Le dichiarazioni di VINCENZO SCARANTINO al BORSELLINO BIS

DALLA SENTENZA DI PRIMO GRADO DEL BORSELLINO BIS

Le dichiarazioni di SCARANTINO VINCENZO:

Il consenso prestato dalle parti alla acquisizione, dopo il ripetuto esame dibattimentale di Scarantino Vincenzo, delle dichiarazioni dallo stesso rese nel corso delle indagini consente a questa Corte di operare una approfondita analisi della evoluzione di dette dichiarazioni, analisi che appare quanto mai opportuna se si considera l’importanza che la fonte ha in relazione alle imputazioni oggetto del presente giudizio e la estrema variabilità nel tempo di dette dichiarazioni e della posizione processuale assunta da Scarantino Vincenzo, sia nel presente procedimento che nel precedente procedimento che lo ha visto imputato dei medesimi reati in concorso con Profeta Salvatore, Orofino Giuseppe e Scotto Pietro.

Il primo interrogatorio con cui Scarantino da inizio alla sua travagliata e certamente sofferta collaborazione con la giustizia è quello reso dalle ore 21,00 circa del 24.6.1994 fino alle prime ore del giorno successivo, presso la Casa di reclusione di Pianosa, innanzi a rappresentanti della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Caltanissetta, dopo che era pervenuta una richiesta del predetto imputato di conferire urgentemente con l’A.G. di Caltanissetta.

In tale primo interrogatorio, in sintesi, Scarantino Vincenzo, già tratto in arresto per la strage di via D’Amelio a seguito delle risultanze investigative conseguenti alle dichiarazioni rese da Candura Salvatore e raggiunto da ulteriori prove a seguito delle successive dichiarazioni rese dal collaboratore di giustizia Andriotta Francesco, ha ammesso la sua piena responsabilità in ordine ai reati contestatigli, ha confessato la partecipazione all’esecuzione di diversi efferati omicidi (duplice omicidio dei fratelli Lucera, omicidio Bonanno), ha fornito dettagliate indicazioni sulla struttura e sulla composizione della famiglia mafiosa della Guadagna e, soprattutto, ha rivelato numerosi particolari circa la programmazione e l’esecuzione della strage di via D’Amelio, chiamando in correità numerosi soggetti, per lo più appartenenti ai mandamenti mafiosi della Guadagna e di Brancaccio.

In particolare, innanzitutto, Scarantino ha riferito che due anni prima del suo arresto presso la sala ricevimenti di Pasquale Tranchina in via Villagrazia, nel corso di una sorta di cermonia cui avevano partecipato Pietro Aglieri, Carlo Greco, Pino La Mattina, Natale Gambino, suo cognato Profeta Salvatore, Tanino Murana, era stato fatto uomo d’onore “riservato“ della famiglia mafiosa della Guadagna. Appare significativo ricordare che lo Scarantino ha precisato di non avere pronunciato formule particolari, che la riunione aveva avuto carattere essenzialmente conviviale, con scambio di auguri e baci tra tutti i partecipanti, e che il termine usato dallo stesso Scarantino per indicare la sua particolare posizione all’interno dell’organizzazione mafiosa, era proprio quello, estremamente tecnico e corrispondente a quello riferito da numerosi altri collaboratori di giustizia, di “uomo d’onore riservato“, e non già i diversi termini che ha poi ritenuto di precisare in successive fasi processuali.

