del Liceo “R.Caccioppoli” di Scafati, testimone di un periodo sordido, doloroso e sanguinoso. L’unica uscita di sicurezza è lo studio e la cultura «È bello morire per ciò in cui si crede; chi ha paura muore ogni giorno, chi non ha paura muore una volta sola»: così Paolo Borsellino presagiva la propria sorte, segnata da un rischio a cui la propria professione di magistrato esponeva quotidianamente. Egli, tuttavia, credeva fermamente nei propri ideali improntati sulla lotta alla mafia. Difatti, nonostante la morte di diversi colleghi che precedentemente si erano impegnati a combattere proprio tali associazioni criminali, egli scelse di rischiare a ogni modo la propria vita con lo scopo di osteggiare l’empietà della mafia, passando alla storia come il simbolo della lotta alla criminalità organizzata. «Noi stessi chiedevamo a nostro padre di non tirarsi mai indietro…», racconta Fiammetta Borsellino -figlia di Paolo- protagonista oggi dell’incontro con gli studenti del liceo “R. Caccioppoli” di Scafati, per il quale sentiamo di ringraziarLa per il ferace dialogo, unitamente all’associazione Animus e le docenti che hanno collaborato affinché l’evento avesse luogo. Parole che senz’alcun dubbio lasciano intendere come l’intera famiglia abbia colto appieno il messaggio del padre, capace di comunicare loro il proprio sentire. La Borsellino ha poi aggiunto:« Mio padre amava parlare con i giovani e aveva “il pallino” della scuola, amava l’istruzione, la cultura poiché sono i mezzi attraverso i quali si combatte la mafia». Difatti le associazioni criminali, come ben sappiamo, si servono molto spesso del consenso dei giovani, i quali illusi da futili ricompense, prestano la propria vita diventando dei veri e propri soldati della criminalità organizzata. A tal proposito Fiammetta Borsellino ha paragonato in modo non casuale l’apparente benevolenza della mafia nei confronti dei ragazzi con la droga, affermando che entrambe, pur presentandosi inizialmente come una cura ai momenti difficili della vita, diventano delle vere e proprie forze devastatrici che portano al disfacimento della persona. L’unica cura, buona e giusta, è l’istruzione capace di elevare i ragazzi verso la liceità, respingendo completamente le tentazioni e le illusioni della mafia. La viltà della criminalità organizzata, dunque, rende schiavi ed è la distruzione della vita. Fiammetta Borsellino, tuttavia, ha raccontato di essere speranzosa per il prossimo futuro e in particolare ha parlato di una speranza legata all’investimento dello Stato sui giovani, un concetto che il padre Paolo presentava nell’ultima lettera prima della sua morte, in cui constatava per l’appunto un impegno sempre maggiore da parte dei giovani nella lotta alla mafia, affermando che la generazione futura avrebbe avuto molta più forza nel reagire a tali soprusi e a tale forma di illegalità rispetto a quanta ne aveva avuta lui fino ad allora. Il magistrato Paolo Borsellino non si sbagliava: aveva predetto con correttezza ciò che si sarebbe verificato nel prossimo futuro e ne è testimonianza la partecipazione attiva da parte dei ragazzi del liceo di Scafati, i quali con entusiasmo hanno posto diverse domande alla dott.ssa Borsellino, alcune delle quali qui di seguito:
«Dove ha trovato il coraggio, ma soprattutto l’energia interiore di affrontare tale situazione, dopo la fine che il destino ha riservato a suo padre?» «Nel momento in cui ti ritrovi in una situazione particolare, la forza arriva, e ci permette di convivere con il dolore nella quotidianità. Ciò che ci dà la forza di andare avanti è la forza di vivere, la volontà di non fermarsi agli ostacoli, la quale ci permette di crescere e di superare la paura.»
«Com’è stato scoprire che la mafia aveva rapporti con uomini importanti?» «Non è stato facile, ciò ha significato che anche persone di alto rango erano corrotte e, dunque, non sarebbe stata una passeggiata condannarle. Si può vincere la mafia, ma le istituzioni, ad ogni livello, devono remare sempre nella giusta direzione, poiché risulta difficile costruire una società basata sulla legalità se parte delle figure alla guida del Paese si macchiano a loro volta di corruzione.» Senza alcun’ombra di dubbio è stata un’esperienza unica poter colloquiare con una figura dal calibro di Fiammetta Borsellino figlia di uno dei simboli che meglio rappresenta la parte bella dell’Italia, quella legata alla legalità e alla lotta contro il male. La dott.ssa si è dimostrata disponibile e aperta al dialogo con tutti, nonostante le difficoltà dovute allo svolgimento dell’incontro mediante piattaforma digitale. È stato particolarmente interessante poter assorbire parte del suo grande racconto di vita, un racconto in cui, quasi boccaccescamente, è inserito quello del Borsellino uomo e magistrato. Il Borsellino che i figli ricordano per essere stato un padre amorevole e presente, e il Borsellino che, tutt’uno con la propria missione, era ormai giunto a minacciare seriamente un sistema di uomini vili. Attraverso le proprie parole Fiammetta Borsellino ha trasmesso coraggio, determinazione, amore per la propria terra, ma soprattutto fiducia, quella fiducia che deve aiutare a credere nella giustizia, nel cambiamento e nella collaborazione che è il segreto per essere uniti contro il nemico comune, la mafia, la quale può essere sconfitta, a sua volta, attraverso l’onestà che è alla base di una società corretta e che ha saputo contraddistinguere la figura del magistrato Paolo Borsellino, da molti considerato un eroe, ma che – come racconta Fiammetta Borsellino- non era altro che un semplice lavoratore onesto che si batteva per il bene comune. LE CRONACHE 19.3.2021
9.3.2021 – L’antimafia siciliana prosegue le indagini LA COMMISSIONE FAVA NON MOLLA SU SCARANTINO: CHI GUIDÒ IL DEPISTAGGIO?Il Gip di Messina ha di recente archiviato l’inchiesta sugli ex pm di Caltanissetta Carmelo Petralia e Annamaria Palma accusati di calunnia aggravata in concorso nell’ambito dell’inchiesta sul depistaggio sulla strage di via D’Amelio. Ciò ha creato un forte dissenso da parte della Commissione Antimafia siciliana presieduta da Claudio Fava che per questo ha deciso di usare i suoi poteri per continuare le indagini e allargarle allo scenario generale in cui avvenne il “più grande depistaggio della storia d’Italia”. Infatti la commissione da martedì scorso ha aperto i nuovi lavori e tra gli altri ha indicato il giornalista Enrico Deaglio per una audizione. È stato ascoltato con molta attenzione, gli sono state rivolte domande pertinenti, ha consegnato documentazione che gli era stata richiesta, e indicato altre persone “informate sui fatti” che possono essere utili all’inchiesta. La Commissione ha in programma di lavorare per i prossimi mesi, rendendo pubbliche le sue acquisizioni e naturalmente rendendo note alle competenti procure le notizie di reato di cui eventualmente verrà a conoscenza. La notizia non può non far piacere a Fiammetta Borsellino, che sulle pagine de Il Riformista si è detta amareggiata per la frettolosa archiviazione della posizione dei due magistrati e soprattutto per l’indifferenza del Consiglio superiore della magistratura che non ha dato seguito al suo esposto. Se da una parte è positivo il fatto che ci sia la voglia di non far cadere nell’oblio il depistaggio e le anomalie tecniche, giuridiche e valutative che hanno visto protagonisti i magistrati coinvolti nella gestione dell’ex falso pentito Vincenzo Scarantino, dall’altra c’è però il rischio che la commissione antimafia siciliana – non volendo – faccia un remake del processo