27 gennaio 1996 – Dalla Sentenza di primo grado del Borsellino Bis : Un primo accertamento scientifico tra quelli svolti sin dall’inizio delle indagini, nell’immediatezza dei fatti ha riguardato, ovviamente, i corpi delle vittime rinvenuti sul luogo della strage. Dalle dichiarazioni rese dai medici legali, prof. Paolo Procaccianti e dott. Livio Milone, e dagli elaborati acquisiti risulta che, dopo l’ispezione esterna, i cadaveri sono stati trasportati presso l’Istituto di Medicina Legale del Policlinico di Palermo per procedere agli esami autoptici.
Da tali accertamenti risulta che tutti i cadaveri, ad eccezione di quello dell’agente Cusina, deceduto per le lacerazioni e le ferite provocate al collo da una scheggia metallica, come si è avuto modo di constatare direttamente attraverso le immagini filmate riprese nell’immediatezza dei fatti, si presentavano “depezzati” ed irriconoscibili per l’onda pressoria di calore provocata dall’esplosione, che aveva alterato i lineamenti del viso ed aveva cagionato vistose lesioni al capo ed alle viscere delle vittime, nonchè aree di abbruciamento cutaneo, con analogo abbruciamento degli elementi piliferi. Tutto ciò non ha fatto che confermare ulteriormente che la causa del decesso delle vittime, come risultava già in modo esplicito ed inequivoco dalla semplice osservazione dello stato dei luoghi e dai primissimi rilievi, era da individuare nell’onda d’urto e nell’improvvisa intensa fiammata causata dalla violentissima esplosione verificatasi in Via D’Amelio.
Un ben più consistente gruppo di accertamenti di carattere tecnico svolti immediatamente dopo i fatti riguarda le indagini balistiche ed esplosivistiche affidate al collegio di esperti nominato dal P.M.. Al riguardo giova osservare che già pochi minuti dopo la tremenda esplosione verificatasi a Palermo nella via Mariano D’Amelio all’altezza del numero civico 19/21 alle ore 16.58 del 19.7.1992 sono giunte sul posto le forze di polizia massicciamente e tempestivamente mobilitate a seguito di un evento delittuoso che, seppure di poco successivo alla strage eseguita ai danni del dott. Giovanni Falcone della moglie e della scorta il 23 maggio dello stesso anno, presentava caratteri peculiari eccezionalmente allarmanti, per essere stato realizzato in pieno centro cittadino, con l’impiego di una potentissima carica esplosiva, con conseguenze devastanti per una vasta area e con una potenzialità offensiva enorme, che solo per fortuite coincidenze non ha provocato la morte di un numero assai più elevato di vittime innocenti.
Lo scenario apocalittico immediatamente presentatosi all’agente di p.s. Vullo, unico componente della scorta del dott. Borsellino sopravvissuto alla strage, ed ai primi soccorritori emerge in modo eloquente dalle riprese fotografiche filmate della zona teatro dell’attentato proiettate in aula, nonché dalle dichiarazioni dei testi Vullo e Pluchino, i quali hanno riferito in dibattimento, con accorata e viva partecipazione, dei corpi straziati delle vittime, dei brandelli umani sparsi su una vasta area, delle devastazioni materiali di beni mobili ed immobili provocate dall’esplosione, della situazione caotica seguita all’esplosione, del panico diffuso tra gli abitanti delle zone adiacenti alla via D’Amelio e del massiccio intervento di numerosissime forze di polizia e mezzi di soccorso sul luogo teatro della strage.
A prescindere dall’approfondimento di tali descrizioni, che comunque consentono di valutare la particolare gravità del fatto criminoso, ciò che conta in questa sede è il constatare che dai suddetti rilievi visivi e dalle dichiarazioni dei testi risulta inequivocabilmente che la zona ove si è verificata l’esplosione è stata subito isolata e circoscritta, compatibilmente con le evidenti esigenze di sgombero dell’area e di intervento dei mezzi di soccorso, e che subito dopo è iniziata una attenta, minuziosa e capillare ricerca dei resti e della tracce dell’esplosione, ricerca che si è protratta in modo continuativo ed incessante per diversi giorni, con l’immediata partecipazione dei tecnici cui è stata affidata la consulenza esplosivistica, giunti sui luoghi tra il 19 ed il 20 luglio a distanza di poche ore dalla tremenda esplosione. L’attività di ricerca è proseguita per diversi giorni attraverso una laboriosa opera di rastrellamento che ha consentito la raccolta pressoché completa dei resti dell’esplosione e, soprattutto, la catalogazione di tali resti e la rilevazione topografica dei punti esatti in cui sono stati rinvenuti i frammenti più significativi ai fini delle indagini e, in particolare, la ricostruzione della dinamica dell’attentato e dei mezzi impiegati per la sua esecuzione.
Tali precisazioni appaiono particolarmente rilevanti poiché il tempestivo isolamento della zona, la costante e continuativa presenza di numerose forze di polizia, appartenenti a diversi corpi ed organismi, le rilevazioni prontamente operate, consentono di attribuire un elevatissimo grado di attendibilità agli accertamenti ed ai rilievi tecnici compiuti nell’immediatezza dei fatti e, soprattutto, di escludere la materiale possibilità di errori o inquinamenti esterni, che pure sono stati prospettati dalla difesa di taluni imputati, e di ritenere, come meglio si vedrà in seguito, assolutamente inverosimile la fantasiosa ricostruzione prospettata dal collaboratore Scarantino Vincenzo per supportare una improbabile ritrattazione delle precise dichiarazioni accusatorie precedentemente rese.