Lo Scarantino quindi ha parlato di una riunione tenutasi durante la mattina del 24 o del 25 giugno 1992 presso la villa di Giuseppe Calascibetta, durata circa due – tre ore, cui avevano partecipato lo stesso Calascibetta, Pietro Aglieri, Giuseppe La Mattina, Natale Gambino, Cosimo Vernengo, figlio di Pietro Vernengo, Francesco Tagliavia, Salvatore Riina, Salvatore Biondino, Giuseppe Graviano, Carlo Greco, tale Pietro Salemi (persona non direttamente conosciuta, di cui aveva sentito parlare come un “corna dure”, uno che si allena nelle spiagge, corre come un folle), Salvatore Profeta e Lorenzo Tinnirello, questi ultimi due accompagnati in tempi successivi dallo stesso Scarantino, ed altre persone indicate in modo generico come “gente nuova” non vista in modo frequente e che possibilmente avrebbe potuto riconoscere fotograficamente (v. ff.15 e 32 del verbale con omissis prodotto all’udienza del 23- 10-1998).
In particolare ha dichiarato che la persona indicata come Salvatore Riina, da lui non personalmente conosciuta, era giunta nella villa a bordo di una Fiat 126 di colore bianco che aveva trovato posteggiata all’interno della villa, nello spiazzo antistante l’ingresso, e che era accompagnata da una persona che non ricordava esattamente ma pensava trattarsi quasi certamente di Salvatore Biondino, indicato come accompagnatore di Riina dopo un primo titubante riferimento, subito corretto, a tale Ciccio Ganci, conosciuto insieme al Biondino nel rione della Noce in occasione di un incontro con Raffaele Ganci per discutere una questione attinente un bar di via Lancia di Brolo di proprietà del suocero di suo fratello.
Nel corso di tale riunione egli, pur rimanendo fuori dal salone ove si erano riuniti i partecipanti, seduti attorno ad un grande tavolo, aveva avuto modo di cogliere delle frasi estremamente esplicite circa l’oggetto della riunione pronunciate in particolare da Pietro Aglieri e Totò Riina (come: “ a questo cornuto si deve fare saltare in aria, peggio di quel cornuto, il primo che… stava rimanendo pure vivo”, ed ancora : “si ammazza come un cornuto, perché questo fa danno peggio di Falcone a Roma “ , “ questo combina danno, questo Borsellino“). Dopo la conclusione della riunione e l’allontanamento di Totò Riina, rimasti i soli appartenenti alla “ borgata “ della Guadagna, si era discusso, secondo quanto riferito dallo Scarantino, della necessità di trovare una bombola di ossigeno (“così neanche facciamo trovare le bucce, non si deve trovare completamente niente“) e della opportunità che della ricerca si occupassero lo stesso Scarantino ed il Calascibetta, sfruttando l’amicizia comune con Peppuccio Romano, indicato come “il ferraro“ in quanto gestore di una fabbrica-deposito di acido e prodotti tossici che già riforniva l’organizzazione dei fusti di acido utilizzati per sciogliere i cadaveri.
Per svolgere tale incarico Scarantino aveva ricevuto un bigliettino con una sigla complicata che conteneva sicuramente la lettera “ C “ e con l’indicazione, ricevuta verbalmente da Pietro Aglieri e da Profeta Salvatore che si trattava di “una bombola potente, potentissima”. Peppuccio Romano aveva fatto presente che, per fornire la bombola avrebbe dovuto registrare il nome e ricevere il contenitore vuoto, aggiungendo comunque che una di queste bombole poteva essere rubata in un cantiere vicino alla villa di Pietro Aglieri, aperto per la realizzazione di una metropolitana o comunque di una stazione, atteso che in tali cantieri usavano quel prodotto per tagliare i binari. Tali difficoltà nel reperimento della bombola erano state segnalate al Profeta il quale aveva detto allo Scarantino di lasciare perdere, per cui lo Scarantino, come ha riferito nell’interrogatorio, ha dedotto dalla violenza della esplosione avvenuta poi in via D’Amelio, che qualcun altro, probabilmente Natale Gambino, suo fratello Nino, Tanino Murana e Peppuccio Romano, doveva essersi interessato del furto della bombola, evidentemente ritenuta da Scarantino indispensabile per ottenere l’effetto devastante desiderato. Sempre subito dopo la riunione a casa di Calascibetta, ed in presenza di quest’ultimo, Profeta Salvatore aveva dato incarico allo Scarantino di procurare una macchina piccola, di piccola cilindrata. Scarantino ha riferito di avere recepito l’incarico dicendo “va bè, la macchina la vado a fare io, una 126 gli ho detto, porto una 126“ e di avere successivamente comunicato di avere rubato la suddetta autovettura di cui invece in realtà egli era già in possesso in quanto l’aveva precedentemente fatta rubare a tali Candura e Valenti cui aveva corrisposto il compenso di lire 150 mila oltre un certo quantitativo di eroina.

Nel corso di questo primo interrogatorio lo Scarantino ha precisato inoltre che la 126 in questione gli era stata consegnata alla Guadagna di pomeriggio dal Candura e dal Valenti, che egli in quell’occasione era solo e che la macchina la aveva prima posteggiata in una strada imprecisata della “borgata” e poi, la stessa sera, l’aveva portata nei pressi del fiume, accanto al magazzino di Ciccio Tomasello, ove era rimasta per pochi giorni, e che due o tre giorni prima della strage era stata da lui trasferita, insieme a Cosimo Vernengo e Tanino Murana, su incarico di Profeta e Calascibetta, nella via Messina Marine, posteggiata vicino al garage di Giuseppe Orofino, persona di fiducia di Renzino Tinnirello, ove poi l’autovettura era stata introdotta il sabato pomeriggio immediatamente precedente la strage, per essere riparata (l’autovettura aveva il bloccasterzo rotto ed il contatto di avviamento doveva essere realizzato tramite un collegamento di fili, per cui addirittura la autovettura era stata spinta a mano per introdurla nel garage di Orofino), per la sostituzione delle targhe e per essere imbottita di esplosivo.

