GIUSEPPE COSTANZA e la colpa di essere sopravvissuto alla strage

 

 

VIDEO – 15 marzo 2024 A “Caro Marziano” va in onda la puntata dedicata ai superstiti di Capaci.


Otto anni vissuti fianco a fianco con il giudice Giovanni Falcone, nella vita pubblica e anche in quella privata, affrontando giorno dopo giorno tutti i rischi che ciò comportava fino a quel drammatico 23 maggio di 29 anni fa, quando oltre 500 chili di tritolo piazzati a Capaci in un cunicolo dell’autostrada uccisero il magistrato, sua moglie Francesca Morvillo e tre agenti della scorta. Giuseppe Costanza, che quel giorno, invece di essere al suo solito posto di guida sedeva sul sedile posteriore dell’auto, guidata dallo stesso Falcone, a quella terribile strage si salvò miracolosamente grazie ad una coincidenza di circostanze.   Una volta rimessosi dai traumi e dalle ferite riportate nell’attentato si prefisse una missione: portare la sua testimonianza in giro per l’Italia perché l’omicidio del giudice Falcone prima e del giudice Borsellino dopo, non siano semplicemente archiviati sotto l’etichetta di “stragi di mafia”, ma trovino una spiegazione veritiera nel contesto economico e politico in cui si sono verificati.

 

 

GIUSEPPE COSTANZA, conducente di automezzi speciali e autista giudiziario di fiducia del dottor Falcone: “Quel 23 maggio, era un sabato, andai a prendere la Croma bianca in via Lo Jacono, posteggiata come al solito dietro casa del Giudice e sorvegliata da agenti della Polizia. L’appuntamento con la scorta era alle 17.45 nell’aeroporto di Punta Raisi. Lungo la strada non notai nulla di sospetto, o quasi: una Fiat 131 blu posteggiata fuori della galleria di Isola delle Femmine, sull’altro lato dell’autostrada. Dentro non c’era nessuno. Arrivai alle 17.30 ed entrai con l’auto nella pista di atterraggio, dove erano appena arrivati anche gli agenti Antonio Montinaro (capo scorta), Rocco Dicillo, Vito Schifani, Gaspare Cervello, Angelo Corbo e Paolo Capuzza, con altre due Croma (una marrone e l’altra azzurra). Falcone e sua moglie atterrarono puntuali con un piccolo aereo, un Falcon 10 del Sisde, al che ci avvicinammo con le auto all’aereo. Non avevano valigie, perché dovevano restare solo un giorno. Lui teneva due borse, che ripose nel bagagliaio, ma notai che non aveva con sé il suo inseparabile computer. Ci salutammo con un cenno, dato che non amava i convenevoli.   La moglie mi sorrise. Dato che lei soffriva di mal d’auto, salì davanti, al posto del passeggero.   Falcone comunicò la direzione a Montinaro e si mise alla guida, com’era già accaduto altre volte.  Quindi io mi sedetti dietro, al centro. Loro non allacciarono le cinture di sicurezza. Non lo facevano mai, anche per evitare ritardi in caso di fuga dall’abitacolo. Erano di buon umore.  Per strada si parlava del più e del meno e del fatto che non c’erano stati segnali d’allarme in città. Lei guardava fuori, in silenzio.  «Dottore, le ho comprato quella cosa», esclamai. «Eccole il resto». E presi dalla tasca 60.000 lire. La settimana prima, a Palermo, mi aveva chiesto di comprargli un cric per l’auto della moglie e mi aveva dato addirittura 90.000 lire. Prese i soldi, li infilò nella tasca della giacca e disse sorridendo: «Aveva un pensiero? Non poteva aspettare più?», come per voler dire che glieli avrei potuti restituire tempo dopo. Poi mi spiegò che la gita che avevamo in programma di fare insieme a Favignana, in occasione della mattanza dei tonni, era stata rinviata.  La guida del Giudice era quella di un comune automobilista, andava ai 120/130 chilometri orari e non “copriva” la carreggiata, nel senso che non adottava la tecnica abituale di noi conducenti, quella cioè di tallonarsi lateralmente. La tecnica di occupare tutte le corsie dell’autostrada, compresa quella di emergenza, impedisce ad altri di intromettersi tra un’auto e l’altra; per cui, se quel giorno avessimo proceduto come di consueto, chi azionò la bomba avrebbe visto tre auto avanzare l’una accanto all’altra, e di certo saremmo stati tutti investiti in pieno dall’esplosione. Falcone, invece, guidava normalmente e si teneva a distanza di sicurezza dalla prima Croma, quella marrone, mentre quella azzurra, a sua volta, stava più lontana perché la sua guida, fondamentalmente, era imprevedibile. Poi ci fu il “fatto” delle chiavi. Mi disse che, appena arrivato a casa, aveva un incontro con dei colleghi riguardante la Direzione nazionale, per cui mi chiese di accompagnare la moglie su a casa e che lui avrebbe continuato da solo, con la scorta. «Mi venga a prendere lunedì mattina a casa alle sette», concluse. Non che ci fossero motivi particolari, semplicemente ebbe la cortesia di lasciarmi il tempo per organizzare il ricevimento per la comunione di mio figlio Alessandro, che si sarebbe tenuto il giorno dopo. Dato che i mazzi di chiavi erano due (una copia la teneva lui e l’altra io) e che le mie in quel momento erano attaccate al cruscotto, dissi: «Allora, quando arriviamo a casa, mi dia il mio mazzo di chiavi, così lunedì posso riprendermi la macchina». Non so perché, forse era soprappensiero, fatto sta che, in un attimo, sfilo il mazzo di chiavi dal cruscotto, mise la mano nell’altra tasca della giacca, prese il suo mazzo, lo infilò nel cruscotto e riaccese l’auto, ancora in trazione. In quell’istante, l’auto si spense e rallentò perché la marcia inserita era la quarta. «Ma che fa?», urlai, «così ci andiamo ad ammazzare!». Lui, girando il capo verso la moglie, che annuiva stupita, disse: «Scusi, scusi!». Vedo il cartello autostradale dello svincolo di Capaci e poi un lampo. Dopodiché, il nulla. Escludo categoricamente che volesse farci uno scherzo, anzi sono certo che in quel momento non fosse lì con la testa, forse perché stava pensando alla riunione. Il fatto di aver sfilato le chiavi provocò lo spegnimento immediato del motore, facendo rallentare l’auto quel poco sufficiente per salvarmi la vita, perché, se non l’avesse fatto, la bomba sarebbe detonata proprio sotto di noi. Esplose, invece, sotto la prima Croma, quella che trasportava Antonio Montinaro, Vito Schifani e Rocco Dicillo, scaraventandola a sessantadue metri di distanza e riducendola, sebbene fosse un mezzo blindato, in mille pezzi. Noi ci schiantammo contro un muro di terra, asfalto e cemento, e un’onda d’urto provocata da oltre cinquecento  chili di tritolo. Gli agenti Cervello, Corbo e Capuzza, invece, che ci seguivano dentro la Croma azzurra, subirono un duro colpo, ma si salvarono, tant’è che accorsero subito in nostro aiuto.”

 

 

Le ultime ore di Giovanni Falcone raccontate dal suo autista di fiducia Circa un’ora prima dell’orario di arrivo, l’autista Giuseppe Costanza era andato a prendere la macchina di servizio, la Fiat Croma bianca, che era parcheggiata in via Notarbartolo in un posto fisso sorvegliato da agenti di polizia. L’auto era utilizzata solo dal magistrato e da Francesca Morvillo. Giunto all’aeroporto, Costanza ha incontrato gli agenti di scorta a bordo delle due autovetture blindate e con loro aveva atteso l’arrivo del volo. L’aereo atterrò in orario

Come si è visto, la dott.ssa Morvillo accompagnava il marito, e ciò perché la signora era riuscita ad ottenere un permesso per lasciare un’ora prima la commissione uditori di cui faceva parte, in modo tale da partire inseme al marito e non più con il volo delle 18.20.  Questo era quanto accadeva a Roma.

Per quanto riguardava Palermo, l’organizzazione del servizio di tutela del giudice aveva inizio con la telefonata dell’autista Costanza al Ministero, di cui ha già riferito la teste Carraturo, con la quale egli apprendeva dal magistrato che il suo rientro in città era previsto per il pomeriggio del giorno successivo.

Per linee generali è importante far presente che il dottor Falcone in persona curava i contatti con il signor Costanza, il quale all’udienza del 19 settembre 95, a tal proposito ha dichiarato: «Il dott. Falcone, quando si spostava o da Palermo o da Roma, mi contattava direttamente; se era a Palermo chiaramente me lo diceva la sera prima; se era a Roma mi telefonava o in ufficio o a casa, dandomi il giorno e se era possibile l’ora; se non lo sapeva ci sentivamo nuovamente».

I RICORDI DI GIUSEPPE COSTANZA. Poiché questo si occupava di tutti gli spostamenti del magistrato in Palermo era anche persona informata dell’attività svolta dal giudice in Sicilia, quindi qualificata per riferire a tal proposito: è utile pertanto, prima di passare a quanto atteneva più strettamente il rientro di giorno 23, chiarire anche il punto relativo all’esistenza del viaggio precedente, quello per cui era stato emesso il biglietto aperto.

Il Costanza ha riferito che il dott. Falcone il lunedì o la domenica precedente l’attentato era sceso a Palermo, ripartendone il lunedì sera, e che era stato lui ad accompagnarlo all’aeroporto: nell’occasione il giudice gli aveva comunicato che sarebbe ritornato per il fine settimana, per il venerdì, invitandolo ad assistere alla mattanza a Favignana.

Quel venerdì invece il giudice lo aveva chiamato a casa alle sette di mattina per avvisarlo che il suo arrivo era stato rinviato all’indomani e che si sarebbero dovuti risentire per fissare il nuovo orario: di conseguenza, il Costanza aveva contattato l’ufficio scorte per revocare il servizio predisposto per quella giornata, e l’indomani, nella mattinata, aveva chiamato il ministero per farsi comunicare dal giudice l’orario di arrivo del volo, che aveva appreso essere fissato per le 17.45. A quel punto si era messo nuovamente in contatto con l’ufficio scorte, telefonando dalla stanza del giudice Guarnotta per non essere sentito da altro personale, riferendo all’ispettore Colella l’orario di arrivo della personalità protetta.

