Riassumendo, quindi, dopo il rimpasto, la Commissione, nel 1978, era così composta: 1) Michele Greco, capo commissione; 2) Salvatore Riina e Bernardo Provenzano; 3) Antonino Salomone (sostituito da Berardo Brusca); 4) Stefano Bontade; 5) Salvatore Inzerillo; 6) Salvatore Scaglione; 7) Giuseppe Calò; 8) Rosario Riccobono; 9) Francesco Madonia; 10) Gigino Pizzuto; 11) Nené Geraci; 12) Soggetto in corso di identificazione.
Nel 1979-1980, e comunque prima della uccisione di Stefano Bontade, venivano inseriti nella Commissione Giovanni Scaduto, genero di Salvatore Greco Ferrara, e Pino Greco “scarpazzedda”, quale capo della famiglia di Ciaculli: quest’ultimo episodio costituisce ulteriore stravolgimento delle regole di Cosa Nostra, ove si consideri che della famiglia di Ciaculli due membri vengono inseriti all’evidente scopo, da un lato, di riconoscere l’importanza acquisita dal feroce Pino Greco “scarpazzedda”, e dall’altro, di relegare in posizioni meramente onorifiche Michele Greco, vittima della sua mancanza di personalità ed ormai in balia dei corleonesi.
Le conseguenze di questo mutato assetto della commissione e, quindi, degli accresciuti poteri dei corleonesi non si fanno attendere.
Nel marzo 1978 veniva ucciso Michele Reina, segretario provinciale della Dc. Di tale omicidio – che per la sua rivelanza non poteva non avere coinvolto tutta la commissione – né Stefano Bontade, né Salvatore Inzerillo, né Rosario Riccobono sapevano nulla ed anzi i primi due, nel commentarlo successivamente col Buscetta, lamentavano, appunto, questo ulteriore affronto al loro prestigio ed il loro progressivo isolamento.
Nel maggio 1978, veniva ucciso Giuseppe Di Cristina. L’omicidio, opera dei corleonesi, era una gravissima offesa soprattutto per Salvatore Inzerillo, nel cui territorio il crimine veniva consumato con modalità tali da indirizzare i sospetti della Polizia su questo ultimo.
A UN TRATTO CAPIRONO DI ESSERE ACCERCHIATI Anche stavolta i due non ottenevano alcuna soddisfazione dalla commissione e cominciavano finalmente a rendersi conto di essere accerchiati; non comprendevano appieno, però, fino a che punto fosse giunta l’opera di proselitismo da parte dei loro avversari anche all’interno delle loro stesse “famiglie”. È da rilevare, però, che Inzerillo era quasi sicuro che nell’omicidio fosse implicato Salvatore Montalto (e il futuro avrebbe dimostrato quanto erano fondati i suoi sospetti) ma nulla poteva fare non potendo sorreggere con prove il suo convincimento. “Dopo l’uccisione del Di Cristina veniva fatta circolare la voce che questi era stato ucciso perché confidente dei carabinieri. In realtà, era stato eliminato in quanto uno dei maggiori esponenti dell’ala moderata di Cosa Nostra. “Gli ulteriori omicidi di Boris Giuliano, di Cesare Terranova e di Pier Santi Mattarella, come il Buscetta apprendeva da Salvatore Inzerillo, venivano decisi dalla commissione sempre all’insaputa dello stesso Inzerillo, di Stefano Bontade e di Rosario Riccobono (si noti che, in questa fase, Rosario Riccobono è apparentemente alleato di Bontade ed Inzerillo) è ciò ovviamente, allargava ancora di più il solco tra Bontade e Inzerillo da un lato, e la commissione dall’altra.
Infine, il 4 maggio 1980 veniva commesso l’omicidio del capitano dei cc. Emanuele Basile, voluto dai corleonesi con la supina acquiescenza della commissione. Basta por mente ai tre personaggi coinvolti nell’omicidio (assolti inopinatamente alla Corte di Assise di Palermo ma di certo responsabili dell’omicidio, secondo le motivate e plausibili dichiarazioni di Buscetta), per rendersi conto della falsità delle affermazioni di Michele Greco al Bontade circa la sua estraneità al crimine, nonché della rappresentatività del terzetto. Infatti, Puccio Vincenzo è “uomo d’onore” della famiglia di Michele Greco (Ciaculli), Giuseppe Madonia fa parte della famiglia di Resuttana ed Armando Bonanno di quella di San Lorenzo. Attraverso l’identificazione degli autori materiali, dunque, si ha una formidabile conferma, ove ve ne fosse stato bisogno, dell’attendibilità delle dichiarazioni del Buscetta.
La reazione degli organi statuali, purtroppo, si dirige verso direzione opposta rispetto a quella degli ambienti mafiosi che hanno ideato ed eseguito il crimine. Difatti, dopo pochissimi giorni dalla uccisione del Basile, vengono denunciate alla magistratura 55 persone, tutte della famiglia di Salvatore Inzerillo e comunque estranee alla decisione di uccidere il capitano Basile. “Ancora una volta, dunque, l’Inzerillo subiva, come per l’omicidio Di Cristina, il danno di azioni che, non solo non erano state volute da lui, ma che costituivano gran nocumento del suo prestigio. Da qui la sua decisione di uccidere Gaetano Costa, Procuratore della Repubblica di Palermo, Capo, cioè, dell’Ufficio cui era stato presentato, per la ratifica dell’operato della Polizia, il rapporto contro i membri del suo clan.
A Buscetta, nel frattempo rientrato a Palermo (essendosi allontanato da Torino dove era stato ammesso al regime di semilibertà), tutti quanti, compreso lo stesso interessato, confermavano che la decisione di uccidere Costa era stata adottata, senza alcun avallo dalla commissione ed all’insaputa della stessa, dal solo Salvatore Inzerillo, per dimostrare che anch’egli, come e più dei corleonesi, era in grado di poter fare eseguire un omicidio eclatante.