In particolare lo Scarantino ha precisato che durante le operazioni di caricamento, espletate in un arco di tempo compreso tra le 16,30-17,00 e le 21,30-22,00, egli era stato incaricato di girare in via Messina Marine insieme a Natale Gambino e Tanino Murana, tutti armati ed a bordo di ciclomotori, nelle vicinanze del garage di Orofino, con il compito preciso di coprire le persone che si occupavano del caricamento dell’esplosivo in caso di intervento di forze di polizia.
Nel corso di tale attività di perlustrazione e copertura aveva avuto modo di notare che all’interno dell’officina erano entrati, oltre all’Orofino che aveva aperto, anche Natale Gambino e Renzino Tinnirello, che avevano spinto all’interno la 126, Pietro Aglieri, Ciccio Tagliavia, Franco Urso ( indicato come “ elettricista” e genero di Pietro Vernengo) e Cosimo Vernengo, il quale era entrato a bordo di una jeep, verosimilmente contenente l’esplosivo, all’interno dell’officina.
Lo Scarantino ha escluso, comunque, che in tale fase abbia potuto partecipare il cognato Profeta Salvatore in quanto lo stesso era sottoposto alla “sorveglianza” per cui ove si fosse finito tardi e lo stesso non fosse stato trovato poteva sfumare l’organizzazione della strage. Sempre secondo il racconto di Scarantino l’autobomba così preparata era stata poi trasferita la stessa mattina di domenica 19 luglio 1992, verso le ore 6,00- 6,30 condotta da una persona che viene indicata prima in termini probabilistici in Renzino Tinnirello e poi in Pietro Aglieri, e scortata da diversi uomini d’onore ed in particolare dallo stesso Scarantino a bordo della sua Renault 19, da Pino La Mattina con la 127 bianca, da Natale Gambino con la sua 126, e da Tanino Murana con la 127 azzurra, fino a piazza Leoni, luogo in cui si erano fermati ad attendere Pietro Aglieri, Renzino Tinnirello e Ciccio Tagliavia, indicati sulla base di indicazioni dategli da Natale Gambino, pure come presunti soggetti che avevano schiacciato il telecomando nascosti in un appartamento vicino nella disponibilità di Pietro Aglieri, i quali, con gesti, avevano fatto segno che non era più necessario scortare la 126 carica di esplosivo, che, secondo quanto intuito dallo Scarantino, non era stata portata subito nella vicina via D’Amelio ma doveva essere stata provvisoriamente sistemata all’interno di un garage o di un box di cui certamente l’organizzazione aveva la disponibilità.

Dopo tale attività lo Scarantino ha riferito di essersi recato verso le ore 7,30 a sovraintendere dei lavori edili in una sua palazzina, di essersi recato poi al bar dove aveva incontrato Profeta Salvatore, di essere ritornato al cantiere di lavoro assistendo ad una rissa verificatasi in chiesa tra le 10,00 e le 11,00, di avere chiamato con il suo telefonino una ragazza (tale Raffaella, nipote di Franco Morana) verso le ore 13,30, di avere udito intorno alle 17,30 la notizia che avevano ucciso Borsellino, di essersi recato a casa di Salvatore Profeta mentre il telegiornale dava le prime notizie della strage ed infine di essersi recato insieme a tale Carmela Prester, anche lei precedentemente chiamata con lo stesso telefonino, in un albergo alla “Vetrana“ ove la donna aveva dato come nominativo quello della figlia, Mariella Lucera. Sempre nel corso del primo interrogatorio reso, lo Scarantino ha riferito che il sabato mattina precedente la strage mentre era all’interno del bar Badalamenti alla Guadagna in compagnia di Natale Gambino e Cosimo Vernengo era entrata una persona da lui vista altre volte (testualmente indicata con le parole, non trascritte nel verbale ma chiaramente percepite dalla Corte nel riascolto in camera di consiglio della fono[1]registrazione dell’interrogatorio, “cristianu“ e “picciottu”), chiamata “Tanuzzo“ ed intima amica di Cosimo Vernengo la quale disse testualmente “ per la rapina dice mio fratello tutto a posto, tutto a posto quel discorso“, cercando inizialmente di chiamare in disparte i nominati Cosimo Vernengo e Natale Gambino e pronunciando, dopo essere stato rassicurato sul fatto che lo Scarantino era “la stessa persona“ ed invitato a “parlare tranquillamente“, la frase “mio fratello il lavoro lo ha fatto bello sistemato” ed ancora: “mio fratello…per il fatto dell’intercettazione tutto a posto… tutto a posto…”.

