Intervista con il magistrato Luciano Costantini, che lavorò a Marsala a fianco di Paolo Borsellino
Il giudice Luciano Costantini, in questa lunga intervista, racconta la figura professionale e umana del collega Paolo Borsellino: “Noi magistrati traiamo tutta la nostra legittimazione dal rispetto della legge, e solo la legge ci restituisce l’autorità di cui abbiamo bisogno per imporre ad un uomo il sacrificio del bene più importante che ha dopo la vita: la libertà personale. Come il Dio dantesco, la legge è ciò da cui noi giudici partiamo e ciò a cui dobbiamo necessariamente ritornare”
Il 4 luglio 1992, Paolo Borsellino tenne il discorso di commiato a Marsala. Era andato via mesi prima per trasferirsi a Palermo come procuratore aggiunto ma la festa di commiato fu preparata, dai colleghi, a Luglio. Per ricordare quell’evento, qualche settimana fa, abbiamo contattato il Dr Luciano Costantini che fu collega del giudice ed era presente in quell’occasione. Ne è nata un’ intervista in cui ci ha parlato dei suoi ricordi privati. Una lunga conversazione che ha toccato più punti sulla vita del Giudice Borsellino: dalla professione alla famiglia, dal metodo investigativo all’amicizia con il collega Giovanni Falcone, dalle delusioni all’ironia, dalla paura al coraggio. E tanti aneddoti inediti come la telefonata che gli fece il Presidente Francesco Cossiga nel 1991 o l’accusa a Vincenzo Geraci di essere il “Giuda” che tradì il suo amico Giovanni nella votazione al Csm, nel gennaio 1988, o ancora la paura, nel 1992, di villeggiare a Villagrazia. Ne esce un quadro che ci fa comprendere ancora di più chi fosse Paolo Borsellino ed allo stesso tempo ci fa rimpiangere, per l’ennesima volta, la perdita dell’Uomo, così buono, giusto ed onesto.
Dottor Costantini, ci racconta quando ha incontrato, per la prima volta, Paolo Borsellino?
“Conobbi Paolo Borsellino alle 7,00 del 2 novembre 1990, quando egli personalmente passò a prendermi all’albergo di Palermo dove alloggiavo. Ero arrivato la sera prima, perché da pochi giorni avevo scelto la prima sede del mio lavoro di magistrato: sostituto procuratore della Repubblica a Marsala. Cioè, la Procura di Paolo Borsellino. Avevo voglia di sapere dove avrei trascorso i prossimi anni della mia vita, ma soprattutto morivo dal desiderio di conoscere Paolo. Immaginate quale fu la sorpresa quando mi disse che lui stesso sarebbe venuto a prendermi per andare insieme a Marsala. Il 1 novembre era festa, e quella sera Palermo era davvero splendida: calda, accogliente e piena di gente come sa essere una grande città del sud. Girare per le sue piazze e le sue strade, respirare quell’aria tiepida di un’estate che laggiù non finisce mai, era il miglior modo per attendere l’incontro dell’indomani. Il giorno dopo sarebbero stati commemorati i defunti e anche questa è una grande festa, laggiù nell’isola: quella notte i morti portano ai bimbi la frutta martorana, e in qualche paese alcune famiglie vanno ancora a banchettare al cimitero con i loro cari. C’è un continuum inscindibile tra vita e morte. Giovanni Falcone diceva che “la vita vale un bottone”. Ed è vero. Ricordo che a Marsala fu ucciso un ragazzo di quattordici anni. Si scoprì subito che gli autori erano stati alcuni suoi amici, entrambi minorenni, e che il movente era stato il furto di un ciclomotore. Ha raccontato uno dei due omicidi che l’amico gli chiese se fosse stato opportuno uccidere quel loro coetaneo che gli aveva rubato il motorino ed egli rispose: “Pi mia”. La stessa cosa che decidere se trascorrere la serata al cinema o al ristorante. “Pi mia, per me è uguale”. La vita non vale niente nell’ignoranza che la mafia coltiva e fa crescere.
La cortesia di Paolo di passare a prendermi in albergo mette in risalto una delle sue più grandi doti: l’umiltà. Uno dei più famosi magistrati italiani e del mondo va a prendere l’ultimo degli uditori che si appresta ad iniziare a lavorare nella sua Procura.
Paolo aveva con sé l’Alfa Romeo blindata che guidava personalmente, e insieme ci avviammo verso Marsala. Credo che quel giorno Paolo, incallito fumatore, abbia battuto il record di astinenza dal fumo. Era rimasto senza sigarette, e siccome nell’autostrada che collega Palermo a Trapani non esiste né una stazione di servizio né un autogrill, ha dovuto rassegnarsi a non fumare. Nel breve volgere di quell’ora e mezza di viaggio, con la sua affascinante capacità di sintesi, Paolo mi parlò del lavoro, della città, dei colleghi, dei suoi collaboratori e anche di parte della sua vita”.
Paolo Borsellino arriva a Marsala a fine estate del 1986, con una decisione del Csm che in quel momento ribaltava i soliti canoni. Fu preferita la competenza sull’anzianità. Il giudice aveva compreso che bisognava indagare in un territorio fino ad allora lasciato isolato ma che aveva un alto grado di pervasività mafiosa, che oggi conosciamo, basta pensare alla consorteria dei Messina Denaro di Castelvetrano.
“Infatti vi arrivò grazie ad un’illuminata decisione del Consiglio Superiore della Magistratura che lo nominò privilegiando, per la prima volta, la competenza sull’anzianità. Qualcuno malignò che Paolo voleva essere ricompensato con una “Procura al mare”, ma la frase è ferocemente e gratuitamente perfida. Come ebbe a ricordare proprio Paolo nel discorso tenuto il 4 luglio 1992, nel corso della sua permanenza a Marsala egli il mare lo ha visto solo “attraverso il prisma dei vetri blindati dell’auto” che lo portava da casa (situata all’interno del Commissariato di polizia) all’ufficio.