UN CORO CONTRO INZERILLO: “BAMBOCCIO” Ed era un coro unanime che l’Inzerillo si era comportato da “bamboccio” avendo commesso un omicidio così grave solo per un’affermazione di prestigio. Ed è proprio sconsolante constatare che un galantuomo, fedele servitore dello Stato, sia stato ucciso solo per turpi calcoli di tornaconto personali, per meschini giochi di potere. Anche la posizione di Stefano Bontade era assai precaria: egli infatti confidava poi al Buscetta che il fratello Giovanni lo metteva in cattiva luce con gli altri componenti della commissione, ed in particolare con Michele Greco, fatto, questo, confermato anche da Pippo Calò. Siffatto comportamento non poteva non indebolire la posizione di Stefano Bontade essendosi fatto sapere ai suoi avversari che il suo potere di capo non era poi così solido se perfino suo fratello lo criticava apertamente con estranei.
Non si ha ancora la certezza che Giovanni Bontade fosse partecipe del disegno di eliminazione del fratello Stefano e di tanti altri – ed in effetti ripugna pensare che il suo grado di abiezione fosse giunto a tale livello – però, è un fatto che, come “uomo d’onore”, egli non poteva ignorare a quali rischi esponeva il fratello Stefano, parlandone male agli avversari: ed è un fatto anche che il Bontade, detenuto fin da epoca anteriore all’omicidio del fratello, ha sempre dichiarato di non temere per la sua incolumità all’interno dell’Ucciardone e che diversi detenuti hanno confermato che egli convive tranquillamente, senza alcun apparente disagio, con membri delle famiglie cui è da ascrivere la responsabilità per l’assassinio del fratello.
È proprio in questo momento così delicato che avviene il rientro del Buscetta a Palermo. Il suo carisma e il fatto di non essere stato coinvolto in precedenti alleanze, lo rendevano particolarmente appetibile ad entrambi gli schieramenti quale elemento rappresentativo da utilizzare per convincere con il suo prestigio gli incerti in previsione di uno scontro che si preannunciava terribile. “E così Pippo Calò, da tempo, ormai mimetizzatosi a Roma dove aveva acquistato, anche in virtù della sua alleanza coi corleonesi, grandissimo peso e inquietanti collegamenti col mondo imprenditoriale e politico, lo voleva immediatamente con sé e, dopo di averlo del tutto dimenticato negli otto lunghi anni della carcerazione, gli offriva condizioni assolutamente privilegiate ed ingenti guadagni derivanti dal traffico di stupefacenti e da altre illecite attività.
Dal canto suo Stefano Bontade – del quale da tempo il Buscetta era fervido ammiratore, riconoscendogli di essere il migliore interprete della mafia di un tempo, non esitava a confidargli di essere pronto ad uccidere personalmente Salvatore Riina in una riunione della commissione, per dichiarare poi, a tutti, i motivi del suo gesto; gli confidava altresì che Salvatore Inzerillo era dalla sua parte e che anche Antonino Salomone, impegnato ad aiutarlo nel suo proposito, gli aveva promesso che si sarebbe schierato dalla sua parte ove egli fosse riuscito ad uccidere il Riina; ed infatti, il Salomone, avendo come vice della sua famiglia Bernardo Brusca, uno dei più fidi alleati dei corleonesi, era tutt’altro che tranquillo sulla propria sorte, anche per la sua parentela con “cicchitteddu”, profondamente inviso ai corleonesi. Il Buscetta, però, da fine intenditore dei fatti di Cosa Nostra, si rendeva immediatamente conto che l’impresa del Bontade era disperata e, dopo avere tentato la riappacificazione tra il predetto e Salvatore Inzerillo con Pippo Calò, facendoli incontrare a Roma, decideva di estraniarsi dalla vicenda e partiva definitivamente per il Brasile nei primi giorni del gennaio 1981. A tal riguardo si ricordi, a conferma delle dichiarazioni di Buscetta, che già nel gennaio 1981, Eric Charlier, trafficante internazionale di stupefacenti, aveva riferito – per averlo appreso da Francesco Mafara (uno di coloro che poi sarebbero stati fatti scomparire dai corleonesi) – che era in preparazione uno scontro all’interno della mafia e che il Mafara gli aveva chiesto armi.
UN “UOMO D’ONORE” DI STAMPO ANTICO Nel marzo 1981 veniva fatto scomparire Giuseppe Panno, vecchio capo famiglia di Casteldaccia e “uomo d’onore” di stampo antico che, disgustato dalla piega che avevano preso gli avvenimenti e dell’imbarbarimento di Cosa Nostra, aveva rifiutato di riprendere in seno alla Commissione il posto che aveva ai tempi di “cicchitteddu”; è evidente che la sua autorevole presenza avrebbe costituito serio ostacolo al disegno dei Corleonesi e dei loro alleati di eliminare gli avversari.
Il 23 aprile 1981, la sera del suo compleanno, Stefano Bontade veniva ucciso in un proditorio agguato, dopo che Pietro Lo Iacono, recatosi a casa sua con la scusa di fargli gli auguri, aveva appreso dallo stesso Bontade che stava per recarsi nella casa di campagna e, così, aveva avvertito Lucchese Giuseppe che attendeva in macchina sotto casa e che, per mezzo di una ricetrasmittente, aveva avvisato a sua volta, gli assassini acquattati nei pressi della casa.
La ricostruzione dell’omicidio – riferita al Buscetta in Brasile da Antonino Salomone dopo che quest’ultimo era venuto a Palermo per informarsi dell’omicidio stesso – è la chiarissima dimostrazione del tradimento subito dal Bontade ad opera del suo stesso vice (Pietro Lo Iacono) e del coinvolgimento di tutta la commissione (Lucchese Giuseppe appartiene alla famiglia di Ciaculli).
L’INCONTRO GALANTE, L’AGGUATO MORTALE La preoccupazione del Buscetta per la sorte dell’Inzerillo dopo l’uccisione del Bontade, non era certamente infondata, ma il Salamone gli riferiva che egli stesso e Salvatore Riina avevano affidato allo Inzerillo una partita di 50 kg. di eroina affinché l’inoltrasse negli Usa attraverso i propri corrieri, per cui l’Inzerillo non temeva per la sua uccisione almeno fino a quando non avesse pagato tale partita. Ma i suoi calcoli erano infondati.