Lo Scarantino ha riferito che per discrezione egli si era allontanato e che successivamente Natale Gambino senza che lui glielo chiedesse aveva detto “stavolta lo fottiamo, c’è cascato con l’intercettazione del telefono, stavolta ce lo inculiamo“. Su esplicita sollecitazione dei pubblici ministeri con riferimento a notizie eventualmente apprese circa i telecomandi usati per l’esecuzione della strage lo Scarantino ha, infine, riferito che Pietro Aglieri, prima di darsi alla latitanza, gli aveva presentato tale Sbeglia Salvatore, da lui conosciuto perché veniva con una Audi 80 presso il negozio del gesso di suo cognato, per l’acquisto di una cameretta nel negozio di mobili che detta persona aveva in una traversa nei pressi del Motel Agip di Palermo, precisando che si trattava della stessa persona recentemente arrestata per la strage di Capaci e che aveva riconosciuto nelle foto pubblicate sul giornale mentre era detenuto a Termini Imerese. Dopo appena cinque giorni dal primo interrogatorio Scarantino è stato risentito dai medesimi P.M. di Caltanissetta ed ha apportato poche integrazioni e variazioni alle prime dichiarazioni già esaminate. In particolare con riferimento alla riunione ha indicato come data un giorno imprecisato tra la fine di giugno ed i primi di luglio del 1992, periodo nel quale egli faceva da scorta in modo continuativo al cognato Profeta Salvatore che temeva di essere ucciso da Giovannello Greco, ha confermato la presenza delle persone già indicate, ed ha aggiunto tra i partecipanti Nino Gambino, ha precisato che in occasione della riunione assieme a lui erano rimasti fuori La Mattina, Nino e Natale Gambino e Cosimo Vernengo ed ha precisato che la presenza e l’identità di Salvatore Riina gli erano state indicate da La Mattina.

Con riferimento alla bombola di ossigeno che doveva essere reperita per l’esecuzione dell’attentato, ha ricordato che nella sigla erano indicate forse delle lettere “K” ed ha riferito il particolare che Peppuccio Romano, dopo avere sentito la richiesta, aveva detto che era difficile trovare la sostanza e si era espresso con la frase “stà bombola fa distruggere una montagna“. Con riferimento invece al reperimento della 126 ha confermato che ne era già in possesso al momento dell’incarico di trovarla ed ha precisato che per circa sette giorni l’ha lasciata accanto al magazzino di Ciccio Tomasello. In ordine infine alla fase del caricamento ha ricordato la presenza presso il garage di Orofino di Giuseppe Graviano.

Nel contesto di tale interrogatorio lo Scarantino ha operato una serie di riconoscimenti dando prova di una apprezzabile conoscenza delle persone indicate (tra queste Tinnirello Renzino, Peppuccio Barranca, Orofino Giuseppe, Valenti Luciano, Pietro Aglieri, Carlo Greco, Gregoli Salvatore, Peppuccio Contorno, Angelo Profeta, Pietro Vernengo, Franco Urso, Candura Salvatore, Cosimo Vernengo, Giovanni Pullarà, Salvatore Biondino, Salvatore Profeta, Ciccio Tagliavia, Ninuzzo Gambino, Pinuzzo Gambino, Natale Gambino, Tanino Murana, Romano Giuseppe ed altri), quasi tutte immediatamente riconosciute ad eccezione della foto di Calascibetta Giuseppe (foto n. 28) , ritratto comunque in modo insolito con baffi e con una pettinatura diversa da quella abituale, ed indicando come Graviano Giuseppe la foto di Graviano Benedetto. Particolarmente significativo, in tale contesto appare il preciso riconoscimento di Gaetano e Pietro Scotto ( foto 2 e 3 ) operato in termini di certezza e senza esitazioni nonostante la evidente somiglianza dei due fratelli e con la precisazione che aveva già visto le due persone circa una settimana prima dell’incontro con Gaetano Scotto sempre al bar Badalamenti allorchè i due erano sopraggiunti a bordo di una autovettura Peugeot mentre parlavano con Cosimo Vernengo. Altrettanto significativo specie in relazione alle successive modifiche alle iniziali dichiarazioni appare il mancato riconoscimento di Ganci Raffaele (foto n. 20).

Oltre ai suddetti riconoscimenti fotografici di persona lo Scarantino sempre in fotografia ha riconosciuto in modo netto e sicuro sia la villa di Calascibetta indicata come luogo della riunione, sia la carrozzeria di Orofino Giuseppe in via Messina Marine utilizzata per la preparazione dell’autobomba. Va infine precisato che lo Scarantino in occasione di questo secondo interrogatorio ha riconosciuto in foto Sbeglia Salvatore ed ha precisato di avere parlato di lui e della vicinanza a Pietro Aglieri in quanto aveva letto nei giornali di un ruolo che lo Sbeglia aveva avuto nella fornitura dei telecomandi usati per la strage di Capaci, ribadendo comunque di non sapere chi avesse procurato i telecomandi usati in via D’Amelio.

Ulteriormente sentito in data 15 luglio 1994, presso la casa di reclusione di Pianosa, lo Scarantino, oltre a fornire una prima motivazione del suo pentimento esponendo la volontà di ricostruirsi una vita insieme alla moglie ed ai figli, ha sentito la necessità di avvertire di essere molto emozionato e teso per avere appreso che l’autorità giudiziaria aveva disposto la sua custodia in strutture extra carcerarie e dovendo il giorno successivo incontrarsi dopo tempo con la moglie con la speranza che la stessa potesse comprendere e condividere le ragioni della sua scelta.