Nel pomeriggio, circa un’ora prima dell’orario di arrivo preventivato, era andato a prendere la macchina di servizio, la Fiat Croma bianca, che era parcheggiata in via Notarbartolo in un posto fisso sorvegliato da agenti di Ps, autovettura che era espressamente adibita al trasporto del magistrato e della dott. ssa Morvillo. Giunto all’aerostazione, aveva incontrato gli agenti di scorta a bordo delle due autovetture blindate, e con loro aveva atteso l’arrivo del volo, che atterrò in orario.

Una volta completate le operazioni di caricamento dei bagagli il corteo si era messo in moto: il dott. Falcone si era posto alla guida per far compagnia alla moglie che, soffrendo di mal di auto, era solita sedersi sul sedile anteriore.

Tale circostanza aveva influenza sull’andatura di marcia, che in presenza della signora non era mai molto elevata.

Per quanto riguarda invece i componenti della scorta, ha riferito il teste Corbo di aver appreso che era stato destinato alla scorta il pomeriggio del 22 dal capo pattuglia, l’agente Cervello; che l’arrivo del giudice Falcone a Punta Raisi era previsto intorno alle ore 17,30; e che erano già stati allertati sia per il giorno precedente, venerdì 22 maggio, e sia per la mattina dello stesso giorno sabato 23 maggio. Erano usciti dalla caserma Lungaro dove aveva sede l’Ufficio Scorte intorno alle 14, avevano fatto il solito giro di bonifica del percorso poi si erano diretti verso l’areoporto di Punta Raisi con un’andatura abbastanza lenta nell’autostrada sempre per la bonifica del percorso e vi erano arrivati intorno alle 16.30-16.45. Appena atterrato l’aereo, si erano posizionati vicino alla scaletta per prelevare le personalità e portarle fino alla macchina, che era posteggiata a pochi metri dall’aereo stesso.

L’AEREO ATTERRA ALLE 17.43. Ed ancora Gaspare Cervello, il capo scorta, sull’argomento ha riferito: «Arrivati all’aeroporto ci siamo recati dai colleghi della Polaria per sapere se c’era il volo di Stato che era diretto qui a Palermo e a che ora arrivasse, e pressappoco ci ha detto che arrivava alle cinque e mezza, sei meno un quarto. E ci siamo recati dove atterrava l’aereo, sempre, diciamo, davanti la Caserma dei Pompieri lì, all’aeroporto, era un lato più distaccato dai voli nazionali; chiamiamolo il lato più esterno. Cioè eravamo coperti, c’era la Caserma dei Pompieri atterrava a pochi metri dalla Caserma, e noi lo attendevamo là, diciamo, aspettavamo… L’autista del dott. Falcone con la relativa autovettura ci ha raggiunto là, perché al 99% sapeva che atterrava sempre là l’aero; quindi arrivato lui l’abbiamo aspettato tutti insieme…L’aereo è atterrato verso le cinque e mezza, sei meno un quarto. Mentre scendeva l’aereo, riferiva Falcone a pochi metri della macchina, “Passiamo da casa e lasciamo mia moglie”, e noi proseguiamo per via Principe Belmonte, che lì c’è un negozio di camicerie che lui si andava a vestire là. E niente, ci siamo seduti in macchina, la macchina davanti ha fatto già di strada; il giudice Falcone lo seguiva e noi di dietro come chiudere il corteo. Andavamo a 100, 120 km circa..».

Per quanto concerne poi l’esatta determinazione dell’orario di arrivo del volo a Punta Raisi, è stata acquisita agli atti del processo la documentazione del foglio di volo, inoltrato dal CAI all’Ente di Controllo delle operazioni di Volo, dal quale si ricava l’ora del decollo, 17.02, e quella di atterraggio, 17.43 e si determina, di conseguenza, il momento in cui il corteo di macchine aveva lasciato l’aeroporto, cioè le 17.46 grazie anche alla deposizione del pilota dell’aereo Guido Molaro, che, all’udienza del 19 settembre 95, ha riferito: «…Abbiamo liberato la pista e dopo circa tre minuti eravamo sulla piazzola dove il dott. Falcone è sceso e dove è venuta la macchina e l’ha preso a bordo… Si trattava di una zona defilata rispetto al fulcro dell’aerostazione… comunque davanti gli hangar delle rimesse delle autobotti dei pompieri. era visibile anche dall’esterno dell’aeroporto certamente sì; tutto quello che c’è più alto del piano dell’aeroporto, diciamo, ai bordi della montagna lì, sta dove… insomma, dal terrazzino in poi; basta essere un pò sopraelevati, sopra gli agrumeti che si vede dentro il campo. C’è la completa visuale, la panoramica di tutto l’aeroporto e della nostra posizione, sicuramente» Testi tratti dalla sentenza della Corte d’Assise di Caltanissetta (Presidente Carmelo Zuccaro) A CURA DELL’ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA

 

 

 

“In Italia per essere presi in considerazione occorre morire. Io disgraziatamente sono rimasto in vita  e oggi do fastidio perché dico ciò che penso e non quello che vogliono che io dica”. La Strage di Capaci per Giuseppe Costanza, l’autista del giudice Giovanni Falcone scampato al tritolo di Cosa nostra, ha segnato l’inizio di un oblio lungo 23 anni.

“Dopo 18 mesi tornai a lavoro, mi aspettavo un’accoglienza diversa e, invece, non sapevano cosa farsene di me. Mi misero in uno sgabuzzino, un piccolo ufficio con le pareti in cartongesso ricavato in un corridoio”, Gli diedero la medaglia d’oro al valor civile e lo assegnarono all’ufficio autoparco. “Entravo, timbravo il cartellino e aspettavo l’orario di uscita. Nessun ordine di servizio. Un incubo. Mi incatenai davanti al tribunale, fu a quel punto che si accorsero che Giuseppe Costanza era vivo. E stato il periodo più brutto della mia vita, altro che bomba… Dopo 10 anni non ce l’ho fatta più e me ne sono andato”.

Oggi Costanza gira l’Italia, va nelle scuole per raccontare ai ragazzi gli anni bui delle stragi e parlare di quel giudice “isolato e delegittimato dalle stesse istituzioni che oggi lo esaltano”. “In vita Falcone ebbe più nemici che amici, fu abbandonato e tradito. Fu accusato persino di essersi messo da solo la bomba del fallito attentato all’Addaura per fare carriera.

Il Csm bocciò la sua candidatura alla guida dell’ufficio Istruzione di Palermo preferendogli Antonino Meli, che di mafia non sapeva nulla e che smantellò il pool antimafia. Questa è la verità – scandisce lentamente -. Invece, ogni anno assistiamo alle solite passerelle, vengono qui, salgono sul palco e tutto finisce lì. Non si alza il tiro sui mandanti, siamo ancora alla manovalanza”. Da 28 anni Giuseppe Costanza aspetta la verità. “La avremo forse tra 50 anni – dice -, quando non ci sarò più io e neppure i responsabili delle stragi.

“Sono stufo di sentire dire che la mafia è solo Riina, Provenzano e Messina Denaro, che furono loro ad avere l’idea di imbottire l’autostrada di esplosivo. Falcone a Roma camminava senza scorta, avrebbero potuto eliminarlo là. Invece, lo hanno fatto a Palermo con una manifestazione eclatante. Una sceneggiata, un depistaggio, un’intimidazione per far piegare qualcuno ai voleri di chi quella strage l’aveva ideata. Ci vogliono professionisti per far saltare in aria un’autostrada, altro che Totò Riina e Bernardo Provenzano… Pezzi dello Stato e delle istituzioni che agirono nell’ombra e che sfruttarono quella manovalanza”.  

La settimana prima dell’attentato di Capaci il giudice Falcone confidò a Costanza una notizia non ancora ufficiale e che doveva rimanere riservata. “Mi disse che sarebbe diventato il procuratore nazionale antimafia e che avrebbe istituito un ufficio a Palermo – ricorda -. Aggiunse che ci saremmo spostati con l’elicottero ed era necessario che prendessi il brevetto per pilotarlo. Si fidava di me… Per me dietro la strage c’è proprio quella nomina”.

Lo scorso anno Costanza è stato sentito per la prima volta dalla commissione nazionale Antimafia. Ha ricostruito gli otto anni passati con il giudice. “Avevo chiesto di essere ascoltato nel 1998 ma quella istanza è rimasta lettera morta…”.  Per molto tempo l’autista di Falcone, l’uomo con cui il giudice aveva un rapporto strettissimo di stima e di fiducia (“Comunicava a me e non alle istituzioni i suoi spostamenti”) è stato dimenticato. “Sono stati 23 anni di silenzio istituzionale, non mi hanno né invitato né cercato – dice -. Un giorno mentre in tv guardavo le manifestazioni in occasione dell’anniversario della strage mio nipote mi ha detto: ‘Nonno, ma non c’eri pure tu a Capaci? Perché non sei insieme a loro? E’ stato un pugno nello stomaco. E stato allora che ho deciso di far sentire la mia voce”.

A lungo ha dovuto convivere con il senso di colpa per essere scampato all’attentato. “Mi è stato detto che se fossi stato al mio posto, Falcone si sarebbe salvato e sarei morto io. Una bugia. Se alla guida ci fossi stato io sulla linea di fuoco sarebbero arrivate tutte e tre le auto e oggi piangeremmo nove vittime, invece che cinque”.  Negli anni passati accanto al giudice ha imparato a convivere con la paura. “Ogni volta che uscivo di casa non sapevo se avrei riabbracciato i miei cari – ammette -, ma non avrei mai mollato Falcone. Ho rischiato la mia vita e non per soldi certamente, ma perché vedevo il suo impegno e la sua necessità di avere accanto persone di cui fidarsi e io ero uno di questi. Tornando indietro lo rifarei”.

Del giudice ricorda “la sua voglia di vivere”. “Mi diceva che gli sarebbe piaciuto poter passeggiare nella sua città senza la scorta, come un cittadino normale. Invece, era un ergastolano”. Le notizie delle scarcerazioni dei boss nelle ultime settimane lo hanno turbato. “Una cosa assurda, abominevole – dice -. E’ stato uno sbaglio compiuto da incompetenti o una scelta precisa? Io a questo punto ho i miei dubbi. Fortunatamente c’è stata un’indignazione nazionale, un moto di ribellione da un capo all’altro dell’Italia”. La fiducia nello Stato, nonostante gli anni di depistaggi e verità mancate, però, Costanza non l’ha mai persa, anche se, ammette con amarezza, “dentro le Istituzioni ci sono anche tanti che sono arrivati per altri scopi. I mafiosi una volta erano quelli con la coppola, oggi invece sono i tanti colletti bianchi che affollano i palazzi del potere. E lì che bisogna scavare, perché Cosa nostra senza l’appoggio di questi personaggi non esisterebbe”.