Infatti, l’11 maggio 1981, anch’egli cadeva in un agguato davanti allo stabile di via Brunelleschi, 50 ucciso dalle stesse armi che avevano eliminato Bontade (vedi perizia balistica). Come è stato riferito al Buscetta da Antonino Salomone, anche nell’omicidio dell’Inzerillo i Montalto sono implicati in prima persona. L’Inzerillo si era recato in quello stabile, per un appuntamento galante, in compagnia di Giuseppe Montalto, figlio di Salvatore, il quale aveva avvertito i killers. Va considerato, poi, che l’Inzerillo, appena pochi giorni prima di essere ucciso, si era procurato un’autovettura blindata e che gli assassini la sera prima dell’attentato avevano provato l’efficacia perforante dei micidiali kalashnikov sui vetri corazzati della gioielleria Contino. Ora, il fatto che gli avversari dell’Inzerillo fossero venuti a conoscenza in un brevissimo lasso di tempo, dell’acquisto di un’autovettura blindata da parte del predetto, è segno inequivoco che l’Inzerillo aveva dei traditori in seno alla propria famiglia, perché solo chi gli era vicino poteva venire a conoscenza di un fatto tanto riservato in un tempo tanto breve.
Dopo questi due omicidi, si scatenava la caccia a tutti coloro che dovevano essere eliminati o perché fedeli ai due uccisi o perché ritenuti traditori o perché ostacolavano i disegni egemonici della fazione vincente o, comunque, perché erano rei, agli occhi dei loro avversari, di qualche torto che era giunto il momento di vendicare. E così, il 26 maggio 1981, scomparivano contemporaneamente Di Franco Giuseppe (autista di Stefano Bontade), i fratelli Angelo e Salvatore Federico e Girolamo Teresi. I tre ultimi, tutti della famiglia di Stefano Bontade, erano stati invitati unitamente ad Emanuele D’Agostino da uno dei Pullarà e da Lo Iacono Pietro ad incontrarsi con loro per discutere la situazione conseguente all’omicidio di Stefano Bontade; il D’Agostino, subdorante il tranello, si rifugiava in casa di Rosario Riccobono, ritenendolo suo amico, mentre gli altri andavano all’incontro, venendo spietatamente soppressi. Anche il D’Agostino, il quale aveva confidato al Riccobono l’intenzione del Bontade di uccidere il Riina, veniva eliminato dallo stesso Riccobono che informava di tutto la commissione. E così, gli avversari di Bontade e Inzerillo, che fino a quel momento non avevano alcun plausibile motivo per giustificare la soppressione dei due, ricevevano legittimazione del loro operato per l’ingenuità di Emanuele D’Agostino.
In seguito venivano commessi gli omicidi di Severino Vincenzo e Salvatore (28 maggio 1981), scomparsi anch’essi senza lasciare tracce; Gnoffo Ignazio (15 giugno 1981), fedelissimo di Stefano Bontade (nella cui famiglia aveva militato a lungo prima di essere autorizzato dalla Commissione a ricostruire la famiglia di Palermo Centro), Di Noto Francesco (9 giugno 1981) a lungo reggente della famiglia di Corso dei Mille, evidentemente ritenuto amico del “traditore” Pietro Marchese, come appresso si dirà, Di Fazio Giovanni (9 agosto 1981), Mazzola Emanuele (5 ottobre 1981), Mazzola Paolo (6 febbraio 1982) di cui ha parlato anche Sinagra Vincenzo, Mafara Giovanni (14 ottobre 1981), Mafara Francesco (14 ottobre 1981), Grado Antonino (14 ottobre 1981), Rugnetta Antonino (8 novembre 1981), di cui hanno parlato anche Stefano Calzetta e Sinagra Vincenzo -, Grado Antonino (9 gennaio 1982) – zio del primo -, Teresi Francesco Paolo (8 gennaio 1982), – cugino di Teresi Girolamo e suo socio in affari – Di Fresco Giovanni (8 gennaio 1982) Di Fresco Francesco (12 marzo 1982), Sanfilippo Vincenzo (30 settembre 1982). Un discorso a parte merita, per la sua inaudita ferocia, l’uccisione di Stefano Pecorella e di Giuseppe Inzerillo, figlio di Salvatore, appena sedicenne. Come Buscetta ha appreso da Gaetano Badalamenti, Pino Greco “scarpazzedda”, prima di uccidere Giuseppe Inzerillo, gli aveva tagliato un braccio, dicendogli con scherno: «Con questo braccio tu non ucciderai più Totò Riina!».
Veniva fatto scomparire anche Di Gregorio Salvatore, un povero giovane che aveva avuto il coraggio di riferire alla polizia quanto era a sua conoscenza sulla presenza mafiosa a Ciaculli di Michele Greco e dei suoi accoliti nonché sulle modalità dell’uccisione di Stefano Bontade.
Inzerillo Pietro, fratello di Salvatore, veniva poi ucciso il 22 gennaio 1982 a New York e, anche stavolta per derisione, il cadavere veniva fatto trovare in un portabagagli con dollari in bocca e nei genitali. “Venivano uccisi inoltre, Greco Salvatore, padre di Giovannello (21 luglio 1982) e D’Agostino Ignazio (11 gennaio 1982), padre di quel D’Agostino Rosario, in atto detenuto, ritenuto autista di Franco Mafara e arrestato con Vincenzo Grado nella villa di quest’ultimo sita in Besano.