sulla Trattativa. Un indizio proviene proprio dal giornalista Deaglio. Il quale ha scritto pubblicamente un post su Facebook nel quale ha spiegato che è stato convocato da Fava in merito alle ricostruzioni elaborate in due suoi libri, Il vile agguato del 2012 e Patria 2010-2020. Sia chiaro, va dato atto a Deaglio che è stato uno dei pochi a capire fin da subito che Scarantino era inattendibile. Recentemente, nel suo ultimo libro, ha anche criticato aspramente il lavoro di magistrati come Nino Di Matteo per la gestione del processo Borsellino. Ha perfino scritto, con grande onestà intellettuale, che per lui il processo Trattativa è “sgangherato”. Il problema è che nello stesso tempo affronta questioni che la sentenza di primo grado sulla trattativa Stato mafia ha preso in realtà molto in considerazione. Sa raccontare, è un maestro nella scrittura, ma ha il difetto di essere impreciso per quanto riguarda queste tematiche e, in sostanza, avvalora la tesi di Di Matteo e colleghi. Solo a titolo esemplificativo, nel libro Il vile agguato parla anche dei mafiosi che svuotano il covo da dove è uscito latitante per l’ultima volta Riina. A pag. 61 scrive della “cassaforte divelta”, come anche altri in realtà avevano scritto in precedenza. La logica ci fa porre una domanda: che bisogno c’era di svellere dal muro la cassaforte, non bastava portarsi via il contenuto? Infatti la cassaforte sta ancora lì. Un dettaglio, ma utile per far capire che i libri non possono essere fonte di prova per una indagine. Quindi ci si augura che la Commissione vada direttamente alle fonti originali, tipo le sentenze definitive, dove facilmente si può ricostruire la verità oggettiva dei fatti. Per questa e altre ragioni, la commissione antimafia presieduta da Claudio Fava rischierebbe di prendere un granchio e avvalorare la tesi sulla trattativa stato mafia. Basterebbe acquisire tutta quella documentazione prodotta nel processo d’appello trattativa dall’avvocato Basilio Milio, legale dell’ex ros Mario Mori. Solo così, si potrà avere una visione a 360 gradi di queste tematiche. Ci permettiamo un consiglio non richiesto. Parliamo di tematiche trite e ritrite che rischiano di “depistare” dai fatti concreti, razionali, quelli che si toccano con mano. Sarebbe il caso di non spostarsi troppo dai fatti tragici del 1992, partendo dalle indagini che stava svolgendo Paolo Borsellino finalizzate a rendere giustizia al suo fraterno amico Giovanni Falcone. I suggerimenti sono indicati dalla stessa sentenza sul depistaggio, il Borsellino Quater. L’accelerazione dell’attentato è dovuta al suo interessamento al dossier mafia appalti. Suggerisce anche di andare a vedere che problematiche c’erano state all’interno della procura di Palermo. A tal proposito, sono molto utili i verbali delle audizioni al Csm risalenti a poche settimane dopo la strage del 19 luglio del 1992. Sono stati sentiti tutti i magistrati e vengono fuori questioni inedite. A partire dall’ultima riunione della Procura di Palermo dove partecipò Borsellino. Possibile che non si riparta da lì? La magistratura non l’ha fatto, nonostante i verbali del Csm siano stati di recente depositati al processo d’appello sulla trattativa. La commissione antimafia ha un senso solo se si occupa delle questioni ancora non vagliate fino in fondo e che gridano vendetta nella completa indifferenza. Altrimenti, non volendo, si rischia di essere alleati dei propri becchini. IL RIFORMISTA 9.3.2021 LEONARDO BERNERI
03.03.2021 “LA SINISTRA HA CREDUTO TROPPO AI PM”, IL MEA CULPA DI CLAUDIO FAVA Dal 1992 «abbiamo ritenuto, sbagliando, di dover considerare sempre infallibile la magistratura, soprattutto se si occupa di mafia, una sorta di atto di fede a prescindere dai risultati»: a parlare è l’onorevole Claudio Fava, Presidente della Commissione Antimafia dell’Assemblea regionale siciliana, che suFiammetta Borsellino aggiunge: «Vogliamo lasciare il diritto ad una donna di pretendere la verità dopo che ha visto il padre fatto a pezzi e una parte dello Stato depistare la ricerca sulle ragioni di quell’attentato?». Lo intervistiamo dopo che la relazione sulla gestione dei beni confiscati presentata qualche giorno fa dalla Commissione da lui presieduta ha raccolto molti pareri positivi, fatta eccezione per due velenose reazioni, come quelle del rettore dell’Università di Palermo Fabrizio Micari, a cui è seguito un intervento altrettanto critico del giurista Costantino Visconti, a cui replica: «L’unica voce fuori dal coro arriva da un docente palermitano assai empatico con la dottoressa Saguto». Onorevole, come si risolve il conflitto tra «l’antimafia dei fatti» e quella «delle star»? Credo che un lavoro importante debba farlo anche l’informazione che a volte contribuisce a costruire le facili mitologie. Conosco trenta o quaranta giornalisti, sconosciuti ai più, che davvero rischiano la pelle giorno per giorno. Di loro nessuno scrive. Si sente parlare solo di un paio di furbi cronisti, quelli che pensano alla carriera dell’antimafioso minacciato come alla più nobile delle autocelebrazioni. Dietro a volte c’è solo un circo mediatico che ama i titoli ad effetto, che coltiva un’antimafia di cartone col giubbotto anti-proiettile. Fare buon giornalismo, dedicarsi a un’informazione che provi a comprendere i motivi profondi e innominabili degli scandali di corte e delle collusioni di potere non significa sbattere su Facebook il nome di qualche malandrino di periferia facendo il copia e incolla dei mattinali di polizia. Lei in una intervista su LiveSicilia ha detto: «La mia generazione ha un peccato originale: avere preteso di affermare un crisma fideistico di infallibilità dei magistrati dopo la stagione delle stragi». Può spiegare meglio questo concetto? Nel 1992 tutti ci siamo sentiti in colpa per quello che era accaduto a Palermo. Da quel momento abbiamo ritenuto, sbagliando, di dover considerare sempre infallibile la magistratura, soprattutto se si occupa di mafia, una sorta di atto di fede a prescindere dai risultati. Forse c’è stato anche il bisogno di trovare almeno un’istituzione alla quale poterci affidare acriticamente, senza condizioni, dopo l’inabissamento dei partiti e della politica. Credo che ci siano stati e ci siano magistrati straordinari che rappresentano una risorsa per la tenuta democratica del Paese: in mezzo però ci sono state anche altre storie. C’è chi ha costruito carriere alzando i decibel della propria voce, chi ha ritenuto di indagare anzitutto in direzioni che portavano verso il clamore dei titoli dei giornali, chi ha pensato di celebrare se stesso come se fosse un protomartire cristiano. Alla fine si sono offuscate risorse importanti per la giustizia: l’umiltà, la sobrietà, l’autonomia rispetto alle convenienze di carriera e ai conciliaboli del potere. Le vorrei fare un esempio. Prego Un magistrato come Armando Spataro, l’unico che abbia avuto la capacità di istruire un processo a Milano – il caso Abu Omar – pretendendo che le leggi della Repubblica valessero anche per i servizi segreti americani e italiani. Su quel processo è stato messo il segreto di Stato – totalmente pretestuoso – da tutti i governi, di destra o sinistra. Penso che la sua rettitudine nell’applicazione delle regole del codice e al tempo stesso il rispetto per l’autonomia e l’indipendenza della magistratura siano un esempio straordinario. Poi ci sono altri magistrati, talmente saturi di vanità da assumere il crisma della loro infallibilità come un precetto di fede, per cui ogni richiesta di spiegazione o di comprensione diventa un atto di blasfemia.
