Il primo mafioso pentito che parlò dell’organizzazione della mafia, nel ’73, è stato Leonardo Vitale, che però venne considerato pazzo, nonostante le molte piste che fornì ai giudici. Molti criminali da lui accusati furono prosciolti. Solo lui fu condannato. Appena uscito dal carcere, dopo aver scontato la pena, nell’84, fu assassinato a colpi di pistola mentre tornava a casa dalla messa domenicale.
La sua testimonianza venne confermata dal primo boss mafioso che collaborò con la giustizia: Tommaso Buscetta, estradato nell’84 dal Brasile, dove si era rifugiato per sfuggire alla guerra di mafia, scatenata per il controllo dell’organizzazione. Gli erano già stati uccisi due figli, il fratello, il genero, il nipote e tutti gli uomini di cui si fidava.
Contemporaneamente a Buscetta, decide di parlare un altro boss mafioso, Salvatore Contorno, dopo essere stato arrestato nell’82. Contorno era scampato fortunosamente a un attentato ed era perseguitato ferocemente dalla mafia vincente di Giuseppe (Pippo) Calò. Gli avevano ucciso tutti i parenti e gli amici allo scopo di farlo venire allo scoperto, ma inutilmente.
La sua testimonianza coincide con quella di Buscetta, ma nessuno dei due si dichiara “pentito”. Sono uomini sconfitti, colpiti negli affetti più cari, perseguitati e braccati, ma senza crisi di coscienza. Parlano per vendicarsi. In tal modo, comunque, hanno per la prima volta infranto il muro dell’omertà. Sono infatti stati loro che hanno permesso di ricostruire con precisione i meccanismi di funzionamento della mafia. Oggi si trovano negli USA, protetti dalla polizia americana.
- I mafiosi chiamano la propria organizzazione “Cosa Nostra”. Sono divisi in “famiglie” e ciascuna famiglia ha un capo, detto “rappresentante”, eletto da tutti gli “uomini d’onore”, assistito da un vice-capo e uno o più “consiglieri”. In ogni famiglia gli uomini d’onore (o “soldati”) sono coordinati, a gruppi di dieci, da un “capodecina”. Tre famiglie costituiscono un “mandamento” e i capi-mandamento (anch’essi eletti) fanno parte della “Commissione”, che è il massimo organismo dirigente di Cosa Nostra. Capo della Commissione nell’80 era Michele Greco, detto il “papa”, arrestato nell’86 e condannato all’ergastolo come mandante dell’assassinio del giudice Chinnici e del generale Dalla Chiesa. La Commissione prende le decisioni più importanti, risolve i contrasti tra le famiglie, espelle gli uomini inaffidabili, controlla tutti gli omicidi. Di recente è nato a Palermo un Consiglio interprovinciale.
- Per diventare uomini d’onore bisogna dar prova di coraggio (sino a uccidere), non essere imparentati con forze dell’ordine, non tradire il proprio coniuge né divorziare, ecc. Il candidato, prima di essere accettato, viene tenuto sotto controllo, frequentato dai mafiosi, poi viene condotto in un luogo solitario, dove alla presenza di almeno 3 testimoni, presta il giuramento di fedeltà. Prende in mano un’immagine sacra, si punge un dito e la bagna col suo sangue, poi le dà fuoco e la palleggia tra le mani finché il santino si riduce in cenere. Nel frattempo pronuncia la formula di rito, che si conclude con le parole: “Le mie carni debbono bruciare come questa santina se non manterrò fede al giuramento”. Dopo questa cerimonia conoscerà tanti più segreti e traffici della mafia quanto più elevato sarà il suo grado.
- Ogni uomo d’onore è tenuto al silenzio, cioè a non fare troppe domande, a non comunicare ad estranei la sua appartenenza alla mafia; né deve avere rapporti con polizia o giudici. Solo in caso di furto d’auto può rivolgersi alla giustizia, denunciando però il furto non il suo autore, per evitare d’essere coinvolto in reati eventualmente commessi con l’auto rubata. Quando vengono rubate cose di sua proprietà, pur senza che ciò abbia nulla a che vedere con la sua attività mafiosa, egli non può reclamare giustizia.
- Quando parla di fatti riguardanti Cosa Nostra con altri mafiosi ha sempre l’obbligo di dire la verità. Chi mente (“tragediaturi”) può essere espulso (“posato”) o ucciso (Contorno ha parlato anche di “bastonature”). Non può comunque andarsene da solo. Quando è espulso deve continuare a tacere sulla mafia e non può più avere alcun rapporto con gli altri mafiosi. Per evitare che altri vengano a sapere fatti che solo i mafiosi devono conoscere, si usa un codice verbale e gestuale (p. es. quando “A” vuol dire a”B” che “C” è fidato, dice “Chistu è ‘a stissa cosa”).
- Uomo d’onore si resta fino all’espulsione o alla morte. Quand’egli è in carcere, Cosa Nostra si preoccupa di fornire assistenza ai familiari e di pagare gli avvocati. Se l’arrestato è un capo-famiglia, viene sostituito dal suo vice, finché resta in carcere, ma non per questo perde il potere.
Alcune di queste regole non sono più così rigide come negli anni ’60 e ’70. Responsabile di ciò è stato il gruppo dei Corleonesi di Luciano Liggio, che ha assunto le direzioni di Cosa Nostra nell’ultimo decennio e che ha indotto Buscetta e Contorno a parlare. Naturalmente continuano a valere le due leggi fondamentali: omertà e obbedienza assoluta ai superiori.