Salvatore Contorno era un altro dei perseguitati con maggiore accanimento. Ritenuto giustamente uno dei più fidi collaboratori di Stefano Bontade e uomo “d’azione”, cadeva in un agguato il 15 giugno 1981, ma grazie alla prontezza dei suoi riflessi e rispondendo al fuoco, riusciva a darsi alla fuga. Da allora e fino al suo arresto, venivano commessi numerosi efferati omicidi di parenti ed amici del Contorno al solo scopo di stanare quest’ultimo e senza che gli uccisi fossero in alcun modo coinvolti nelle attività del medesimo. “Così, venivano uccisi Costanzo Giovanni (9 ottobre 1981), Cinà Giacomo (24 luglio 1982), Mandalà Pietro (3 ottobre 1981), Mandalà Francesco (5 aprile 1982); Patricola Francesco (2 ottobre 1981), Spitalieri Salvatore (15 aprile 1982), Zarcone Salvatore (12 novembre 1983), Amodeo Paolo (27 dicembre 1983), Amodeo Giovanni (16 marzo 1983), Vitale Antonino (9 ottobre 1981), Ienna Michel (8 gennaio 1982), Bellini Calogero (16 marzo 1983), Pesco Vincenzo (17 marzo 1983), Corsino Salvatore (17 aprile 1982). Anche nei confronti di Pietro Marchese – Corso dei Mille – e di Giovannello Greco – Ciaculli -, ritenuti “traditori” perché amici di Salvatore Inzerillo e probabilmente suoi alleati, si scatenava la persecuzione.
Il 9 giugno 1981, a Palermo veniva ucciso, come si è detto, Franco Di Noto, per lungo tempo reggente la famiglia di Corso dei Mille e ciò veniva esattamente interpretato da Giovannello Greco e da Pietro Marchese come inequivoco segnale anche nei loro confronti, per cui si davano a precipitosa fuga con le loro mogli e con Antonio Spica, un rapinatore che gravitava su Milano ed era amico dei Greco. La loro fuga veniva bloccata a Zurigo dove venivano arrestati, mentre stavano imbarcandosi su un aereo diretto in Brasile, perché trovati in possesso di banconote provenienti dai sequestri Susini ed Armellini e di documenti falsi. Estradati in Italia il Greco, cui il G.I. di Milano concedeva la libertà provvisoria, si rendeva immediatamente irreperibile, mentre il Marchese, tradotto nel carcere dell’Ucciardone perché imputato dell’omicidio di Boris Giuliano, veniva ucciso da altri detenuti il 25 febbraio 1982.
TRADITI DAL DENARO, “GIUSTIZIATI” IN UNA CELLA “Per l’omicidio di Pietro Marchese sono stati già rinviati a giudizio oltre agli autori materiali, anche Michele Greco ed il fratello Salvatore: bisognerà procedere adesso anche contro gli altri correi, essendo di tutta evidenza, anche alla stregua di quanto dichiarato dal Buscetta, che trattasi di un omicidio strettamente connesso con quelli di Inzerillo e Bontade. “Anche su Antonio Spica posto in libertà provvisoria dal G.I. di Milano, si abbatteva la vendetta. Infatti, dopo essere sfuggito miracolosamente ad un attentato nel quale veniva ucciso il suo amico Pietro Romano, lo Spica veniva trovato ucciso a colpi di pistola e carbonizzato in una pubblica discarica di quella città. Anche per questi due omicidi, dunque, deve procedersi contro gli stessi imputati di quello di Pietro Marchese. “È da notare che l’amica dello Spica (Hayed Hafida Bent Mohamed) rimasta a Palermo dopo l’improvvisa fuga di quest’ultimo, veniva sequestrata e violentata affinché rivelasse il nascondiglio dell’amico e di Giovannello Greco e veniva interrogata da una persona anziana dall’accento napoletano.
Anche nei confronti di Gaetano Badalamenti e dei suoi familiari ed amici si scatenava la furia omicida e sanguinaria dei suoi avversari.
Il 19 agosto 1981, veniva ucciso proditoriamente, in virtù dell’intervento di Rosario Riccobono, Antonino Badalamenti che aveva ottusamente accettato la reggenza della famiglia di Cinisi, dopo l’espulsione da “Cosa Nostra” del cugino Gaetano. Egli, pur nutrendo profonda avversione verso il cugino, non avrebbe mai consentito che venisse ucciso e tanto meno avrebbe cooperato per la sua uccisione; la sua presenza a Cinisi, pertanto, costituiva ormai un ostacolo per gli avversari di Gaetano Badalameti; successivamente veniva ucciso anche Stefano Gallina, della famiglia di Antonino Badalamenti.
Nell’agosto 1982, Gaetano Badalamenti si recava in Brasile per tentare di convincere il Buscetta ad allearsi con lui onde sconfiggere i corleonesi. Stranamente, prima dell’arrivo in Brasile del Badalamenti (che avrebbe dovuto essere segretissimo), il Salomone avvertiva telefonicamente il Buscetta che Badalamenti avrebbe cercato di contattarlo in Brasile e che ciò avrebbe comportato graviproblemi. Ed infatti, nonostante che Buscetta avesse comunicato al Badalamenti la sua indisponibilità per qualsiasi tentativo di ribaltare la situazione mediante il ricorso alla violenza, puntuale si scatenava la reazione degli avversari.
L’11 settembre 1982, venivano fatti sparire per rappresaglia a Palermo Benedetto e Antonio Buscetta, figli di Tommaso ed il 19 novembre 1982, veniva ucciso Salvatore Badalamenti, figlio di Antonino, un ragazzo di appena diciassette anni.
E la strage continuava il 2 giugno 1983 con l’uccisione a Marsala, di Silvio Badalamenti, nipote di Gaetano, sul conto del quale l’istruttoria non aveva consentito di accertare alcun coinvolgimento nelle imprese dello zio. Successivamente, il 21 novembre 1983, veniva ucciso nell’ospedale di Carini dove era ricoverato, un fedelissimo di Gaetano Badalamenti, Natale Badalamenti e il febbraio 1984, veniva ucciso in Germania il figlio di quest’ultimo, Agostino.
Il Buscetta ha riferito di non aver incontrato né il Brasile, né altrove Giovannello Greco e non vi è motivo per dubitare dell’attendibilità di tale affermazione. È sicuro però che Giovannello Greco si è recato in Brasile in quanto è stato accertato che a fine marzo 1984, è partito da Rio de Janeiro in aereo, diretto a Madrid sotto il falso nome di Perez Silva. Certamente questa sua partenza è collegata con quella di Gaetano Badalamenti ove si consideri che nei primi giorni dell’aprile 1984, quest’ultimo è stato arrestato a Madrid, proveniente da Rio.