Paolo Borsellino aveva, invece, capito che in quel momento Cosa Nostra non poteva essere combattuta solo a Palermo, ma doveva essere stanata in provincia, là dove l’arretratezza culturale ed economica la rendeva ancora più forte, e quasi inscindibile era il suo legame con il territorio. Quella periferica Procura di una piccola città collocata sul lembo più occidentale della Sicilia arrivò, grazie a Paolo, al centro dell’attenzione nazionale. Per la prima volta si indagò sulla pervasiva presenza di Cosa Nostra nel trapanese, che si scoprì essere una vera e propria roccaforte mafiosa, e spuntarono i primi collaboratori di giustizia dopo Tommaso Buscetta.
Il destino di Paolo si incrociò anche con uno dei grandi misteri italiani: la rotta del DC9 dell’ITAVIA, che si inabissò al largo dell’isola di Ustica, fu registrata dal radar di Marsala e Borsellino iniziò indagini che si rivelarono utili per la ricostruzione del fatto”.
Lei è stato a Marsala con Paolo Borsellino da Novembre 1990 a febbraio 1992, quando poi il Giudice si trasferì a Palermo in quella che era la DDA appena nata. Ed ha continuato a vederlo. Quindi lo ha conosciuto in anni che non sono stati sempre sereni, ma che hanno portato anche dei punti critici nella vita del giudice. Ci riferiamo ad esempio all’estate del 1991 quando il settimanale Epoca pubblicò dei verbali di Rosario Spatola resi al dottore Taurisano della Procura di Trapani. Questi verbali contenevano dichiarazioni su politici dell’epoca e per competenza territoriale, le indagini spettavano a Marsala. Il dottore Borsellino apprese dell’esistenza di quelle dichiarazioni proprio con la pubblicazione su Epoca. Borsellino chiese la trasmissione degli atti e nei primi di settembre del 91 fece la relazione al procuratore generale per chiedere un migliore coordinamento nelle indagini di quel territorio onde evitare fatti simili. E per questo caso, oltre al clamore pubblico, il giudice subì anche l’audizione davanti al Csm avvenuta il 10 dicembre 1991. In una parte di essa, esprimeva tutta la sua amarezza con questa frase: “Addirittura, la stampa parlò di camion di documenti che venivano trasferiti da Trapani a Marsala e io fui accusato di essere ‘scippatore’ e ‘insabbiatore’ di inchieste, per avere solo chiesto la copia di un verbale! Mi consenta, Presidente, però ognuno di noi ha dei figli, e quando i miei figli leggono sul giornale che il loro padre, che loro ritengono essere Magistrato serio, che fa il suo dovere, diventa uno ‘scippatore’ e ‘insabbiatore’ di inchieste, mi consenta che dal punto di vista psicologico qualche cosa se ne risente’.
Il giudice, come affrontò quei fatti? Ebbe mai ad esprimersi in relazione a quelle vicende?
“Era un sabato di settembre del 1991, ero l’unico dei sostituti non in ferie e, naturalmente, ero di turno. Stavo guardando in tv il giro ciclistico del Lazio e, da poco in Sicilia, avevo il cuore gonfio di nostalgia, che passava appena un po’ quando guardavo luoghi per me familiari. Squillò il telefono cellulare e dall’altra parte c’era Paolo. Mi disse subito: “indovina chi mi ha chiamato?”. Io feci qualche fallimentare tentativo fino a quando Paolo mi disse che aveva appena ricevuto una telefonata dall’allora Presidente della Repubblica Francesco Cossiga. In quei giorni tutti i media nazionali davano conto di un contrasto insorto tra la Procura della Repubblica di Marsala e quella di Trapani in ordine alla competenza territoriale per le indagini sul rapporto mafia-politica e per cui erano indagati tre parlamentari nazionali residenti ed eletti nel circondario della città libetana. Alla fine la Procura di Trapani cedette e trasmise gli atti a Marsala. Paolo rivendicò con tutta la sua autorevolezza la competenza della sua Procura e per questo ricevette la telefonata di Cossiga.
Anche la seconda domanda che Paolo mi rivolse (“Sai cosa mi ha detto?”) ha avuto una mia risposta sbagliata. “Mi ha detto: vada avanti così, Procuratore”. Detta così la frase è di poca importanza, ma chiunque l’avesse ascoltata con le sue orecchie, sarebbe scoppiato in una grossa risata. Infatti, Paolo la pronunciò imitando (male) il presidente. Ora, chi ha conosciuto Paolo sa che egli aveva una marcata inflessione non solo palermitana, ma di palermitano del quartiere della Kalsa. E sentirlo parlare con quella buffa pronuncia che aveva la pretesa di essere sarda era davvero esilarante.
All’epoca era ancora in vigore la normativa che prevedeva l’autorizzazione a procedere per i parlamentari e imponeva che, entro un mese dall’iscrizione del nominativo nel registro delle notizie di reato, il Pubblico Ministero chiedesse quella autorizzazione alla Camera di appartenenza.
Paolo iniziò a ritmo serrato le indagini, che conduceva nella sua stanza interrogando tutto il giorno testimoni e indagati. Una sera, al termine della giornata, lo andai a salutare e gli dissi che “si era preso proprio una patata bollente” e lui mi rispose: “Si, è una patata bollente, ma a me piace scottarmi”.