Il più grande processo contro degli imputati mafiosi (474) è stato quello di Palermo nell’86. Per la prima volta è stata spezzata una lunga tradizione di impunità, mettendo sotto accusa non solo i singoli, ma l’intera organizzazione.
MAFIA: QUADRO GENERALE
Una delle caratteristiche principali della odierna mafia è quella di non avere più dei confini geografici particolari in cui muoversi. Da tempo (sicuramente dal momento in cui sono iniziati i traffici legati agli stupefacenti), la mafia è diventato un problema nazionale e internazionale. Non solo, ma essa oggi minaccia settori, attività e persone che fino a qualche decennio fa si ritenevano fuori dal suo raggio d’azione (oggi persino un insegnante o un pensionato rischia di pagare il “pizzo”).
Lo dimostra il fatto che all’aumento del suo potere economico-finanziario è aumentata la gravità dei suoi delitti. In Italia i morti più importanti in questi ultimi 15 anni sono stati: il capitano dei carabinieri Basile, l’on. Pio La Torre, il presidente della Regione siciliana Piersanti Mattarella, i giudici Costa, Chinnici e Terranova, il vicequestore Giuliano, il generale e prefetto Dalla Chiesa. Alcuni dei mandanti e assassini di queste persone sono stati identificati solo nell’ultimo maxiprocesso di Palermo (vedi però la recente scarcerazione provvisoria di 41 imputati).
Come si è giunti a tutto questo? Le cause storiche sono note a tutti: la mafia si è impadronita con la forza e l’inganno del plurisecolare sentimento di ribellione del popolo siciliano nei confronti di ogni forma di potere statale. Un sentimento alimentato dalla lunga catena di torti e soprusi compiuti dai diversi dominatori dell’isola. All’inizio la mafia cercò di difendere questo sentimento, poi se ne è servita. La mafia così è diventata il modo d’emanciparsi economicamente della borghesia meridionale impedita nel suo sviluppo dall’Unità d’Italia, la quale avvenne all’insegna dell’alleanza tra la borghesia industriale del Nord e i ceti agrari latifondisti del Sud.
E’ da molti anni che l’immagine del capo-mafioso con la coppola storta, la doppietta a tracolla, i baffi e basettoni, non ha più alcun riscontro. Oggi il boss mafioso è un affarista, un imprenditore, un industriale, un uomo legato a banche, agenzie finanziarie, borsa, ecc. Veste alla moda, vive nel lusso, manda i figli all’Università, ha l’auto di grossa cilindrata, possiede grandi alberghi, ville con piscina. Spesso non fa una vita pubblica vera e propria, in quanto si occupa personalmente solo delle decisioni di maggiore rilevanza. Per il resto si serve d’intermediari, attraverso i quali dirige i grandi affari criminosi (racket, traffici, estorsioni, appalti, delitti…), e partecipa a consigli d’amministrazione di banche, grandi società, ecc. Con queste e altre attività può riciclare il denaro “sporco” investendolo in borsa, acquistando azioni, fondando società e imprese. Alle elezioni politiche manovra grossi pacchetti di voti, influisce sulle nomine politiche, ottiene grossi finanziamenti pubblici.
La mafia ha smesso di funzionare come organizzazione meramente parassitaria e ha cominciato a influire sulla produzione economica. Ciò è stato reso possibile dalla rapida accumulazione di capitali realizzata a partire dalla seconda metà degli anni ’70, con il commercio mondiale dell’eroina. I profitti qui sono enormi poiché è molto grande il dislivello fra il prezzo d’acquisto della materia prima e il prezzo di vendita del prodotto. La mafia siciliana controlla il commercio dell’eroina in tutta l’Europa occidentale e del mercato USA controlla almeno il 30%. In Italia solo con l’eroina realizza un fatturato annuale sui 50 mila miliardi.
La mafia si è sviluppata soprattutto dal dopoguerra ad oggi. Pur continuando con i soliti sistemi delle estorsioni, dell’usura, dell’omertà, degli omicidi, ecc., essa dal dopoguerra ha cominciato a gestire nuovi settori commerciali: l’edilizia, i lavori pubblici, gli appalti statali o degli enti locali, ecc. La grande occasione tuttavia le è stata offerta dalla droga (ultimamente anche dal commercio delle armi).
L’aumento del suo potere economico fa paura a certi settori economici statali. Usando metodi illegali o illeciti, l’imprenditore mafioso è più concorrenziale di quello tradizionale. Di qui i tentativi dello Stato di arginare l’espandersi del potere mafioso. Di qui però la reazione violenta della mafia, che negli ultimi anni ha ucciso personaggi di grande rilievo pubblico, mostrando di non temere affatto i poteri dello Stato. Forte della sua autonomia economica la mafia si fa “Stato nello Stato”, dotandosi di un personale politico alle sue dirette dipendenze, cioè non costretto a compromessi, intese e mediazioni con uomini dello Stato.
E’ difficile catturare un capo-mafia, sia per l’omertà che vige nell’organizzazione e che essa impone al suo esterno, sia perché le attività illecite vengono svolte da intermediari. Non dimentichiamo che il maxiprocesso è stato possibile solo in virtù delle rivelazioni dei due boss Buscetta e Contorno. Tuttavia, nell’82, con la legge La Torre, è possibile eseguire indagini bancarie e patrimoniali sul presunto mafioso, sui suoi complici e sui familiari, al fine di sequestrarne i beni con provenienza ingiustificata. Va però detto che il capo-mafia può anche avvalersi di giudici, funzionari di polizia, politici, avvocati, ecc. in grado di proteggerlo.