Nel contesto di tale interrogatorio lo Scarantino ha apportato solo poche correzioni alle dichiarazioni precedentemente rese, precisando che le persone che avevano partecipato alla riunione di cui non ricordava il nome erano circa tre o quattro, che non si trattava di persone del quartiere della Guadagna, che erano persone mai viste prima e non più incontrate in epoca successiva alla strage, che non si trattava di persone giovani e che non era in grado di descriverle avendole viste sedute intorno al tavolo e per poco tempo, anche se avrebbe potuto riconoscerle in fotografia e che il nome di queste persone gli era stato detto da Giuseppe La Mattina e Natale Gambino. Con riferimento al Pietro Salemi indicato già nelle prime dichiarazioni ha ribadito di non essere certo del cognome, indicatogli sempre dal la Mattina, e di ricordare soltanto che lo stesso era un tipo molto robusto, con i capelli all’indietro ed all’apparente età di circa 48 anni. Per quanto attiene alla bombola che avrebbe dovuto reperire dopo la riunione ha precisato di ricordare che la sigla identificativa conteneva una “C” una “L” ed una “K” ribadendo che l’Aglieri gli aveva scritto su un bigliettino la sigla della bombola. In relazione alla autovettura introdotta all’interno della carrozzeria di Orofino da Cosimo Vernengo, ha precisato inoltre che si trattava di una jeep di marca Suzuki. Infine con riguardo alla consegna della fiat 126 ha precisato di avere ricordato che in occasione della consegna da parte del Candura egli si trovava insieme a Totò Tomasello, suo socio nel traffico di sostanze stupefacenti. Al termine dell’interrogatorio in oggetto lo Scarantino ha operato ulteriori riconoscimenti fotografici e in particolare ha riconosciuto nella foto n. 5 l’immagine di Calascibetta Giuseppe, in sembianze certamente più simili a quelle che lo stesso Calascibetta ha ancora oggi, come la Corte ha potuto direttamente costatare. Ancora una volta (foto 7, 13) lo Scarantino è incorso in grosse incertezze nel riconoscimento dei Graviano ed ha sottolineato in particolare che gli stessi si somigliano un pò tutti, cosa questa che è apparsa evidente anche alla Corte anche dall’analisi delle foto, e che in particolare la foto n. 13 (Graviano Giuseppe) da lui non riconosciuta, era una fotocopia non chiara che ritraeva un soggetto che a giudizio dello Scarantino appariva di circa 50 anni, età questa ampiamente superiore a quella di Graviano Giuseppe.

Appare significativo rilevare che negli interrogatori fin qui esaminati, resi tutti da Scarantino in stato di detenzione carceraria, le variazioni e le correzioni apportate dallo stesso appaiono di modesta entità, e giustificabili con una progressiva precisazione dei ricordi, peraltro abbastanza nitidi e ricchi di dettagli e particolari. Gli stessi riconoscimenti fotografici operati appaiono in linea con le dichiarazioni rese, con le indicazioni soggettive operate e persino i mancati riconoscimenti di persone indicate, peraltro in numero piuttosto circoscritto (vedi Calascibetta nel corso del 2° interrogatorio e Graviano Giuseppe), appaiono giustificati da elementari e comprensibili ragioni quali la scarsa somiglianza della prima foto del Calascibetta mostrata allo Scarantino e la somiglianza dei fratelli Graviano incontrati solo poche volte in precedenza dallo Scarantino.

Tutti gli ulteriori interrogatori resi dallo Scarantino, successivi all’incontro con i familiari ed alla uscita dal circuito carcerario, pur essendo caratterizzati da una sostanziale costanza della struttura fondamentale della ricostruzione dei fatti, ad eccezione ovviamente dell’ultima fase di ritrattazione totale delle dichiarazioni accusatorie rese, risultano negativamente segnate da una estrema mutevolezza delle indicazioni fornite dallo Scarantino che, come si vedrà meglio più avanti, finiscono via via per perdere totalmente quella originaria intrinseca logicità, coerenza e verosimiglianza che caratterizzava le iniziali dichiarazioni.

In particolare già nell’interrogatorio del 28 luglio 1994, reso in locali della Polizia di Stato, ed alla presenza di agenti del servizio centrale operativo e del gruppo investigativo Falcone e Borsellino, continua a non riconoscere in fotografia Ganci Raffaele ed esclude la partecipazione di Graviano Giuseppe alla preparazione dell’autobomba, precisando di essersi sicuramente confuso al riguardo in occasione del secondo interrogsatorio.