La frase mi colpì, ma solo dopo anni ne compresi il significato. Con quelle parole Paolo mi aveva indicato l’essenza intima del mestiere del giudice, che è quella di prendersi la responsabilità delle scelte. Non è altro il lavoro di chi giudica: assumersi la responsabilità di decidere chi ha torto e chi ha ragione. Non so se sia vero quello che Antonio Monda nel suo splendido romanzo Assoluzione affida alle parole dell’avvocato Stella, e cioè che i giudici portano in sé una parte di divinità perché restituiscono l’armonia dell’ordine attraverso l’applicazione del diritto e avvicinano al mistero di Dio, o quanto dice Rusty Sabich nel prologo di Presunto innocente di Scott Turow, e cioè che siamo i burocrati del male e del bene. So solo che la collettività, in nome della quale ogni giorno pronuncio le mie sentenze, mi ha affidato il compito delicato di decidere chi ha torto e chi ha ragione secondo la mia scienza e la mia coscienza, e che questa è una scelta a cui non posso, anzi, non devo, sottrarmi mai. E quanto è più difficile la decisione, tanto è più importante il mio lavoro: non posso decidere di non decidere. Ecco che voleva dire Paolo quando mi disse che non dovevo avere paura di scottarmi le mani con le patate bollenti che maneggio ogni giorno”.
Paolo Borsellino professionalmente, come lo descriverebbe?
“Ci sono alcuni esempi da me appresi direttamente che rivelano le inarrivabili qualità di Paolo come magistrato.
Un giorno, parlando dell’associazione per delinquere di stampo mafioso, il discorso cadde sul significato di omertà, lavoro che ha affaticato decine di autorevoli giuristi e che ha fatto scorrere fiumi di inchiostro. A un certo punto Paolo mi disse: “Sai cos’è l’omertà? E’ quando io interrogo Paolo Borsellino e gli chiedo se si chiama Paolo Borsellino, e lui mi risponde: questo non glielo posso negare”. Una risposta geniale, che meglio di ogni cosa sapeva spiegare il tratto caratteristico più deteriore della mafia: quello di rifiutare pervicacemente l’autorità dello Stato.
In un’altra occasione di fronte a una signora che dirigeva un importante traffico di stupefacenti nella città di Marsala e che tentennava di fronte alla prospettiva di collaborare con la giustizia, Paolo disse: “Signora, si ricordi: nessuno si è mai pentito di essersi pentito con Paolo Borsellino”. L’espressione è divertente, ma contiene molto di più di un motto di spirito. Con quella frase Paolo metteva in gioco tutto sé stesso e l’intera sua autorità dicendo al proprio contraddittore: “Io sono lo Stato. Di me ti puoi, ti devi fidare”. Sì, proprio quello Stato incapace che lo aveva relegato in un penitenziario di una piccola isola perché non era in grado di proteggerlo. E che gli aveva fatto pagare il prezzo del soggiorno. Con quel gioco di parole Paolo Borsellino consegnava all’intera collettività -e, quindi, a tutti noi- la sua autorità, la sua storia ed il suo volto, sì da costringere a quel punto l’interlocutore a scegliere lo Stato perché lui ne era il garante e il rappresentante.
E quanto sia importante sforzarsi a essere migliori e più efficienti di Cosa Nostra me ne sono accorto qualche anno più tardi quando, applicato dalla Direzione distrettuale antimafia di Palermo, mi capitò di assistere al primo colloquio con un mafioso di un piccolo paese della provincia di Trapani che aveva deciso di collaborare. Quando il procuratore gli domandò perché era diventato mafioso, questi rispose in siciliano stretto: ”perché quando ero piccolo chi comandava era la mafia”. Quell’uomo esprimeva un concetto tanto elementare quanto inattaccabile: gli uomini stanno tendenzialmente dalla parte di chi vince, di chi è più efficiente. Ed è amaro constatare che in Sicilia troppo spesso e troppe volte lo Stato, in tutte le sue espressioni territoriali, quando si tratta di efficienza, soccombe alla mafia.
Questa dote di Paolo di impersonare lo Stato consente di comprendere le ragioni di quella che molti considerano la settima vittima della strage di via D’Amelio. Sette giorni dopo l’eccidio, gettandosi dal balcone di una casa della periferia romana, si è suicidata Rita Atria, figlia di un noto capo-mafia della valle del Belice, che poco tempo prima aveva deciso di iniziare la collaborazione con la giustizia, svelando fatti importanti riguardanti la sua famiglia e la faida mafiosa che aveva insanguinato per anni le strade di Partanna, suo paese natale. Per la giovane donna l’identificazione di Paolo con lo Stato era così completa che la morte di Paolo ha determinato il crollo dei motivi della sua scelta di vita e il venir meno della sua stessa ragione di esistere.
L’autorevolezza di Paolo era così forte che non aveva bisogno di mostrare i muscoli per far rispettare le regole: bastava la forza persuasiva della sua persona. Nella Procura di Marsala c’era un impiegato che la mattina entrava in ufficio in ritardo. Nessuna minaccia di rilievi disciplinari, nessun procedimento iniziato verso quella persona. È bastato a Paolo una mattina mettersi all’ingresso del palazzo di giustizia alle otto con la sua inseparabile sigaretta tra le labbra e salutare l’impiegato ritardatario mentre arrivava. Questi, che era una persona intelligente, capì che non poteva entrare al lavoro dopo il suo dirigente, e da quella mattina il suo orologio tornò a essere puntuale. L’esempio di chi ricopre posizioni di vertice può molto di più di mille sanzioni disciplinari”.
A metà anni 80, Borsellino e Falcone furono alle prese con la preparazione di ciò che poi porterà alla prima sentenza su un maxi processo di mafia. Ed entrambi vengono “deportati “ all’Asinara perché nel periodo in cui preparavano l’istruttoria di quel processo, era trapelata una notizia secondo cui erano in pericolo imminente, Cosa Nostra aveva deciso di ucciderli. Il Giudice, raccontandole della sua vita, le parlò mai di quegli anni?
“Nell’estate del 1985 uno Stato inetto deportò lui, Giovanni Falcone e i loro familiari nell’isola dell’Asinara perché stavano redigendo la sentenza ordinanza del maxiprocesso (Abate + 476, mi sembra che ci fosse scritto così sui faldoni allineati che egli custodiva nella libreria della sua stanza) e gli dissero che, siccome rischiavano di essere ammazzati da Cosa Nostra e lo Stato non era in grado di proteggerli e che, se fossero morti, nessuno avrebbe potuto sostituirli nella stesura del provvedimento, dovevano andare in quell’isola sarda dove c’era un penitenziario che poteva ospitarli. Giovanni Falcone e Paolo Borsellino in carcere!