A proposito di questo, Lei ha stigmatizzando coloro che criticano Fiammetta Borsellino solo perché solleva dei dubbi sulle indagini per la morte di suo padre. Proprio al Riformista la donna ha detto: «Nessuna fiducia nei pm antimafia e nel Csm, hanno depistato». Credo che Fiammetta Borsellino stia subendo un linciaggio mediatico, per fortuna molto limitato, per un ragionamento che qualcuno potrà non condividere ma che lei ha tutto il diritto di proporre pubblicamente: ovvero, il depistaggio su via d’Amelio e le ombre che si proiettano sull’intera indagine sono conseguenza anche d’una attività di indagine frettolosa, avventata, miope. Questo è un fatto, non una velleità interpretativa di Fiammetta Borsellino. È un fatto che Vincenzo Scarantino sia stato considerato un collaboratore di giustizia credibile solo da coloro che lo utilizzarono per istruire quei processi mentre coram populo si sapeva – e lo spiegavano anche gli altri collaboratori di giustizia messi a confronti con Scarantino – che era solo un poveraccio semianalfabeta. E allora io mi chiedo: vogliamo lasciare ad una donna il diritto di ricercare la verità dopo aver visto il padre fatto a pezzi e aver assistito impotente al fatto che una parte dello Stato aveva lavorato – dolosamente o colpevolmente, per strafottenza, con forzature procedurali, con insensibilità istituzionali – per depistare le indagini e quindi allontanare la verità sulle ragioni di quella strage? Avrà oggi tutto il diritto di dire “io non mi fido”? Avrà il diritto di poter giudicare caso per caso, dopo quello che la magistratura a Caltanissetta ha prodotto sull’indagine Borsellino?
Fiammetta critica anche Nino Di Matteo: «Non può considerarsi erede di mio padre chi non pone in essere i suoi insegnamenti e anche quelli di Giovanni Falcone. Mio padre, ad esempio, non avrebbe mai scritto o presentato libri sui suoi processi in corso».
Non si tratta di personalizzare. Ma ci sono i fatti. A Caltanissetta c’è stato un gruppo di pm – e all’epoca c’era anche Di Matteo, anche se era il più giovane – che hanno sostenuto e difeso, anche contro ogni evidenza, la credibilità di Scarantino. Al vertice di quella procura c’era un Procuratore della Repubblica che – nel silenzio di tutti i suoi PM – ha violato o forzato obblighi di legge, prassi e procedure, decidendo di affidare funzioni di polizia giudiziaria ai servizi segreti. Quella Procura ha ritenuto di non dover mai interrogare il procuratore di Palermo Pietro Giammanco, pur sapendo lo scontro, all’interno di quella procura, fra il suo capo e Paolo Borsellino. La sensazione, intatta a distanza di 29 anni, è che ci sia stata da parte di alcuni ambienti della magistratura siciliana una chiusura corporativa sui vizi, gli errori, le stravaganze delle indagini su via D’Amelio.
Onorevole, a proposito della relazione sui beni confiscati, il professore Visconti è arrivato a scrivereche in essa «viene preferito lo stile della sceneggiatura a quello del cauto approfondimento documentale». Come replica? La relazione ha ricevuto apprezzamenti da tutti gli ambienti istituzionali. L’unica voce fuori dal coro arriva da un docente palermitano assai empatico con la dottoressa Saguto e ben felice, come raccontano le intercettazioni telefoniche, di mettersi a sua disposizione. Credo che questo spieghi le ragioni del suo malanimo. Nella relazione finale si legge che «le testimonianze raccolte, i dati analizzati, gli approfondimenti svolti da questa Commissione non lasciano dubbi: la disciplina sul sequestro e la confisca dei beni alle mafie pretende, subito, un investimento di volontà politica e di determinazione istituzionale che fino a ora non c’è stato. Insomma, un sistema da ripensare». Cosa non ha funzionato fino ad oggi? L’Agenzia del beni confiscati è stata considerata e gestita come un ente di sottogoverno, senza rendersi conto invece che occorrono, come mai prima d’ora, risorse umane, competenze, denari. Continua ad essere gestita da un prefetto, la pianta organica è in debito, molti funzionari sono “comandati” da altre sedi, e spesso hanno scarsa competenza tecnica. Alfano collocò l’Agenzia a Reggio Calabria solo perché all’epoca il suo partito aveva in quella regione la sua più forte base elettorale, e mandò nel comitato direttivo Antonello Montante per poi fare rapidamente marcia indietro quando si seppe che era indagato per mafia. Sottogoverno, appunto. Ma i vulnus sono numerosi, e non riguardano solo l’Agenzia. Diciamo che su questo tema c’è un clima, non solo istituzionale, distratto e confuso. Le porto un esempio che è anche un paradosso: fino a quando un’azienda appartiene a un mafioso spesso ha ampio credito nel circuito bancario; appena lo Stato la toglie alla mafia il rating bancario diventa negativo: non ci si fida più. A chi fa paura la Commissione e il metter mano alla disciplina sui beni confiscati? Non parlerei di paura. Credo più semplicemente che in taluni ambienti ci si sia disabituati all’idea di una commissione di inchiesta che fa domande, che cerca di ricostruire l’origine dei contesti corruttivi, che non si limita ad invitare i propri auditi a prendere il caffè e a discettare sulla storia della mafia o sull’etimologia della parola. In tre anni abbiamo prodotto sette relazioni, dal business dei rifiuti in Sicilia al depistaggio Borsellino, dall’improvvido scioglimento di alcuni comuni per mafia al sistema Montante. Centinaia di audizioni, migliaia di documenti acquisiti, relazioni apprezzate anche per aver messo insieme nomi, fatti e comportamenti. Qualcuno forse preferirebbe che il nostro lavoro si limitasse alla buona pedagogia antimafiosa, la cosiddetta educazione alla legalità, e all’organizzazione qualche convegno con le suffragette dell’antimafia. Angela Stella — 3 Marzo 2021 IL RIFORMISTA
