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TESTIMONE DI INGIUSTIZIA a BREGNANO
LA MIA VITA DA FANTASMA PER AVER DENUNCIATO LA ‘NDRANGHETA
FAMIGLIA CRISTIANA
CORRIERE DI CALABRIA
OSSERVATORIO DIRITTI
CHIESA DI MILANO
Prefazione di Ezio Ciconte
Quando si parla di mafia il pensiero corre subito alla violenza assassina che spegne la vita di altri mafiosi o di vittime innocenti. Poi, negli ultimi decenni, soprattutto dopo il maxiprocesso di Palermo e le rivelazioni di Buscetta, l’attenzione s’è spostata sui collaboratori di giustizia, i pentiti come di solito, con un termine improprio, vengono chiamati i mafiosi che hanno deciso di recidere i legami con la propria organizzazione.
Sangue e vittime sono in ogni caso il pensiero dominante che è associato al nome di mafia. In fondo, nella lunga storia delle mafie italiane, sangue e vittime sono sempre state presenti.
Pochi, però, si sono interessati di un altro tipo di vittime, quelle che hanno trovato la forza e il coraggio civile di denunziare e di indicare i colpevoli di omicidi o di altre nefandezze compiute dai mafiosi.
Il libro di Eugenio Arcidiacono ci racconta la storia di una donna, Marianna, e di una famiglia che in un paesino del crotonese hanno trovato la forza di ribellarsi. C’è solo il nome della donna e manca quello del paesino. E sono dettagli importanti, per capire il contenuto e l’essenza del libro. Se a distanza di tantissimi anni, quei nomi sono ancora coperti vuol dire che permane ancora un problema irrisolto. E che problema!
Marianna fa un racconto asciutto, senza orpelli, crudo, a tratti drammatico, della sua odissea – è proprio il caso di dirlo – che dal paese dov’era nata l’ha catapultata in posti sconosciuti, in località dove lei e i suoi familiari sono stati dei fantasmi e hanno vissuto senza un’identità non potendo utilizzare i loro veri nomi per evitare la vendetta della ‘ndrangheta.
Il racconto di Marianna parte dall’infanzia quando nel paese non c’era ancora la ‘ndrangheta che s’è formata in tempi recenti e con una violenza bestiale che ricalca e riproduce quella della faida che ha insanguinato altri comuni calabresi e non solo calabresi perché la faida ha radici antiche e solide ben piantate nei secoli scorsi. Con parole semplici ed efficaci Arcidiacono ci fa vedere alcune caratteristiche della ‘ndrangheta conosciuta da Marianna.
Perché parlando di Marianna parlo di una vittima? Perché le vittime non solo quelle uccise – e nella sua famiglia due fratelli sono stati assassinati e un terzo non ha retto psicologicamente alla tragedia – ma sono anche quelle che, sopravvissute, dopo aver reso la propria testimonianza sono state costrette a vivere una vita schiacciata dalla paura di essere riconosciute e a loro volta uccise, e annichilite dall’umiliazione di uno Stato schizofrenico che agisce in modo confuso e contraddittorio e non ha la capacità di difendere e di proteggere chi ha avuto il coraggio di fidarsi dello Stato.
Forse ci vorrà ancora del tempo prima di comprendere che i collaboratori di giustizia hanno una loro importanza, ma che i testimoni di giustizia hanno un’importanza ancora maggiore perché i primi hanno una funzione statica e si limitano a raccontare quello che è a loro conoscenza, e la loro funzione si esaurisce con la testimonianza nei processi mentre i testimoni hanno una funzione dinamica e, soprattutto se rimangono nei paesi d’origine come si sta cercando di fare negli ultimi anni, hanno una funzione permanente di ricordo e di testimonianza che una via alternativa a quella della sudditanza alla mafia è possibile.
Marianna ci racconta il fallimento non suo, perché lei non s’è pentita della scelta fatta, ma degli apparati di protezione dello Stato e dei burocrati che li dominano. Il suo racconto reclama il superamento di situazioni come quelle descritte nel libro.