Particolarmente importanti appaiono al riguardo, per le considerazioni che saranno sviluppate circa gli accertamenti peritali dei consulenti tecnici Cabrino, Egidi, Vassale e Delogu, sia i rilievi compiuti su un’area ristretta ma estremamente significativa quale quella del cratere provocato dall’esplosione, sia i rilievi fotografici eseguiti nell’immediatezza dei fatti, che riproducono il posizionamento esatto delle autovetture e dei relativi pezzi meccanici direttamente investiti dall’esplosione, sia il rinvenimento di frammenti di congegni elettronici utilizzati per attivare la carica esplosiva, sia la catalogazione delle parti dell’autovettura individuata come autobomba (disintegrata letteralmente dall’esplosione, ma ricostruita in larga misura attorno ad uno scheletro artificiale grazie alla minuziosa operazione di recupero dei resti dell’esplosione), sia, infine, il rinvenimento di alcuni pezzi particolari di tale autovettura quali il blocco motore e la targa apposta sull’autovettura medesima, che hanno consentito quasi subito di indirizzare la indagini per l’individuazione degli esecutori materiali della strage. Senza volere anticipare considerazioni che saranno più opportunamente sviluppate nella sede appropriata è possibile sin d’ora rilevare che gli elementi sopra evidenziati e l’assoluta coerenza logico- scientifica dei dati rilevati dai consulenti tecnici, consentono di escludere con assoluta certezza che parti o frammenti dell’autovettura che è stata individuata come quella contenente l’esplosivo utilizzato per la strage siano stati artificiosamente portati sul luogo dell’esplosione per indirizzare le indagini su false piste, che tracce significative dell’esplosione possano essere state anche intenzionalmente trascurate e che, addirittura, possano essere stati trasportati sul luogo dell’esplosione i resti di una autobomba fatta esplodere in altra zona, come ipotizzato con grande fantasia ma assoluta inverosimiglianza dal collaboratore Scarantino Vincenzo nel tentativo, quasi disperato, di dare una parvenza di credibilità alla integrale ritrattazione operata nell’udienza del 15-9-1998 presso l’aula bunker di Como. In particolare dalle relazioni di consulenza in atti e dalle dichiarazioni dei consulenti tecnici, esaminati sia nel corso del presente giudizio, sia nel corso del primo giudizio per la strage di via D’Amelio i cui verbali sono stati acquisiti e dichiarati utilizzabili nel presente processo, risulta che l’esplosione, verificatasi in un punto collocato a circa due metri a destra del cancello di ingresso dei numeri civici 19 e 21 della via Mariano D’Amelio aveva determinato come effetti più evidenti, oltre alla uccisione di sei persone, la distruzione di numerose autovetture parcheggiate sulla strada in prossimità del punto di esplosione, la materiale disintegrazione dell’autovettura su cui era stata verosimilmente piazzata la carica esplosiva, con proiezione di pezzi di varia grandezza sino ad una distanza di circa 160 metri dal punto di scoppio (:la maggior verso gli edifici ubicati sul lato destro di via D’Amelio procedendo dalla via Autonomia Siciliana), notevoli danneggiamenti alle strutture murarie ed agli infissi degli edifici in prossimità del punto di esplosione, nonché la formazione di un cratere di scoppio a forma di “calotta sferica” con le dimensioni indicate nelle relazioni ed una depressione larga circa 230 millimetri e profonda circa 100 millimetri, con andamento parallelo al marciapiede, il cui esame si è rivelato prezioso per ricostruire la dinamica dell’esplosione ed accertare il tipo ed il quantitativo di sostanze esplosive concretamente impiegate.
Già da un primissimo esame del cratere i consulenti avevano dedotto che il fatto che gli strati superficiali del terreno non presentassero una minuta disgregazione significava evidentemente che la depressione in questione era stata provocata da un’onda d’urto e da gas provocati da una esplosione non a contatto con il suolo e quindi da una carica esplosiva sollevata dal terreno, che ben avrebbe potuto essere collocata all’interno di una autovettura parcheggiata sul punto ove è stato trovato il cratere. Infatti, come osservato opportunamente dai consulenti, nell’ipotesi di una esplosione a contatto si assiste sempre ad una frantumazione minuta del materiale su cui la carica è appoggiata, poichè l’onda d’urto non deve attraversare strati d’aria ed opera immediatamente con tutta la sua forza dirompente sulla struttura a contatto. A questo punto veniva opportunamente predisposta una dettagliata planimetria dei luoghi teatro dell’esplosione su cui veniva via via segnato il punto di rinvenimento dei singoli reperti allo scopo di procedere ad una ricostruzione ordinata e ad una verifica attenta dei dati emersi dalla prima osservazione, necessariamente confusa dato lo stato dei luoghi e gli effetti devastanti.
Nel contesto di tale ricerca assumeva un valore particolarmente significativo il rinvenimento, alle ore 11,00 del 20 luglio, al centro della carreggiata, vicino alla Croma blindata di colore azzurro della scorta del Dott. Borsellino, della carcassa di un motore, sicuramente funzionante prima dello scoppio in quanto ancora intriso di olio ed annerito a causa della esplosione.
Infatti, attraverso il numero di matricola (:9406531), facilmente individuato dopo una pulizia con acetone, si accertava tramite la FIAT di Torino che il motore era montato su una FIAT 126, telaio nr. 1260008781619, immatricolata con targa PA 790936 ed intestata a D’Aguanno Maria ed in uso a Valenti Pietrina, autovettura che con ogni probabilità doveva essere quella utilizzata come autobomba per la semplice ragione che il motore sopra indicato era l’unico gruppo meccanico per così dire “avanzato”, dato che tutte le altre autovetture coinvolte nell’esplosione di via D’Amelio, seppure fortemente danneggiate erano ancora dotate del proprio gruppo motore.
Altro rinvenimento significativo (v.verbale di sequestro di cui ha riferito in dibattimento la dott.ssa Pluchino) era quello di una targa accartocciata, trovata sotto il bagagliaio di una “Giulietta”, che presentava, seppure sporca, con evidenti segni di combustione ed annerita, i suoi numeri perfettamente leggibili. Nel medesimo contesto temporale venivano rinvenute e sequestrate, difronte al marciapiede opposto al punto di scoppio due schede elettroniche facenti parte di un apparato ricevente, il che confermava l’ipotesi, invero piuttosto ovvia dato il tipo di evento, che la carica esplosiva fosse stata azionata a distanza mediante un telecomando.
Quest’ultimo elemento di indagine trovava ulteriore conferma in successivi rinvenimenti riguardanti un frammento di 126 in oggetto (:un pezzo accartocciato della parte superiore del vano porta destra della vettura) che conteneva un tratto di cavo coassiale di antenna ed un altro tratto della stessa antenna costituito da uno spezzone di circa 10 cm. di cavo coassiale per radiofrequenze con un jack terminale. Detto cavo presentava un annerimento superficiale e sul jack terminale dei piccoli crateri dovuti all’impatto di microschegge, che denotavano la vicinanza del reperto alla carica esplosiva.