Palermo è una città ricchissima: almeno 20 persone sono in grado di firmare su due piedi un assegno di 30 miliardi (vedi però il recente D.L. no 2/1991, secondo cui non si possono emettere assegni trasferibili superiori ai 20 milioni). E’ tra le città dove si vendono più gioielli, più motociclette di grossa cilindrata, macchine tipo BMW e Jaguar. I costruttori non hanno bisogno di mutui. I consumi sono altissimi. Le imposte spesso evase. Tuttavia c’è anche un basso reddito medio pro-capite. Ci sono i quartieri poveri, dove la mortalità infantile è del 20 per mille (e qui abitano 44.000 persone). 80.000 giovani sono senza lavoro, sottoposti alle lusinghe della mafia.
LA LOTTA CONTRO LA MAFIA
Come si combatte oggi la mafia? La segreteria telefonica della Confesercenti (091-225508) assicura l’anonimato a chiunque voglia denunciare per telefono casi di mafia. Centinaia di commercianti, dopo un anno, hanno ammesso d’essere taglieggiati da boss mafiosi e squadre di picciotti: non solo tangenti pagate in silenzio per anni, temendo lo “sgarro”, ma anche incendi e bombe. In genere, i commercianti telefonano in seguito a una rapina, soprattutto se non vedono arrivare subito la polizia. La Confesercenti pubblicherà presto questo “Romanzo del pizzo”.
Alcuni esempi: “Sono il titolare di un’azienda di pratiche automobilistiche. Ho rapporti assurdi con l’UFF. della Motorizzazione. Gli impiegati di quell’UFF. sono soci di altre agenzie e mandano avanti solo gli incartamenti dei loro soci. Cioè s’immatricola un camion per gli “amici” dall’oggi al domani, mentre gli altri aspettano settimane. Alla fine perdo tutti i clienti”.
– “Sono un farmacista. Ho subìto 4 rapine, poi mi è arrivata una telefonata anonima. Mi hanno costretto ad assumere un ex-detenuto che mi fa da guardia”.
– “Mi costringono a pagare in base al no delle vetrine -centomila a vetrina- e in base ai mq. del negozio”.
– “Prima mi hanno detto: Diventiamo soci al 30%. Poi mi hanno alzato il prezzo. Alla fine si sono impadroniti di tutto”.
– Un commerciante va in banca perché ha problemi economici seri. Non ottiene nulla perché non ha garanzie sicure da offrire. Si affida a usurai, pagando (a Palermo) il 12,50% al mese! Se non paga, l’usuraio gli porta un suo amico e gli impone di prenderlo come socio. Poi il socio, col tempo, s’impadronisce di tutta l’impresa, che così diventa mafiosa.
– Il 70% dei negozi di Palermo è stato assalito almeno una volta da rapinatori con pistola in pugno. Il 25% ha subìto sino a 4 assalti. Assai difficilmente ci si rivolge alla polizia.
Altro modo di combattere la mafia: la Confesercenti siciliana sta progettando una convenzione fra Regione e Unipol. Il commerciante a rischio stipulerà un contratto con la compagnia di assicurazione e la Regione pagherà il 40% delle rate. Se la mafia danneggerà cose, persone, immobili, l’Assicurazione si farà carico del risarcimento.
Perché la mafia è sempre così fortemente concorrenziale? 1) Ti impone di acquistare un prodotto piuttosto che un altro; 2) ti obbliga a rifornirti presso una ditta piuttosto che un’altra (ad es. a Palermo la mafia gestisce quasi tutta la grande distribuzione); 3) i negozi mafiosi aprono senza licenza; 4) compaiono grandi catene alimentari che strozzano i piccoli esercizi; 5) nei pressi di un negozio c’è un abusivo che vende la stessa merce a prezzi molto più bassi; e così via.
Come fa la mafia ad aggiudicarsi gli appalti pubblici (scuole, strade, ponti, ecc.)? Utilizza i suoi collegamenti col mondo politico. Quando si svolge la gara d’appalto, si presentano diverse imprese e ciascuna fa un’offerta (cioè il prezzo per il quale eseguirà i lavori). L’amministrazione che ha bandìto il concorso confronta le varie offerte con il suo preventivo e aggiudica l’appalto alla ditta che si è avvicinata di più. L’offerta cioè non deve essere né troppo alta (perché verrebbe a costare troppo allo Stato), né troppo bassa (perché non sarebbe credibile). L’impresa mafiosa può vincere in tre modi: o conosce già l’offerta-base, o ha convinto con le minacce tutte le altre ditte a ritirarsi, oppure corrompe qualche membro della commissione appaltatrice. Ottenuto l’appalto, l’impresa mafiosa in genere evita di rispettare i tempi previsti per l’edificazione, perché così, dovendo ricevere i finanziamenti man mano che costruisce, può speculare anche sull’aumento dei prezzi dei materiali.
Buscetta ha detto che fino al 1978 le attività principali della mafia erano state, in campagna: il furto di bestiame (abigeato), la sofisticazione del vino, la truffa ai danni della CEE nel commercio dei prodotti agricoli; in città: l’edilizia e gli appalti di opere pubbliche.
– Verso la fine degli anni ’70 è entrata in gioco l’eroina. La mafia però è sempre stata interessata anche al contrabbando di sigarette (che in un primo tempo organizzava insieme alla camorra). Il principale protagonista del passaggio dal contrabbando delle sigarette al traffico di eroina è stato Nunzio La Mattina.