1982-1983: LA CARNEFICINA CONTINUA VINCENTI E PERDENTI UN MARE DI SANGUE IN CAMBIO DEL POTERE Sembra certo, comunque, che Giovannello Greco e Badalamenti meditassero una clamorosa azione contro i loro avversari. Già dalle dichiarazioni di Stefano Calzetta risulta che il 25 dicembre 1982, vi era stata una “rufiata” ai Ciaculli e, cioè, che Giovanneto Greco e Giuseppe Romano inteso “l’americano” avevano sparato a Pino Greco “scarpazzedda” senza riuscire ad ucciderlo. La reazione era immediata e di una ferocia inaudita. “Il 26 dicembre 1982 (e, cioè, il giorno successivo) venivano uccisi Ficano Gaspare e Michele (Fratello e padre della convivente Giovannello Greco) e, con la stessa arma, Genova Giuseppe, D’Amico Antonio e D’Amico Orazio (rispettivamente genero e nipoti di Tommaso Buscetta) e, il 29 dicembre 1982, Buscetta Vincenzo e Benedetto di Vincenzo (rispettivamente, fratello e nipote di Tommaso Buscetta), infine, l’8 febbraio 1983, venivano uccisi a Fort Lauderdale (Miami) Romano Giuseppe (l’americano) e Tramontana Giuseppe. Il Buscetta ha sostenuto, con dovizia di argomenti, di essere estraneo al tentativo di omicidio contro Pino Greco “scarpazzedda” e le sue argomentazioni sembrano plausibili; è ovvio, tuttavia, che i suoi avversari si fossero formati un convincimento opposto a causa della presenza fra gli attentatori di Romano Giuseppe, amico di Giuseppe Tramontana, da tempo collegato al Buscetta in indagini giudiziarie. “Di altri omicidi hanno parlato Vincenzo Sinagra e Stefano Calzetta e le loro dichiarazioni, riscontrate attendibili in numerosi punti di decisiva importanza, sono state più volte vagliate dal tribunale della libertà con esito positivo. Qui va ricordato un altro importante elemento di riscontro delle dichiarazioni del Sinagra, acquisito recentemente: nel luogo da lui indicato, dove venivano consumati gli omicidi per soffocamento ordinati e spesso eseguiti da Filippo Marchese, è stata rinvenuta una corda nella quale sono state riscontrate, con apposita perizia, formazioni pilifere di natura umana, appartenenti a tre diverse persone.
Va sottolineato, altresì, che le dichiarazioni del Calzetta e del Sinagra, rese da persone cioè che occupavano un gradino molto basso nella gerarchia mafiosa della famiglia di corso dei Mille (il Calzetta addirittura ne era ai margini), non potevano che riguardare prevalentemente fatti della loro “famiglia” da essi vissuti o notati direttamente. “Gli omicidi su cui hanno riferito Calzetta e Sinagra, riguardano: 1) Ambrogio Giovanni (11marzo1981) 2) Benfante Giovanni (5 febbraio 1983) 3) Calabria Agostino (9 ottobre 1981) 4) Mineo Filippo (4 ottobre 1982) 5) Sciardelli Giulio (24 agosto 1982) 6) Scalici Gaetano (19 ottobre 1982) 7) Lo Iacono Carmelo (6.6.1982) 8) Buscemi Rodolfo e Rizzuto Matteo (26 maggio 1982) 9) Buscemi Giuseppe (tentato omicidio) (5.4-1976) 10) Buscemi Salvatore (5.4.1976) 11) Fallucca Giovanni e Lo Verso Maurizio (1 agosto 1981) 12) Fiorentino Orazio (6 settembre 1981) 13) Finocchiaro Giuseppe (24 settembre 1981) 14) Giaccone Paolo (11 agosto 1982) 15) Gennaro Diego (12 aprile 1981) 16) Ingrassia Domenico (31 luglio 1981) 17) Manzella Cesare e Pedone Ignazio (7 agosto 1982) 18) Migliore Antonino (2 giugno 1982) 19) Peri Antonino (6 giugno 1982) 20) Ragona Pietro (27 luglio 1982) 21) Tagliavia Gioacchino (28 agosto 1981) 22) Pinello Francesco (7 agosto 1982) 23) Sparacello Giacomo (1 agosto 1981) 24) Mazzola Paolo (6 febbraio 1982).
Per tali omicidi – nella maggior parte attinenti a vicende interne della “famiglia” di Corso dei Mille – è sufficiente richiamarsi a quanto già si è esposto nelle motivazioni dei relativi provvedimenti di cattura, essendo questo mandato, per la parte che riguarda tali delitti, meramente riepilogativo. “Occorrono, però, le seguenti precisazioni. “Per l’omicidio di Buscemi Rodolfo e Rizzuto Matteo, va attribuita la responsabilità anche ad Argano Gaspare, giuste le ulteriori attendibili precisazioni dell’imputato Sinagra Vincenzo. “Una particolare attenzione merita l’omicidio del prof. Paolo Giaccone, stimatissima figura di professionista, che è stato ucciso soltanto perché incaricato di svolgere dall’Autorità Giudiziaria una perizia sulle impronte papillari rinvenute nell’autovettura utilizzata dagli esecutori dell’omicidio di Valvola Onofrio ed altri; da tali perizie sono emersi sicuri elementi di identificazione per Marchese Giuseppe, figlio di Vincenzo.
L’omicidio del Prof. Giaccone appare particolarmente significativo perché dimostra, da un lato, il grado di abiezione morale raggiunto da “cosa nostra” e dalla “famiglia” di Filippo Marchese, dall’altro, ove ve ne fosse stato bisogno, la terribile efficacia intimidatrice di questa organizzazione, che non ha esitato ad uccidere un galantuomo nel tentativo di evitare la giusta punizioni per i biechi assassinii commessi. “Nel corso della presente istruttoria un altro valoroso medico-legale, cui era stato affidato l’espletamento di un incarico peritale, è stato gravemente minacciato sì da indurre questo ufficio, per evidenti motivi di opportunità, a sostituirlo con altro professionista non residente a Palermo. Lo stesso professionista aveva subito analoghe minacce nel corso di espletamento di altro incarico peritale affidatogli durante l’istruttoria relativa all’omicidio del capitano Basile.