E’ comunque con il successivo interrogatorio reso il 12 agosto 1994, che segue di appena un giorno un interrogatorio in cui Scarantino ribadisce precedenti dichiarazioni confermando sostanzialmente le dichiarazioni nel frattempo rese da Andriotta Francesco, che inizia una progressiva ed inarrestabile opera di “aggiustamento“, correzione e profonda modifica delle originarie dichiarazioni. Invero in detto interrogatorio Scarantino Vincenzo, certamente edotto del contenuto delle dichiarazioni di Andriotta, come si evince dal verbale precedente, conferma che la Fiat 126 gli era stata consegnata in realtà non alla Guadagna bensì in una traversa di via Roma nei pressi di un locale dove opera una prostituta.

Con il successivo interrogatorio del 6.9.1994 avviene la svolta clamorosa nelle dichiarazioni dello Scarantino, il quale, riempiendo il vuoto lasciato con l’indicazione di alcuni partecipanti alla riunione di cui asseritamente non ricordava il nome, indica con assoluta certezza quali partecipanti a detta riunione i collaboratori di giustizia Di Matteo Mario Santo, Cancemi Salvatore e, anche se in termini non del tutto certi, Gioacchino La Barbera nonché il noto Raffaele Ganci, esponente di spicco della organizzazione mafiosa cosa nostra, ed un fantomatico “ zu Di Maggio“, ignoto alle cronache giudiziarie e descritto come una persona anziana e di circa 60 anni, robusto di corporatura, molto stempiato e con i residui capelli brizzolati tendenti al bianco e piuttosto mossi.
Con riferimento al Di Matteo Mario Santo conferma di avere in realtà parlato anche ad Andriotta di un tale “Matteo“ o “Di Mattia“, presente anche al caricamento dell’autobomba e precisa che il Di Matteo veniva chiamato con l’appellativo “Santineddu”, che aveva gli occhi chiari e capelli ricci di colore scuro, lo stesso, al termine della famosa riunione, uscendo, lo aveva salutato con una confidenziale pacca sulle spalle e che sempre il Di Matteo era uno specialista in bombe. In ordine al Cancemi lo Scarantino ha precisato di averlo incontrato diverse volte, asserendo che il Cancemi all’epoca della riunione portava dei baffetti. Con riferimento al La Barbera ha precisato di averlo visto più volte alla Guadagna, che lo stesso conosceva l’Aglieri e che veniva chiamato “Gioacchino” sia dall’Aglieri che da Carlo Greco.

Lo Scarantino ha giustificato questa sua evidente reticenza asserendo che non aveva fatto il nome dei tre collaboratori di giustizia sopra indicati per paura di non essere creduto dato che gli stessi, evidentemente, pur avendo confessato le loro responsabilità in ordine alla esecuzione della strage di Capaci non avevano parlato dell’esecuzione della strage di via D’Amelio, mentre ha asserito di non avere in precedenza indicato il Ganci per paura delle ritorsioni di quest’ultimo da più parti indicatogli come persona temibile e sanguinaria, precisando di non avere temuto la vendetta di altre persone apparentemente altrettanto temibili come Aglieri, Greco, Graviano e Riina per il fatto di potere contare sulla protezione derivantegli dall’appartenenza al nucleo familiare di un uomo d’onore potente e vicino alle persone sopra indicate come suo cognato Profeta Salvatore. Anche l’esito dei riconoscimenti fotografici proposti allo Scarantino nel contesto del suddetto interrogatorio appare a dir poco inquietante poiché, fra l’altro lo Scarantino indica il La Barbera quando gli viene mostrata la foto di Di Matteo, non riconosce Di Matteo Mario Santo in una ulteriore foto e non riconosce in foto neppure Brusca Giovanni, circostanza questa che alla luce di quanto lo Scarantino dirà nei successivi interrogatori appare estremamente sospetta, mentre riconosce (finalmente, dopo ben tre riconoscimenti negativi) la foto di Raffaele Ganci, asserendo di avere sbagliato i riconoscimenti precedenti di proposito per la paura che provava nei confronti del Ganci, ma non fornendo alcuna spiegazione circa il mancato riconoscimento, nel corso dei precedenti interrogatori, della foto di Ciccio Ganci che a suo dire gli aveva presentato Raffaele Ganci.