2.03.2021 BORSELLINO E IL RICATTO ALLA PALERMITANA: PERCHE’ NON ASCOLTARE PALAMARA ?
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STRAGE DI VIA D’AMELIO, ENRICO DEAGLIO AUDITO IN COMMISSIONE ANTIMAFIA Il 2 marzo la commissione Antimafia ha iniziato un lavoro di indagine sulle implicazioni nazionali dell’attentato che ha messo al centro del mirino il dottor Paolo Borsellino. “C’è ancora qualcuno, animato da buone intenzioni e non rassegnato, che ci tiene a capire che cosa successe” dichiara Deaglio. “Buone notizie per chi è interessato alla ricerca di verità sull’omicidio del giudice Paolo Borsellino e degli agenti della sua scorta”. Lo scrive il giornalista, scrittore e conduttore televisivo Enrico Deaglio in una nota, che così prosegue: “La Commissione Antimafia della Regione Sicilia, presieduta dall’onorevole Claudio Fava, ha iniziato il 2 marzo scorso un lavoro di indagine non solo sul depistaggio (su cui ha già pubblicato una approfondita relazione), quanto sulle implicazioni nazionali di quell’episodio. La decisione è stata presa dopo l’archiviazione, da parte del Gip di Messina, delle accuse contro due magistrati all’epoca in servizio alla procura di Caltanissetta e indagati per la vicenda L’archiviazione, destinata a stendere l’oblio sulla vicenda, ha trovato dunque un dissenso, da parte della Commissione Antimafia siciliana, che ha deciso di usare i suoi poteri per continuare le indagini e allargarle allo scenario generale in cui avvenne il “più grande depistaggio della storia d’Italia”. Credo che la Commissione sia oggi l’unica (ultima?) sede che si propone di cercare verità e di non far cadere i crimini di quel periodo nella dimenticanza. Nessun’altra istituzione, che io sappia – né il Csm, né il Parlamento, né il Ministero di Giustizia, né un qualsiasi partito politico, né un qualsiasi gruppo di pressione, nemmeno una delle tante voci che operano sui social media – è interessato a sapere di più dello scempio che è stato fatto di Paolo Borsellino – in vita e in morte. Si è giunti al punto che Fiammetta Borsellino, figlia del giudice ucciso, nella sua richiesta di verità trovi poche voci amiche, e di converso molte intimidazioni. E’ quindi con molto piacere, e con altrettanta riconoscenza, che ho appreso di essere stato indicato per l’audizione della Commissione che ha aperto i nuovi lavori, il 2 marzo scorso. Il presidente Fava mi ha convocato per le notizie pubblicate in due libri, “Il vile agguato” (Feltrinelli 2012) e “Patria 2010-2020” (Feltrinelli 2020), inizio e proseguimento di un lungo lavoro d’inchiesta sul caso.
Gli argomenti su cui sono stato richiesto di riferire sono stati:
- i giochi di potere che permisero al semi sconosciuto commissario Arnaldo La Barbera di assumere i pieni poteri nell’indagine sull’omicidio, di estromettere voci critiche e di avviare il depistaggio fin dall’inizio. Una posizione di potere alla quale la magistratura sembra essersi più o meno volontariamente sottomessa.
- I legami di La Barbera con i servizi segreti e, nel contempo, con i vertici di Cosa nostra, datati da parecchio tempo; la sua conoscenza diretta di Nino Gioè, uno degli autori materiali della strage di Capaci, ben prima del 1992. La frettolosa archiviazione della morte per impiccagione di Nino Gioè nel carcere di Rebibbia (giugno 1993).
- la circostanziata – tanto clamorosa quanto pochissimo nota – segnalazione da parte dell’ambasciatore Fulci (rappresentante dell’Italia alle Nazioni Unite) di un concreto coinvolgimento di uomini del Sismi negli attentati della primavera estate 1993 (Firenze, Milano, Roma) e il drammatico appello che portò – sulla base di quelle notizie – il presidente della Repubblica Scalfaro a rivolgersi alla nazione a reti unificate (novembre 93).
- il Falso di Stato che ha circondato la cattura di Salvatore Riina e i suoi postumi.
- La protezione offerta dallo Stato durante tutto il periodo delle stragi al clan dei fratelli Graviano, protagonisti di tutta la scena criminale del 92-93-94; e tenuti per decenni al riparo dalle inchieste giudiziarie.
- la scandalosa “mancanza di coscienza” che ha coinvolto tutta la magistratura nella vicenda della costruzione del “falso pentito” Vincenzo Scarantino, la cui presenza sulla scena ha di fatto protetto per più di 15 anni i veri colpevoli; e lasciato in cella una dozzina di innocenti per altrettanti anni.
Sono stato ascoltato con molta attenzione, mi sono state rivolte domande molto pertinenti, ho consegnato documentazione che mi era stata richiesta, e indicato altre persone “informate sui fatti”, che possono essere utili all’inchiesta. La Commissione ha in programma di lavorare per i prossimi mesi, rendendo pubbliche le sue acquisizioni e naturalmente rendendo note alle competenti procure le notizie di reato di cui è venuta a conoscenza. Questa comunicazione è per dire che, anche se siamo quasi arrivati a 30 anni di distanza da quegli eventi – che peraltro cambiarono la natura della democrazia in Italia – c’è ancora qualcuno, animato da buone intenzioni e non rassegnato, che ci tiene a capire che cosa successe. Mar 4, 2021 ROBERTO GRECO WordNews
La difende Fava: “Cerca solo la verità”. “Suo padre è stato fatto a pezzi anche da chi ha depistato. Ha tutto il diritto di non fidarsi” In soccorso di Fiammetta Borsellino, vittima di linciaggio mediatico dopo le sue parole sul Csm e su Nino Di Matteo, oltre che sui professionisti dell’Antimafia, è intervenuto Claudio Fava, sempre dalle colonne del Riformista: “Credo che Fiammetta Borsellino stia subendo un linciaggio mediatico, per fortuna molto limitato, per un ragionamento che qualcuno potrà non condividere ma che lei ha tutto il diritto di proporre pubblicamente: ovvero, il depistaggio su via d’Amelio e le ombre che si proiettano sull’intera indagine sono conseguenza anche d’una attività di indagine frettolosa, avventata, miope. Questo è un fatto, non una velleità interpretativa di Fiammetta Borsellino. È un fatto che Vincenzo Scarantino sia stato considerato un collaboratore di giustizia credibile solo da coloro che lo utilizzarono per istruire quei processi mentre coram populo si sapeva che era solo un poveraccio semianalfabeta. E allora io mi chiedo: vogliamo lasciare ad una donna il diritto di ricercare la verità dopo aver visto il padre fatto a pezzi e aver assistito impotente al fatto che una parte dello Stato aveva lavorato – dolosamente o colpevolmente, per strafottenza, con forzature procedurali, con insensibilità istituzionali – per depistare le indagini e quindi allontanare la verità sulle ragioni di quella strage? Avrà oggi tutto il diritto di dire ‘io non mi fido’?”