– I primi fornitori di morfina-base (poi trasformata in eroina nei laboratori di Palermo) sono stati i Turchi. Negli anni ’80 Cosa Nostra acquistava anche eroina purissima direttamente dalla Thailandia, per rivenderla negli USA. Il principale intermediario tra Estremoriente e Italia è stato per anni Koh Bak Kin. Chi invece controlla ancora oggi tutta la zona del “Triangolo d’oro” nel Sudest asiatico è Kun Sa (pseudonimo di Chan Chi Fu). I pagamenti venivano effettuati tramite banche svizzere con denaro proveniente soprattutto dagli USA. A tutt’oggi sono ancora le famiglie palermitane a detenere il monopolio dei rapporti con i boss americani.
– Negli anni ’80 l’eroina era controllata a Palermo da Michele Greco e altri boss, a Trapani dai Corleonesi di Liggio. Le famiglie Catanesi invece controllavano il traffico di hashish e svolgevano attività di supporto nel trasporto via mare della morfina-base destinata a Palermo. A tale scopo utilizzavano i vecchi canali del contrabbando di sigarette.
– Molti percorsi, tappe e protagonisti di questo traffico sono stati individuati dalla polizia, perché, essendo costretta la mafia a utilizzare come corrieri uomini non strettamente legati a Cosa Nostra, questi intermediari, una volta arrestati, hanno quasi sempre parlato.
Il giudice istruttore Giovanni Falcone, quand’era a Palermo, svolse un’intensa attività contro la mafia. Firmò numerosi rinvii a giudizio per bancarotta fraudolenta, mettendo fine a una tradizionale impunità riconosciuta a questo tipo di reato. Falcone era il braccio destro di Chinnici. Quando contribuì al blitz contro il clan Spatola-Inzerillo-Di Maggio, la sua vita cambiò completamente. Per riuscire a incriminare i mafiosi dovette seguire i tortuosi giri di centinaia di assegni, spulciando gli archivi delle banche. Non appena ebbe in mano i fascicoli più scottanti, fu costretto a chiedere la scorta e l’auto corazzata, cominciò ad armarsi, trasferì la sua segretaria in un’altra stanza, fece costruire nel suo ufficio un basamento di cemento sul quale venne installata una grande cassaforte per custodire i fascicoli. Già Chinnici aveva fatto mettere i vetri antiproiettile alle finestre. La vita privata di Falcone era stata completamente annullata da 30 agenti e carabinieri addetti alla scorta. Quando si spostava per andare da casa al suo ufficio blindato, la polizia bloccava il traffico cittadino per farlo passare. Falcone fu il primo a individuare all’interno della mafia un triplice livello di affari: quelli leciti, quelli illeciti e quelli politico-finanziari (quest’ultimi per dirigere il processo di riciclaggio degli enormi flussi di denaro sporco).
APPUNTI SUL CONCETTO DI MAFIA In senso molto generale la mafia è un modo di una parte del Sud di riprendersi con la forza e l’inganno quanto il Nord gli ha tolto dall’unità d’Italia ad oggi. E’ una reazione illegale ad un’azione non meno illegale. In genere però si ha l’impressione che sia il Sud a sfruttare il Nord (vedi ad es. le tantissime pensioni per i presunti invalidi civili, le ingentissime sovvenzioni per i terremotati, gli investimenti fasulli di quella che una volta si chiamava “Cassa per il Mezzogiorno”, per non parlare dei concorsi pubblici truccati, anche in ruoli di alta responsabilità, e via dicendo). Ma se esaminassimo le cose da un punto di vista strettamente economico, cercando di capire il meccanismo di dipendenza coloniale che lega il Sud al Nord, vedremmo che quest’ultimo, dall’unificazione nazionale ad oggi, si è servito del Mezzogiorno come di un’area ove piazzare le proprie merci industriali, ove reperire forza-lavoro e materie prime a buon mercato. In questo senso sarebbe opportuno rileggersi le opere di Nicola Zitara, Francesco Tassone, Paolo Cinanni, Emilio Sereni, senza dimenticare i famosi “Quaderni calabresi”. Il Sud ha pagato l’unificazione nazionale col sottosviluppo, cioè con l’impossibilità di uscire dall’arretratezza economica: è diventato una “colonia interna” per il Nord capitalistico. Queste cose le Leghe non vogliono assolutamente ammetterle. Il Sud ha cercato di opporsi a questa logica di sfruttamento ed espropriazione col brigantaggio e le lotte contadine per la fine del latifondo. Poi, dopo la repressione cruenta di questa opposizione, non gli è rimasto altro che l’emigrazione. La mafia è anche una diretta conseguenza del fallimento di questi tentativi di sopravvivenza e di resistenza al colonialismo. La mafia potrà essere vinta solo quando i meridionali comprenderanno ch’essa non costituisce affatto un’alternativa allo Stato, ovvero quando comprenderanno che può esistere un’alternativa in positivo allo sfascio dello Stato. La mafia è l’altra faccia dello Stato nel Mezzogiorno e ovunque si possano fare affari coi soldi sporchi del narcotraffico, degli appalti, dei seguestri di persona, ecc. La mafia serve allo Stato per controllare nel Sud quelle contraddizioni emerse con l’unità d’Italia. In questo senso la mafia da “prodotto” di quelle contraddizioni è diventata “strumento” dello Stato per controllarle. Oggi però il problema maggiore che lo Stato deve affrontare è quello relativo al fatto che la mafia sta dilagando a livello nazionale, superando i confini in cui lo stesso Stato, tacitamente, l’aveva circoscritta (confini non sono geografici, ma anche sociali, politici, economici, morali…). Il narcotraffico ha permesso alla mafia di realizzare profitti tali da non avere più bisogno di alcuna tutela statale. La mafia oggi può