Tutto ciò dimostrava chiaramente che sulla autovettura sopra indicata doveva essere stato montato un apparato ricevente, che verosimilmente, per le caratteristiche tecniche del materiale elettronico rinvenuto, era quello utilizzato per fare esplodere a distanza l’autobomba.
Non è superfluo ricordare tra i reperti rinvenuti sul luogo della strage un pezzo di lamiera recante la sigla alfanumerica FSC 400*12 8508 (v. dep. resa in dibattimento dal Dott. Salvatore La Barbera), poiché, come ha confermato il teste Domenico Militello, tale pezzo faceva parte di un cerchione del tipo montato sulle FIAT 126 vecchio modello di fabbricazione polacca (in produzione prima del 1988, anno in cui la sigla FSC era stata sostituita con la sigla FS), per cui i rinvenimenti di pezzi della fiat 126 utilizzata come autobomba raggiungono un livello di omogeneità e coerenza che rende assolutamente inaccettabile una idea di possibile manipolazione dei reperti come quella desumibile da alcuni interventi difensivi ed espressamente sostenuta da Scarantino Vincenzo in sede di ritrattazione nel prospettare l’ipotesi che una autovettura fiat 126 fosse stata fatta esplodere in un’altra zona ed i pezzi fossero stati poi portati in via D’Amelio. L’accertata provenienza del blocco motore da un modello FIAT 126 ed il rinvenimento del materiale elettronico sopra indicato consentiva agli esperti di avviare una ricerca mirata e selettiva dei reperti che avessero in qualche modo attinenza con i suddetti elementi, così, lavorando sull’ipotesi che l’esplosivo fosse stato collocato nel vano bagagli anteriore della fiat 126, atteso che nel vano posteriore c’è il motore e una carica di 100 kg. di esplosivo posta all’interno dell’abitacolo sarebbe stata troppo visibile, la ricerca ha portato al rinvenimento di numerosissimi frammenti della suddetta autovettura, sparpagliati in una vasta area, ad una precisa mappatura di detti rinvenimenti e persino, come si dirà, ad una ricostruzione parziale dell’auto su uno scheletrato appositamente predisposto.
Particolarmente significativo, sotto il profilo della cennata omogeneità dei rinvenimenti è il fatto che tutti i reperti consentivano di rilevare che il colore originario della fiat 126 era rosso bordeaux e tale dato trovava pieno riscontro sia nelle dichiarazioni testimoniali acquisite sia negli accertamenti svolti presso la casa costruttrice. Invero la teste Valenti Pietrina nelle dichiarazioni acquisite al presente dibattimento ha riferito di ritocchi alla carrozzeria ma ha escluso di avere mai fatto effettuare lavori di riverniciatura integrale, escludendo altresì che simili lavori potessero essere stati eseguiti nel periodo in cui l’auto era nella disponibilità della propria madre dalla quale l’aveva ereditata (cfr. dichiarazioni rese nelle udienze del 17.11.1994 e 07.07.1995, nel Proc. N. 9/94 Corte di Assise).
Circa le analisi chimiche eseguite per individuare il tipo di esplosivo utilizzato i consulenti hanno riferito diffusamente sui metodi di analisi e sui risultati cui sono pervenuti. In estrema sintesi e rinviando per completezza agli elaborati acquisiti può dirsi che le analisi effettuate su campioni per laboratorio ottenuti sottoponendo a lavaggio con acetone per analisi i vari materiali repertati, presso i laboratori della Direzione Polizia Scientifica di Roma, presso il Forensic Explosives Laboratory ( FEL ) della Defence Research Agency ( DRA) In Fort Halstead-Sevenoaks-Kent, con metodologie specificate dai consulenti in termini che questa Corte ritiene coerenti e fondati sotto il profilo scientifico, hanno evidenziato sui reperti raccolti nel cratere dello scoppio e nelle immediate vicinanze, nonché sui frammenti della Fiat 126 (autobomba), e quindi su tutti i reperti più direttamente investiti dalle particelle prodotte dall’esplosione, quali specie esplosive identificate in termini di certezza nel maggior numero di campioni ed in ordine quantitativamente decrescente il “T4 o RDX”(in percentuali assolutamente preponderanti), la Pentrite (in misura consistente, tale da escludere che si trattasse di residui di miccia detonante alla pentrite), il Tritolo, il dinitrotoluene, la nitroglicerina ed il nitroglicole (EGDN). Argomentando correttamente sui livelli quantitativi delle specie esplosive accertate sui reperti, i consulenti hanno ragionevolmente concluso che la carica esplosiva, contenuta nel vano portabagagli anteriore della Fiat 126, era in larga misura costituita da uno o due tipi di esplosivo contenenti “T4”, denominato con la sigla RDX nei paesi anglosassoni. Dalle complete analisi svolte sulla base dei dati di mercato, ovviamente anche clandestino, dai consulenti è emerso che l’unico esplosivo (a parte qualche prodotto diverso dai “plastici” di non recente produzione giapponese) che contiene sia T4 che Pentrite è il plastico denominato “SEMTEX-H”, esplosivo di produzione cecoslovacca fabbricato dal 1967, in pani del peso di 2, 5 kg., dalla Soc. East Bohemian Chemical Works Synthesia, di Semtin (Pardubice), per impieghi civili in miniere e cave, ed esportato in vari paesi in grosse quantità fino al 1981 e dopo tale anno in quantità ridotte solo nei paesi membri del Patto di Varsavia fino al 1989 anno in cui le esportazioni legali furono sospese. Il sequestro di tale sostanza esplosiva nei confronti di grosse organizzazioni terroristiche e criminali, secondo i dati forniti dai consulenti, è stato frequente negli ultimi quindici anni ed anche in Italia quantitativi di tale plastico furono sequestrati nel 1985 in possesso di organizzazioni mafiose. Sulla base degli accertamenti compiuti dai consulenti una parte minore della carica doveva inoltre essere costituita da Tritolo, in considerazione del fatto che sulla scena dell’esplosione erano evidenti i segni di annerimento tipici del Tritolo sul muretto di recinzione del passaggio ai numeri civici 19 e 21, su detriti del marciapiede vicino al cratere, su alcune parti della Fiat 126. In ordine alle tracce residuali di Dinitrotoluene i consulenti hanno concluso nel senso che le stesse potrebbero anche derivare dall’esplosione dell’aliquota