Il successivo interrogatorio reso pochissimi giorni dopo e precisamente il 12 settembre 1994 rappresenta un trionfo di illogicità, infatti lo Scarantino, dopo aver precisato che aveva sentito chiamare il La Barbera anche con il nome di “Iachino“, ne da una descrizione assolutamente generica che non contiene l’unico significativo ed insolito carattere somatico del La Barbera costituito dagli occhi azzurri, spiegando che non aveva mai avuto occasione di notarli perché essendo molto timido non era uso guardare in faccia le persone, incorrendo così nell’evidente contraddizione di avere descritto come di colore chiaro gli occhi del Di Matteo Mario Santo. Ma il massimo dell’assurdo è raggiunto dallo Scarantino nei fogli 6 e 7 dello stesso interrogatorio quando cerca di spiegare i precedenti contrasti circa la consegna da parte del Candura della 126 poi utilizzata come autobomba.
Le suddette dichiarazioni costituiscono un rompicapo inestricabile, poiché in pochissime righe Scarantino riesce a contraddirsi ripetutamente perdendosi in un discorso totalmente illogico ed irrazionale, che rende del tutto inattendibili le sue dichiarazioni sul punto. Il carattere estremamente inquietante delle ultime dichiarazioni rese dallo Scarantino risulta testimoniato anche dal susseguirsi a partire da questo momento, di un elevatissimo numero di interrogatori cui lo Scarantino viene via via sottoposto da parte dei rappresentanti della Procura della Repubblica di Caltanissetta verosimilmente e comprensibilmente allarmati dalla forza dirompente delle ultime dichiarazioni dello Scarantino, in grado di minare la coerenza, la logicità e la credibilità astratta delle dettagliate dichiarazioni inizialmente rese. Tali ripetute compulsazioni ulteriori della suddetta fonte non riescono tuttavia a fugare i motivi di allarme suscitati dalle ultime dichiarazioni. Ed invero, se nell’interrogatorio del 5 ottobre 1994 lo Scarantino, nel confermare le accuse nei confronti di Ganci Raffaele, asserisce di potersi essere sbagliato nell’indicare i collaboratori Cancemi, Di Matteo e La Barbera, persino per avere sentito parlare soltanto dal La Mattina soltanto di tali “Santineddu “ e “ Iachino “ e per avere visto soltanto di profilo le persone partecipanti alla riunione e da lui non immediatamente indicate, riportando l’impressione che si trattasse proprio dei nominati collaboratori di giustizia allorchè gli vennero mostrate le fotografie, precisando di averne parlato con Andriotta solo come esponenti di cosa nostra e non come partecipi alla riunione. Nei successivi interrogatori, in occasione dei confronti sostenuti con i suddetti collaboratori di giustizia e persino nell’esame dibattimentale reso innanzi a questa Corte d’Assise è tornato ad accusare i suddetti collaboratori di giustizia, senza tuttavia superare le manifeste incongruenze sopra evidenziate con riferimento alle suddette chiamate in correità.

Nei successivi interrogatori dal 21 ottobre 1994, del 18 novembre 1994 , del 19 novembre 1994, del 21 novembre 1994, Scarantino Vincenzo accenna alle pressioni ricevute dal suo precedente difensore avv. Petronio dopo l’arresto di Profeta Salvatore, e dell’intento, da lui comunicato al suddetto difensore, di fare il “falso pentito“ dopo avere accennato alla possibilità che durante la comune detenzione presso il carcere di Busto Arsizio l’Andriotta avesse capito qualche cosa circa i fatti relativi alla strage di via D’Amelio. Lo Scarantino si dilunga successivamente in una accurata ricostruzione della sua lunga carriera criminale e si preoccupa di arricchire di particolari l’episodio della sua affiliazione citando per esempio il richiamo alle regole di cosa nostra ed ai doveri che incombono sugli uomini d’onore che Pietro Aglieri gli avrebbe esposto subito dopo la sua affiliazione come uomo d’onore. Appare significativo altresì ricordare, per potere cogliere appieno lo stato psicologico in cui lo Scarantino rende questo gruppo di interrogatori, che nel corpo dell’interrogatorio del 18 novembre 1994 lo stesso testualmente premette: “voglio precisare di essere finalmente e pienamente sereno anche in considerazione del fatto che lo Stato ha mantenuto le sue promesse garantedomi incolumità e la sicurezza mia e di quei familiari che hanno accettato di sottoporsi alle misure di sicurezza approntate a seguito dell’inizio della mia collaborazione “.
Tale precisazione spiega non solo la linearità delle dichiarazioni rese ma soprattutto lo sforzo di Scarantino diretto a superare tutte le incongruenze, le imprecisioni, le contraddizioni in cui era incorso nelle precedenti dichiarazioni, giungendo persino ad avvalersi delle dichiarazioni rese nel frattempo ed in tempi successivi dall’Andriotta, fino ad affermare nell’interrogatorio del 22.11.1994 non solo di avere effettivamente parlato con Andriotta dei fatti relativi alla strage durante il periodo di comune detenzione nel carcere di Busto Arsizio, ma addirittura a precisare con sicurezza che tutto ciò che riferiva ad Andriotta corrispondeva alla verità dichiarata dopo essere divenuto collaboratore di giustizia.

Nell’interrogatorio reso il 21 novembre 1994 lo Scarantino ritornando sull’episodio dell’incontro con “Tanuzzo” Scotto presso il bar Badalamenti aggiunge un particolare stranamente dimenticato prima e cioè che la macchina con cui ha raggiunto “Tanuzzo” era guidata proprio dal fratello Pietro Scotto che lui ben conosceva.