Di altri omicidi conviene trattare separatamente, per la peculiarità dei moventi che li sorreggono: A) “Sull’omicidio del maresciallo Sorino ucciso a San Lorenzo (Palermo) il 10 gennaio 1974, Tommaso Buscetta ha rivelato che Filippo Giacalone, capo di quella famiglia ed accusato del delitto, aveva riferito a Stefano Bontate, essendo entrambi in stato di detenzione, di essere completamente estraneo al crimine e che, una volta rimesso in libertà, avrebbe accertato chi ne era l’autore. Poi, durante la permanenza a Palermo nel 1980, Stefano Bontate gli aveva detto di aver appreso da Filippo Giacalone che esecutore materiale del delitto era stato Leoluca Bagarella su mandato dei Corleonesi; ciò, secondo il Bontate, era un altro dei gravissimi affronti fatti dai corleonesi e l’uccisione del Sorino, compiuta nel territorio del Giacalone, aveva lo scopo di mettere in difficoltà quest’ultimo con l’Autorità Giudiziaria in modo da renderne possibile la sostituzione. Trattasi della solita, collaudata tattica dei corleonesi per consentire di eliminare un personaggio che essendo troppo vicino a Stefano Bontate e controllando una parte strategica della Piana dei Colli, impediva il pieno dominio della zona ai corleonesi ed ai loro alleati. Ed è un fatto che, nel 1981, Filippo Giacalone è scomparso anche sei suoi familiari sostengono inattendibilmente di sentirlo telefonicamente, ogni tanto. B) “Gli omicidi di Antonino e Carlo Sorci (12 aprile 1983) e di Francesco Sorci (5 giugno 1983), traggono la motivazione in fatti risalenti a tempi ormai lontani e dimostrando il grado di corrività e l’inesauribile sete di vendetta dei corleonesi, in una con lo stato di soggezione e di supina acquiescenza di tutta la commissione ai voleri di questi ultimi.
Nino Sorci era stato socio di una società finanziaria (Isep, poi denominata Cofisi) insieme con Angelo Di Carlo, inteso il “capitano”, originario di Corleone; Luciano Leggio, sostenendo che il Di Carlo era uno sbirro, pretendeva dal medesimo il pagamento della “tangente”, fin quando il Di Carlo, stanco delle angherie del Leggio, ne informava il socio Nino Sorci, il quale otteneva l’intervento del capo della commissione di allora, Greco Salvatore detto “cicchitteddu”; questo ultimo ingiungeva al Leggio né molestare il Di Carlo e, sia pure a malincuore, doveva obbedire. Questo è l’unico motivo, secondo il Buscetta, che poteva indurre i corleonesi a eliminare i Sorci, che si erano mantenuti rigorosamente neutrali nello scontro in questione. Comunque, è certo che l’uccisione dei suddetti Sorci – uno dei quali era rappresentante della famiglia di Villagrazia e l’altro capo mandamento – non poteva che essere decisa da tutta la commissione. C) “Sugli omicidi di Alfio Ferlito e dei cc. di scorta e di Carlo Alberto dalla Chiesa e della moglie e dell’agente Domenico Russo, e già nel mandato di cattura del 9 luglio 1983 contro Greco Michele ed altri, erano state esposte le risultanze istruttorie, anche dinatura obiettiva (perizia balistica), che dimostravano come gli stessi autori degli omicidi di Inzerillo e Bontate fossero responsabili anche di questi assassinii, motivati, il primo, da un contrasto fra Ferlito e Santapaola, il quale, collegato coi corleonesi, aveva ottenuto dalla mafia palermitana l’eliminazione del suo avversario e, quindi, aveva restituito il favore cooperando nell’eliminazione di Dalla Chiesa.
Tali considerazioni, in oltre un anno di approfondita istruttoria, hanno ricevuto importanti conferme (si ricordino le confidenze fatte a Bou Chebel Ghassan da Rabito a Scarpisi, i quali, nel richiedere la fornitura di armi per i Greco, sostenevano che vi era il bisogno di cambiare le stesse per ogni omicidio; evidentemente, i risultati della perizia sulle armi avevano impartito la lezione!); in ultimo, le dichiarazioni di Tommaso Buscetta, anche sul punto estremamente precise, hanno fornito validissimo riscontro delle prove già acquisite. Tali notizie, importanti perché acquisite dal Buscetta direttamente da Gaetano Badalamenti, uno dei più profondi conoscitori dei fatti di Cosa Nostra, sono del seguente tenore: Alfio Ferlito era stato ucciso per rendere un favore a Nino Santapaola, capo della famiglia dei Catania e strettamente collegato coi corleonesi (Si ricordi che Giuseppe Calderone, precedente capo della famiglia di Catania, era, invece, collegato e compare di Giuseppe Di Cristina, nemico dichiarato dei Corleonesi e che Alfio Ferlito era strettamente legato a Salvatore Inzerillo. Attraverso l’omicidio del Ferlito, dunque, non soltanto si rendeva un favore al Santapaola, ma si eliminava un grosso personaggio mafioso che, per la sua trascorsa amicizia con Salvatore Inzerillo, era tutt’altro che favorevole allo strapotere degli avversari di quest’ultimo, che ne avevano decretato la morte.
NELL’ESECUZIONE DEL PREFETTO FURONO IMPIEGATI I CATANESI CHE A PALERMO ERANO SCONOSCIUTI MA I CORLEONESI UCCISERO DALLA CHIESA Dalla Chiesa era stato ucciso dai corleonesi, che avevano reagito alla sfida contro la mafia lanciata dal Prefetto di Palermo; peraltro – fatto veramente grave ed inquietante – qualche uomo politico della mafia si era sbarazzato di Dalla Chiesa divenuto troppo ingombrante. Nell’esecuzione dell’assassinio erano stati impiegati anche i catanesi perché occorrendo muoversi in pieno centro cittadino, era preferibile utilizzare, almeno in parte, volti nuovi non identificabili dei palermitani. “Come si può notare, la ricostruzione dei moventi e dei mandanti, almeno fino ad un certo livello, dell’omicidio, è stata pienamente confermata dalle suddette dichiarazioni e vengono offerti utili spunti per ulteriore approfondimento dell’istruttoria. Quello che è certo, comunque, è che l’intero gruppo di mafia che aveva eliminato Bontate ed Inzerillo è coinvolto anche negli omicidi di Ferlito e Dalla Chiesa. D) “Gli omicidi di Nunzio La Mattina (24 gennaio 1983) e del cognato Francesco Lo Nigro (15 febbraio 1983) sono da ascrivere senz’altro alla commissione.