. A proposito del capitolo Di Matteo: “Non si tratta di personalizzare. Ma ci sono i fatti – spiega il presidente della commissione regionale Antimafia -. A Caltanissetta c’è stato un gruppo di pm – e all’epoca c’era anche Di Matteo, anche se era il più giovane – che hanno sostenuto e difeso, anche contro ogni evidenza, la credibilità di Scarantino. Al vertice di quella procura c’era un Procuratore della Repubblica che – nel silenzio di tutti i suoi PM – ha violato o forzato obblighi di legge, prassi e procedure, decidendo di affidare funzioni di polizia giudiziaria ai servizi segreti. La sensazione, intatta a distanza di 29 anni, è che ci sia stata da parte di alcuni ambienti della magistratura siciliana una chiusura corporativa sui vizi, gli errori, le stravaganze delle indagini su via D’Amelio”. BUTTANISSIMA 4.3.2021
BORSELLINO E IL RICATTO ALLA PALERMITANA: PERCHE’ NON ASCOLTARE PALAMARA ? «Io mi sono messo a disposizione della commissione Antimafia, potrebbe essere una occasione per affrontare dei temi che, nell’ambito della mia esperienza consiliare, abbiamo esaminato come i rapporti tra Stato e mafia, i mandanti delle stragi e gli importanti esposti dalla famiglia Borsellino. Penso che sia l’occasione giusta per potermi consentire di parlare». Così ha dichiarato Luca Palamara durante la trasmissione Non è L’Arena, condotta da Massimo Giletti, a proposito dell’audizione saltata in commissione Antimafia per la mancanza del numero legale. La verifica delle presenze è stata chiesta da Pietro Grasso di Leu, accanto al quale si è schierato non solo il Pd ma anche Forza Italia. Gli unici a muoversi compattamente per l’audizione immediata di Palamara sono stati i componenti leghisti della commissione. Il problema è che se dovesse essere convocato nuovamente, c’è il rischio che venga ascoltato solo per la vecchia storia sulla mancata nomina al Dap del magistrato Nino Di Matteo. Roba già fin troppo sviscerata, ma nulla sulla vicenda delle deviazioni emerse all’interno delle correnti della magistratura e del Csm. Non solo.
Il rischio è che non venga sentito sugli esposti di Fiammetta Borsellino Il rischio è che non venga nemmeno sentito per i temi che ha annunciato da Giletti. Parliamo soprattutto degli esposti presentati da Fiammetta Borsellino sui depistaggi nelle indagini sulla strage in cui persero la vita suo padre Paolo e gli agenti di scorta. In particolare la figlia del magistrato ucciso in via D’Amelio aveva chiesto di far luce sulle “disattenzioni” da parte dei magistrati che ci sarebbero state sulle dichiarazioni del falso pentito Vincenzo Scarantino. Ricordiamo che il gip ha archiviato l’inchiesta sugli ex pm di Caltanissetta, Annamaria Palma e Carmelo Petralia, rilevando che «ci furono molteplici irregolarità e anomalie nella gestione del collaboratore Scarantino», ma non è stata «individuata alcuna condotta penalmente rilevante a carico dei magistrati». Quindi per il gip, gli allora pm di Caltanissetta non hanno avuto alcuna responsabilità penale nel depistaggio accertato. Ma resta sullo sfondo, come ha scritto recentemente l’avvocata Rosalba Di Gregorio, legale di alcune di quelle persone condannate innocentemente per la strage, che i pm sono stati «scarsamente aderenti ai criteri di valutazione della prova» e che purtroppo non tennero conto neppure dell’instabilità psicologica di Scarantino.
Non sono stati più ascoltati i magistrati che si erano occupati delle dichiarazioni di Scarantino Fatti che il Csm non ha voluto esaminare per una eventuale azione disciplinare, nemmeno simbolica tipo come la “censura” che equivale a un buffetto sulla guancia. C’è Luca Palamara che, prima di essere radiato, è stato membro del Consiglio superiore della magistratura. Anche quando in seno alla prima commissione Csm si stava discutendo dell’opportunità di svolgere accertamenti nei confronti dei magistrati coinvolti nell’inchiesta sul depistaggio nel primo processo Borsellino. Forse potrebbe fare chiarezza, capire esattamente quale sia stato il vero motivo per cui si è deciso di non dare seguito all’esposto presentato dalla figlia di Borsellino. La verità ufficiale è che ciò sarebbe stato determinato dal troppo tempo trascorso che toglierebbe ogni efficacia all’intervento disciplinare del Csm. Tutto quindi si è fermato e non sono stati più ascoltati i magistrati che si erano occupati delle dichiarazioni del falso pentito: ovvero Fausto Cardella, Francesco Paolo Giordano, Roberto Saieva e Ilda Boccassini, come aveva deciso invece il precedente Csm, il cui unico atto istruttorio era stata l’audizione del magistrato e ora membro del Csm Nino Di Matteo, oltre che l’acquisizione delle motivazioni della sentenza del Borsellino quater. Se Palamara ha annunciato che ha qualcosa da dire, forse dietro la verità ufficiale si nascondono ben altre motivazioni? Un motivo in più per essere audito in commissione Antimafia, ma forse non basta. Per i temi annunciati ci vorrebbe una commissione parlamentare d’inchiesta ad hoc, altrimenti c’è il rischio che si riveli del tutto inutile. A questo si aggiunge un altro aspetto che dovrebbe essere chiarito sempre per il rispetto dei familiari di Borsellino che chiedono con forza la verità.
L’interessamento di Borsellino a mafia-appalti Uno di quelli è il discorso del procedimento mafia-appalti archiviato dopo la strage di Via D’Amelio. Oramai sono agli atti, per ultimo la sentenza di secondo grado del Borsellino quater, che la causa dell’accelerazione della strage è da ricercarsi nell’interessamento di Borsellino al dossier mafia-appalti, lo scopo è di «cautela preventiva». Un fatto richiamato in diverse sentenze, ma mai approfondito fino in fondo. Ebbene nelle intercettazioni tra Palamara e il pm Stefano Fava si parla di un «ricatto alla palermitana». Si tratta dell’informativa della Guardia di finanza relativa ad attività tecniche rit. n 120/19 e 175/ 19. Riportiamo i passaggi in causa.