Non s’è pentita Marianna, e, forte della sua fede, ci dice di persone meravigliose incontrate sulla sua strada, e continua a testimoniare come fece tanti anni fa. Una testimonianza che fa riflettere.
LA STORIA DI MARIANNA F. TESTIMONE DI GIUSTIZIA, CHE INTERROGA LO STATO E TUTTI NOI
Il libro di Eugenio Arcidiacono, Marianna F. testimone di ingiustizia, racconta la vita complicata di una donna che, nel 1992, quando ancora tante leggi a protezione dei testimoni e le associazioni antimafia erano di là da venire, ha denunciato la ‘ndrangheta: una lettura non pacifica piena di domande che non devono restare senza risposta.
Un nome, non quello vero, e un cognome che è un’iniziale puntata. Che la storia che Marianna F. ha affidato a Eugenio Arcidiacono, giornalista di Famiglia Cristiana in Testimone di ingiustizia (San Paolo), sia una storia complicata e dura lo si capisce da qui: dal fatto che chi la racconta ha un nome che non si può dire, dal fatto che viene da un paese che non si può nominare. Questione di sicurezza. Marianna è una testimone di giustizia, di ingiustizia dice nel titolo del libro: molti anni fa – nel 1992 quando la ‘ndrangheta era nel cono d’ombra lasciato dal riflettore dell’attenzione pubblica puntato sulla Sicilia delle stragi – , insieme ai suoi genitori, contro la ‘ndrangheta – a causa della quale per motivi diversi ha perso due fratelli – ha scelto lo Stato, non ha lasciato vincere la legge non scritta dell’omertà e ha consegnato allo Stato la sua tessera nel mosaico della verità.
Testo e titolo, che insieme ci restituiscono una storia potente e dolorosa, ci interrogano e interrogano soprattutto lo Stato inteso come istituzioni, nelle persone che lo rappresentano: magistrati, legislatori, forze dell’ordine e tutte le componenti che coordinano i programmi di protezione. La partita è decisiva perché lo Stato ha il dovere di rendere non solo giusta ma anche conveniente la scelta, costosa, di stare dalla sua parte contro il crimine. Diversamente si finisce per incentivare, indirettamente e involontariamente, la scelta opposta.
Si sono fatti passi avanti, prima nel 2001 poi nel 2018, la legge si è evoluta in una direzione di maggiore tutela dei testimoni, che finalmente anche sulla carta sono distinti dai collaboratori di giustizia, i cosiddetti “pentiti” che hanno commesso reati e, facendo parte delle organizzazioni criminali, fanno un patto con lo Stato: dire cose che sanno in cambio di un trattamento sanzionatorio più favorevole. I testimoni sono diversi: sono persone informate sui fatti, ma senza colpe: semplicemente hanno visto un reato o ne sono stati vittime, talvolta avendo la sventura di avere il nemico più pericoloso dentro la propria famiglia anagrafica. Processualmente nel sistema italiano i testimoni hanno una posizione più scomoda di quella degli imputati: i primi sono tenuti alla verità, i secondi possono mentire perché un principio di civiltà giuridica fa sì che nessuno possa essere costretto ad accusare sé stesso. Prima che il processo parta, spesso i testimoni sono coloro che consegnano alla giustizia tessere del mosaico che può portare alla ricostruzione della verità: più tessere si consegnano, più è probabile che la verità emerga, più omertà c’è più facilmente la giustizia arriva ad alzare bandiera bianca.
Ma sarebbe ingenuo o ideologico non ammettere che chi ha fatto fino in fondo il proprio dovere di testimone in certi contesti si è consegnato a una vita complicata, soprattutto se lo ha fatto – come Marianna – in tempi lontani, quando le norme che tutelano i testimoni, cercando di tutelarne non solo l’incolumità ma anche la “normalità” e la quotidianità, erano ancora tutte da disegnare e si navigava un po’ a vista.