Ecco perché, secondo l’uomo che per otto anni ha accompagnato Falcone, occorre tenere bene a mente che “l’antimafia non si fa solo il 23 maggio”. “Oggi più che mai è necessario valutare con attenzione chi fa antimafia e chi, invece, vive di antimafia. Il mio auspicio? Che chi ha sbagliato possa pagare e oggi a chiederlo non è solo Giuseppe Costanza, figlio di un ferroviere, onesto cittadino italiano, ma l’Italia intera. Non possono più prenderci in giro”. Adnkronos 20.5.2020

 

 

C’è una terza persona sulla macchina di Giovanni Falcone e Francesca Morvillo  il 23 Maggio del 1992, l’unica che si salverà dentro quell’abitacolo. Sul sedile posteriore è seduto Giuseppe Costanza, dipendente civile dell’amministrazione di Giustizia, Ufficio Istruzione, adibito a condurre mezzi speciali. Non è lì per caso, non è un “turnista”, ma l’autista fisso di Giovanni Falcone da 8 anni. Il magistrato si fida di lui, anche se – proprio all’inizio del loro rapporto – litigano perché Falcone lo cazzia davanti ad altre persone, a suo avviso ingiustamente. Costanza va a lamentarsi dal procuratore Caponnetto e il giorno dopo Falcone lo chiama in ufficio, lo fa sedere.
“Allora, Costanza, cosa è successo ieri?” dice serio, poi si lascia andare e si mette a ridere. Anche Costanza ride e da lì inizia un lungo rapporto fatto di convivenze, viaggi, silenzi, pericoli. Costanza ammira Falcone: “era un magistrato inarrestabile, un motore trainante, un uomo che non si fermava mai” e parimenti il magistrato ha totale fiducia in lui.
Costanza è l’uomo che Falcone informa quando deve spostarsi affinché raduni la sua scorta.  
Da lui si fa tagliare anche i capelli, perché prima di quell’incarico Costanza è stato barbiere. C’è Costanza con lui quando a Bagheria vengono uccisi i familiari del pentito Marino Mannoia e Falcone vorrebbe andare sul posto, poi decide di no, è troppo pericoloso. E quando – per una serie di fattori – c’è la possibilità che ci vada da solo il suo autista lui si oppone. “A Costanza non lo lascio solo”. Sulla spiaggia dell’Addaura c’è ancora Costanza insieme agli artificieri il giorno del in cui viene ritrovata una bomba nella villa occupata da Falcone per lavoro, nel 1989. Il segnale chiarissimo di quanto da tempo la mafia sia vicina a Falcone, anche se Costanza per primo ha più paura di Roma. Quando è lì il magistrato gira con molta meno protezione, dunque chiunque volesse colpirlo lo colpirebbe lì, non in Sicilia con tutta l’attenzione che hanno quando viaggiano. Falcone, una settimana prima del 23 Maggio, gli ha detto “è fatta” riferendosi al suo prossimo ruolo di Procuratore Nazionale Antimafia. Per questo ha anche domandato a Giuseppe Costanza di prendere la patente da elicotterista per potergli fare da autista anche in aria, in caso di emergenza, con il piccolo “mosquito” l’elicottero che talvolta è necessario ai suoi spostamenti. Una scorta, quando viaggia, non si comporta come le altre auto. Di norma, quando si muovono in corteo, la macchina di Costanza con a bordo Falcone e le altre due di scorta stanno tutte affiancate, correndo e occupando tutta la sede stradale, per impedire a chiunque di affiancarle o superarle. Solo che il 23 Maggio del 1992 mentre vengono dall’Aeroporto di Punta Raisi dove Falcone è atterrato senza immaginare che a quell’aeroporto darà il suo nome, si dispongono in modo diverso. Falcone ha voglia di guidare e si mette al volante, ma non è il suo lavoro. “Guidava come una persona “normale””. Così Falcone resta dietro, non si affianca alla macchina dove ci sono i tre poliziotti di scorta: Vito Schifani (alla guida, papà di un bambino di 4 mesi), Antonio Montinaro (caposcorta seduto, al posto del passeggero e padre di due figli). Rocco Dicillo (sul sedile posteriore). Mentre sono quasi alla svolta per Capaci, Falcone dice a Costanza che non avrà bisogno di lui sino al lunedì. “Vai pure a casa”. “Dottore però si ricordi di darmi le chiavi della macchina”. Falcone, sovrappensiero. spegne la macchina in corsa e le toglie dal quadro. Costanza lo sgrida. “Dottore che fa? Così poi ci schiantiamo”. La moglie Francesca fa un sorriso di comprensione al marito e un cenno come a dire che Giuseppe Costanza ha ragione. “Scusi, scusi” dice Falcone e rimette le chiavi nel quadro. La macchina ha rallentato ancora un po’ prendendo ulteriore distanza dal veicolo di testa. A quel punto arriva la bomba. “Se avessimo viaggiato affiancati come facevamo sempre saremo morti tutti” dirà Costanza, Invece l’uomo che attiva il telecomando sbaglia perché lo schiaccia al passaggio della prima macchina, dilaniandola e spedendola nei campi coltivati a 100 metri di distanza. La macchina di Falcone si schianta contro il muro di cemento alzatosi dopo lo scoppio, il giudice e la moglie sbattono contro il parabrezza e riportano gravissime ferite, ma non muoiono subito. A chiudere il corteo la terza e ultima Croma della scorta, con a bordo Paolo Capuzza, Gaspare Cervello e Angelo Corbo che sono feriti ma vivi. «Scendiamo con grande difficoltà dalla macchina, ci sono rottami e pezzi d’asfalto dappertutto. Corriamo verso l’auto di Falcone e vediamo che è successo qualcosa di mostruoso. C’è una voragine, l’autostrada è sventrata, un caldo assassino e lui è ancora vivo. E, per qualche attimo, è cosciente. Gira la testa verso di noi, ci lancia uno sguardo come a implorare aiuto, poi reclina la testa sul finestrino. Non dimenticherò mai quegli occhi. Cerchiamo disperatamente di aprire gli sportelli, ma non ci riusciamo. Allora ci mettiamo intorno alla macchina con le pistole puntate, a proteggerlo fino alla morte, questa è la regola. Io e Capuzza dal lato di Falcone, verso il mare, Cervello da quello opposto, vicino alla Morvillo. E aspettiamo lì, feriti, che i mafiosi vengano a darci il colpo di grazia». È l’estremo atto di protezione di questi uomini per il magistrato che devono difendere. Giuseppe Costanza in quel momento è già privo di sensi e non ricorderà nulla dopo le ultime parole di Falcone. Il gesto involontario del magistrato di estrarre le chiavi, quel secondo di distanza in più dal punto dello scoppio, gli ha salvato la vita, anche se in ospedale gli vengono asportate la milza e parte di intestino, perde parte di uno zigomo, ha 5 ernie cervicali per l’impatto, un braccio offeso che ha meno forza dell’altro, l’udito in parte compromesso. Il Presidente Scalfaro lo va a salutare, in Ospedale ma dopo quell’incontro per Giovanni arriva un inatteso e doloroso oblio. Per anni non viene menzionato, si trova isolato, quasi che la sua sopravvivenza sia una colpa. “I morti giustamente vengono ricordati dei vivi non sanno cosa farsene”. Torna al lavoro dopo un anno e mezzo di malattia, ma si ritrova demansionato anche perché per i civili non esistono avanzamenti di grado per atti eroici o ferimenti in servizio, al contrario degli appartenenti alle forze dell’ordine. Non sanno bene cosa fargli fare, si trova spesso a fare fotocopie o con mansioni di portiere, si rivolge a un avvocato per farsi tutelare e vedersi assegnato di nuovo alle mansioni che gli competono. Negli anni Costanza ha trovato un ascolto attraverso il percorso di memoria attraverso il racconto nelle scuole convinto che la sua testimonianza in prima persona sia potente con i ragazzi e continuando a chiedere, come fanno anche gli altri agenti sopravvissuti a Capaci, giustizia “vera”. Per tutti loro è incredibile che un attentato di quella portata sia stato fatto dagli ignoranti, gli analfabeti, gli esecutori materiali messi insieme da Riina. Non di rado Costanza ha pubblicamente polemizzato e denunciato la scarsa attenzione riservata a lui e agli altri tre sopravvissuti alla strage, Capuzza, Corvo e Cervello, dimenticati troppo spesso e in troppe circostanze, al massimo sopportati più che accolti nelle cerimonie di ricordo. In questa ricorrenza può avere molto senso recuperare le loro interviste, ascoltare le loro storie e le testimonianze dirette sui segni che quel giorno ha lasciato anche nelle vite di chi è rimasto. Giuseppe Costanza ha raccontato la sua vicenda a Riccardo Tessarini che l’ha raccolta nel libro “Stato di abbandono” (Minerva Edizioni) i cui proventi sono interamente destinati alla beneficenza. Quando gli chiedono cosa penserebbe Falcone delle sue scelte ha risposto “Penso che da lassù mi approverebbe e chissà… mi protegge”. RICCARDO CAZZANIGA

 

L’UNICO MAGISTRATO CHE VENNE A TROVARMI IN OSPEDALE FU PAOLO BORSELLINO il dottor Falcone, “Come ogni mattina, anche quella mattina mi chiamò per dirmi che sarebbe arrivato a Punta Raisi alle 7. Quel 23 maggio, anche quel 23 maggio, chiamai la scorta per radunarla, come feci ogni mattina. Ho chiamato dalla stanza del dottor Guarnotta, era l’unico di cui mi fidavo. Dopo il raduno, come da protocollo, arrivammo all’aeroporto: ci eravamo dati appuntamento lì. Lui viaggiava con un Falcon10, un aereo piccolino e non uno di linea. Non voleva rischiare. Ci siamo messi in macchina: il dottore alla guida, la moglie al suo fianco e io dietro. Per strada mi disse che quando sarebbe arrivato a casa non avrebbe avuto più bisogno di me in giornata, che ci saremmo rivisti lunedì. Allora gli ricordai delle chiavi, per entrare a casa. Il giudice sfilò le chiavi dal quadro comando per darmele. Lo ripresi dicendo ‘ma che fa, così ci andiamo ad ammazzare!’ L’ultima immagine che ho di Giovanni Falcone è il sorriso di Francesca Morvillo, che ha incrociato lo sguardo con suo marito“. Giuseppe Costanza non è un sopravvissuto. Sa bene di esserlo ma non vuole che passi questo messaggio. L’autista di Giovanni Falcone ha tenuto tutti con il fiato sospeso raccontando quel tragico 23 maggio del 1992, quando si trovava sulla Croma bianca saltata per aria assieme a un’auto della scorta che la precedeva. L’attentato preparato da Cosa Nostra al magistrato e a sua moglie Francesca Morvillo ha segnato un’epoca, l’Italia intera e anche Costanza. Che in Aula Magna ha intrattenuto un centinaio di studenti durante l’incontro promosso dall’Università e dal Comitato Unicef di Parma con il patrocinio del Comune dal titolo ‘La figura di Giovanni Falcone nel ricordo di Giuseppe Costanza’. “Si dice che io faccia parte delle forze dell’ordine. Non è così. Sono un dipendente dell’Ufficio Istruzione. Sono un conducente di macchine speciali, facevo il barbiere prima. E questo mi ha aiutato a conoscerlo anche come uomo. Abbiamo litigato, ok, ma questo ci ha fatto avvicinare maggiormente”. Il racconto del magistrato, dell’uomo, del professionista, delle sue ansie e delle sue accortezze nelle parole di chi lo ha conosciuto e vissuto fino all’ultimo secondo. Una vita sacrificata e sacrificante in nome di una legalità che rimane l’obiettivo numero uno di Giuseppe Costanza, che cerca giustizia. Una bambina di undici anni rompe il ritmo del racconto scandito dall’accento siculo del protagonista: 

Se potesse tornare indietro farebbe ancora l’autista di Falcone?“. Costanza prende fiato e sorride: “Alza la voce, le mie orecchie non sentono. La bomba le ha compromesse”. 