Alla fine quello Stato incapace e privo di umana riconoscenza richiese ai due giudici il pagamento di una somma di denaro per la loro permanenza lì dentro insieme alle famiglie.
Ma il prezzo umano che Paolo sopportò fu ancora più alto: Lucia, la primogenita, era appena adolescente e non voleva abbandonare Palermo in quell’estate in cui i giovani mordono la vita e se la divorano ogni sera. L’allontanamento dei genitori e dei fratelli da Palermo, motivato dal pericolo della loro morte, cagionò alla ragazza un tremendo stress che le procurò una grave malattia, che Paolo fu costretto a rivelare pubblicamente quando Leonardo Sciascia e Leoluca Orlando lo accusarono di essere “un professionista dell’Antimafia”, ed egli dovette difendersi davanti al Consiglio Superiore della Magistratura. Paolo Borsellino messo sotto processo! Ebbene, Paolo parlando del maxiprocesso, rivendicò con legittimo orgoglio che tutte le centinaia di provvedimenti di cattura emessi erano passati indenni al severo vaglio della Corte di Cassazione.
La cosa mi colpì, ma non ne compresi appieno la ragione. Solo molti anni e migliaia di processi dopo ho capito il senso di quella frase e il vero significato di quell’orgoglio. E questo ha costituito un insegnamento che porterò sempre con me nella mia vita professionale fino a quando attribuirò torti e ragioni.
Paolo poteva ricordare il maxiprocesso e dire che è stato il più importante processo della storia giudiziaria di questo paese, che è stata la più alta risposta dello Stato a Cosa Nostra, che per la prima volta subì l’onta di centinaia di condanne per i suoi più importanti appartenenti. Oppure che in quell’indagine furono sperimentate tecniche innovative, come quella dell’audizione dei collaboratori di giustizia, oppure adottato un rivoluzionario modo di operare dei giudici, come quello del lavoro in pool e della circolazione interna delle informazioni, fino ad allora sconosciute e poi diventate di uso abituale. E, invece, no. Paolo sottolineò solo che quei provvedimenti avevano “retto fino in Cassazione”, come si dice nell’ambiente. Perché questo è il mestiere dei giudici: adottare provvedimenti che siano conformi alla legge.
Noi magistrati traiamo tutta la nostra legittimazione dal rispetto della legge, e solo la legge ci restituisce l’autorità di cui abbiamo bisogno per imporre ad un uomo il sacrificio del bene più importante che ha dopo la vita: la libertà personale. Come il Dio dantesco, la legge è ciò da cui noi giudici partiamo e ciò a cui dobbiamo necessariamente ritornare. Qualsiasi deviazione dalla legge, anche per le più nobili finalità, costituisce un’ingiustizia che automaticamente ci indebolisce. Ci sono situazioni in cui si forza il dato normativo per fini non necessariamente illeciti o egoistici: perché si avverte la necessità di contrastare il malaffare, di arrestare il decadimento morale e materiale di questa nostra Repubblica, di dare una risposta all’opinione pubblica toccata da eventi tragici e luttuosi. Sono ragioni rispettabili, ma hanno un valore solo se sono conformi alla legge. Altrimenti sono pericolose e controproducenti: e il magistrato resta nudo. Una delle prime raccomandazioni che mi fece Paolo è stata quella di rispettare la legge, perché, diceva che, non appena chi è tenuto a far rispettare la legge la viola, i criminali lo puniscono. A riflettere bene, una sorta di “concorrenza sleale” che la criminalità non sopporta: solo lei ha il monopolio dell’illegalità, e se il suo contraddittore si azzarda a invaderle il campo, viene punito. Quindi, secondo Paolo, la legge, e solo la legge, è lo scudo che difende i giudici. E, ripensandoci a distanza di venti anni, queste parole mi sono sembrate un triste presagio della sua tragica fine. Da alcuni processi che si stanno ancora svolgendo sembrerebbe che una delle possibili ragioni della morte di Paolo sarebbe stata la sua strenua opposizione a una trattativa tra lo Stato e dei criminali che facevano saltare per aria le autostrade uccidendo onesti servitori di quello stesso Stato. Se così fosse stato davvero, saremmo di fronte a una palese violazione della legge, un vile tradimento del patto che lega lo Stato ai suoi cittadini, una evidente illegalità che, come egli aveva previsto, ha reso debole e inerme Paolo e la sua scorta trucidata il 19 luglio 1992. Con grande amarezza nella lettera di saluto che noi sostituti di Marsala consegnammo a Paolo l’ultima volta che lo abbiamo incontrato, scrivemmo che in Sicilia lo Stato è contro lo Stato: mi accorgo ora, a oltre vent’anni di distanza, che le nostre preoccupazioni erano purtroppo realtà”.
Nel 1988, Paolo Borsellino, in alcune interviste, denunciò pubblicamente il fatto che Falcone fosse stato silurato, nel gennaio precedente, dal Csm e che questo poi aveva portato ad una nuova organizzazione dell’Ufficio Istruzione, diretto da Antonino Meli. A causa di quelle dichiarazioni si ritrovò, insieme a Falcone, ad essere sentito, in un’audizione del 31 luglio, dallo stesso Consiglio. Voleva difendere l’amico Giovanni…
“Anche se confinato in provincia, Paolo non perse di vista la dimensione generale del contrasto alla mafia: fu tra i primi a denunciare la pervicace opera tesa a demolire l’esperienza del pool antimafia a Palermo e si rese protagonista di una lucida e coriacea battaglia per difendere il fraterno amico Giovanni Falcone, ormai esautorato dei suoi poteri e clamorosamente estromesso dal pool dopo la decisione del C.s.m. di preferirgli, quale consigliere istruttore, Antonino Meli. Una vicenda incomprensibile, che nella migliore delle ipotesi non ha avuto altro significato che quello di fare un dispetto a Falcone, e che, invece, nel più malizioso sospetto, è stato l’ennesimo cedimento dello Stato a Cosa Nostra. Era il 1988, e con l’entrata in vigore del nuovo codice l’Ufficio istruzione sarebbe sparito, cancellato dalla nuova procedura penale. Sarebbe diventato un reperto archeologico del processo, utile solo per gli storici. Quell’incarico avrebbe perso presto importanza, ma la nomina di Falcone sarebbe stato il più forte segnale di ostilità alla mafia.