Le intercettazione dei colloqui tra Palamara e Stefano Fava Palamara: «Però dopo lo sai che facciamo, facciamo un libro, io faccio un libro, no non sto scherzando…», Fava: (ride), Palamara: «’na specie di ricatto tu me dai le co…eh…e tutto… e diciamo quello che cazzo è successo…», Fava: «Il titolo è Ricatto alla Palermitana…», Palamara: «Questa adesso è una cosa che va oltre, no? Totalmente», Fava: «Ma se tu leggi quel libro là di… Gli intoccabili inc. le… cioè tu vedi come tutta la carriera di Pignatone è una fuga di notizie…», Palamara: «È così!», Fava: «Dall’ indagine mafia-appalti del ’91 in tutti i procedimenti dove c’era lui, gli indagati, lì era Felice Lima (all’epoca pm di Catania che raccolse la collaborazione di Li Pera e dove rivelò con precisione tutto il sistema appalti ndr), poi c’era Siino (fonetico), c’era Li Pera (fonetico) sempre avevano le informative, cioè sempre in tutti i procedimenti, poi arriva Cuffaro e Cuffaro nella vicenda Guttadauro, nella vicenda Aiello è andato a dire perché è stato condannato Cuffaro, perché Cuffaro dà un incarico a suo fratello Roberto Pignatone, il mio stesso Roberto Pignatone…perché Cuffaro ha dato la notizia a Guttadauro che era un medico e ad Aiello che era un altro medico che avevano le ambientali», Palamara: «Eh!», Fava: «Perciò è stato condannato, giusto?», Palamara: «Esatto», Fava: «e questi procedimenti chi c’era, Pignatone, perché all’epoca era braccio destro…», Palamara: «Secondo me pure per loro se lo mandano in Prima è un boomerang che se io le vado a fa ste dichiarazioni, no ipoteticamente mi chiamano, cioè saltano in area sia Cascini che Manci…cioè quelli che poi si devono dimette…».Precisiamo che sono solo intercettazioni, scambi privati tra due magistrati. Da sottolineare che Pignatone, in realtà, non è l’unico che si occupò del procedimento mafia-appalti: fu coassegnatario del procedimento soltanto sino alla data del 5 novembre del ’91. Non partecipò nemmeno alla stesura della richiesta di archiviazione inerente gli esponenti della politica e della imprenditoria, oggetto di attenzione da parte del Ros. L’aspetto che più colpisce è il “ricatto alla palermitana”, come se esistessero soggetti ricattabili a causa del loro passato. Sarebbe importante fare chiarezza su tutti questi aspetti, in particolar modo i primi anni 90 e ciò che sarebbe accaduto all’interno dell’allora procura di Palermo. Ricordiamo che la sentenza del Borsellino quater di secondo grado suggerisce di indagare anche su quel versante. La Corte ricorda che «non erano state poche le difficoltà iniziali incontrate dal dottor Borsellino, al quale erano state delegate solo le indagini per le province di Trapani e Agrigento, e non per quella di Palermo». A tal proposito, richiamando la sentenza di primo grado, la Corte le attribuisce il merito di aver ricostruito «le ragioni del contrasto fra il dottore Borsellino e l’allora procuratore capo della Procura di Palermo, Giammanco, ricordando come tale delega, più volte sollecitata dal dottore Borsellino, gli fosse stata conferita solo la mattina del suo ultimo giorno di vita». IL DUBBIO Damiano Aliprandi 2.3.2021
“LA SINISTRA HA CREDUTO TROPPO AI PM”, IL MEA CULPA DI CLAUDIO FAVA Dal 1992 «abbiamo ritenuto, sbagliando, di dover considerare sempre infallibile la magistratura, soprattutto se si occupa di mafia, una sorta di atto di fede a prescindere dai risultati»: a parlare è l’onorevole Claudio Fava, Presidente della Commissione Antimafia dell’Assemblea regionale siciliana, che suFiammetta Borsellino aggiunge: «Vogliamo lasciare il diritto ad una donna di pretendere la verità dopo che ha visto il padre fatto a pezzi e una parte dello Stato depistare la ricerca sulle ragioni di quell’attentato?». Lo intervistiamo dopo che la relazione sulla gestione dei beni confiscati presentata qualche giorno fa dalla Commissione da lui presieduta ha raccolto molti pareri positivi, fatta eccezione per due velenose reazioni, come quelle del rettore dell’Università di Palermo Fabrizio Micari, a cui è seguito un intervento altrettanto critico del giurista Costantino Visconti, a cui replica: «L’unica voce fuori dal coro arriva da un docente palermitano assai empatico con la dottoressa Saguto».
Onorevole, come si risolve il conflitto tra «l’antimafia dei fatti» e quella «delle star»? Credo che un lavoro importante debba farlo anche l’informazione che a volte contribuisce a costruire le facili mitologie. Conosco trenta o quaranta giornalisti, sconosciuti ai più, che davvero rischiano la pelle giorno per giorno. Di loro nessuno scrive. Si sente parlare solo di un paio di furbi cronisti, quelli che pensano alla carriera dell’antimafioso minacciato come alla più nobile delle autocelebrazioni. Dietro a volte c’è solo un circo mediatico che ama i titoli ad effetto, che coltiva un’antimafia di cartone col giubbotto anti-proiettile. Fare buon giornalismo, dedicarsi a un’informazione che provi a comprendere i motivi profondi e innominabili degli scandali di corte e delle collusioni di potere non significa sbattere su Facebook il nome di qualche malandrino di periferia facendo il copia e incolla dei mattinali di polizia.
Lei in una intervista su LiveSicilia ha detto: «La mia generazione ha un peccato originale: avere preteso di affermare un crisma fideistico di infallibilità dei magistrati dopo la stagione delle stragi». Può spiegare meglio questo concetto? Nel 1992 tutti ci siamo sentiti in colpa per quello che era accaduto a Palermo. Da quel momento abbiamo ritenuto, sbagliando, di dover considerare sempre infallibile la magistratura, soprattutto se si occupa di mafia, una sorta di atto di fede a prescindere dai risultati. Forse c’è stato anche il bisogno di trovare almeno un’istituzione alla quale poterci affidare acriticamente, senza condizioni, dopo l’inabissamento dei partiti e della politica. Credo che ci siano stati e ci siano magistrati straordinari che rappresentano una risorsa per la tenuta democratica del Paese: in mezzo però ci sono state anche altre storie. C’è chi ha costruito carriere alzando i decibel della propria voce, chi ha ritenuto di indagare anzitutto in direzioni che portavano verso il clamore dei titoli dei giornali, chi ha pensato di celebrare se stesso come se fosse un protomartire cristiano. Alla fine si sono offuscate risorse importanti per la giustizia: l’umiltà, la sobrietà, l’autonomia rispetto alle convenienze di carriera e ai conciliaboli del potere. Le vorrei fare un esempio.
Prego Un magistrato come Armando Spataro, l’unico che abbia avuto la capacità di istruire un processo a Milano – il caso Abu Omar – pretendendo che le leggi della Repubblica valessero anche per i servizi segreti americani e italiani. Su quel processo è stato messo il segreto di Stato – totalmente pretestuoso – da tutti i governi, di destra o sinistra. Penso che la sua rettitudine nell’applicazione delle regole del codice e al tempo stesso il rispetto per l’autonomia e l’indipendenza della magistratura siano un esempio straordinario. Poi ci sono altri magistrati, talmente saturi di vanità da assumere il crisma della loro infallibilità come un precetto di fede, per cui ogni richiesta di spiegazione o di comprensione diventa un atto di blasfemia.