Quando la domanda gli viene riportata, senza esitazione risponde: “Più che mai. Rischierei ancora per lui. Vi racconto questa: io avevo due guerre, una dentro casa, l’altra fuori. Dovevo vincerle. Per ventitré anni non ho mai ricevuto un invito dalla fondazione Falcone. Penso che se hai la disgrazia di rimanere vivo resti un emarginato. 

Un giorno mi trovo a Punta Raisi per aspettare l’arrivo del suo Falcon10. Lui scende, ma mentre lo aspetto ascolto per radio una notizia. Riferisco a Falcone che era avvenuto triplice omicidio a Bagheria: uccisi i familiari di Marino Mannoia, collaboratore di giustizia. La prima cosa che disse Falcone: ‘Andiamo a Bagheria!’ ma poi si trattiene capendo che sarebbe stata una sfida oltre che un rischio. 

C’era possibilità che ci andassi io da soloMa Falcone disse una frase che conservo in maniera gelosissima. Vale molto di più della medaglia d’oro: ‘A Costanza non lo lascio solo’. Questo era Giovanni Falcone”.  “Dopo una settimana – racconta Costanza – sono stato convocato nella stanza di Falcone. Mi chiese se fossi disponibile a guidare la sua macchina. Certo, pensai in me. Il mio lavoro è questo: sono un conducente di automezzi speciali. Ma iniziai a capire cosa significava  quella frase solo quando mi misi alla guida della macchina. 

l corteo era composto da due volanti aprivano e chiudevano, un elicottero sopra di noi, un’autocivetta e due macchine con la nostra in mezzo. Durante questo incontro ci saranno delle rivelazioni scomode che vanno dette, altrimenti non è antimafia. Falcone non chiamava mai le istituzioni per comunicare i suoi spostamenti. Mi chiamava a casa.

Fondamentalmente penso che l’attentato sia un depistaggio. Primo: perché pecorai e macellai non potevano imbottire di tritolo l’autostrada, ci vogliono competenze tecniche. Qualcuno deve averci messo lo zampino. Quella è solo manovalanza. Criminali.  Secondo: la sua nomina ha fatto paura a qualcuno. Ai colletti bianchi. La mafia non è quella che ti spara ma quella che ordina di spararti. Hanno preso la manovalanza, non la cupola. Ho 72 anni, non posso vivere chissà quanto. Ci arriverò a sapere chi ha ideato quella strage? Una strage per paura che riprendesse le indagini nel 1989. Nel 1983 mi trovo in piazza Boccaccio a Palermo quando avverto un grande boato. Veniva da via Federico.

Avevano ucciso il consigliere istruttore Rocco Chinnici, assieme al portiere e agli uomini di scorta. Chinnici era un genio, ha pensato di creare un gruppo di lavoro, secondo cui la mafia diventava vulnerabile. Il pool. Succedevano cose strane. Quando si emettevano mandati di cattura non venivano mai arrestati. Falcone un giorno mi ha portato in un casolare. Era l’ufficio di un suo collega. E scoprì che c’erano delle cimici. Scoppiò uno scandalo. In tutto questo la commissione antimafia che avrebbe dovuto per dovere istituzionale sentirmi non mi ha mai sentito neanche oggi. La settimana prima dell’attentato mi disse: ‘È fatta, sarò il Procuratore Nazionale Antimafia, ci muoveremo con un elicottero e saremo a Palermo’. L’attentato è un depistaggio”. “La sua nomina all’Ufficio Istruzioni ha fatto paura a qualcuno. Ai colletti bianchi, come li chiamava lui. La mafia non è quella che ti spara ma quella che ordina di sparare. Un giorno arriveremo a prendere coloro che hanno ordinato la strage. Spero presto. Ho 72 anni, non posso vivere chissà quanto. Ci arriverò a sapere chi ha ideato quella strage? Una strage per paura che Falcone riprendesse le indagini cominciate nel 1989. Quando Antonino Meli prese servizio a Palermo all’Ufficio Istruzioni al posto di Falcone, riteneva che i Magistrati dovessero occuparsi di tutto. Non solo di mafia. Infatti ci furono sei fascicoli che consegnò a Falcone. Smantellò il Pool antimafia. Quando Falcone passò in procura io tirai un sospiro di sollievo. Che durò poco. Mi ha chiesto di seguirlo in Procura. E non per sentirsi dire no. Ma pure lì le cose non andavano bene. Aveva le mani legate”.

L’AGENDA “Dopo l’attentato l’unico che venne a trovarmi fu Borsellino. Parlammo della strage, lui annotò tutto nell’agenda.  L’agenda di Paolo Borsellino è sparita, qualcuno all’interno se ne appropriò. La zona dell’esplosione che coinvolse il magistrato sotto la casa della madre era delimitata, non tutti potevano entrare. Solo gli addetti ai lavori. Speriamo venga fuori prima o poi, Vanno dette queste cose, affinché la nuova generazione prenda consapevolezza di questo. Io ho servito lo Stato e sto continuando a servirlo. Io sto servendo lo Stato buono.  Con la speranza che paghino i responsabili.  Si dice che io sia l’unico sopravvissuto – spiega Costanza -. Non è vero. Ci sono tre agenti di polizia. Io  sono stato emarginato perché ho deciso di parlare. Dopo il ricovero in ospedale mi sono ritirato in una casa di campagna, di mia proprietà. Ero lì, vegetale. Avevo il telefonino acceso, ma nessuno mi ha chiamato. Un giorno vedo scendere nella mia proprietà una macchina. Da dietro il cancello mi avvicino. Uno mi saluta. Era un poliziotto, assieme a un collega. Mi venivano a controllare. Stavano cercando il capo espiratorio per il fallito attentato a Falcone al mare. Cercavano di infangarmi. Meno male che ero dentro quella maledetta macchina”. “Noi abbiamo un’arma terribile – prosegue Costanza – quella del voto. ‘Dammi che ti do’ abbiamo già messo noi stessi in mano alla mafia se facciamo così. Gli altri sopravvissuti sono rimasti in silenzio”. 

LA PASSEGGIATA – “Falcone aveva solo un desiderio: amava tantissimo muoversi, andavamo in piscina al mattino presto, voleva sentirsi libero. E aveva il desiderio di andare a passeggiare in libertà. Mi diceva sempre di fare attenzione alle ambulanze, alle moto con due persone. In Italia bisogna morire, solo così si viene ricordati. Il ricordo che porterò per sempre con me è quello del caffè. Io ero l’unico che poteva andare a casa loro. Perché prima di diventare conducente di mezzi speciali ero un barbiere. E andavo a tagliare i capelli a Falcone. Mi svestivo dei panni di autista e indossavo quelli dell’ospite. La moglie, che studiava i fascicoli con lui, spariva. Tornava con il caffé”. PALERMO TODAY 11 giugno 2019

 

Racconto biografico di Giuseppe Costanza, autista personale di Giovanni Falcone, sopravvissuto miracolosamente alla strage mafiosa del 1992. È il racconto del suo lungo rapporto con il giudice, di ciò che ha patito dopo la strage dalle Istituzioni, isolato e strumentalizzato dall’informazione. Un uomo che combatte ancora oggi per i propri diritti.

 

8 novembre 1989: Da oggi, prendo la buona abitudine di scrivere tutto quello che succede […]. La bomba era stata preparata per Falcone, ma quanti di noi avrebbero subito le conseguenze, se fosse scoppiata? Eppure nessuno dei dirigenti del Tribunale o del Ministero o il Presidente del Tribunale si è mai degnato di rivolgermi una parola, mentre per la scorta qualcosa è stato fatto. Dopobuna quindicina di giorni, visto che nessuno ne parlava, mi rivolsi al dottor Parsi, che mi rispose che non era di sua competenza, ma del dottor Domenico Lo Vasco. Mi rivolsi subito a lui, che mi diede ragione. Anzi, mi ha detto di aver visto qualcosa sulla scrivania del Presidente. Io non ci credo, ma è lo stesso perché mi sento meglio dopo che gliel’ho detto. L’indomani ne parlai con il dottor Falcone, dicendo che nessuno si è preso la briga di parlarmi per sapere come stavo (con tutti i risvolti familiari che ci sono). Mi rispose che avevo ragione. Parole sue: «Vi usano come carne da cannone».[…] così, dopo cinque anni, mi ritrovo ancora con lui. Ogni uscita potrebbe essere l’ultima, senza che mi sia riconosciuto niente. Se succederà qualcosa, non voglio tutte quelle messinscene che si ripetono per ogni omicidio di Stato. Da morto, non mi servono. Da vivo, non mi riconoscete. Questa è ipocrisia!  Tratto dal libro Stato di Abbandono – Il racconto di Giuseppe Costanza.


Quando il sentore Andreotti …

STRAGE di CAPACI   Ricordi personali…

19 agosto 1999,  segnalo al senatore Giulio Andreotti che, qualora il suo libro dovesse andare in ristampa, sarebbe stato opportuno correggere una circostanza  fortunatamente errata.