di Tritolo facente parte della carica (per decomposizione del tritolo stesso o perché contenuto come rilevante impurezza in tale esplosivo), pur senza escludere, data la presenza in alcuni reperti di tracce di Nitroglicerina e Nitroglicole, che il Dinitrotoluene possa essere stato prodotto, come la Nitroglicerina ed il Nitroglicole, da una piccola quantità di un esplosivo per usi civili, in cartucce, del tipo gelatinato aggiunto al grosso della carica collocata all’interno del vano bagagli della fiat 126. Concludendo, quindi, i consulenti hanno indicato come ipotesi più probabile che la carica esplosiva fosse costituita prevalentemente da due “plastici”, l’uno a base di T4 e l’altro a base di Pentrite, oppure da solo SEMTEX – H, contenente entrambe le specie esplosive, e che oltre a tale esplosivo possano essere state impiegate anche “saponette” di Tritolo, sfuse o in un contenitore, e qualche cartuccia di esplosivo per usi civili del tipo gelatinato o pulverulento – nitroglicerinato. Per quanto attiene al peso della carica esplosiva i consulenti hanno stimato un valore di circa 90 kg sulla base delle dimensioni del cratere scavato e degli effetti di demolizione che l’esplosione ha determinato sulle strutture murarie in prossimità della carica, tenuto conto anche del fatto che fra la carica e le suddette strutture vi era anche un muretto alto circa 90 cm che presentava striature ad andamento orizzontale. Sulla base di tali considerazioni i consulenti hanno evidenziato che l’impiego del suddetto tipo e della suddetta quantità di esplosivo erano perfettamente compatibili con la supposta collocazione all’interno del vano bagagli della fiat 126, poiché il volume di detto bagagliaio può essere facilmente ampliato togliendo la ruota di scorta alloggiata al suo interno, consentendo di ricavare uno spazio a forma di L che in materia esplosivistica connota le cosiddette cariche cave, che hanno la caratteristica di potere orientare in parte la violenza dell’esplosione, cosa questa che ha trovato conferma sia nei rilievi sui luoghi che hanno evidenziato una azione distruttiva maggiore sul lato della strada del civico 19-21, sia negli esperimenti pratici compiuti a Sassetta su cui hanno diffusamente riferito i consulenti. Al riguardo va osservato che tali esperimenti esplosivistici hanno consentito non solo di verificare l’esattezza delle stime teoriche relative al peso della carica esplosiva, ma anche di riprodurre sperimentalmente la frammentazione subita dall’autovettura e la conseguente proiezione dei pezzi più significativi e di confermare in modo inequivoco che la violenza dell’esplosione ha consentito la conservazione del numero di matricola impresso sul blocco motore. Senza entrare nel dettaglio e rinviando alle relazioni in atti ed alle dichiarazioni rese in udienza dai consulenti va ricordato che a Sassetta sono state eseguite diverse prove da scoppio utilizzando cariche di peso crescente di esplosivo con caratteristiche uguali a quello accertato con le analisi. In particolare nella terza prova, eseguita con parametri vicini ai dati emersi dai calcoli teorici, all’interno del bagagliaio di una FIAT 126, parcheggiata con la parte anteriore verso il marciapiede, sono stati collocati 90 chilogrammi di “C4”che occupavavano quasi per intero il volume bagagliaio privo della ruota di scorta, orbene la relativa esplosione ha prodotto effetti assolutamente simili a quelli riscontrati nella esplosione di via D’Amelio e precisamente la frammentazione della vettura in pezzi di varie dimensioni proiettati in un’area del raggio di circa 160 metri dal punto di scoppio ed un cratere sul fondo stradale nella zona sottostante rispetto all punto di scoppio avente la forma approssimata di una calotta sferica e di dimensioni simili a quelle del cratere trovato in via D’Amelio. Particolarmente significativo appare il fatto che rispettando la forma ad “L” che verosimilmente doveva avere la carica della strage si è riprodotta una mappatura delle proiezioni dei singoli frammenti sorprendentemente analoga a quella verificata in via D’Amelio e soprattutto si è verificato che il motore, con demolizioni sovrapponibili a quelle del motore di reperto tali da consentire ancora la lettura dei numeri di serie, è stato proiettato posteriormente a circa 15 metri, assumendo una posizione simile a quella in cui è stato rinvenuto il motore della fiat 126 utilizzata come autobomba e che i frammenti sul fondo del cratere corrispondono per tipo e frammentazione a quelli rinvenuti sulla superficie del cratere di via D’Amelio. Un’ultima attività sperimentale è consistita nel posizionare su un telaio in tubi di acciaio eguale a quello utilizzato per l’assemblaggio dei reperti originali i pezzi della 126 recuperati ed identificati dopo la prova. Ebbene, il confronto fra il numero, la dimensione e le traiettorie di proiezione dei frammenti della FIAT 126 di prova con quelli originali in reperto ha posto in luce una sorprendente somiglianza, che evidentemente conferma sperimentalmente ed in modo assolutamente inequivoco la correttezza sia delle operazioni di raccolta e di catalogazione dei reperti originali, sia delle considerazioni teorico-scientifiche compiute sulla base dei rilievi eseguiti. Circa il sistema di innesco appare ragionevole sotto il profilo logico, pur in assenza di dati specifici al riguardo, la considerazione dei consulenti secondo cui la carica doveva essere innescata con uno o più detonatori elettrici, del tipo di quelli solitamente in uso nelle cave, attivati attraverso un “circuito di fuoco” alimentato da batterie e chiuso da un rele’ comandato da un ricevitore radio, dato questo che, come si dirà, ha trovato sostanziale conferma nelle successive dichiarazioni rese al riguardo dal collaboratore di giustizia Ferrante Giovan Battista. A prescindere dalle ipotesi, che lasciano ampio spazio alla immaginazione, formulate dai consulenti sulla dinamica dell’attentato, sulle modalità organizzative del commando incaricato dell’esecuzione, sulle capacità di comando del leader di tale gruppo operativo e sul punto di attivazione