Marianna racconta tutte queste complicazioni, con la vividezza che la sua cultura le consente: ha studiato Marianna, ha cercato di costruirsi una vita autonoma lontana da quel paese senza nome, ma il passato l’ha inseguita e la costruzione del suo percorso è rimasta congelata in un limbo, causato anche dal fatto che le leggi più recenti, che oggi tutelano i testimoni di giustizia, per una serie di complicate ragioni non riescono a estendere per intero il loro ombrello protettivo a chi ha detto ciò che sapeva prima che entrassero in vigore. Marianna è una donna forte, dice che non tornerebbe indietro, che sceglierebbe ancora lo Stato se la vita riavvolgesse il nastro e la riportasse allo stesso bivio. Ma, giustamente, allo Stato oggi chiede risposte, perché per quella scelta ha sacrificato troppo, e le norme che tutelano chi è venuto dopo di lei non possono bastarle. La paura è ancora lì e il limbo le tiene la vita in sospeso. Per questo sarebbe importante che chi rappresenta lo Stato, in tutte le sue forme, leggesse questo libro, perché deve servire a migliorare le cose che ancora non funzionano e sarebbe grave se invece servisse a concludere che scegliere lo Stato non conviene. Ma non è retorica dire che lo Stato siamo anche noi, tutti noi, e c’è un passaggio del libro che lo prova e che ci deve fare riflettere: quando Marianna e la sua famiglia tornano al paese senza nome, in Calabria, il negoziante di alimentari si offre di portare loro la spesa a casa, perché, spiega, se il resto del paese scopre che chi ha testimoniato fa la spesa lì nessun altro ci andrà più.
C’è una canzone di De André che ha un titolo strano: “Le acciughe fanno il pallone”. Allude al fatto che in natura piccoli pesci come le acciughe tendono a muoversi in branco per fare massa critica e difendersi così dai predatori: se ogni acciuga andasse per mare da sé o a piccoli gruppetti resterebbe isolata e finirebbe sempre mangiata. Se le acciughe non sono ancora estinte è merito dell’istinto di fare il pallone, di mettersi insieme per difendersi dal predatore unite. È ciò che fa Arcidiacono con questo libro: accendo un riflettore perché Marianna e gli altri come lei non restino soli nel mare aperto della burocrazia. Tocca allo Stato nelle sue istituzioni proteggere le acciughe come Marianna, migliorando la vita e la sicurezza di chi si mette dalla sua da parte e ha il dovere di farlo anche sanando con urgenza quello che ancora non funziona per chi ha fatto la scelta della giustizia tanto tempo fa e vigilando su quelli venuti dopo, ma è vero che anche tra gli uomini più grande è il pallone, più numerose sono le acciughe che si uniscono dalla parte sana, più si sottrae forza al nemico. È la logica del movimento Ammazzateci tutti nato nel 2005 in Calabria non per caso, anche dalla presa di coscienza del fatto che il predatore non risparmia le acciughe che, come nel libro Francesco, si mettono dalla sua parte. Alla fine le mangia. FAMIGLIA CRISTIANA 08/06/2020 Elisa Chiari
Testimone di ingiustizia: una vita da fantasma per aver denunciato la ‘ndrangheta
Il libro “Testimone di ingiustizia” è la storia di una donna tradita dallo Stato: dopo aver testimoniato contro la malavita del Crotonese, responsabile dell’omicidio di suoi due fratelli, si è ritrovata abbandonata a se stessa. Gli autori sono Marianna F. ed Eugenio Arcidiacono
Una vita condannata all’ombra. Privata di un’identità, spogliata di relazioni sociali, sentimentali, amicizie, semplici rapporti umani. Una vita da fantasma, un po’ come quella del pirandelliano Mattia Pascal. La colpa? Essere una testimone di giustizia, avere avuto il coraggio, la forza, la coscienza etica e civile di denunciare i responsabili dell’assassinio del suoi due fratelli, ribellandosi alle regole dettate da una cosca della ‘ndrangheta in un paese del Crotonese, in Calabria.
Lei è Marianna F., nome ovviamente di fantasia. Un’identità inesistente, così come il resto della sua vita. La sua età è intorno ai 50 anni. Vive in una località sconosciuta. Nessuno – a parte la sua famiglia, che condivide la sua stessa situazione – conosce la sua storia, le sue radici, il suo vissuto.