L’autista giudiziario Giuseppe Costanza, contrariamente a quanto da lui affermato si salvò in quanto al momento dell’esplosione si trovava sul sedile posteriore essendosi messo alla guida il dottor Falcone al cui fianco sedeva la moglie Francesca Morvillo in quanto soggetta a mal d’auto.

A questo mio suggerimento, il senatore, già alle prese con le vicende processuali (*), dalle quali gli augurai di uscire presto e bene, rispose dalla Francia ringraziando e, non rinunciando alla  sua proverbiale ironia,  ricambiando oltre ai saluti anche gli “auguri”.

 

(*) Il processo Andreotti fu il procedimento penale che coinvolse il senatore per i reati di partecipazione ad associazione a delinquere ‘semplice’ (art. 416 c.p.) e di tipo mafioso (art. 416 bis c.p.). Si celebrò, nei suoi tre gradi di giudizio, presso le autorità giudiziarie di Palermo, Perugia e Roma tra il 1993 e il 2004. Per la prima volta Giulio Andreotti, per sette volte Presidente del Consiglio e per ventuno volte Ministro presso numerosi dicasteri, venne chiamato a rispondere, in una sede giudiziaria, dei suoi rapporti, organici e correntizi, con Cosa nostra. Fu assolto in primo grado dal Tribunale di Palermo. La Corte d’appello di Palermo, con sentenza del 2 maggio 2003, lo assolse per i fatti successivi al 1980 e dichiarò l’intervenuta prescrizione “per i reati commessi anteriormente alla primavera del 1980”. L’organo giudicante ravvisò che Andreotti dimostrava “un’autentica, stabile, ed amichevole disponibilità verso i mafiosi” sino al 1980, mentre, da quell’anno in poi, portò avanti un “incisivo impegno antimafia condotto nella sede sua propria dell’attività politica”. La Cassazione, infine, confermò la sentenza di appello condannando Andreotti al pagamento delle spese processuali. La sentenza d’appello, emessa il 2 maggio 2003, distinguendo il giudizio tra i fatti fino al 1980 e quelli successivi, stabilì che Andreotti aveva «commesso» il «reato di partecipazione all’associazione per delinquere» (Cosa nostra), «concretamente ravvisabile fino alla primavera 1980», reato però «estinto per prescrizione». WIKIPEDIA


I sopravvissuti DI  GIUSEPPE GALEAZZO  – F.B.

GIUSEPPE COSTANZA nacque a Villabate, in provincia di Palermo, il 14 marzo 1947. Nel 1958 insieme alla famiglia si trasferì a Palermo. A Palermo ha frequentato la quinta elementare alla scuola Verdi. Fin da piccolo ha fatto da “aiutante” prima di un barbiere de posto e poi di un parrucchiere di Palermo. Di ritorno dalla leva militare riprese l’attività di parrucchiere e nel 1970 si sposò. Sempre in quell’anno aprì una parruccheria, il lavoro andava bene ma lui tornava a casa distrutto e per di più, con i solventi e le soluzioni che si usavano per fare i capelli, si stava rovinando le mani. Nel 1982 conseguì la licenza media, facendo la scuola serale. Fece domanda di assunzione presso qualche ente pubblico, fra cui il Ministero di Grazia e Giustizia. Entrò in servizio mediante chiamata diretta nel ministero di Grazia e Giustizia nel novembre del 1984. La sua qualifica era “conducente di automezzi speciali” e la destinazione era l’Ufficio Istruzione del Tribunale di Palermo. Dapprima lo misero all’ingresso del Tribunale. Da lì entrava il pubblico al quale doveva controllare i documenti. Svolse questo lavoro per poche settimane, dopodiché un giorno un collega di nome Purpura gli chiese di accompagnarlo a sbrigare una commissione e, nell’occasione, di mettermi alla guida. Dal giorno dopo cominciò a sostituire I colleghi assenti. In quel periodo ha accompagnato vari giudici, come ricorda lui stesso “una volta Leonardo Guarnotta, un’altra Paolo Borsellino, un’altra ancora Gioacchino Natoli. Come ricorda nel libro “Stato di abbandono” (scritto da Riccardo Tessarini – dove è lo stesso Costanza che parla): “Verso la fine dell’anno, cominciò a spargersi la voce che Falcone non volesse più il suo autista personale, Paolo Sammarco, per cui tra gli autisti giudiziari si diffuse un certo timore. Nessuno, infatti, voleva prendere il suo posto perché significava trovarsi al fianco di un bersaglio della mafia. Un giorno, un collega venne da me e disse: «Costanza, deve andare dal dottor Falcone». Andai in una stanza del bunker, dove il Giudice mi aspettava. Bussai, mi accolse cortesemente e mi fece accomodare. «Costanza, lei dove abita?», mi chiese. «I suoi familiari cosa fanno? Da dove viene? Suo padre che fa?»… ma Falcone sapeva già tutto! Aveva già fatto una ricerca sul mio conto, e attraverso tutte quelle domande voleva semplicemente capire se gli dicevo la verità e, di conseguenza, se si poteva fidare di me. «Se la sentirebbe di guidare la mia auto?», mi disse. Non potevo rispondere di no… «Va bene», continuò, «allora domani mattina venga a prendermi in via Notarbartolo, 23». L’indomani, quindi, mi presentai puntuale sotto casa sua. Fino a quel momento, tutto tranquillo. A un tratto, sopraggiungono due auto della Polizia di corsa: una si piazza davanti alla mia, l’altra dietro. Scendono sei agenti, armi in pugno. Alcuni entrano nel condominio per andare a prenderlo di sopra, altri aspettano davanti all’ingresso. Intorno a noi, tutto bloccato: traffico, pedoni, ciclisti. Non me l’aspettavo… I primi due mesi furono duri. Quando mi mettevo alla guida, il sudore mi scendeva dalla fronte per la tensione. Non ero abituato a vedere pistole e mitra spianati, a sentire sirene, a sfrecciare per le strade della città. Tutto senza che il Ministero mi avesse mai fatto fare il corso di formazione che i miei colleghi più anziani avevano fatto. Imparai direttamente sul campo… Realizzai chi fosse Falcone solo dopo essere entrato in servizio, vedendo il sistema di protezione intorno a lui e, nonostante il pericolo, decisi di restare per due ragioni. La prima, perché mi ritrovai improvvisamente tra l’incudine e il martello e, quando te ne accorgi, sei già dentro. Solo “stando dentro” vieni a conoscenza di certe cose, tant’è che, se molli, per un qualsiasi motivo, e alla personalità succede qualcosa di grave, il primo a passare dei guai sei tu. La seconda, più umana se vogliamo, perché ti rendi conto della funzione che svolge quella persona nella società e del rischio che corre, non solo lui, ma anche gli altri che lo proteggono o che con lui collaborano. Umanamente, quindi, non me la sono sentita di mollarlo, perché vedevo che aveva bisogno di essere affiancato da persone di fiducia.” Giuseppe Costanza dal 1984 al 1992 fu l’unico conducente personale del Dott. Falcone, era sempre presente, tranne rare volte. Il 21 giugno del 1989, quando ci fu l’attentato, fortunatamente fallito, all’Addaura, Giuseppe Costanza era lì. Alla luce di quanto successo i suoi familiari volevano che lasciasse il posto, poiché era troppo pericoloso, ma lui non se la sentì di abbandonare il Dott. Falcone; e lo seguì anche quando, una settimana dopo, venne nominato Procuratore aggiunto. Giuseppe Costanza, in seguito al fallito attentato, decise di tenere un diario. C’è un parte del diario, che è contenuta nel libro di cui prima, che mi ha colpito maggiormente: l’8 novembre 1989 scrisse “[…] così, dopo cinque anni, mi ritrovo ancora con lui. Ogni uscita potrebbe essere l’ultima, senza che mi sia riconosciuto niente. Se succederà qualcosa, non voglio tutte quelle messinscene che si ripetono per ogni omicidio di Stato. Da morto, non mi servono. Da vivo, non mi riconoscete. Questa è ipocrisia!” Il 22 maggio 1992 il Dott. Falcone lo chiamò (quella fu l’ultima chiamata) a casa, di mattina presto, e gli disse che sarebbe arrivato l’indomani, ma riservandosi di comunicargli l’orario di arrivo in un secondo momento. Lui allertò nel frattempo il servizio scorta. Il giorno della strage, il 23 maggio, alle sette, Giuseppe Costanza va a prendere l’auto di servizio in via Lo Jacono e si reca in tribunale. Chiama il Dott. Falcone e lui gli comunica che sarebbero arrivati alle 17.45, così lui richiama l’Ufficio scorte, comunicando al responsabile di turno l’orario.