della carica esplosiva (l’unico dato concreto in proposito è la frase del Biondino, riferita dal Ferrante, circa il pericolo corso da quelli presenti sul luogo da cui era stato azionato il telecomando per il fatto che sarebbe potuto “cadere loro addosso il muro”), appare significativo rilevare che sulla base dei dati tecnici e di esperienza esposti dai consulenti può ritenersi che per la preparazione di un attentato esplosivo simile a quello ricostruito dai consulenti non erano necessarie particolari cognizioni tecniche, essendo sufficiente per compiere tutte le operazioni necessarie (:collocazione dell’antenna sulla FIAT 126, collegamento dell’antenna alla ricevente, sistemazione della ricevente sull’auto, inserimento dell’esplosivo nel vano bagagli, sistemazione dei detonatori, e così via di seguito) la presenza di un comune fuochino di cava e di un soggetto che avesse cognizioni minime di elettrotecnica anche a basso livello, come testualmente indicato dal consulente Vassale in dibattimento, capacità queste che certamente non difettavano ai componenti del gruppo oggi imputato dell’esecuzione materiale della strage sulla base delle dichiarazioni di Scarantino Vincenzo (che in ciò trovano una ennesima generica conferma), ove si consideri che di tale guppo fanno parte soggetti come Pietro Aglieri che, oltre a possedere le doti quasi carismatiche indicate dal consulente Vassale, aveva conoscenze anche rudimentali di elementi di elettronica acquisite frequentando tale Mimmo Flauto, elettrauto nella zona di via Oreto, secondo quanto riferito dal collaborante Marino Mannoia all’udienza del 23.3.1998 (pag. 135), o come “Franco” Urso che ha sicuramente lavorato nel campo dell’elettricità anche se ha cercato di dimostrare di avere svolto solo una attività imprenditoriale senza una conoscenza specifica nel settore, o come Tagliavia Francesco, la cui abilità nel maneggio degli esplosivi è stata direttamente constatata dal collaboratore Drago in occasione di un attentato a fini estorsivi alla Ferrocementi e nella villetta di tale D’Arpa di Bagheria (v.dichiarazioni rese dal Drago all’udienza del 3-6-1997, ff.56-57) ed è stata confermata anche dal collaboratore Cancemi che ha riferito quanto appreso nel luglio 1992 da Raffaele Ganci (v. dichiarazioni all’udienza del 13-10-1997, f.106), soggetti tutti che significativamente vengono indicati nelle prime dichiarazioni da Scarantino Vincenzo come presenti al caricamento dell’autobomba nella carrozzeria di Orofino I consulenti, infine, hanno fugato ogni perplessità circa i rischi che avrebbe potuto causare il trasporto per le vie della città dell’auto già imbottita di esplosivo anche nel caso in cui la carica fosse stata già innescata, precisando che soltanto in caso di un urto violentissimo si sarebbe potuta verificare l’esplosione e non certo nel caso di una buca sull’asfalto o di un urto di modeste dimensioni tale da non deformare in modo sensibile il volume del bagagliaio dove era collocato l’esplosivo. Sono stati oggetto di consulenza anche il sistema ricetrasmittente e le schede rinvenute sul luogo dell’attentato che hanno consentito di individuare esattamente il tipo di telecomando utilizzato per attivare la carica esplosiva. Al riguardo hanno riferito al dibattimento nel processo n. 9/94 Corte di Assise, sia i consulenti del P.M., sia esperti della Polizia Scientifica di Roma (Dott. MASSARI, BOVE, VADALA’ e LIZZOTTI), sia il Dott. Salvatore La Barbera, che ha curato le indagini dirette ad individuare la ditta costruttrice dell’apparato e le ditte che lo hanno commercializzato. Le due schede elettroniche repertate dai C.T.U. in via Mariano D’Amelio (contrassegnate con le sigle Q 32, quella ricevente, e Q33, quella contenente il decodificatore) sono state rinvenute nell’immediatezza dei fatti a circa dieci metri di distanza dal cratere dello scoppio, nei pressi dell’ingresso dello stabile al numero civico 68. Le indagini hanno consentito di individuare la ditta costruttrice dell’apparato, in proposito il dott. Massari, nell’esame reso l’11-4-1995 nel processo n.9/94 R.G. C.A. ha riferito che “Ogni ditta utilizza e assembla i componenti acquistati da varie ditte di cui conosce esattamente la provenienza … Dalle fotografie dei reperti e dalla comparazione con vari sistemi pubblicizzati in depliant, trovammo il logo uguale a quello del reperto …. Comunque il simbolo fu ricondotto come logo alla TELCOMA SYSTEM ….. Riuscimmo a contattare la ditta … l’ingegnere responsabile riconobbe la scheda come proveniente da uno dei suoi apparati riceventi e ci disse il tipo di apparato. Praticamente, in quella occasione ordinammo anche un apparato uguale a quello ed ordinammo sia il sistema ricevente, sia il sistema trasmittente, proprio per fare le successive operazioni di confronto, sia sulla scheda sia sulle altre parti dell’apparato. Sulla nuova scheda era stata modificata una parte, in quanto era stata prodotta e montata fino ad un certo periodo, ma comunque le caratteristiche erano identiche”. Si è accertato così che le due schede, di dimensioni di mm. 110 x 100, erano montate su un apparato ricetrasmittente tipo THU costituito da un sistema Trasmettitore/Ricevitore in banda UHF con banda di trasmissione e ricezione stretta, con portata massima di 20 Km. In caso di utilizzazione dell’antenna originale e con portata minima, anche in presenza di ostacoli tra la trasmittente e la ricevente, di 300 ÷ 500 metri, con qualsiasi condizione atmosferica. Tali apparati, estremamente sofisticati e di prezzo elevato normalmente vengono utilizzati per usi specialistici e per funzioni delicate (attivazione a distanza di pompe, manovra di gru, sistemi di sicurezza molto delicati, ecc.), mentre di solito non sono usati per impianti comuni di antifurto per auto o abitazioni. Il fatto che le schede rinvenute fossero quelle dell’apparecchio utilizzato per comandare a distanza la carica esplosiva e non per altre utilizzazioni risulta in concreto confermato dal fatto che le indagini (v. dichiarazioni del teste Massari) hanno consentito di individuare esattamente le altre componenti elettroniche (apparenenti a telefoni cellulari, radio ricetrasmittenti della polizia, ed altro) rinvenute nella zona teatro dell’esplosione ed hanno consentito di escludere altresì che le schede Telcoma in sequestro potessero provenire da sistemi antifurto di abitazioni o esercizi commerciali della zona nel luogo della strage. Il sistema di radiocomando THU della ditta TELCOMA si compone di un trasmettitore e di un ricevitore. Il trasmettitore è costituito da una scatola in metallo verniciato contenente la scheda codificatrice collegata tramite tre viti passanti in ottone ad una scatola metallica interna in cui è inserita la scheda trasmittente. La ricevente è posta dentro una scatola metallica verniciata simile a quella del trasmettitore e si compone pure di due schede con funzione rispettivamente di ricevente e di decodificatrice. Si tratta quindi, con tutta evidenza di un sistema dotato di grandissima affidabilità e di una elevata sicurezza (dispone di circa 1024 combinazioni diverse), caratteri questi certamente apprezzabili per un uso particolarmente rischioso come quello della attivazione a distanza di una potentissima carica esplosiva. Un sistema che difficilmente è soggetto ad interferenze perchè, come chiarito dal consulente dott. Cabrino “il segnale che viene trasmesso è codificato attraverso una scheda di codifica, cioè viene creato un codice di frequenza in cui il segnale passa e viene ricevuto dalla scheda di decodifica, che è insieme alla ricevente, se questa scheda di decodifica lo riconosce, lo fa passare e allora la ricevente lo riceve e chiude il canale esterno ….. Non ci può essere un altro segnale che abbia la stessa chiave e che entri o segnali che possano disturbare simili apparati se si eccettua un motore di estrema potenza che produca un campo enorme di frequenza ad altissima intensità di emissione e quindi oscuri tutto”. Quanto al tempo di produzione e di commercializzazione è emerso che la scheda ricevente (Q 32) appartiene alla serie 194-00 in produzione dal febbraio 1988, mentre quella di decodifica (Q 33) appartiene alla serie 127- 00, la cui produzione è stata avviata dopo il settembre 1986 ed è durata fino al gennaio 1989. Considerando un periodo medio di sei – otto mesi di giacenza in magazzino e tenendo altresì presente che nella scheda ricevente di reperto è presente un integrato con l’indicazione di fabbricazione 8821(: che significa ventunesima settimana del 1988, cioè fine maggio 1988), appare ragionevole ritenere che l’apparato radiocomando THU Telcoma contenente le schede in sequestro sia stato fabbricato tra la prima metà del 1988 ed il settembre dell’anno successivo, data in cui verosimilmente è cessato l’assemblaggio delle schede di decodifica serie 127- 00. Circa la data di commercializzazione nulla può tuttavia dirsi di più preciso poiché non risulta che l’apparecchiatura prodotta fino alla data suddetta (dopo risulta prodotto un sistema con lievi modifiche) sia stata mai ritirata dal commercio, come confermato dal teste Vadalà (verbale 11.4.1995 proc. 9/94 R.G.C.A., f.69), il quale ha precisato che “potrebbero anche essere presenti a tutt’oggi schede di questo genere o apparati di questo genere che peraltro hanno un certo valore commerciale e sono tuttora in grado di funzionare egregiamente senza alcun problema”. Il dott. Salvatore La Barbera (v. esame in data 10-5-1995 processo n.9/94 R.G.C.A., f.79) ha comunicato di avere accertato comunque che apparati simili a quello utilizzato in via D’Amelio sono stati venduti anche in Sicilia. Le schede non presentano i segni tipici di una esplosione a distanza ravvicinata, nè rivelato residui di sostanze esplodenti che normalmente sono presenti su oggetti esposti a vista alla esplosione senza ostacoli intermedi. Ciò, tuttavia, non esclude l’impiego in concreto dell’apparecchiatura, poiché appare probabile che la stessa fosse collocata all’interno della vettura ma non nelle immediate vicinanze della carica, per cui l’onda esplosiva e la proiezione di residui esplosivi può in concreto essere stata schermata da qualche ostacolo all’interno della autovettura L’entità delle deformazioni subite dalle schede conferma comunque la estrema vicinanza dell’apparato ricevente di cui facevano parte le due schede elettroniche alla esplosione. Particolare attenzione è stata dedicata anche al rinvenimento dello spezzone metallico da cui fuoriusciva un cavo coassiale. E’ emerso immediatamente che non poteva trattarsi dell’antenna originale dell’apparato, che peraltro difficilmente poteva essere utilizzata per l’impiego per la difficoltà di mimetizzarla nell’auto, ma si è verificato che poteva essere utilmente impiegata una qualsiasi antenna, purchè una parte fosse lasciata fuoriuscire verso l’esterno della autovettura. Il rinvenimento del tratto di cavo coassiale, recante una saldatura artigianale, imprigionato nel pezzo di montante della FIAT 126, ha correttamente indotto a ritenere che in tal modo fosse stata realizzata l’antenna dell’apparato ricevente collocato all’interno dell’autovettura e tali acquisizioni si sono rivelate assolutamente preziose allorchè il collaboratore Ferrante, come si vedrà, ha successivamente fornito indicazioni precise circa le prove di funzionamento dell’apparato il collegamento con l’utilizzo di un cavo coassiale ed il collegamento della ricevente alla batteria dell’auto, consentendo di riscontrare oggettivamente dette dichiarazioni, le quali a loro volta confermano la validità delle valutazioni tecniche operate nella prima fase delle indagini. A questo punto va osservato che altri accertamenti tecnici sono stati eseguiti da esperti del F.B.I., pure nominati come consulenti del P.M.. Tali accertamenti, caratterizzati da un approfondimento sicuramente minore rispetto agli accertamenti sin qui illustrati, hanno comunque portato a conclusioni non dissimili da quelle cui sono giunti i consulenti italiani o comunque compatibili con queste ultime. In particolare, come risulta dalle dichiarazioni rese all’udienza del 17-5-1995, nel procedimento n.9/94 R.G.C.A., dagli esperti F.B.I. Jonh Barrett, Robert Heckman e Joseph