uccidere generali, prefetti, politici, giudici, avvocati, giornalisti… proprio perché sa di avere il potere sufficiente per farlo. Non sta impazzendo, sta soltanto dimostrando di avere più potere dello Stato. Dal canto suo lo Stato, se vorrà riprendere la situazione sotto un relativo controllo sarà costretto, prima o poi, a legalizzare la droga, che è la fonte principale dei profitti mafiosi. Quando i politici dicono che nel Sud lo Stato è assente, sanno benissimo di mentire, in quanto esso è presente appunto nei panni delle stesse cosche mafiose. Tale coincidenza è spiegata dal fatto che lo Stato non fa nulla di decisivo per combattere la criminalità organizzata. Lo Stato -eccettuati naturalmente alcuni suoi singoli esponenti o organismi- non solo è complice di questa criminalità, ma ha addirittura delegato ad essa molte sue funzioni. In un territorio ove la criminalità domina incontrastata, le funzioni dello Stato o non esistono (ovvero sono ridotte al minimo) oppure sono quelle stesse della mafia. Ad es. in certi paesi della Calabria o della Sicilia è la stessa mafia che procura, a pagamento, l’acqua per i cittadini. Chiunque voglia lavorare, al Sud, deve prima passare attraverso la mafia. Chiunque debba votare non può non rendere conto alla mafia. La mafia ha un potere che intacca e corrode ogni partito. Lo Stato è convinto che nel Sud sia sufficiente l’organizzazione mafiosa per governare quelle popolazioni giudicate “arretrate”. Nel Nord imprenditoriale e commerciale si ruba in maniera “legale”; nel Sud mafioso si ruba in maniera “illegale”. Ma “illegale” per chi? Per gli stessi imprenditori e commercianti del Nord, i quali però beneficiano di agevolazioni statali a tutto campo. Perché dunque la mafia non dovrebbe pretendere le stesse facilitazioni? Si dice che la mafia non paga le tasse: perché, forse le paga la borghesia imprenditoriale del Nord? Supponiamo anche che tale borghesia, in proporzione, paghi molte più tasse della mafia, ma che ne sarebbe della mafia se questa volesse impiantare imprese e attività commerciali gareggiando alla pari con le imprese e i commerci del Nord? Sarebbe un fallimento totale. Se vuole imporsi anche al Nord, dove la concorrenza è molto più forte, la mafia è costretta a perfezionare i meccanismi economico-finanziari del proprio successo. Non si deve infatti dimenticare che l’unificazione nazionale è stata fatta sulla base del compromesso tra borghesia del Nord e agrari del Sud, ma la classe che detiene l’egemonia politica a livello nazionale è quella borghese. E’ dunque illusorio pensare che lo Stato sia un ente neutrale ed equidistante in grado di contenere la corsa ai profitti da parte dei monopoli, o di impegnarsi seriamente in una lotta contro la criminalità organizzata. Se alcuni magistrati, politici, carabinieri ecc. vengono uccisi, si tratta sempre di casi sporadici (rispetto, beninteso, all’entità e alla vastità del fenomeno, il quale, se fosse veramente aggredito, procurerebbe nell’immediato un considerevole numero di morti. Sarebbe però interessante ipotizzare, servendosi di dati e statistiche, se i morti di uno scontro frontale, decisivo, tra le nostre forze armate e la criminalità organizzata, risulterebbero di molto superiori a quelli che fino ad oggi si sono avuti) In genere, cioè salvo le dovute eccezioni, chi cade sotto i colpi della mafia fa parte della concorrenza (anche nel senso che può essere vittima di una vendetta trasversale), oppure è stato testimone involontario di un omicidio, o forse non si è reso conto di combattere una battaglia persa in partenza, perché appunto condotta in maniera individuale o con mezzi e strumenti di ordinaria amministrazione. Di fatto molti magistrati, politici, carabinieri… che partono dal presupposto di quanto sia assurdo morire per niente, sono o direttamente mafiosi (ma è una minoranza), oppure, indirettamente (cioè senza volerlo), collaborano, in un modo o nell’altro, all’affermazione della criminalità. E’ veramente incredibile che ancora oggi vi siano persone disposte a credere nell’onestà dello Stato, nelle promesse del governo, nella propria singola forza (di denuncia) contro la forza collettiva ben organizzata e ben armata delle cosche mafiose. Oggi molti credono che esista uno Stato più o meno onesto, sottoposto alle pressioni della criminalità organizzata. In verità le ultime briciole di onestà lo Stato le ha perse con le stragi del terrorismo nero coperte dai servizi segreti, col delitto Moro voluto dalla Dc, con la strage-NATO di Ustica, con l’attentato della CIA al papa, con la scoperta della P2, con il crack dell’Ambrosiano, con la vicenda Gladio e il piano Solo e in molte altre occasioni. Una qualche differenza tra mafia e Stato poteva forse esistere prima del narcotraffico. Purtroppo oggi i miliardi hanno varcato ogni confine geografico, ogni riserva mentale, hanno superato ogni barriera naturale e artificiale. Politici, magistratura, forze dell’ordine…: tutto è inquinato in maniera relativa o assoluta. Persino i cittadini che ritengono la mafia un fenomeno meridionale e che si ostinano a non vederlo nelle loro proprie città, collaborano indirettamente alla sua diffusione. Per non parlare di quei cittadini che depositano i loro soldi, consapevolmente, per avere maggiori interessi, nelle società finanziarie o nelle banche gestite direttamente dalla mafia. Singole persone oneste costituiscono eccezioni isolate, che non possono certo mutare il quadro della situazione. Situazione