Paolo difese l’amico con tutte le sue forze fino all’ultimo giorno, e il 25 giugno 1992, in occasione di un’indimenticabile manifestazione alla biblioteca di Palermo, ricordò pubblicamente l’episodio e disse che nel C.s.m. c’era “un giuda” che aveva tradito Falcone. Si trattava del consigliere Vincenzo Geraci, che prima assicurò il suo voto a Falcone e poi, invece, glielo negò, favorendo così la nomina di Antonino Meli. Successivamente Geraci disse che Paolo non si riferiva a lui quando parlò del “giuda”. Posso smentire Geraci perché ho ascoltato con le mie orecchie quello che Paolo disse a Marsala il 4 luglio 1992: offro una testimonianza autentica. Durante il suo discorso di commiato Paolo polemizzò con chi, in occasione della sua nomina a Marsala, perfidamente disse che in questo modo aveva ottenuto la tanta desiderata “Procura al mare”. Ritornando verso il suo ufficio al termine della cerimonia, un collega gli chiese a chi si riferiva, e Paolo rispose che nel libro I disarmati di Luca Rossi, da poco uscito, tale espressione era stata usata proprio da Vincenzo Geraci. E aggiunse: “L’altra sera alla biblioteca di Palermo l’ho chiamato “giuda” con tutto il cuore. Quando, ero accanto alla bara di Giovanni Falcone, nella camera ardente all’interno del palazzo di giustizia di Palermo, ad un certo punto mi sono sentito tirare per la toga. Mi sono girato ed era Antonino Meli. L’ho visto così piccolo e dimesso, e, meschino, l’ho perdonato. Ma Geraci no. Lui non lo perdonerò mai”.
Queste sono le parole pronunciate da Paolo e che io ho sentito con le mie orecchie. Non posso pronunciarmi sulla fondatezza dell’opinione espressa da Paolo sull’operato di Geraci: non ho strumenti per valutare se il medesimo sia stato leale o meno. Quello che mi preme far conoscere è che Paolo viveva l’amicizia come un sentimento nobile che ti impone di intervenire sempre in aiuto dell’amico in difficoltà”. oppure attiva JavaScript se è disabilitato nel browser.
Parlaste mai di politica?
“Io ricordo che Paolo non gradì che nell’undicesimo scrutinio per l’elezione del Presidente della Repubblica del 1992 il gruppo parlamentare del Movimento Sociale Italiano votasse per lui, esprimendo 47 voti. E la sua contrarietà fu evidentemente percepita da chi lo aveva votato, se è vero che nei successivi scrutini cessò di esprimere la sua preferenza a Paolo. Questo nonostante fosse notoria la vicinanza di Paolo alle idee conservatrici.
Ma è lo stesso Paolo a farci capire qual era la sua posizione nei confronti della politica. A chi gli chiedeva di che partito fosse, rispondeva che era monarchico. Il consueto ricorso al paradosso, l’ennesima straordinaria esibizione di intelligenza, la solita, fulminante risposta che invita garbatamente l’interlocutore a cambiare domanda perché quella che ha fatto è sbagliata: chiedere ad un giudice qual è il suo orientamento politico significa attentare alla sua indipendenza. Guardo quello che succede oggigiorno e mi chiedo quanti miei colleghi hanno davvero compreso questo insegnamento”.
Borsellino era un uomo molto religioso ed altruista, ricorda episodi che mettessero in evidenza queste sue caratteristiche?
“Paolo era un puro d’animo, un uomo di specchiata onestà e di grande integrità morale, una persona che ha vissuto una vita cristallina. Era profondamente cattolico e un giorno arrivò quasi a spaventarmi. Mi stava accompagnando all’aeroporto di Punta Raisi con l’Alfa Romeo blindata che egli stesso guidava. All’imbocco dell’autostrada a Trapani, Paolo inforcò gli occhiali da sole e si fece il segno della croce. Io lo guardai preoccupato perché quel gesto mi faceva dubitare delle sua capacità automobilistiche. Lui mi rassicurò: mi disse che era credente e in quel modo si raccomandava al suo Dio.
Talvolta era, invece, di una ingenuità disarmante. Qualcuno gli ha rimproverato di fidarsi troppo di persone che, invece, si sono rivelate poco affidabili, se non addirittura dei delinquenti. Io voglio, invece, ricordare un episodio che mi ha stupito molto. Mi disse che, per acquistare una farmacia a Palermo, all’epoca, c’era bisogno di un miliardo di lire: una cifra enorme. Aggiunse che voleva comprare una farmacia alla figlia Lucia, che si sarebbe laureata da lì a poco ed io gli chiesi dove avrebbe trovato i soldi. Paolo con grande candore mi rispose che avrebbe venduto la sua casa di via Cilea a Palermo. Io gli obiettai dove sarebbe andato a vivere con Agnese e i figli, e lui mi disse che non ci aveva pensato, ma che avrebbe potuto andare a vivere in una casa in affitto.