Genovese, le analisi chimiche eseguite con metodologie in parte diverse sui campioni prelevati hanno portato ad individuare come componenti principali della carica esplosiva di via D’Amelio la sostanza denominata RDX (corrispondente nella terminologia anglosassone al T4), che, unito alla pentrite, dà luogo ad una sostanza esplosiva simile al SEMTEX. Secondo i calcoli teorici compiuti dai consulenti americani il peso della carica esplosiva utilizzata in via D’Amelio non sarebbe stata inferiore a 50 libbre (: 25 kg), peso questo ampiamente inferiore a quello stimato dai consulenti italiani, ma che non ha alcuna refluenza sulla validità delle conclusioni cui sono pervenuti questi ultimi, sia perché frutto di valutazioni ben più approfondite confortate anche da una conferma sperimentale, sia perché gli stessi consulenti americani hanno chiarito che il peso di carica avrebbe potuto essere superiore ai 50 chili, essendo la misura prima indicata quella ritenuta minima per provocare gli effetti riscontrati. Gli stessi consulenti americani hanno poi confermato decisamente alcuni dati emersi dalla corrispondente consulenza italiana e, in particolare: il fatto che il blocco motore dell’auto bomba potesse aver conservato leggibili i numeri di identificazione poiché costituito da materiali molto resistenti (dato questo confermato anche dalla esperienza americana, in quanto i consulenti hanno riferito che in un attentato in cui erano state utilizzate 1500 libbre di esplosivo posto all’interno di un furgone il blocco motore del furgone aveva conservato integri i numeri di riconoscimento); il fatto che in relazione al tipo di danni verificatisi nel luogo dell’attentato ed al tipo di cratere venutosi a creare, la carica non era esplosa a diretto contatto del terreno, ma era stata collocata all’interno del cofano anteriore dell’autovettura; il fatto che l’esposizione della carica, collocata all’interno di un bagagliaio chiuso, possa avere raggiunto una temperatura di 40° non avrebbe comportato rischi di esplosione nel corso del trasporto, essendo invece necessaria per tale effetto il raggiungimento di una temperatura vicina a quella di combustione. A questo punto appare doveroso prendere in considerazione le osservazioni mosse con riferimento agli accertamenti tecnico-esplosivistici sopra indicati dal consulente di parte Ugolini, esaminato nel corso del processo n.9/94 R.G.C.A., il quale si è dichiaratamente impegnato, come è lecito peraltro nel contesto della funzione di difesa in cui è stato impegnato a demolire l’attendibilità di quanto riferito dai consulenti del P.M. ed a dimostrare, per contro, che la carica esplosiva non era sollevata da terra e che i metodi seguiti da questi ultimi non erano scientificamente corretti. Entambi tali obiettivi, tuttavia, non sono stati minimamente conseguiti attraverso la consulenza di parte sopra indicata, poiché i consulenti del P.M. nel corso dell’esame del 30.11.1995 nel processo n.9/94 R.G.C.A., cui non ha assistito il dott. Ugolini, hanno minuziosamente confutato, attraverso riferimenti specifici estremamente convincenti e condivisibili, cui si fa rinvio per completezza, ogni rilievo ed ipotesi che il predetto consulente ha formulato. In particolare, circa le ipotesi formulate dal dott. Ugolini (secondo cui: in via D’Amelio poteva essere stato impiegato un secondo ordigno costituito forse da una bombola di GPL di 5 Kg innescata con carica esplosiva; un esplosivo plastico come il C4 avrebbe annegato come in uno “zabaione” i detonatori liquefacendosi a temperature ben più basse di quelle sviluppatesi in un giorno di estate all’interno di un cofano della fiat 126; un vettura in pessime condizioni come la 126 della Valenti non avrebbe potuto trasportare un carico di 90 chili stivato nel cofano anteriore), i consulenti del P.M. hanno risposto con dovizia di argomentazioni e persino con l’esito di prove sperimentali che hanno dimostrato la totale infondatezza delle suddette ipotesi e l’assoluta erroneità dei presupposti di fatto su cui il consulente ha fondato le sue ipotesi. Alla luce delle suddette considerazioni può ritenersi ampiamente provato, attraverso i rilievi tecnici compiuti e le valutazioni sopra esposte che la strage di via D’Amelio è stata realizzata attraverso l’attivazione a distanza, tramite un telecomando tipo TELCOMA THU di una carica esplosiva costituita da circa 90 chilogrammi di esplosivo, prevalentemente di tipo plastico, possibilmente Semtex-h, collocata nel vano portabagagli anteriore di una autovettura Fiat 126 di colore rosso-bordeaux, targata originariamente PA-790936, appartenete a Valenti Pietrina e su cui era stata artificiosamente applicata la targa, rinvenuta accartocciata a notevole distanza nelle condizioni prima descritte, PA-878659, appartenente alla autovettura fiat 126 colore bianco di proprietà di Sferrazza Anna Maria, targa di cui Orofino Vincenzo ha denunciato il furto nel periodo in cui l’auto era ricoverata all’interno della sua officina sita in via Messina Marine. Tali risultanze appaiono di straordinaria importanza, sia perché hanno consentito di indirizzare utilmente le indagini verso la individuazione di taluni dei soggetti a vario titolo coinvolti nell’organizzazione dell’azione delittuosa, sia, soprattutto, perché hanno portato alla individuazione prima di Candura Salvatore quale autore del furto dell’autovettura usata come autobomba appartenete a Valenti Pietrina e, attraverso le dichiarazioni rese da quest’ultimo, di Scarantino Vincenzo, il cui fondamentale contributo all’ulteriore sviluppo delle indagini dopo la decisione assunta dallo stesso di collaborare con la giustizia, è stato fornito, è bene ricordarlo sempre, quando già molteplici ed univoci elementi di prova lo indicavano quale partecipante all’esecuzione della strage, sia, infine, perché hanno consentito di riscontrare efficacemente, come meglio si dirà più avanti, le dichiarazioni rese da diversi altri collaboratori di giustizia che hanno contribuito positivamente all’accertamento della verità ed alla individuazione di diversi mandanti ed esecutori della strage.