che, per essere affrontata con decisione, non richiede tanto l’eroismo di pochi o lo spirito di sacrificio delle forze dell’ordine o di qualche magistrato, quanto piuttosto un’organizzazione collettiva armata. Lo Stato s’è armato a dovere contro il terrorismo rosso e l’ha vinto (anche se non ha vinto le cause socio-economiche che l’avevano generato, per cui dovremo presto aspettarci un suo revival). Lo stesso Stato non vuole combattere con uguale determinazione la criminalità organizzata, che è sempre stata molto più pericolosa del terrorismo rosso. Di fronte a questa vergognosa latitanza, i cittadini devono reagire in modo autonomo e con lungimiranza, affrontando il problema in maniera radicale e globale. Non può infatti bastare una riforma elettorale che spezzi il gioco delle preferenze (la mafia saprebbe creare altri meccanismi, magari più occulti o più aggressivi). Né avrebbe senso sperare che la mafia s’impegni ad allestire strutture produttive, servizi sociali, attività economiche e commerciali a favore dei cittadini: la mafia ha bisogno dell’arretratezza e del sottosviluppo per sopravvivere e, comunque, anche se lo facesse, essa sola continuerebbe a trarne un beneficio. Un’organizzazione che dispone di un enorme potere politico, economico e militare non può aver paura, in maniera paralizzante, di alcuna riforma elettorale, di alcun controllo pubblico, di alcuna commissione d’inchiesta. Ai cittadini dunque non resta che armarsi e combattere collettivamente, direttamente, contro la mafia. Essi dovranno lottare anche contro quanti sostengono che una soluzione del genere farebbe piombare il paese nel caos, nella guerra civile. Il paese è già in guerra civile: da tempo la mafia l’ha scatenata contro cittadini inermi, ivi inclusi minorenni d’ogni età. La lotta quindi dovrà essere condotta anche per costruire una società più giusta e democratica. In questo senso i cittadini del Sud possono trovare in quelli del Nord, oppressi dal capitale, un valido alleato. Sul piano normativo e socio-culturale, una risposta veramente adeguata alla criminalità organizzata può essere solo il frutto di un comportamento quotidiano anti-criminale. E’ bene infatti rendersi conto che l’atteggiamento “mafioso” va molto aldilà dei tradizionali confini del costume meridionale, in quanto lo ritroviamo ovunque vi siano clientele, protezioni, raccomandazioni, cooptazioni, minacce, ricatti e corruzioni di vario genere. Truccare un concorso o un appalto pubblico significa già diffondere l’atteggiamento “mafioso”. Bisogna insomma abituarsi a estendere il concetto di “mafia” a determinati comportamenti immorali e/o impolitici, così come il concetto di “droga” non può riferirsi esclusivamente a determinate stupefacenti sintetici o vegetali. Non solo, ma un coinvolgimento attivo della cittadinanza in un’operazione anti-crimine comporta necessariamente una revisione, da parte delle istituzioni, del concetto di “reato”. La gente comune infatti spesso non reagisce alla criminalità non tanto per paura, quanto perché non è affatto convinta che le istituzioni siano meno “colpevoli” della stessa criminalità organizzata. Le omertà, le reticenze, le complicità, le collusioni… vanno viste in questa prospettiva. Un reato rifiutato per motivi morali, viene spesso accettato, dalla gente comune, per motivi politici, in quanto, mettendolo a confronto con quelli “legali” delle autorità pubbliche, esso può sempre trovare una qualche giustificazione o attenuante. Ecco perché è impossibile che al Sud la popolazione accetti di combattere la criminalità senza avere almeno la speranza che tale lotta porti anche a una trasformazione del sistema politico-istituzionale e sociale. Al Nord, quando si combatte la criminalità, spesso non si mette in discussione il valore del sistema; al Sud invece le due cose sono strettamente legate. Per poter coinvolgere l’intera cittadinanza nazionale occorre che l’alternativa sia sufficientemente chiara e visibile, a portata di mano. L’irresponsabilità di molti giornalisti la si nota chiaramente quando intervistano i meridionali a proposito della criminalità organizzata. Da un lato fingono di non sapere che il problema è gravissimo, allo scopo d’indurre l’interlocutore, vessato dalla mafia, a parlare (senza garantirgli, in cambio, alcuna vera protezione: l’unica vera “protezione” che gli “garantiscono” è quella del potere “magico” dell’intervista pubblica, fatta in televisione). Dall’altro essi ritengono che quando l’intervistato addebita alla disoccupazione il motivo principale della criminalità, si sia in presenza non di una reale motivazione bensì di un pretesto bell’e buono. Il giornalista cioè vuol far credere che se i meridionali volessero “veramente”, troverebbero lavoro e non diventerebbero mafiosi… Nascono da qui i vari pregiudizi dei settentrionali. Come se la mafia fosse solo al Sud! Come se il concetto di “mafia” andasse circoscritto alla sola criminalità organizzata legata agli appalti, alle estorsioni, alla droga… e non anche alla corruzione più generale che investe il nostro Paese! Ciò che sfugge completamente ai media istituzionali è il rapporto di sfruttamento, di subalternità economica che lega il Nord al Sud, ovvero il fatto che la criminalità organizzata è “l’altra faccia” dello Stato nel Mezzogiorno. Quanto sia astratta e fuori luogo l’affermazione di quelle Leghe lombardo-venete, secondo cui l’Italia “ricca” deve restare separata, se vuole “entrare in Europa”, dall’Italia “povera”, è assai evidente alla luce del fatto che buona parte della “ricchezza” del Nord è dipesa e tuttora dipende dalla “miseria” del Sud. Tornando ai giornalisti, va ribadito ch’essi, il più delle volte, sono cinici e ipocriti, poiché, sapendo da un lato di avere le spalle coperte, pretendono dall’altro che qualcuno si esponga per loro (anche a rischio della propria vita), e solo per rendere la loro intervista più interessante, più appetibile, più concorrenziale: più di così infatti quelle interviste non servono. Nel peggiore dei casi vengono usate per far sembrare la situazione del Sud ancora più esplosiva di quella che è, secondo la tecnica del “tanto peggio tanto meglio”. Il “tanto meglio”, ultimamente, ha riguardato la possibilità d’inviare delle forze armate nelle isole maggiori per dimostrare che le istituzioni ci sono… almeno per qualche mese. Come se la criminalità organizzata rientrasse unicamente nei problemi dell’ “ordine pubblico”! I giornalisti mettono il dito nella piaga dell’ammalato per sentirlo urlare, mostrandolo a un’utenza che paga il canone guardandosi i problemi della nazione comodamente seduta in poltrona, ovvero illudendosi che solo per il fatto di vederli, qualcuno si assumerà la responsabilità di risolverli. Se poi l’intervistato che si è esposto alla tv denunciando i soprusi della mafia, viene da questa assassinato, magari proprio perché ha accettato l’intervista, ecco che allora il giornalista zelante si serve di questo nuovo delitto per cercare una nuova audience. E così si versano lacrime da coccodrillo, ovvero si cade dalle nuvole nel costatare che il proprio potere “mediale” non è così persuasivo e protettivo come si era creduto. In pratica ci si continua a illudere -sulla scia del ’68- che sia sufficiente denunciare le contraddizioni per assicurarsi la loro pronta soluzione. E non ci accorge neppure che le istituzioni sono ormai assuefatte a questo modo astratto d’affrontare la realtà e che non si lasciano mettere in crisi tanto facilmente dalle denunce fatte alle televisione o sui giornali. Inoltre non si tiene conto del fatto che i poteri della mafia oggi sono infinitamente più grandi, per cui chi si espone rischia molto di più. I giornalisti insomma devono smettere di considerare la mafia un’attività criminale fra tante, e di credere che in questa lotta contro la criminalità lo Stato stia dalla parte giusta. Con la morte dei magistrati Falcone e Borsellino si chiude forse un’epoca nella lotta dello Stato contro la mafia, quella in cui ancora si riteneva che la mafia fosse un “antistato”. Naturalmente lo Stato, mandando l’esercito in Sicilia, vuol continuare ad alimentare questa illusione. Falcone e Borsellino rappresentavano la fiducia nell’ideale dello Stato etico, benché nell’ultimo periodo della loro vita essi avessero maturato delle riserve alquanto critiche nei confronti degli organi statali (anche questo, in fondo, può essere considerato un buon movente per quei delitti). Evitando di proteggerli, lo Stato “mafioso” ha fatto in modo che la mafia mostrasse a tutta la nazione chi comanda veramente in Italia. Che lo Stato sia “mafioso” non significa, ovviamente, che lo siano “tutti” i parlamentari, “tutti” i prefetti, i questori ecc. Semplicemente significa che il trend dominante di questo Stato è favorevole alla mafia, a quella mafia che al Sud si chiama Cosa Nostra, Camorra, ‘Ndrangheta, Sacra Corona Unita, Anonima Sequestri, ecc., e che al Nord si chiama con un neologismo giornalistico, “tangentopoli”. Tra le due mafie geografiche la differenza è solo di forma non di sostanza, a motivo dei diversi contesti socio-economici in cui agiscono, incluse le tradizioni storico-culturali che le caratterizzano. Lo Stato “mafioso” quindi sembra aver vinto in tutti i campi, cioè sembra essere riuscito a dimostrare che l’atteggiamento mafioso (la corruzione, la concussione, la rendita parassitaria, il clientelismo ecc.) è dominante nel nostro Paese, soprattutto laddove esiste un potere politico ed economico da gestire e da spartire. In tal modo, tuttavia, lo Stato “mafioso” s’è per così dire dato la zappa sui piedi. La reazione indignata della gente comune agli omicidi di Falcone e Borsellino, ai corrotti e corruttori del mondo politico ed economico, locale regionale e nazionale, sta portando sempre più alla consapevolezza che tra Stato e mafia vi sia un legame molto stretto – ciò che, fino a qualche anno fa, pochi sarebbero stati disposti ad ammettere. Si sapeva infatti che alcuni politici vengono eletti coi voti della mafia, che alcuni magistrati sono collusi con gli interessi mafiosi, ma ancora non si era arrivati a credere che lo Stato in quanto tale, cioè a suoi livelli istituzionali, è complice, direttamente o indirettamente, della criminalità organizzata. Ciò comporta delle conseguenze molto importanti:
- i magistrati che si ostinano a combattere la mafia, senza credere nella collusione dello Stato, diventano automaticamente degli ingenui irriducibili, anzi irresponsabili;
- i magistrati che si rifiutano di combattere la mafia, proprio perché sono consapevoli di questa collusione, non hanno fiducia che le cose possano cambiare nel Mezzogiorno con l’aiuto dell’intera popolazione;
- la lotta contro la mafia non può essere condotta senza lottare contemporaneamente contro lo Stato;
- la lotta contro lo Stato e contro la mafia dev’essere considerata come il primo passo della lotta per la transizione a una democrazia socialista.