E con grande tenerezza mi sovviene il ricordo di quando Paolo mi disse che pochi giorni prima era entrato in una farmacia e aveva sentito quell’odore che aveva accompagnato la sua infanzia, quando andava a far visita al padre farmacista. Mi disse che quei profumi a lui così familiari gli avevano fatto sorgere il dubbio di aver sbagliato mestiere, perché anche lui doveva fare il farmacista. Ascoltando quelle parole, io lo avrei voluto abbracciare, perché svelavano un lato intimo della sua persona, che rimane, come tutti, aggrappata allo struggente ricordo della propria infanzia e dei propri genitori”.
Paolo Borsellino dava molta importanza ai media, infatti fu uno dei primi Magistrati a partecipare a programmi televisivi, ma per questo fu spesso attaccato, e accusato, insieme a Falcone, di “protagonismo”.
“Io ebbi la fortuna di occupare la stanza un tempo riservata al dirigente della Procura della Repubblica di Marsala: era accanto a quella del Procuratore, da cui era separata da un corridoio dove si trovava il bagno. Un inequivocabile segno di potere, secondo quanto disse Paolo, che, sarcastico come sempre, mi disse che il segnale più evidente del successo in carriera è quello di avere un ufficio con i servizi igienici esclusivi. In quel corridoio c’era la fotocopiatrice, e un giorno vidi che Paolo fotocopiava un articolo di giornale (mi sembra pubblicato su L’Unità), e, giovane magistrato cresciuto nella convinzione che i giudici dovessero mantenere la massima riservatezza, ne fui sorpreso. Paolo comprese queste mie perplessità e mi disse subito che lui si esponeva mediaticamente perché quello era l’unico modo per difendersi. Attaccato da più parti, e con la sua integrità fisica e morale in pericolo, egli doveva necessariamente trovare nell’opinione pubblica e nella notorietà un alleato che lo proteggesse. E questa, ne sono convinto, è l’unica valida ragione perché un magistrato possa cedere alle (talvolta) irresistibili lusinghe della popolarità che le partecipazioni a trasmissioni televisive o le interviste rilasciate ai giornali garantiscono. In altri termini, Paolo si esponeva per costruire intorno a sé la solidarietà dell’opinione pubblica che gli garantisse quella protezione che le strutture statali non erano in grado di fornirgli.
Anche in questo caso ripenso a quei miei colleghi che non perdono l’occasione per apparire in televisione, magari per parlare di processi che stanno trattando e per dire la loro su argomenti che non li riguardano se non nella misura in cui conferiscono a loro la ricercata notorietà. E con rabbia leggo che proprio per giustificare questi atteggiamenti si richiamano a Borsellino e Falcone, dicendo che anche loro rilasciavano interviste o scrivevano libri. Solo che loro lo facevano per difendersi, altri lo hanno fatto per garantirsi un seggio a Strasburgo o trovare un’ospitata nel talk show di successo”.
Insieme al Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, a Giovanni Falcone ed a Rocco Chinnici, Paolo Borsellino fu uno dei primi ad accorgersi dell’importanza della scuola per educare le nuove generazioni (in cui credeva moltissimo) a scelte consapevoli. Oggi molti ragazzi, vedono in Borsellino e Falcone due eroi inarrivabili. E lei, ad un certo punto ha deciso di parlare di Borsellino nelle scuole, dopo anni di riservatezza. Come mai questa scelta?
“Se solo qualche anno fa mi fosse stato chiesto di parlare in pubblico di Paolo Borsellino, avrei rifiutato. Avevo vissuto fino a quel momento il ricordo del mio breve rapporto con Paolo come un fatto esclusivamente privato da custodire gelosamente, una storia solo mia. Poi, il giorno che ho iniziato la mia esperienza all’università di Firenze e il preside della facoltà mi ha chiesto di raccontare agli studenti chi era Paolo, tutto è cambiato. Le parole e le curiosità di quei ragazzi mi hanno fatto capire che, invece, era giusto portare il mio piccolo e personale contributo per far conoscere a tutti chi è stato questo straordinario uomo. E, anzi, proprio l’ascolto delle domande che rivolgevano mi ha fatto comprendere veramente la dimensione di questa eccezionale persona.
Debbo confessare che quando sento dire che Paolo è stato un eroe provo un senso di fastidio. E mi sono accorto che è una reazione comune anche ad altri che hanno avuto la fortuna di frequentarlo anche più di me. Perché è una definizione che lo colloca lontano dagli uomini, e, invece, Paolo Borsellino è stato soprattutto un uomo con tutte le debolezze e le paure che animano la nostra vita quotidiana. Parlare di Paolo come un eroe significa collocarlo lontano dagli uomini, renderlo irraggiungibile, e consegnare un alibi a tutti noi: è un eroe, ha doti sovraumane, quindi io non posso fare quello che ha fatto lui. Ma non è così. Posso essere appassionato di bel canto, ma per quanto cerchi di esercitarmi non sarò mai come Luciano Pavarotti. Ho una passione sfrenata per la pittura, ma, nonostante la quotidiana applicazione a colori e tele, non riuscirò mai a emulare Vincent Van Gogh. Tiro calci a un pallone da quando ho iniziato a camminare, mi alleno da una vita, ma non potrò mai raggiungere l’abilità di Maradona: perché questi personaggi così diversi tra loro avevano dei talenti rari. Il buon Dio li aveva muniti di doti di cui sono sforniti tutti gli altri esseri umani. Ma Paolo Borsellino, no. Paolo era un uomo come noi, aveva solo un rigore morale e un senso del dovere che gli hanno fatto vivere un’esistenza giusta, che lo hanno naturalmente condotto a non cedere di fronte all’ingiustizia e ai soprusi. E a ribellarsi. Ma questo lo possiamo fare tutti noi: basta volerlo. Non servono talenti rari. Solo la consapevolezza di essere uomini.
A me piace pensare che Roberto Vecchioni quando nella sua splendida canzone “Sogna ragazzo sogna”, ha scritto: “sogna ragazzo sogna quando cala il vento, ma non è finita, quando muore un uomo per la stessa vita che sognavi tu”, pensasse proprio a Paolo Borsellino e Giovanni Falcone. Perché loro hanno sacrificato le loro giovani vite per rendere il mondo migliore.