SVILUPPI INVESTIGATIVI DELL’ESITO DEI RILIEVI TECNICI = Appare necessario a questo punto riassumere brevemente, senza alcuna valutazione critica delle prove acquisite, sulla base degli elementi desumibili dagli atti acquisiti e delle indicazioni fornite dal P.M. e dalle altre parti, lo sviluppo delle indagini seguite ai primi rilievi tecnici sul luogo della strage che hanno portato alla celebrazione del primo processo (n.9/94 R.G.C.A.) nei confronti di Orofino Giuseppe, Scotto Pietro, Profeta Salvatore e Scarantino Vincenzo, anche per comprendere meglio la genesi e lo sviluppo del presente giudizio, nato sostanzialmente dall’avvio della collaborazione con la giustizia di Scarantino Vincenzo nel corso del primo processo per la strage di via D’Amelio. Al riguardo va osservato che, come si è detto, l’individuazione dell’autovettura utilizzata come autobomba ha consentito una utile prosecuzione delle indagini dirette ad individuare gli autori della strage. Infatti si è detto che, attraverso il numero del blocco motore, si è risaliti alla fiat 126 targata PA-790936 di proprietà di D’Aguanno Maria ed in uso a Valenti Pietrina, la quale ne aveva denunciato regolarmente il furto in data 10-7-1992. Sulla base di tali fatti, attraverso l’intercettazione dell’utenza telefonica in uso a Valenti Pietrina, gli inquirenti, oltre ad alcuni elementi di sospetto circa un possibile coinvolgimento nel furto dell’autovettura in questione di Candura Salvatore, hanno acquisito consistenti indizi di colpevolezza del suddetto Candura, di Valenti Luciano, fratello di Pietrina, e di Valenti Roberto in ordine ad un episodio delittuoso di violenza carnale e di rapina privo di qualsiasi connessione con i fatti della strage di via D’Amelio. E’ proprio nel contesto delle indagini parallele avviate in relazione a quest’ultimo episodio delittuoso che si registra la prima sensibile svolta nell’accertamento dei fatti per i quali oggi si procede, poiché Candura Salvatore, dopo un breve ma intenso travaglio caratterizzato da una vera e propria ansia di riferire quanto a sua conoscenza e dalla comprensibile paura per le conseguenze possibili, attraverso un percorso contorto che formerà oggetto specifico di approfondimento in sede di valutazione delle dichiarazioni del Candura, inizia a collaborare con la giustizia confessando di essere l’autore del furto della fiat 126 di Valenti Pietrina, di avere commesso il furto su incarico conferitogli da Scarantino Vincenzo in presenza di Tomaselli Salvatore, senza sapere lo scopo cui era destinata, e di avere consegnato la vettura proprio a Scarantino Vincenzo con le modalità che saranno più avanti meglio analizzate. Una ulteriore sensibile svolta nelle indagini è costituita dal rinvenimento in data 22- 7-1992 nell’opera di setacciamento della zona teatro della strage di una targa accartocciata, priva della sigla della provincia e con i numeri 878659, che, come si è detto, era stata sicuramente apposta sulla autovettura usata come autobomba, infatti tale rinvenimento veniva immediatamente ricollegato alla denuncia presentata da Orofino Giuseppe in data 20-7-1992, secondo cui lo stesso giorno, all’apertura dell’officina di cui era titolare insieme ai cognati Agliuzza Francesco Paolo ed Agliuzza Gaspare, aveva constatato la forzatura del lucchetto ed il furto delle targhe e dei documenti della autovettura una fiat 126 di colore bianco di proprietà di Sferrazza Anna Maria, targata PA-878659, temporaneamente ricoverata in officina per riparazioni, per cui si riteneva che la suddetta targa completa fosse stata quella montata sulla 126 carica di esplosivo e che nella esecuzione della strage fosse direttamente coinvolto l’Orofino Giuseppe in considerazione anche di una serie di incongruenze rilevate dagli inquirenti nel contesto dei fatti dallo stesso denunciati, che comunque non costituiscono oggetto specifico di valutazione nel presente giudizio essendosi già proceduto separatamente nei confronti dell’Orofino. Nell’ulteriore corso delle indagini, sulla base degli elementi che saranno approfonditi più avanti per la diretta refluenza che hanno sulla posizione di Scotto Gaetano, imputato nel presente giudizio, si giungeva a ritenere che l’organizzazione della strage con le modalità rilevate fosse stata preceduta nella fase preparatoria da una intercettazione telefonica illegale sull’utenza Fiore-Borsellino in uso alla madre del dott. Borsellino e, in base ad ulteriori approfondite indagini, veniva individuato, come possibile autore della intercettazione e quindi come soggetto direttamente coinvolto nell’esecuzione della strage, Scotto Pietro, fratello dell’odierno imputato Scotto Gaetano. Un ultimo rilevante contributo, intervenuto nella fase delle indagini precedente alla collaborazione di Scarantino Vincenzo ed alla celebrazione del primo processo per la strage di via D’Amelio, è costituito, infine, dalla collaborazione con la giustizia di Andriotta Francesco, il quale ha riferito le confidenze ricevute da Scarantino Vincenzo nel carcere di Busto Arsizio, nel periodo in cui quest’ultimo era detenuto in quanto imputato per la strage di via D’Amelio, rivelando in particolare che l’incarico di rubare l’autovettura poi utilizzata per l’esecuzione della strage era stato dato a Scarantino Vincenzo dal cognato Profeta Salvatore, personaggio di spicco della criminalità mafiosa della zona della Guadagna. Il complesso delle dichiarazioni rese da Andriotta Francesco, comunque, formerà oggetto di approfondita valutazione in una parte successiva della presente sentenza, apparendo quanto sin qui anticipato sufficiente ad illustrare lo sviluppo delle indagini che ha portato alla celebrazione del primo processo per la strage di via D’Amelio nei confronti degli imputati Scotto Pietro, Orofino Giuseppe, Scarantino Vincenzo e Profeta Salvatore, nell’ottica evidentemente di una migliore comprensione dell’origine del presente giudizio, nel quale, va ricordato, sono stati acquisiti e dichiarati utilizzabili gran parte degli atti del processo sopra indicato.