Il La Mattina, membro di spicco della famiglia di Porta Nuova, era stato prima uno dei vertici del contrabbando di tabacchi, e poi, uno degli elementi di maggior spicco nel traffico di stupefacenti. Anzi, secondo il Buscetta, era stato proprio il La Mattina ad iniziare il traffico della morfina base con il medio-oriente e la creazione in Sicilia di laboratori per la produzione di eroina.
La sua uccisione e quella del cognato, di cui finora non sono stati accertati i motivi specifici, è comunque da ascrivere a decisione della commissione, molto probabilmente per questioni ricollocabili al traffico di stupefacenti. Al riguardo, è agevole rilevare che se non vi fosse stata unanimità di consensi nell’uccisione dei due, la reazione della famiglia di Porta Nuova, diretta da Pippo Calò (alleato dei corleonesi), sarebbe stata violentissima. E tale conclusione è avvalorata dal fatto che – come ha riferito Stefano Calzetta – nell’omicidio del cognato di La Mattina, Francesco Lo Nigro, sono coinvolti Paolo Alfano e Pietro Senapa, membri della famiglia di corso dei Mille, alleata di quella di Pippo Calò. E) “Sono da ricollegare senz’altro alle vicende della “guerra di mafia” gli omicidi di Mineo Antonino (12 novembre 1981) e Mineo Giuseppe (22 maggio 1982). Gli stessi erano fratelli di Mineo Settimo, indicato dal Buscetta quale uomo d’onore della famiglia di Pagliarelli, una delle famiglie schieratesi contro Stefano Bontate, il quale, come è stato riferito dal Buscetta, nutriva profonda avversione per l’elemento di maggior spicco di tale famiglia, Antonio Rotolo, inteso Roberto. Valgono per tali omicidi le considerazioni già espresse per quelli di La Mattina e Lo Nigro e va soggiunto che, almeno nel secondo omicidio, la vittima designata era Mineo Settimo, il quale però, riusciva a sfuggire all’agguato.
F) L’omicidio dell’agente Calogero Zucchetto, consumato il 14–11-1982, costituisce un altro crimine efferato, senz’altro addebitabile alla “commissione”. Lo Zucchetto, intelligente ed abile agente addetto alla sezione investigativa della Squadra Mobile di Palermo, aveva contribuito in modo decisivo all’arresto di Montalto Salvatore e lo aveva anche riconosciuto nel corso di pedinamenti in compagnia del famigerato Pino Greco Scarpazzedda. Ciò costituisce eloquente ulteriore dimostrazione delle dichiarazioni di Tommaso Buscetta secondo cui uno dei maggiori responsabili dell’omicidio di Salvatore Inzerillo è proprio Salvatore Montalto, che lo aveva tradito per allearsi con gli avversari del predetto. Ed è sintomatica conferma delle dichiarazioni del Buscetta il fatto che il Montalto sia stato arrestato proprio in un giardino di Villabate, zona della quale è divenuto “capo famiglia” dopo l’esito vittorioso della guerra di mafia.
In ultimo lo Zucchetto, pochi giorni prima dell’arresto del Montalto, aveva incrociato mentre era in servizio due vetture che si dirigevano verso l’abitazione del predetto, a bordo delle quali aveva riconosciuto Mario Prestifilippo e Pino Greco Scarpazzedda ed aveva riferito ad un funzionario della Squadra Mobile, che sicuramente anch’egli era stato riconosciuto a sua volta.
È di tutta evidenza, dunque, che Lo Zucchetto è stato ucciso per il ruolo determinante da lui avuto nell’arresto di Salvatore Montalto e, senz’altro, ha influito nella decisione di ucciderlo il fatto che il predetto conoscesse bene fin dall’infanzia sia i Prestifilippo sia Pino Greco Scarpazzedda, per cui nella mentalità distorta di questi assassini, è stato giudicato come uno sgarbo intollerabile che una persona del loro stesso ambiente, non importa se agente di polizia, avesse contribuito all’arresto di un personaggio tanto importante come Salvatore Montalto. G) “Analoghe considerazioni vanno formulate per l’omicidio del cap. CC. Mario D’Aleo, consumato a Palermo il 13 giugno 1983. Questi era stato destinato al Comando della Compagnia CC. di Monreale, quella stessa, cioè, comandata dal Cap. Basile. A prescindere dai concreti elementi alla base dell’omicidio, in corso di approfondimento istruttorio, questo crimine, consumato pochissimo tempo dopo l’assoluzione dei responsabili dell’omicidio Basile e quando il capitano D’Aleo era, del pari, da poco tempo, al comando di quella compagnia, costituisce un’aperta sfida ai poteri dello Stato; forse finora non si è sufficientemente considerato che la compagnia CC. di Monreale costituisce un vero avamposto, poiché il territorio della sua giurisdizione ricomprende zone (fra cui San Giuseppe Jato ed Altofonte) che costituiscono roccaforte del potere mafioso dei corleonesi. È indubbio, dunque, che di tale omicidio debba rispondere tutta la commissione, e cioè, il gruppo mafioso prevalso nella guerra di mafia. “Da queste considerazioni sugli omicidi sopra passati in rassegna si trae la conseguenza che – a parte i delitti determinati da motivi particolari, riguardanti singole famiglie e già contestati agli imputati – tutti quelli che hanno la loro casuale nella logica di sterminio del gruppo dei fedelissimi di Bontate ed Inzerillo vanno attribuiti non soltanto alla commissione ma anche a tutti coloro che hanno conseguito maggiori poteri dalla eliminazione fisica dei predetti. “Un dato fondamentale è da tenere ben presente al riguardo; la eliminazione di un capofamiglia determina ordinariamente la reazione violentissima da parte della famiglia di appartenenza ed una lotta sanguinosa che non si conclude se non quando si ottenga la piena e completa vendetta o la famiglia non venga annientata; le vicende del 1963 sulla faida fra la famiglia di La Barbera (Palermo centro) ed il resto della commissione sono un esempio emblematico di vicende di questo tipo. “Quando, come nel caso in esame, nessuna reazione avviene da parte delle famiglie private dei propri rappresentanti, ma anzi personaggi di primo piano delle stesse acquisiscono cariche di maggior rilievo, si ha la prova indiscutibile che da parte di costoro si è consumato il più vile dei tradimenti e che gli omicidi sono stati accuratamente programmati anche col concorso dei traditori. E di fatti, contrariamente agli avvenimenti del 1963, quelli di cui ci si occupa costituiscono non già uno scontro fra opposte fazioni, ma lo sterminio, sistematicamente attuato, di tutti coloro che venivano ritenuti, a torto o a ragione, infidi e di tutta una moltitudine di persone, uccise solo per rappresaglie e, comunque, per stanare gli avversari (Salvatore Contorno, Giovannello Greco, Tommaso Buscetta, Gaetano Badalamenti). “È doveroso, dunque, attribuire tali omicidi, non soltanto ai membri della commissione, ma anche a coloro che ne hanno tratto vantaggio, essendo sicuro il loro concorso in tali crimini; e ciò a parte ogni ulteriore positivo riscontro (e ve ne sono diversi, per esempio, per Pietro Lo Iacono e Salvatore Montalto) sulle concrete responsabilità di uno o più di costoro.