Se proprio mi si chiede di dover descrivere oggi Paolo con un aggettivo, non posso che prendere a prestito quello che suo figlio Manfredi ha scritto nella prefazione di un libro che raccoglieva gli scritti di suo padre, e cioè che Paolo è invincibile. E mi pare che a venti anni di distanza tutta l’attenzione e l’ammirazione che desta questo uomo soprattutto nelle nuove generazioni ci fa dire con grande soddisfazione che Paolo ha vinto. Almeno sul piano personale. Meno positivo è il bilancio del successo degli insegnamenti di Paolo: se guardiamo agli esiti della lotta (?) alla mafia condotta dalla Stato e alla perdurante pervasività della cultura mafiosa nei comportamenti pubblici e privati dei cittadini, il successo sembra ancora lontano”.
“La paura è normale che ci sia, in ogni uomo, l’importante è che sia accompagnata dal coraggio. Non bisogna lasciarsi sopraffare dalla paura, sennò diventa un ostacolo che ti impedisce di andare avanti”. Manifestò mai dei sentimenti di paura?
“Paolo Borsellino è stato soprattutto un uomo con tutte le debolezze e le paure che animano la nostra vita quotidiana. E devo far fatica a trattenere la commozione quando ricordo che lo sentii dire che lui aveva paura, ma aveva anche il coraggio per superarla. A pensarci bene in questa frase dal contenuto molto laico stava la consapevolezza della limitatezza dell’uomo, ma anche la convinzione che è solo dalle nostre capacità che dipende il superamento di quei limiti. Tutto il contrario di quella rassegnazione che è la migliore alleata della mafia e delle ingiustizie. Detta poi da chi è nato e vissuto nella terra del Gattopardo dove “tutto cambia per rimanere uguale” e dove ancora trova larga applicazione il proverbio “piegati giunco finché passa la piena”, la frase ha un significato indubbiamente rivoluzionario.
E Paolo aveva paura negli ultimi giorni della sua vita. Ricordo che l’ultima volta che l’ho visto –il 4 luglio 1992, quando venne a salutare tutti i colleghi e i collaboratori di Marsala, da cui tre mesi prima era andato via rapidamente, per dare un taglio brusco e netto ad un legame troppo forte- era un uomo non solo affranto per la perdita dell’amico di una vita, ma anche una persona piena di timore. Non era necessario ascoltare le parole preoccupate del suo discorso, ma bastava vedere il suo sguardo privato della tipica lucentezza per capire che qualcosa lo tormentava. Qualcuno di noi gli chiese se sarebbe andato a villeggiare a Villagrazia di Carini, come faceva tutte le estati. E Paolo rispose di no, aggiungendo che la moglie Agnese aveva paura (“Agnese si scanta”, disse) a passare tutti i giorni per Capaci, sull’autostrada dove da poco era saltato in aria Giovanni Falcone. Ascoltai quelle parole e capii subito che a “scantarsi” era soprattutto Paolo e per questo non voleva esporre a pericoli la sua famiglia. Personalmente mi salutò con un bacio, una vigorosa stretta del braccio e soprattutto un sorriso un po’ forzato che voleva essere rassicurante. Perché, ne sono convinto, Paolo sapeva quello che rischiava, ma il suo senso di responsabilità, la sua etica gli imponeva di andare avanti e di non far preoccupare chi gli voleva bene.
Ecco perché, più che a un eroe, a me piace paragonarlo a uno di quei personaggi della letteratura dell’antica Grecia che erano consapevoli del loro tragico destino e, nonostante ciò, l’affrontavano. E visto che ho avuto sempre una simpatia per Ettore, mi piace poter dire che, così come Ettore sapeva che doveva soccombere contro Achille, e tuttavia questo non gli ha impedito di varcare le rassicuranti porte Scee per sfidarlo, così Paolo era consapevole di essere ormai un obiettivo di Cosa Nostra, ma il suo senso del dovere, la sua assoluta integrità intellettuale, la consapevolezza di rappresentare lo Stato lo hanno spinto a continuare fino all’ultimo giorno nel lavoro di una vita. Con una sola, ma non secondaria differenza: che Ettore sfidava un guerriero leale come Achille con il supporto di tutti i troiani, mentre Paolo era isolato davanti a un nemico composito, di cui era parte anche qualcuno che avrebbe dovuto essere al suo fianco e che, però, si è mescolato ai suoi avversari”.
Il rigore morale, filo conduttore di tutta la vita di Paolo Borsellino, è stato trasmesso alla famiglia stessa, alla signora Agnese ed ai figli. Lei ha definito la famiglia Borsellino “L’ultimo regalo di Paolo…”
“Il 5 maggio del 2013 è morta Agnese, la donna che ha accompagnato Paolo nella sua vita. Agnese era una donna minuta, con lo sguardo dolce, e un fisico apparentemente fragile. Ma dopo la morte del marito si è trasformata in una donna di acciaio: ha riunito intorno a sé i tre splendidi figli e insieme ci hanno confezionato l’ultimo regalo di Paolo: la sua famiglia.
Non è passato inosservato il comportamento della famiglia di Paolo nei venticinque anni successivi all’eccidio di via D’Amelio: mai una polemica, mai un innalzamento dei toni, mai una gratuita ricerca di visibilità, ma una costante affermazione della fiducia nello Stato e nel rispetto delle legge. Anche quando fatti inquietanti e situazioni opache hanno circondato la vicenda della strage del 19 luglio 1992, Agnese e i suoi figli hanno affidato ai mass media dichiarazioni in cui ribadivano la loro incrollabile fiducia nelle istituzioni e nella magistratura, dimostrando che la vera giustizia è solo quella che passa attraverso le sentenze dei giudici: come avrebbe fatto Paolo”.
La signora Agnese, nel suo libro testamento Ti racconterò tutte le storie che potrò parla del marito come di un eterno fanciullo, che si emozionava anche con piccole cose ed amava tanto i bambini.