A proposito di questo, Lei ha stigmatizzando coloro che criticano Fiammetta Borsellino solo perché solleva dei dubbi sulle indagini per la morte di suo padre. Proprio al Riformista la donna ha detto: «Nessuna fiducia nei pm antimafia e nel Csm, hanno depistato».
Credo che Fiammetta Borsellino stia subendo un linciaggio mediatico, per fortuna molto limitato, per un ragionamento che qualcuno potrà non condividere ma che lei ha tutto il diritto di proporre pubblicamente: ovvero, il depistaggio su via d’Amelio e le ombre che si proiettano sull’intera indagine sono conseguenza anche d’una attività di indagine frettolosa, avventata, miope. Questo è un fatto, non una velleità interpretativa di Fiammetta Borsellino. È un fatto che Vincenzo Scarantino sia stato considerato un collaboratore di giustizia credibile solo da coloro che lo utilizzarono per istruire quei processi mentre coram populo si sapeva – e lo spiegavano anche gli altri collaboratori di giustizia messi a confronti con Scarantino – che era solo un poveraccio semianalfabeta. E allora io mi chiedo: vogliamo lasciare ad una donna il diritto di ricercare la verità dopo aver visto il padre fatto a pezzi e aver assistito impotente al fatto che una parte dello Stato aveva lavorato – dolosamente o colpevolmente, per strafottenza, con forzature procedurali, con insensibilità istituzionali – per depistare le indagini e quindi allontanare la verità sulle ragioni di quella strage? Avrà oggi tutto il diritto di dire “io non mi fido”? Avrà il diritto di poter giudicare caso per caso, dopo quello che la magistratura a Caltanissetta ha prodotto sull’indagine Borsellino?
Fiammetta critica anche Nino Di Matteo: «Non può considerarsi erede di mio padre chi non pone in essere i suoi insegnamenti e anche quelli di Giovanni Falcone. Mio padre, ad esempio, non avrebbe mai scritto o presentato libri sui suoi processi in corso».
Non si tratta di personalizzare. Ma ci sono i fatti. A Caltanissetta c’è stato un gruppo di pm – e all’epoca c’era anche Di Matteo, anche se era il più giovane – che hanno sostenuto e difeso, anche contro ogni evidenza, la credibilità di Scarantino. Al vertice di quella procura c’era un Procuratore della Repubblica che – nel silenzio di tutti i suoi PM – ha violato o forzato obblighi di legge, prassi e procedure, decidendo di affidare funzioni di polizia giudiziaria ai servizi segreti. Quella Procura ha ritenuto di non dover mai interrogare il procuratore di Palermo Pietro Giammanco, pur sapendo lo scontro, all’interno di quella procura, fra il suo capo e Paolo Borsellino. La sensazione, intatta a distanza di 29 anni, è che ci sia stata da parte di alcuni ambienti della magistratura siciliana una chiusura corporativa sui vizi, gli errori, le stravaganze delle indagini su via D’Amelio.
Onorevole, a proposito della relazione sui beni confiscati, il professore Visconti è arrivato a scrivere che in essa «viene preferito lo stile della sceneggiatura a quello del cauto approfondimento documentale». Come replica?
La relazione ha ricevuto apprezzamenti da tutti gli ambienti istituzionali. L’unica voce fuori dal coro arriva da un docente palermitano assai empatico con la dottoressa Saguto e ben felice, come raccontano le intercettazioni telefoniche, di mettersi a sua disposizione. Credo che questo spieghi le ragioni del suo malanimo.
Nella relazione finale si legge che «le testimonianze raccolte, i dati analizzati, gli approfondimenti svolti da questa Commissione non lasciano dubbi: la disciplina sul sequestro e la confisca dei beni alle mafie pretende, subito, un investimento di volontà politica e di determinazione istituzionale che fino a ora non c’è stato. Insomma, un sistema da ripensare». Cosa non ha funzionato fino ad oggi?
L’Agenzia del beni confiscati è stata considerata e gestita come un ente di sottogoverno, senza rendersi conto invece che occorrono, come mai prima d’ora, risorse umane, competenze, denari. Continua ad essere gestita da un prefetto, la pianta organica è in debito, molti funzionari sono “comandati” da altre sedi, e spesso hanno scarsa competenza tecnica. Alfano collocò l’Agenzia a Reggio Calabria solo perché all’epoca il suo partito aveva in quella regione la sua più forte base elettorale, e mandò nel comitato direttivo Antonello Montante per poi fare rapidamente marcia indietro quando si seppe che era indagato per mafia. Sottogoverno, appunto. Ma i vulnus sono numerosi, e non riguardano solo l’Agenzia. Diciamo che su questo tema c’è un clima, non solo istituzionale, distratto e confuso. Le porto un esempio che è anche un paradosso: fino a quando un’azienda appartiene a un mafioso spesso ha ampio credito nel circuito bancario; appena lo Stato la toglie alla mafia il rating bancario diventa negativo: non ci si fida più.
A chi fa paura la Commissione e il metter mano alla disciplina sui beni confiscati?