Di seguito vi riporto direttamente il ricordo dello stesso Costanza, riportato nel libro, di quel maledetto 23 maggio 1992:  “Quel 23 maggio, era un sabato, andai a prendere la Croma bianca in via Lo Jacono, posteggiata come al solito dietro casa del Giudice e sorvegliata da agenti della Polizia. L’appuntamento con la scorta era alle 17.45 nell’aeroporto di Punta Raisi. Lungo la strada non notai nulla di sospetto, o quasi: una Fiat 131 blu posteggiata fuori della galleria di Isola delle Femmine, sull’altro lato dell’autostrada. Dentro non c’era nessuno. Arrivai alle 17.30 ed entrai con l’auto nella pista di atterraggio, dove erano appena arrivati anche gli agenti Antonio Montinaro (capo scorta), Rocco Dicillo, Vito Schifani, Gaspare Cervello, Angelo Corbo e Paolo Capuzza, con altre due Croma (una marrone e l’altra azzurra). Falcone e sua moglie atterrarono puntuali con un piccolo aereo, un Falcon 10 del Sisde, al che ci avvicinammo con le auto all’aereo. Non avevano valigie, perché dovevano restare solo un giorno. Lui teneva due borse, che ripose nel bagagliaio, ma notai che non aveva con sé il suo inseparabile computer. Ci salutammo con un cenno, dato che non amava i convenevoli. La moglie mi sorrise. Dato che lei soffriva di mal d’auto, salì davanti, al posto del passeggero. Falcone comunicò la direzione a Montinaro e si mise alla guida, com’era già accaduto altre volte. Quindi io mi sedetti dietro, al centro. Loro non allacciarono le cinture di sicurezza. Non lo facevano mai, anche per evitare ritardi in caso di fuga dall’abitacolo. Erano di buon umore. Per strada si parlava del più e del meno e del fatto che non c’erano stati segnali d’allarme in città. Lei guardava fuori, in silenzio. «Dottore, le ho comprato quella cosa», esclamai. «Eccole il resto». E presi dalla tasca 60.000 lire. La settimana prima, a Palermo, mi aveva chiesto di comprargli un cric per l’auto della moglie e mi aveva dato addirittura 90.000 lire. Prese i soldi, li infilò nella tasca della giacca e disse sorridendo: «Aveva un pensiero? Non poteva aspettare più?», come per voler dire che glieli avrei potuti restituire tempo dopo. Poi mi spiegò che la gita che avevamo in programma di fare insieme a Favignana, in occasione della mattanza dei tonni, era stata rinviata. La guida del Giudice era quella di un comune automobilista, andava ai 120/130 chilometri orari e non “copriva” la carreggiata, nel senso che non adottava la tecnica abituale di noi conducenti, quella cioè di tallonarsi lateralmente. La tecnica di occupare tutte le corsie dell’autostrada, compresa quella di emergenza, impedisce ad altri di intromettersi tra un’auto e l’altra; per cui, se quel giorno avessimo proceduto come di consueto, chi azionò la bomba avrebbe visto tre auto avanzare l’una accanto all’altra, e di certo saremmo stati tutti investiti in pieno dall’esplosione. Falcone, invece, guidava normalmente e si teneva a distanza di sicurezza dalla prima Croma, quella marrone, mentre quella azzurra, a sua volta, stava più lontana perché la sua guida, fondamentalmente, era imprevedibile. Poi ci fu il “fatto” delle chiavi. Mi disse che, appena arrivato a casa, aveva un incontro con dei colleghi riguardante la Direzione nazionale, per cui mi chiese di accompagnare la moglie su a casa e che lui avrebbe continuato da solo, con la scorta. «Mi venga a prendere lunedì mattina a casa alle sette», concluse. Non che ci fossero motivi particolari, semplicemente ebbe la cortesia di lasciarmi il tempo per organizzare il ricevimento per la comunione di mio figlio Alessandro, che si sarebbe tenuto il giorno dopo. Dato che i mazzi di chiavi erano due (una copia la teneva lui e l’altra io) e che le mie in quel momento erano attaccate al cruscotto, dissi: «Allora, quando arriviamo a casa, mi dia il mio mazzo di chiavi, così lunedì posso riprendermi la macchina». Non so perché, forse era soprappensiero, fatto sta che, in un attimo, sfilo il mazzo di chiavi dal cruscotto, mise la mano nell’altra tasca della giacca, prese il suo mazzo, lo infilò nel cruscotto e riaccese l’auto, ancora in trazione. In quell’istante, l’auto si spense e rallentò perché la marcia inserita era la quarta. «Ma che fa?», urlai, «così ci andiamo ad ammazzare!». Lui, girando il capo verso la moglie, che annuiva stupita, disse: «Scusi, scusi!». Vedo il cartello autostradale dello svincolo di Capaci e poi un lampo. Dopodiché, il nulla. Escludo categoricamente che volesse farci uno scherzo, anzi sono certo che in quel momento non fosse lì con la testa, forse perché stava pensando alla riunione. Il fatto di aver sfilato le chiavi provocò lo spegnimento immediato del motore, facendo rallentare l’auto quel poco sufficiente per salvarmi la vita, perché, se non l’avesse fatto, la bomba sarebbe detonata proprio sotto di noi. Esplose, invece, sotto la prima Croma, quella che trasportava Antonio Montinaro, Vito Schifani e Rocco Dicillo, scaraventandola a sessantadue metri di distanza e riducendola, sebbene fosse un mezzo blindato, in mille pezzi. Noi ci schiantammo contro un muro di terra, asfalto e cemento, e un’onda d’urto provocata da oltre cinquecento chili di tritolo. Gli agenti Cervello, Corbo e Capuzza, invece, che ci seguivano dentro la Croma azzurra, subirono un duro colpo, ma si salvarono, tant’è che accorsero subito in nostro aiuto.” Dopo qualche ora, quando arrivarono i soccorsi e lo presero, Giuseppe Costanza era svenuto e disteso tra i sedili anteriori e posteriori, nel centro della canaletta. Furono trasportati in elicottero al Pronto soccorso dell’ospedale Cervello. Falcone e la moglie erano ancora vivi. Dopodiché li trasferirono nel reparto di Neurochirurgia del Civico. Il Dott. Falcone e la Dott.ssa Morvillo morirono poche ore dopo in ospedale, i ragazzi della prima Croma, gli agenti Antonio Montinaro, Rocco Dicillo e Vito Schifani morirono sul colpo, mentre si salvarono, pur riportando gravi ferite sia fisiche che morali, lo stesso Giuseppe Costanza e gli agenti della terza Croma, Paolo Capuzza, Gaspare Cervello e Angelo Corbo. A metà giugno Giuseppe Costanza viene dimesso dall’ospedale e il 26 novembre dello stesso anno venne insignito della Medaglia d’oro al valor civile, con la seguente motivazione:  “Fedele collaboratore del giudice Giovanni Falcone, dal quale non aveva voluto mai separarsi, pur consapevole del gravissimo rischio cui si esponeva in ragione del suo incarico, continuava a svolgere le mansioni di autista con attaccamento al dovere, altruismo e grande coraggio. Coinvolto, a bordo dell’auto di servizio, nel feroce e proditorio agguato di stampo mafioso nel quale perdevano la vita il magistrato e la consorte, sfuggiva fortunosamente alla morte rimanendo gravemente ferito. Splendido esempio di elette virtù civiche e di nobile spirito di sacrificio. Palermo, 23 maggio 1992.”  Purtroppo, come è accaduto per gli altri sopravvissuti, anche Giuseppe Costanza venne abbandonato dalle istituzioni (e non solo), e solo dopo suoi innumerevoli sollecitazioni e dopo lungi mesi, inviando anche una lettera al Presidente della Repubblica, gli vennero riconosciuti, a lui e alla sua famiglia, alcuni diritti che gli spettavano per legge. Dopo un periodo di aspettativa e una lunga riabilitazione rientrò in servizio nell’ottobre del 1993. Ma lo misero a fare fotocopie o a dividere documenti ai vari uffici. La mattina del 23 maggio 1994, amareggiato dalle tante, troppe delusioni che aveva subito in quei due anni successivi alla strage si incatenò alla cancellata del tribunale di Palermo, con un cartello appeso al collo sul quale c’era scritto: «Vittima della mafia e dello Stato». Giuseppe Costanza ricorda che: “Mentre là sotto, nell’aula-bunker, si ricordavano i caduti delle stragi di Capaci e di via D’Amelio, io, sopravvissuto a una di queste, ero fuori a protestare. Arrivò tanta gente: funzionari, colleghi e giornalisti ai quali rilasciai delle dichiarazioni. Mi fece eco Giovanni Paparcuri dicendo: «Ha ragione. Anch’io, da anni, mi occupo del Servizio informatico della Direzione distrettuale antimafia ed ho la semplice qualifica di autista». Dopo un po’, mi raggiunse Maiorca, con un cellulare. Dall’altra parte c’era Caselli, al quale chiesi di essere ricevuto dal ministro della Giustizia Biondi, in visita quel giorno a Palermo. Acconsentì. Mi sciolsi dalle catene e mi recai in Prefettura, dove più tardi parlai con Biondi. Da lui ottenni la promessa che la questione dei sopravvissuti civili sarebbe stata portata in Consiglio dei ministri. Quel gesto fu una vittoria e una mortificazione al tempo stesso. Una vittoria perché, nonostante mi avessero messo i bastoni tra le ruote, riuscii a ottenere l’attenzione che speravo e, anni dopo, ciò che mi spettava; ma fu anche una mortificazione per il modo in cui dovetti agire. Incatenarmi in una pubblica piazza per rivendicare un diritto…” Il 19 febbraio del 1995 Giuseppe Costanza consegue il diploma presso l’istituto tecnico commerciale Jacques Maritain. Il 21 marzo partecipa alla prova di dattilografia e, finalmente, a fine marzo viene trasferito al Cei dove svolge compiti di assistenza informatica. L’11 maggio dello stesso anno viene formalmente retrocesso a commesso e sarà riassegnato al livello precedente e qualificato retroattivamente come dattilografo, sempre dopo le sollecitazioni dello stesso Costanza, soltanto nel 1998, dopo 3 anni! In questi anni Giuseppe Costanza è stato abbandonato da tutti, in primis dalle istituzioni, né ha subite tante, come è accaduto purtroppo a tutti i sopravvissuti. Io in questo post ho scritto solo alcune cose. Post, ci tengo a sottolineare, che non avrei potuto scrivere senza consultare il libro “Stato di abbandono – Il racconto di Giuseppe Costanza: uomo di fiducia di Giovanni Falcone”, che vi consiglio di leggere. Da quel maledetto 23 maggio ha dovuto lottare per vedere affermare dei propri diritti. Come ha detto lui stesso in questi anni, è stato abbandonato dallo stato e non solo. La prima volta in cui è stato invitato a commemorare l’anniversario della strage è stato nel 2014, da parte della Scuola di formazione del Corpo di Polizia penitenziaria di Roma. Soltanto dal 2015 è spesso invitato in qualità di ospite d’onore da funzionari di Stato, docenti, giornalisti, esponenti delle Forze dell’Ordine, delle imprese e dell’associazionismo per raccontare la sua storia in tutta Italia.  Giuseppe Peppino Costanza è un grande uomo, che conscio del grande pericolo non si è mai tirato indietro, ha sempre seguito il Giudice Falcone e non lo ha mai abbandonato. Io ho letto tutto il libro di cui parlavo prima e ci sono stati momenti in cui mi sono emozionato, il racconto di Giuseppe Costanza è qualcosa di indescrivibile. In questi anni è stato abbandonato dallo stato, è diventato quasi un peso…lo so che può essere poca cosa, ma io non lo dimenticherò mai, ricorderò sempre il suo sacrificio giornaliero, il suo essere vittima se pur sopravvissuto, perché lui in quel pezzo di autostrada ha perso parte della vita e ci sono delle ferite che non si rimargineranno mai, quelle dall’anima. GRAZIE GIUSEPPE COSTANZA!!  