Così, nella famiglia di Villabate è stato nominato rappresentante Salvatore Montalto, che era vice di Salvatore Inzerillo nella famiglia di Passo di Rigano e che, apparentemente, era legato a quest’ultimo da vincoli fraterni; nella famiglia di S. Maria di Gesù, alla morte di Stefano Bontate, divengono reggenti Pietro Lo Iacono e uno dei Pullarà; nella famiglia di Brancaccio, dopo la uccisione di Giuseppe Di Maggio, diviene capo Giuseppe Savoca; in quella di Uditore, dopo la bufera abbattutasi sugli Inzerillo, diviene capo Francesco Bonura, che prima era vice e lo stesso dicasi per quella di Passo di Rigano, il cui posto di capo viene preso, dopo la morte di Salvatore Inzerillo, da Salvatore Buscemi; per quella di Palermo Centro (Giovanni Corallo, grande amico di Pippo Calò, al posto di Ignazio Gnoffo); nella famiglia di Borgo Salvatore Cucuzza non solo è divenuto capo ma ha esteso la sua influenza anche su altri territori; Bono Giuseppe gode sempre maggiore prestigio e la sua famiglia non ha subito nessuna perdita e lo stesso vale per Pietro Vernengo che costituisce uno degli elementi di maggior prestigio della famiglia di S. Maria di Gesù e che, non solo non ha alzato un dito per vendicare la morte del suo capo, ma ha continuato ad intessere i suoi loschi traffici con famiglie come quella di Corso dei Mille e di Partanna, costituenti punti di forza dei corleonesi.
Solo per mero scrupolo – e pur essendo convinti che da parte di tutti costoro vi fosse il consenso a compiere tutti i delitti ritenuti necessari o opportuni per l’eliminazione degli avversari, questo ufficio si astiene allo stato dal contestare ai singoli imputati gli omicidi commessi durante lo stato di detenzione degli stessi, permanendo un pur minimo dubbio che possono essere stati stabiliti senza il loro consenso. – 4 –
Quanto si è finora esposto dovrebbe rendere evidente la enormità delle dimensioni e la estrema pericolosità di “Cosa Nostra”; ma è necessario effettuare altre precisazioni. Come Buscetta ha efficacemente sottolineato, non sussistono né atto costitutivo, né statuto né comunque, regole scritte di questa organizzazione, né sarà mai possibile trovare elenchi di associati, né ricevute di pagamento di quote sociali. E tuttavia si è in presenza di un’organizzazione governata da leggi ferree fra cui quella severissima dell’omertà che diventa sempre più pericolosa. “Del sorprendente inserimento di “famiglie” napoletane nella “commissione” di Palermo si è già detto; ma bisogna tenere ben presenti come altri collegamenti non meno pericolosi, fra cui quello determinato dall’Interprovinciale, di cui ha parlato Tommaso Buscetta. Ed in effetti, i riscontri di tale affermazione sono innumerevoli. Nel traffico dell’eroina i collegamenti dei catanesi di Nitto Santapaola con la famiglia mafiosa di Palermo sono sati ampiamente verificati e la dimostrazione della saldezza di tali rapporti si è avuta negli omicidi di Alfio Ferlito e del prefetto Dalla Chiesa. Sui rapporti tra i Catanesi, Giuseppe Madonna di Vallelunga, Carmelo Coletti di Ribera, Agate Mariano di Mazara del Vallo, si hanno parimenti elementi di prova inequivocabili (si vedono le dichiarazioni di Nunzio Salapia, Giuseppe Di Cristina, Bono Benedetta, gli accertamenti bancari e numerosissimi altri riscontri tra cui: l’arresto di Mariano Agate con Nitto Santapaola a Campobello di Mazara il 13.8.1980, la presenza di Gambino Giacomo Giuseppe e di Armando Bonanno a Castelvetrano nel 1977 in compagnia di pregiudicati locali).
Non ci vuol molto, dunque, per rendersi conto che non si è più in presenza di quelle “spontanee germinazioni” di mafia di cui talora (per fortuna sempre meno frequentemente) si è favoleggiato, né di contatti sporadici e casuali fra organizzazioni con ambito di operatività locale, come è stato confermato dal Buscetta, di stabili collegamenti fra i vari rami di cosa nostra, con funzione trainante da parte della commissione di Palermo.
Il traffico di stupefacenti, poi, ha costituito una spinta formidabile per rinsaldare i vincoli preesistenti e per crearne di nuovi. dal dossier Mafia di Repubblica del 3 ottobre 1984