C’è un altro versante in cui attualmente si combatte o si dice di combattere il fenomeno mafioso, quello delle comunità terapeutiche per i tossicodipendenti. Di tutte queste comunità, la più ostile alla legalizzazione della droga è -come noto- quella di San Patrignano, per la quale lo Stato diventerebbe “mafioso” appunto se legalizzasse la droga. Ora qui non si vogliono discutere simili puerili affermazioni, ma fare una considerazione di carattere generale sulla “natura” delle suddette comunità, soprattutto di quella di Muccioli, che più di ogni altra risente dei limiti del “socialismo utopistico”. In effetti, isolandosi dal contesto sociale, essa -al pari soprattutto di quelle che aspirano a diventare “comunità di vita”, cioè “globali” o “permanenti”, è caduta nell’illusione di credere che la soluzione delle contraddizioni della società sia possibile solo creando “un’isola felice”. In tal modo -e ciò è paradossale- essa contribuisce, non meno delle contraddizioni che dice di combattere, alla diffusione della droga: non solo perché rifiuta il concetto di “legalizzazione”, ma anche perché si è costituita come “comunità”, che di per sé vuole essere immune dal contagio. Certo, il contributo è indiretto, rispetto a quello mafioso vero e proprio, ma se la soluzione comunitaria viene istituzionalizzata dallo Stato, cioè viene utilizzata dal sistema (e l’idea oggi è proprio questa, tanto è vero che quante non rientrano in certi requisiti non vengono sostenute in alcun modo), allora il contributo diventa anche diretto. Ogniqualvolta si alimenta un’illusione (pur senza saperlo o senza volerlo), il fine che si realizza sarà sempre capovolto rispetto a quello che si pensava di perseguire. Il problema della droga rientra nel più generale problema della “dipendenza”, che, a sua volta, è legato all’ancora più generale problema della frustrazione e alienazione sociale (che sono problemi tipici di questa società divisa in classi e che quasi nessuna comunità terapeutica sembra abbia intenzione di voler porre all’ordine del giorno: non a caso i loro rapporti reciproci sono del tutto insignificanti, in quanto basati prevalentemente sulla concorrenzialità). Se volessimo veramente ripensare i criteri di vita della nostra società, dovremmo utilizzare i fenomeni della droga, della delinquenza e di altre forme di marginalizzazione sociale, in chiave dinamica, propositiva. Non facendolo rimane intatta quell’opinione maggioritaria, istintiva, superficiale, che considera i suddetti criteri nel complesso positivi, accettabili o comunque ineliminabili, mentre il soggetto “marginale” o “deviato” rappresenta soltanto un’eccezione, cioè colui che non sa rassegnarsi a questa necessità, che non sa capire questa evidenza. Ecco perché le comunità terapeutiche contribuiscono a riprodurre i criteri borghesi di vita, seppure al loro interno vi siano comportamenti, stili e ritmi più esigenti (analoghi a quelli carcerari o monastici). Esse s’illudono (perché se ne vantano) di poter superare quei criteri, ma i fatti purtroppo dimostrano che il giovane, uscendo dalla comunità, o si ritrova a dover affrontare con le stesse difficoltà gli stessi problemi che aveva prima di drogarsi (e spesso non sa cosa fare, poiché la comunità l’ha soltanto abituato a spersonalizzarsi, chiarendogli ogni giorno di più che il “suo” problema è un problema di “molti”, per cui deve relativizzarlo); oppure, decidendo di restare in comunità (là dove è possibile), egli obbligherà la stessa comunità (che nel frattempo si sarà ingrandita) a scontrarsi con le esigenze e i meccanismi della società borghese, la quale, essendo più forte, la costringerà ad accettare compromessi d’ogni tipo pur di poter sopravvivere. In questo senso sarebbe interessante sottoporre le comunità a un rigoroso controllo economico e finanziario delle loro entrate e uscite. Il massimo che la comunità è in grado di offrire a un giovane disintossicato che se ne vuole andare, è un lavoro più o meno qualificato col quale potrà reinserirsi in società, ma anche così egli non potrà risolvere i suoi problemi di fondo, di “senso della vita”: sia perché dovrà scontrarsi con situazioni inedite per lui, che nella comunità non esistevano, in quanto il rapporto di lavoro era organizzato in condizioni diverse; sia perché, prima o poi, egli dovrà rendersi conto d’essere un privilegiato rispetto alle centinaia anzi migliaia di ragazzi non dediti agli stupefacenti che non sono riusciti ad avere le sue stesse opportunità o agevolazioni. Uno dei paradossi di questa società infatti è che le istituzioni, nel migliore dei casi, si preoccupano dei giovani non prima che si droghino ma dopo. Le comunità quindi (quando addirittura non vengono create per sfruttare economicamente la questione della tossicodipendenza) assai raramente lottano per trasformare la società borghese: lo farebbero se denunciassero i loro propri limiti e i tentativi di strumentalizzazione da parte del potere politico, ma preferiscono non farlo, perché temono di perdere i contributi finanziari, di cui hanno sempre un grande bisogno. Ecco perché in definitiva esse non fanno che educare i giovani ad accettare la società borghese, incanalando il loro potenziale eversivo in una direzione conformistica. Tant’è vero che quando si fanno conferenze sul problema della droga, con l’aiuto di ex-tossici, gli operatori delle comunità spesso li presentano come se fossero un loro “prodotto commerciale”, dando l’impressione che le varie comunità siano tra loro in gara nel dimostrare quale rieducazione alla società-così-com’è sia la migliore. Per concludere, mentre la presenza dei drogati appare in fondo come il segno d’un malessere sociale, la presenza delle comunità è invece il segno di un’illusione sociale, quella di credere che ai problemi della società borghese si possa sempre trovare una soluzione non meno borghese. Con questo naturalmente non si vuole affermare che la comunità “non serve”, ma solo che il senso della sua utilità non può prescindere dalla riflessione che si deve fare sui criteri di vita della nostra società. STORIA CONTEMPORANEA