 

ANGELO CORBO nacque a Palermo il 3 luglio del 1965. Frequentò la scuola elementare “Edmondo De Amicis” e la scuola media “Principessa Elena di Napoli”. I suoi genitori, originari di Canicattì, temevano l’ambiente palermitano e tendevano ad “isolarlo”, ma al tempo stesso lo educarono a rigorosi valori morali e di legalità. Divenne agente di polizia nel 1987; durante un incontro con gli studenti della scuola media Salvemini-La Pira di Montemurlo ricorda il perché di quella scelta: “L’ho fatto per Claudio Domino, un bambino di 11 anni, ucciso dalla mafia perché forse aveva visto qualcosa che non doveva. Conoscevo bene questo bambino, figlio di un negoziante, con il quale ero solito giocare. Entrare in polizia significava dare qualcosa di concreto al mio ideale, cercare di portare la mia città a ritrovare dignità in quegli anni di piombo”. L’agente Corbo fu prima assegnato a sorvegliare l’abitazione di Sergio Mattarella. Successivamente, nel 1990 entrò a far parte della scorta del Giudice Giovanni Falcone. In un’intervista, rilasciata a “Il Tirreno”, ricorda proprio quel momento in cui entrò a far parte della scorta del Dott. Falcone: “Entrare in un servizio scorta non è una scelta che si fa a priori, ti viene chiesto. Io accettai subito di entrare nella scorta del giudice Falcone, perché per me lui era, anzi è, un’icona. Ma prendendo quella decisione, pur sapendo di non essere preparati adeguatamente, si ha la consapevolezza che si deve rinunciare alla propria vita privata. Sono scelte difficili, ma io ero orgoglioso di esserci.” Quel maledetto 23 maggio del 1992 Angelo Corbo è di turno. Insieme agli altri agenti, Antonio Montinaro, Rocco Dicillo, Vito Schifani, Paolo Capuzza e Gaspare Cervello, e all’autista giudiziario, Giuseppe Costanza, devono andare a prendere il Dott. Falcone e la Dott. Morvillo che tornano da Roma. Appena sceso dall’aereo il Dott. Falcone si sistemò alla guida della Croma bianca e accanto prese posto la moglie, la Dott.ssa Francesca Morvillo, mentre l’autista giudiziario, Giuseppe Costanza, si sedette sul sedile posteriore. La Croma marrone è guidata dall’agente Vito Schifani, con accanto l’agente scelto Antonio Montinaro e sul retro l’agente Rocco Dicillo, mentre nella vettura azzurra ci sono gli agenti Paolo Capuzza, Gaspare Cervello e Angelo Corbo. Aprì il corteo la Croma marrone, a seguire la Croma bianca guidata dal giudice Falcone, e in coda la Croma azzurra. Le auto lasciarono l’aeroporto imboccando l’autostrada in direzione Palermo. La situazione pareva tranquilla, tanto che non vengono attivate neppure le sirene. Le auto si trovano all’altezza dello svincolo per Capaci, quando alle 17:58 un’esplosione li travolse. La Croma marrone è quella investita con maggior violenza dalla deflagrazione di quella spaventosa carica di più di 400 kg di tritolo. L’impatto è talmente forte da far sbalzare il corpo dei tre agenti, sotto un uliveto che si trova a più di dieci metri di distanza dal manto stradale: i tre agenti moriranno sul colpo. Qualche ora dopo moriranno a causa delle gravissime ferite riportate anche il Dott. Giovanni Falcone e sua moglie, la Dott.ssa Francesca Morvillo. La Croma azzurra, quella dove c’era anche Angelo Corbo, è quella meno investita dalla deflagrazione. I tre agenti, Angelo Corbo, Paolo Capuzza e Gaspare Cervello, si salveranno pur riportando gravi ferite sia fisiche che morali. Così come l’autista giudiziario Giuseppe Costanza. L’agente Angelo Corbo, durante l’udienza del 19 settembre 1995, ricorderà così quel tragico giorno: “Ho sentito solamente un grosso botto, uno spostamento d’aria, una deflagrazione e mi sono sentito solamente catapultare in avanti. Dopo l’esplosione con grossa difficoltà si è cercato di uscire dalla macchina, perché purtroppo eravamo anche pieni di detriti, di massi. Quindi con difficolta’ ho cercato di uscire dalla macchina. Niente, già uscendo si era capito della gravità della situazione perché la voragine purtroppo era ben visibile. Ci siamo avvicinati e mi sono avvicinato con gli altri alla macchina del dott. Falcone mettendoci intorno per non fare avvicinare o per controllare la situazione, e anche per non far sì che c’era magari qualche altra persona che si stava avvicinando all’autovettura sulla quale viaggiava il dott. Falcone, che era praticamente in bilico a quel cratere con la parte anteriore che sembrava mancante o potrebbe essere stata coperta da detriti. Dopodiché visto che non che non riuscivano ad uscire la persona del dott. Falcone e della dott.ssa Morvillo, abbiamo cercato insieme a delle persone che poi sono sopraggiunte di estrarre, appunto, il dott. Falcone e la dott.ssa Morvillo. Mi ricordo che non si riusciva ad aprire gli sportelli, specialmente quello del dott. Falcone che era bloccato. Dalla parte della dott.ssa Morvillo invece c’era questo vetro che si era riuscito a sradicare, infatti insieme ad altre persone si era proprio presa la dott.ssa Morvillo e uscita dall’abitacolo della macchina. Invece il dott. Falcone purtroppo non si riusciva ad aprire questo sportello. Fra l’altro poi la macchina stava anche prendendo fuoco, quindi c’era stato anche un cercare di spegnere questo principio d’incendio. Il dott. Falcone era in vita, ecco non so dire se era cosciente, chiaramente, perche’ purtroppo con il vetro blindato non si sentiva neanche un gemito, un qualche cosa, comunque era in vita. Addirittura si era pure rivolto verso di noi guardandoci, pero’, ecco, purtroppo noi eravamo impossibilitati ad un immediato soccorso. L’autista Costanza era messo nel sedile posteriore, se mi ricordo bene era coricato di lato nell’abitacolo della macchina.” Dopo la strage di Capaci, Angelo Corbo ottenne il trasferimento alla polizia scientifica. Angelo Corbo in un intervista, rilasciata al giornalista Paolo Borrometi, spiega cosa significa essere sopravvissuti: “L’essere sopravvissuti e’ stata una colpa. Sappiamo tutti quanti che per lo Stato fa piu’ piacere che, in casi del genere, non ci siano sopravvissuti, testimoni. Sembra quasi che lo Stato e le istituzioni vogliano nascondere di aver sbagliato, perche’ se noi siamo rimasti vivi hanno sbagliato. Il problema, comunque, e’ che noi ci sentiamo in colpa perche’ siamo vivi, mentre i nostri colleghi e la persona che dovevamo proteggere sono morti… Mai invitati e anche quest’anno, a 25 anni da Capaci, nessuno di noi ha ricevuto una telefonata per chiederci di partecipare a quelle che definiamo le ‘Falconiadi’, delle vere e proprie sfilate… Di noi non le e’ mai fregato nulla (riferendosi a Maria Falcone, sorella del Giudice Falcone). Non si e’ mai degnata di considerarci, e dire che siamo state le ultime persone che hanno visto in vita il fratello. E’ giusto che lei faccia di tutto per ricordare il fratello, ma dovremmo avere sempre presente che all’epoca fu abbandonato da tutti. Non potro’ mai scordare come in quegli anni il dottor Falcone venne denigrato e ostacolato in tutto, perche’ era diventato un personaggio scomodo: veniva trattato come una pezza da piedi. Oggi, invece, viene celebrato da persone che amici suoi sicuramente non lo erano e anche lei, Maria Falcone oggi ha accanto persone che tutto erano fuorche’ amici del dottore”. L’agente Angelo Corbo è stato insignito della Medaglia d’oro al valor civile, con la seguente motivazione: “Preposto al servizio di scorta del giudice Giovanni Falcone, pur consapevole dei rischi personali connessi con la recrudescenza degli attentati contro rappresentanti dell’ordine giudiziario e delle Forze di Polizia, assolveva il proprio compito con alto senso del dovere e serena dedizione, rimanendo ferito in un feroce e proditorio agguato di stampo mafioso. Splendido esempio di non comune coraggio e grande spirito di sacrificio. Palermo, 23 maggio 1992.” Quirinale Angelo Corbo ha pubblicato, nel 2016, il libro “Strage di Capaci. Paradossi, omissioni e altre dimenticanze”. Attualmente prosegue la battaglia contro la mafia parlando ai ragazzi delle scuole. Per non dimenticare mai la storia di Angelo Corbo, che con dedizione e alto senso del dovere ha servito lo Stato e protetto il Dott. Falcone, senza mai tirarsi indietro! Purtroppo Angelo Corbo viene spesso dimenticato, non menzionato, così come tutti quelli che sono sopravvissuti a delle stragi di mafia! È una cosa inaccettabile, anche loro rischiavano la vita ogni giorni, anche loro non si sono mai tirati indietro!! GRAZIE ANGELO CORBO

 