Eugenio Arcidiacono, giornalista di Famiglia Cristiana, un giorno ha ricevuto una sua email. L’ha incontrata, ha raccolto la sua testimonianza per un servizio e da quell’articolo è nata l’idea di un libro a quattro mani, “Testimone di ingiustizia. La mia vita da fantasma per aver denunciato la ‘ndrangheta” (Edizioni San Paolo).
La copertina del libro “Testimone di ingiustizia. La mia vita da fantasma per aver denunciato la ‘ndrangheta” (di Marianna F. ed Eugenio Arcidiacono, Edizioni San Paolo)
Dopo aver denunciato la ‘ndrangheta, il programma di protezione
Arcidiacono sintetizza così la vicenda della donna: «Alla fine degli anni Novanta Marianna, laureata in Lingue con un lavoro da interprete a Parigi, ha deciso di collaborare con la giustizia dopo l’assassinio dei fratelli, in accordo con i suoi genitori e sua sorella. È così entrata nel programma di protezione di testimoni e collaboratori di giustizia. Sulla base della legislazione allora vigente, è stata portata in una località lontana da casa sua, sconosciuta, e le è stato dato un nome falso, per proteggerla dalla vendetta della ‘ndrangheta».
Un cambiamento che ha cambiato per sempre la sua vita. «A queste condizioni Marianna non poteva lavorare e non aveva neppure diritto all’assistenza sanitaria, perché per l’anagrafe lei era inesistente, non aveva una vita, né diritti. Se avesse avuto dei figli questi sarebbero stati inesistenti e non avrebbero potuto neppure essere iscritti a scuola. In quanto testimone di giustizia, lo Stato deve garantirti, oltre a un sussidio, anche un lavoro idoneo alle tue capacità e competenze. A Marianna è stato procurato un lavoro come interprete nel ministero dell’Interno. Ma lei si è ritrovata a fare fotocopie, mobbizzata, costretta alla fine a rinunciare a questo lavoro. Una situazione accertata dalla Asl, che le ha riconosciuto un danno biologico per tutti i torti che ha subito».
Questa situazione ha portato la donna a prendere la decisione più pericolosa. «In seguito, il ministero dell’Interno le ha promesso altri lavori, che però non si sono mai concretizzati. Marianna ha deciso così di uscire dal programma di protezione. Per poter partecipare a concorsi pubblici, come la legge prescrive, doveva recuperare la sua vera identità, mettendo però a rischio la sua vita».
Marianna si ritrova da sola: senza lavoro, senza amici
Suo padre, nel frattempo, è morto, con il cuore gonfio di dolore e amarezza. Un terzo fratello non ha retto psicologicamente ed è stato ricoverato in una clinica. Oggi Marianna continua a vivere in un limbo.
«Lei ha ripreso la sua vera identità per cercare un lavoro ma non riesce a trovarlo perché nel suo curriculum c’è un buco di 10 anni, quelli durante i quali lei era nel sistema di protezione e sui quali non può dare spiegazioni», racconta ancora Arcidiacono.
E le difficoltà non sono solo di tipo lavorativo. «Ogni mattina esce di casa, dice ai vicini che va a lavorare al ministero dell’Interno, anche se non è vero. Gira per le strade, va in biblioteca. Quando qualcuno si avvicina troppo a lei e comincia a farle domande personali, Marianna si spaventa, tronca qualunque rapporto e cambia strada».
«Ha una casa che ha comprato con i soldi del risarcimento erogato dal programma di protezione. C’è poi la casa dove vivono sua madre e sua sorella. Ha chiesto di poter vendere la sua abitazione nel Crotonese, ma nessuno la vuole acquistare».
Ora – notizia recentissima – pare che lo Stato abbia accettato di acquistarla (per poi rivenderla ad associazioni). Ma la casa è stata devastata dagl uomini della ‘ndrangheta e dopo vent’anni è in condizioni pessime.
Il suo sogno sarebbe fare la guida turistica. Oppure, se potesse tornare nella sua Calabria, vorrebbe aprire un bed & breakfast. Ma nel suo paese ancora spadroneggia la stessa cosca di tanti anni fa e il Comune nel 2018 è stato commissariato».
di Giulia Cerqueti 2 Ottobre 2020 Osservatorio Diritti