“Ricordo ancora le occasioni conviviali in cui ci riunivamo con le nostre famiglie: poteva capitare che qualche carabiniere ci offrisse una cena a base di cacciagione o che qualche collega mettesse a disposizione la sua casa di campagna per un pranzo domenicale. C’erano anche i figli piccoli dei giudici o dei sostituti che correvano, giocavano, ridevano e piangevano: facevano quell’allegra confusione tipica della loro età. Paolo si avvicinava a loro, e con quel tono da falso cattivo, gli diceva che, se avessero continuato a disturbare, se li sarebbe mangiati. E dopo una breve e studiata pausa, aggiungeva: “Crudi!”. I bambini spaventati scappavano e Paolo se ne rimaneva lì a ridere divertito.
Il ricordo più struggente è, però, legato un episodio che ha visto come protagonista una bimba.
Ero appena arrivato a Marsala e Paolo, alla fine di una giornata di lavoro, mi invitò a cena insieme agli altri colleghi. Mi disse che voleva portarmi a mangiare in un posto incantevole. In effetti il ristorante si trovava su una lingua di terra proiettata nel mare siciliano, tra le isole Egadi e lo Stagnone, e la serata di primavera inoltrata faceva sì che al tramonto il mare ed il cielo si accendessero di mille luci e quasi si confondessero in un caleidoscopio di colori. Appena entrati nel ristorante vidi farsi incontro a Paolo una bambina di non più di sei anni, con i capelli biondi raccolti in due codine, che si gettò tra le sue braccia. Paolo la prese in braccio e la accarezzò teneramente, tant’è che la bimba rimase per quasi tutta la serata sulle sue ginocchia. Tale atteggiamento mi colpì, ma lo stupore cessò quando, alla fine della serata, seppi chi era quella bimba. Era l’unico testimone oculare della caduta di un aereo militare avvenuta nei pressi dell’aeroporto di Trapani. Paolo, che indagava su quel fatto, aveva dovuto sentire quella bambina rimasta comprensibilmente scossa dalla scena alla quale aveva assistito e, consapevole della forma di violenza che inevitabilmente andava ad esercitare su di lei, obbligandola a ricordare un fatto, comunque, traumatico, era riuscito a trovare quelle parole, quei modi e quei gesti che solo chi ha una grande purezza d’animo può utilizzare senza ferire la sensibilità di un essere ingenuo e fragile come una bambina di quell’età. Qualche estate fa ho incontrato di nuovo quella bambina che ora è diventata una giovane donna. Mi ha raccontato che l’ultima volta che aveva visto Paolo, lui le aveva promesso una bambola che, purtroppo, non fece in tempo a donarle. Quei criminali che hanno premuto il telecomando che ha fatto esplodere l’auto imbottita di tritolo hanno distrutto qualcosa anche dentro quella bambina dalle codine bionde. Vorrei che tutti lo ricordassero così Paolo, affettuoso e premuroso, con quel lampo negli occhi e quel sorriso raggiante che riscaldava come un abbraccio”.
Che insegnamento professionale le ha lasciato e quanto sono attuali i valori in cui credeva Paolo Borsellino?
“Personalmente quello che oggi più mi stupisce è la straordinaria attualità del suo insegnamento, che talvolta mi arriva così, all’improvviso. Dopo ventisette anni di carriera ancora mi capita di imbattermi in alcune situazioni che sollecitano delle riflessioni e che mi ricordano quello che ho ascoltato da lui. E solo in quel momento mi accorgo della profondità di certe sue parole”.
Se potesse, oggi, dirgli qualcosa, qual è la prima frase che le sovviene?
“Che la sua morte non è stata inutile perché venticinque anni dopo tanti giovani guardano a lui e a Giovanni Falcone come a degli esempi da imitare. In altri termini questi due uomini alimentano la speranza di chi crede ancora in un mondo giusto”.
Intervista a cura di “Fraterno sostegno ad Agnese Borsellino” e “Osservatorio veneto sul fenomeno mafioso” 5.7.2017
Il giudice Luciano Costantini classe 1962, dal 1991 al 1994 ha svolto le funzioni di sostituto procuratore della repubblica presso il Tribunale di Marsala (TP) con applicazioni alla Direzione Distrettuale Antimafia di Palermo. Dal 1995 al 2004 ha svolto le funzioni di sostituto procuratore della repubblica presso il Tribunale di Pistoia con applicazioni alla Direzione distrettuale antimafia di Firenze. Dal 2005 al 2015 ha svolto le funzioni di giudice presso il tribunale di Pistoia prima nella sezione civile e dal 2007 nella sezione penale. Dal 29 settembre 2015 è presidente della sezione penale del Tribunale di Siena. Fino al Luglio 2016 ha esercitato le funzioni di Presidente del Tribunale in assenza del titolare.
Si è occupato, e si occupa tuttora, di insegnamento, presso l’università di Siena e di Firenze e presso la scuola di formazione forense “Cino da Pistoia” su temi di diritto penale e di procedura penale. E’ anche relatore nel master in tecniche dell’investigazione organizzato annualmente dal dipartimento di diritto pubblico della facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Siena nella materia delle intercettazioni telefoniche. Dal 2002 tiene docenze periodiche in tema di sicurezza sui luoghi di lavoro –profili penali- in corsi organizzati da vari ordini professionali della toscana, enti locali e enti privati destinati a professionisti e funzionari pubblici. Costantini ha curato il commento gli artt. 496-524 e 549-567 del codice di procedura penale edito da Cedam nel 2012.
Dal 29 settembre 2015 è presidente della sezione penale del Tribunale di Siena. Si è occupato, e si occupa tuttora, di insegnamento, presso l’Università di Siena e di Firenze e presso la Scuola di Formazione Forense “Cino da Pistoia” su temi di diritto penale e di procedura penale.
Il riconoscimento a Luciano Costantini