PAOLO CAPUZZA  è un Agente Scelto della Polizia di Stato. Quel maledetto 23 maggio del 1992 anche Paolo Capuzza è di turno. Insieme agli altri agenti, Antonio Montinaro, Rocco Dicillo, Vito Schifani, Gaspare Cervello e Angelo Corbo, e all’autista giudiziario, Giuseppe Costanza, devono andare a prendere il Dott. Falcone e la Dott. Morvillo che tornano da Roma. Appena sceso dall’aereo il Dott. Falcone si sistemò alla guida della Croma bianca e accanto prese posto la moglie, la Dott.ssa Francesca Morvillo, mentre l’autista giudiziario, Giuseppe Costanza, si sedette sul sedile posteriore. La Croma marrone è guidata dall’agente Vito Schifani, con accanto l’agente scelto Antonio Montinaro e sul retro l’agente Rocco Dicillo, mentre nella vettura azzurra ci sono gli agenti Paolo Capuzza, Gaspare Cervello e Angelo Corbo. Aprì il corteo la Croma marrone, a seguire la Croma bianca guidata dal giudice Falcone, e in coda la Croma azzurra. Le auto lasciarono l’aeroporto imboccando l’autostrada in direzione Palermo. La situazione pareva tranquilla, tanto che non vengono attivate neppure le sirene. Erano le 17:58 quando, all’altezza dello svincolo per Capaci, e un’esplosione li travolse. La Croma marrone è quella investita con maggior violenza dalla deflagrazione di quella spaventosa carica di più di 400 kg di tritolo. L’impatto è talmente forte da far sbalzare il corpo dei tre agenti, sotto un uliveto che si trova a più di dieci metri di distanza dal manto stradale: i tre agenti moriranno sul colpo. Qualche ora dopo moriranno a causa delle gravissime ferite riportate anche il Dott. Giovanni Falcone e sua moglie, la Dott.ssa Francesca Morvillo. La Croma azzurra, quella dove c’era anche Paolo Capuzza, è quella meno investita dalla deflagrazione. I tre agenti, Angelo Corbo, Paolo Capuzza e Gaspare Cervello, si salveranno pur riportando gravi ferite sia fisiche che morali. Così come l’autista giudiziario Giuseppe Costanza. Paolo Capuzza, sentito all’udienza del 9 ottobre 1995, ricorda così i primi momenti successivi a quella maledetta strage: «Io ero rivolto, diciamo, un po’ nella sedia della parte destra e guardavo un po’ sulla destra ed il davanti, ed ho sentito un’esplosione ed un’ondata di caldo e’ arrivata, ed in quell’attimo mi sono girato nella parte anteriore dell’autovettura, per guardare cosa accadeva, ed ho visto l’asfalto che si alzava nel cielo. Poi mi sembra che l’autista abbia sterzato l’autovettura sul guardrail destro per evitare di andare addosso all’autovettura del dottor Falcone; poi, quando siamo scesi ci siamo accorti che ci siamo ritrovati dietro proprio l’autovettura del magistrato. Mentre eravamo all’interno dell’autovettura, si sentivano, ricadere sull’auto tutti i massi ed una nube nera, cioè non si vedeva niente, polvere e nube nera che non riuscivamo a vedere niente. Dopodiche’ siamo usciti dall’autovettura con le armi in pugno, io ho cercato di prendere l’M12 in dotazione, oltre che le pistole che avevo addosso, ma non sono riuscito a prenderlo, perche’ appunto la mano… non riusciva a tenerlo in mano, non lo riuscivo a prendere, insomma; e, quindi, ho preso la mia pistola di ordinanza. Siamo usciti dall’autovettura e per guardarci intorno, perche’ ci aspettavamo, come si dice, qualche colpo di grazia. Poi abbiamo visto la voragine che c’era davanti all’autovettura del dottor Falcone, alla quale mancava il vano motore completamente; poi c’erano delle fiamme ed abbiamo preso l’estintore che era sulla nostra autovettura e le abbiamo spente. Le fiamme erano proprio davanti l’autovettura del dottor Falcone, che era proprio sul limite del precipizio, diciamo, dove si era creata la voragine, perché non c’era piu’ il vano motore e… ci siamo guardati intorno per proteggere, appunto, ancora la personalità, perché mi sembra che il Cervello Gaspare, si’ Cervello, abbia chiamato per nome il dottor Falcone, il quale non ha risposto pero’ si e’ girato con la testa come… poi abbiamo aspettato i soccorsi e non abbiamo fatto avvicinare nessuno».Paolo Capuzza il 23 settembre 1992 è stato insignito della Medaglia d’oro al valor civile, con la seguente motivazione: “Preposto al servizio di scorta del giudice Giovanni Falcone, pur consapevole dei rischi personali connessi con la recrudescenza degli attentati contro rappresentanti dell’ordine giudiziario e delle Forze di Polizia, assolveva il proprio compito con alto senso del dovere e serena dedizione, rimanendo ferito in un feroce e proditorio agguato di stampo mafioso. Splendido esempio di non comune coraggio e grande spirito di sacrificio. Palermo, 23 maggio 1992.”Nonostante fosse a conoscenza del pericolo, così come gli altri agenti di scorta, Paolo Capuzza non si è mai tirato indietro, ha sempre difeso il Dott. Falcone. Mi dispiace solo che in questi 29 lunghi anni molti si sono dimenticati dei sopravvissuti, e quindi anche di Paolo Capuzza, che sono quelli che per ultimi hanno visto il volto del Dott. Falcone e della Dott.ssa Morvillo. Così come ho scritto negli altri post, io non li dimenticherò mai, loro quel giorno hanno perso degli amici oltre che dei colleghi, hanno lasciato un pezzo della loro vita in quell’autostrada e non vanno dimenticati. GRAZIE PAOLO CAPUZZA!

 

GASPARE CERVELLO è un agente scelto della Polizia di Stato. Quel maledetto 23 maggio del 1992 Gaspare Cervello è di turno. Insieme agli altri agenti, Antonio Montinaro, Rocco Dicillo, Vito Schifani, Paolo Capuzza e Angelo Corbo, e all’autista giudiziario, Giuseppe Costanza, devono andare a prendere il Dott. Falcone e la Dott. Morvillo che tornano da Roma. Appena sceso dall’aereo il Dott. Falcone si sistemò alla guida della Croma bianca e accanto prese posto la moglie, la Dott.ssa Francesca Morvillo, mentre l’autista giudiziario, Giuseppe Costanza, si sedette sul sedile posteriore. La Croma marrone è guidata dall’agente Vito Schifani, con accanto l’agente scelto Antonio Montinaro e sul retro l’agente Rocco Dicillo, mentre nella vettura azzurra ci sono gli agenti Paolo Capuzza, Gaspare Cervello e Angelo Corbo. Aprì il corteo la Croma marrone, a seguire la Croma bianca guidata dal giudice Falcone, e in coda la Croma azzurra. Le auto lasciarono l’aeroporto imboccando l’autostrada in direzione Palermo. La situazione pareva tranquilla, tanto che non vengono attivate neppure le sirene. Ad un tratto Angelo Corbo ricorda che Gaspare Cervello disse: “cazzo, perche’ rallenta cosi’ tanto?” (Riferito alla Croma bianca, quella guidata dal Dott. Falcone)*; in quel momento le auto si trovavano all’altezza dello svincolo per Capaci e un’esplosione li travolse: erano le 17:58. La Croma marrone è quella investita con maggior violenza dalla deflagrazione di quella spaventosa carica di più di 400 kg di tritolo. L’impatto è talmente forte da far sbalzare il corpo dei tre agenti, sotto un uliveto che si trova a più di dieci metri di distanza dal manto stradale: i tre agenti moriranno sul colpo. Qualche ora dopo moriranno a causa delle gravissime ferite riportate anche il Dott. Giovanni Falcone e sua moglie, la Dott.ssa Francesca Morvillo. La Croma azzurra, quella dove c’era anche Gaspare Cervello, è quella meno investita dalla deflagrazione. I tre agenti, Angelo Corbo, Paolo Capuzza e Gaspare Cervello, si salveranno pur riportando gravi ferite sia fisiche che morali. Così come l’autista giudiziario Giuseppe Costanza.L’agente scelto Gaspare Cervello, durante la deposizione del 19 settembre 1995, ricorda così quel tragico giorno: “Dopo il rettilineo, diciamo, all’inserimento del bivio di Capaci, ho visto dopo una deflagrazione proprio gigantesca, un’esplosione che neanche il tempo di finire un’espressione tipica che non ho visto piu’ niente, non so che fine ha fatto la macchina, cosa ha fatto in quel momento la macchina; non so il tempo che ho trascorso svenuto dopo quella deflagrazione. Dopo che ho ripreso i sensi dentro la macchina stesso, vedevo che non potevo aprire lo sportello; con forza riesco ad aprirlo. Non faccio caso neanche ai colleghi se stavano bene, cioè se erano vivi; l’unica cosa del mio istinto era quello di uscire dalla macchina e recarmi direttamente nella macchina del giudice Falcone. Mentre mi avvicinavo alla macchina ho visto quella scena proprio straziante, di cui mi avvicino un poco sopra, perche’ poi c’era il terriccio dell’asfalto che proprio copriva la macchina; c’era soltanto il vetro, quindi anche se volevamo dare aiuto non potevamo. Niente, l’unica cosa che ho fatto è di chiamare il giudice Falcone: “Giovanni, Giovanni”, però lui si è voltato, però era uno sguardo ormai chiuso, abbandonato, perché aveva tutto il blocco della macchina davanti, aveva soltanto la testa diciamo libera; no libera, che muoveva, diciamo, per quegli attimi che io l’ho chiamato. La dottoressa era chinata verso avanti come l’autista Giuseppe Costanza, di cui la prima sensazione, quella mia: “Ormai tutti e tre non ce l’hanno fatta”, mentre la macchina davanti, non l’ho vista… Ho pensato che ce l’avevano fatta, ce l’avevano fatta, che erano andati via… ho pensato sono andati via per chiamare i soccorsi, perche’ noi via radio non potevamo dare piu’ niente perche’ la macchina nostra era anche distruttissima». In un intervista per lo speciale di SkyTG24 sui 20 anni della strage di Capaci, Gaspare Cervello, ripercorrendo gli istanti immediatamente successivi alla strage, dirà: “Mi sono avvicinato nel lato guida della macchina del magistrato e in quel momento non ho potuto costatare…non ho chiamato neanche “Giudice Falcone” ma ho chiamato “Giovanni, Giovanni”, e lui essendo tutto…il blocco motore, la parte del motore l’aveva tutta dentro di sé, aveva soltanto libera la parte della testa, perché tutto il resto era incastrato, fra il sedile e il motore, si è voltato guardandomi, però era uno sguardo ormai senza risposta.” Il 23 settembre del 1992 è stato insignito della Medaglia d’oro al valor civile, con la seguente motivazione: “Preposto al servizio di scorta del giudice Giovanni Falcone, pur consapevole dei rischi personali connessi con la recrudescenza degli attentati contro rappresentanti dell’ordine giudiziario e delle Forze di Polizia, assolveva il proprio compito con alto senso del dovere e serena dedizione, rimanendo ferito in un feroce e proditorio agguato di stampo mafioso. Splendido esempio di non comune coraggio e grande spirito di sacrificio. Palermo, 23 maggio 1992.” All’agente scelto Gaspare Cervello va il mio GRAZIE, perché nonostante i pericoli che correva non si è mai tirato indietro, ha sempre protetto il Giudice Falcone fino all’ultimo, anche dopo l’esplosione, nonostante fosse ferito, ha cercato di proteggere il Giudice Falcone da eventuali altri attacchi (così come gli altri due agenti, Angelo Corbo e Paolo Capuzza). Purtroppo in questi anni è stato spesso dimenticato, come gli altri agenti che sono sopravvissuti, ma io non lo dimenticherò mai! GRAZIE GASPARE CERVELLO!! Purtroppo su Gaspare Cervello non ho trovato molto, se non le sue testimonianze nelle interviste o durante i processi. Mi è dispiaciuto veramente tanto non trovare informazioni sull’Agente Scelto Gaspare Cervello, in questi casi spero sempre che sia stato io a “cercare male”.


Oltre a Giuseppe Costanza sopravvissero alla strage gli agenti di scorta  Angelo Corbo, Gaspare Cervello, Paolo Capuzza.


VIDEO

VOCI DI CAPACI – Polizia di Stato e le comunicazioni via radio di quei minuti

IMMAGINI

 

a cura di Claudio Ramaccini  Direttore Centro Studi Sociali contro la mafia – Progetto San Francesco