Non parlerei di paura. Credo più semplicemente che in taluni ambienti ci si sia disabituati all’idea di una commissione di inchiesta che fa domande, che cerca di ricostruire l’origine dei contesti corruttivi, che non si limita ad invitare i propri auditi a prendere il caffè e a discettare sulla storia della mafia o sull’etimologia della parola. In tre anni abbiamo prodotto sette relazioni, dal business dei rifiuti in Sicilia al depistaggio Borsellino, dall’improvvido scioglimento di alcuni comuni per mafia al sistema Montante. Centinaia di audizioni, migliaia di documenti acquisiti, relazioni apprezzate anche per aver messo insieme nomi, fatti e comportamenti. Qualcuno forse preferirebbe che il nostro lavoro si limitasse alla buona pedagogia antimafiosa, la cosiddetta educazione alla legalità, e all’organizzazione qualche convegno con le suffragette dell’antimafia. Angela Stella — 3 Marzo 2021 IL RIFORMISTA
QUEI PM SUPERSTAR Che sia la volta buona che i magistrati tornino a fare i magistrati, lasciando le parate ad attori e modelle? Mentre imperversa ancora la bufera Palamara che anche in recenti interviste ha spiegato come tutto quello che è accaduto a seguito del Palamaragate, avesse come scopo quello di impedire la nomina di Marcello Viola al vertice della Procura di Roma; mentre con l’ennesimo colpo di coda una certa antimafia, con la complicità della stampa amica, denigra e cerca di zittire Fiammetta Borsellino che vuole soltanto sia fatta chiarezza sulla strage di Via D’Amelio, finalmente si sollevano voci di dissenso sui magistrati Superstar. Claudio Fava, Presidente della Commissione Antimafia dell’Ars, interviene ricordando come dal 1992, l’anno delle stragi di Capaci e Via D’Amelio, si sia finito con il considerare infallibili le toghe antimafia per “una sorta di atto di fede a prescindere dai risultati”. I Pm si trasformano in autentiche celebrità dell’antimafia – non tutti per fortuna – partecipando a vere e proprie parate di star trasmesse in diretta, in streaming, pubblicate sulle pagine dei quotidiani e sulle più prestigiose riviste patinate. Ad aprire le danze, quasi fossero tante Naomi Campbell o Demi Moore, i magistrati impegnati nei processi di mafia più importanti, a partire proprio da quelli impegnati in passato nei processi relativi alle stragi. Convegni, interviste, partecipazioni a circoli culturali e non, hanno portato anche sulla stampa internazionale i nuovi Vip che non disdegnano di parlare di processi ancora in corso, di scrivere, pubblicare e presentare libri sull’argomento. E se dopo così tanto baccano le star non ne avessero imbroccata una? Non ci sono problemi. I processi vanno avanti con pentiti più o meno falsi – come nel caso del depistatore Vincenzo Scarantino, del quale anche le pietre, ma non alcuni magistrati, si sarebbero accorte delle menzogne – in nome di una giustizia e un’antimafia passarella che nulla aveva da invidiare alle sfilate di Coco Chanel, Saint Laurent, Christian Dior e altri stilisti del panorama internazionale della moda. E i giornalisti? Come i magistrati! Anche nel mondo del giornalismo ci sono i Vip, quelli che Fava definisce i furbi cronisti che pensano alla carriera dell’antimafioso minacciato, come alla più nobile delle autocelebrazioni, con dietro quel “circo mediatico che ama i titoli ad effetto, che coltiva un’antimafia di cartone col giubbotto anti-proiettile”. Con magistrati e giornalisti superstar, non potevano mancare i collaboratori di giustizia (si fa per dire), autentiche stelle dello spettacolo di questo Circo Barnum. Sul podio, tra nani, acrobati clown e ballerine, la vera star è lui. Il re delle tv, della carta stampata, dei video e degli abbracci pro domo sua, corteggiato da magistrati e rappresentanti di associazioni che – per dirla come Fava – appartengono a quell’antimafia di cartone col giubbotto anti-proiettile. Vincenzo Calcara, colui che tutto sapeva di tutti, dall’attentato al Papa a quello a Paolo Borsellino; dalle malefatte (vere, presunte, o inventate) di Giulio Andreotti, fino ad arrivare a Paul Casimir Marcinkus. Sarà anche vero che – come lui stesso disse a un suo compagno di cella – per prendere in giro magistrati e carabinieri basta un po’ di fantasia, ma è mai possibile che nessuno si accorgesse realmente di chi fosse questa nuova stella dello spettacolo? Può esser mai che neppure dopo che sulla scena comparvero i primi veri collaboratori di giustizia della mafia trapanese (oltre vent’anni fa) che smentivano clamorosamente Calcara, a nessuno venisse in mente che la soubrette in realtà fosse un manichino addobbato a festa? Non ci se ne accorse nemmeno dopo quel lontano 1999, quando i giudici di Reggio Calabria sancirono in sentenza non soltanto l’inattendibilità del pentito – che tra le altre cose si era inventato di aver visto a S. Luca un monumento che non era più lì da anni – ma avanzarono anche l’ipotesi che lo stesso fosse stato “imbeccato”, da chi, non si sa. E quando Massimo Russo lo rinviò a giudizio per auto calunnia “per essersi accusato di far parte di cosa nostra”, dicendo che “era un personaggio che ha detto delle cose che andavano oltre la sua cognizione e non sappiamo se siano farina del suo sacco o di qualche altro sacco che non è di farina”; nessuno si pose la domanda di chi fosse il sacco che di farina non era? Processo dietro processo, sentenza dopo sentenza, diversi tribunali certificarono l’inattendibilità di Calcara, fino ad arrivare al processo di Caltanissetta a Matteo Messina Denaro, che ha permesso di ricostruire come avesse “inquinato i pozzi” dando false indicazioni su chi era il capomafia del trapanese, e di formulare l’ipotesi che fosse stato eterodiretto. Eh già, perché il falso pentito tra una bugia e l’altra, qualche verità la disse. Magari qualcuna di quelle conosciute soltanto da investigatori e inquirenti, che servivano solo ad accreditarlo come collaboratore attendibile. Aveva descritto un monumento che anni prima era lì dove lui lo indicava. Chi gli aveva fatto vedere, o aveva descritto quel monumento, non essendo a conoscenza del fatto che non si trovava più in quella piazza? Perché un dato è certo, la dovizia di particolari della descrizione, nasceva dal sapere realmente come fosse fatto. Chi gli mostrò la foto? Riconobbe in foto e in aula uomini mai incontrati prima. Chi glieli aveva descritti così che lui potesse riconoscerli? Fece i nomi di veri e finti uomini appartenenti alla consorteria mafiosa del trapanese. Non avendo mai fatto parte di “cosa nostra” (come risulta dalle dichiarazioni di decine di collaboratori e da sentenze), chi gli indicò i nomi di taluni soggetti che comparivano soltanto nei verbali e nelle relazioni redatte dalle forze dell’ordine? Troppe le similitudini che lo collegano al falso pentito Vincenzo Scarantino, con una differenza. Scarantino operò il depistaggio a stragi avvenute; Calcara, nel dare false indicazioni su chi fosse a capo della mafia trapanese, e guardandosi bene dal fare il nome di Matteo Messina Denaro, deviando su altri le indagini, permise che a Castelvetrano l’attuale boss latitante, che latitante all’epoca non era, potesse incontrare i vertici regionali di “cosa nostra” per preparare in tutta tranquillità le stragi del ’92. Una differenza non di poco conto. Così come non di poco conto è il fatto che presunti omicidi da lui commessi, e riportati nelle sentenze, non abbiano dato luogo a processi che lo abbiano visto quantomeno imputato. Il dubbio nasce spontaneo. Le propalazioni del pentito eterodiretto, furono frutto della farina (che farina non era) del sacco di appartenenti alle forze dell’ordine, e soltanto da questi, o è legittimo ipotizzare che alla “costruzione” del pentito possa aver preso parte qualche toga? Se anche nessuna toga ha suggerito il copione della recita, come spiegare che dopo anni da quando si scoprì che il pentito tale non era, continuò ad avere ampio credito presso alcuni magistrati? Scarantino fu sconfessato da collaboratori di giustizia veri, come nel caso di Gaspare Spatuzza, e lo stesso può dirsi di Calcara. Non è arrivato il momento di chiedersi e capire quale realmente sia stato il ruolo di questo falso pentito, e chi lo costruì? Forse lo si potrebbe chiedere a lui stesso, magari gli si offrirebbe l’occasione per poter calcare nuovamente la scena, ma questa volta da vero collaboratore di giustizia. L’antimafia, non quella di cartone, non ha bisogno di Pm Superstar, ha bisogno di Magistrati che facciano i Magistrati, senza aver la pretesa di sfilare agli eventi organizzati dagli stilisti dell’alta moda. Lasciamo che a farlo siano Naomi Campbell, Kate Moss, Demi Moore e le altre modelle; per carità, anche l’occhio vuole la sua parte… Gian J. Morici LA VALLE DEI TEMPLI 3.3.2021