Parlando della fase del caricamento dell’autobomba indica nuovamente tra i partecipanti Graviano Giuseppe in una inspiegabile altalena di chiamate in correità. Ancora con riferimento al trasferimento dell’autobomba introduce inspiegabili modifiche nella composizione del “corteo“ che scortò fino ai Leoni la 126 carica di esplosivo. Nell’interrogatorio del 22 novembre 1994 conferma le più recenti indicazioni fornite da Andriotta successivamente alla sua decisione di collaborare con la giustizia precisando le modalità dei contatti avuti con Andriotta e delle occasioni di colloquio avute con lo stesso durante la comune detenzione nel carcere di Busto Arsizio nell’estate del 1993.

In occasione del successivo interrogatorio del 25 novembre 1994, dopo avere introdotto generiche ipotesi circa un possibile canale utilizzato per reperire l’esplosivo, facendo riferimento in modo assolutamente fumoso ai collegamenti che Gasparino Tinnirello avrebbe intrattenuto con il Libano per attività di contrabbando, Scarantino introduce ulteriori inquietanti modifiche delle originarie dichiarazioni, spostando ancora in avanti la data della riunione nella ville di Calascibetta fino al 6-7 luglio 1992, dicendo che solo il giorno dopo aveva dato incarico al Candura di rubare l’auto, che dopo la consegna della stessa la 126 era rimasta per circa 7 giorni nel magazzino vicino il fiume Oreto e, infine, dopo aver descritto dettagliatamente il salone della villa del Calascibetta ed avere descritto minuziosamente l’esatta collocazione attorno al tavolo di tutti i partecipanti, aggiunge un ulteriore importantissimo partecipante di cui non aveva mai parlato prima: Giovanni Brusca, in relazione al quale ripete la collaudata giustificazione già fornita in precedenza circa la mancata indicazione nelle dichiarazioni iniziali di Ganci Raffaele.

Nell’interrogatorio reso l’1 dicembre 1994 vengono contestate allo Scarantino le diverse dichiarazioni rese dai collaboratori di giustizia Di Matteo, La Barbera e Cancemi, senza che per la verità si raggiunga alcun apprezzabile progresso nell’intento evidente di una affannosa ricerca della verità. Lo Scarantino inoltre nello stesso interrogatorio ha riferito di alcuni episodi giudiziari di corruzione di cui era venuto a conoscenza.

Neppure i successivi verbali di confronto in data 13 gennaio 1995 tra lo Scarantino ed i nominati Cancemi, La Barbera e Di Matteo riescono a fugare completamente, in un senso o in un altro, i dubbi e le perplessità suscitate dalla chiamata in correità dei predetti collaboratori di giustizia poiché se è vero che da detti confronti, originariamente non depositati nel presente procedimento, bensì nel parallelo procedimento ter per la strage di via D’Amelio, emerge una posizione di sostanziale debolezza dello Scarantino di fronte alle precise repliche e contestazioni mosse dai nominati collaboratori di giustizia in relazione alle conoscenze da parte dello Scarantino delle regole e dei fatti di cosa nostra nonché in relazione a specifiche circostanze richiamate dallo Scarantino, come ad esempio gli incontri e le occasioni di conoscenza avuti con i suddetti collaboratori di giustizia, i loro tratti somatici, ed i rapporti avuti con altri personaggi dell’organizzazione mafiosa, è pur vero che non poteva escludersi neppure dopo la esecuzione dei suddetti confronti la eventualità che il La Barbera, il Di Matteo ed il Cancemi, pur avendo ammesso la loro responsabilità in ordine a fatti delittuosi altrettanto gravi (strage di Capaci) potessero avere qualche ragione per negare la partecipazione alla successiva strage di via D’Amelio, ipotesi questa peraltro che col passare del tempo è apparsa via via meno assurda allorchè il Di Matteo ha rallentato la sua collaborazione dopo il sequestro del figlio, allorchè sono emersi i coinvolgimenti dello stesso e del La Barbera nei fatti delittuosi ascritti al Di Maggio Baldassare dopo che lo stesso era divenuto collaboratore di giustizia e soprattutto allorchè, in base alle dichiarazioni di nuovi collaboratori di giustizia, il Cancemi aveva dovuto ammettere la sua diretta partecipazione all’esecuzione della strage di via D’Amelio, ancora negata all’epoca dei confronti, sia pure con un ruolo ben diverso da quello attribuitogli dallo Scarantino.

In tutti gli ulteriori interrogatori resi nel corso delle indagini che hanno preceduto l’inizio del presente dibattimento e precisamente

negli interrogatori del 24.2.1995, dell’11.5.1995, del 22.5.1995, del 26.7.1995, del 16.10.1995, del 6.12.1995 e del 29.5.1996, lo Scarantino non apporta più alcuna sostanziale e significativa variazione alle dichiarazioni fin qui esaminate, limitandosi a semplici precisazioni di dettagli su alcune specifiche circostanze indicate nelle proprie precedenti dichiarazioni. L’analisi di questo ulteriore gruppo di dichiarazioni appare tuttavia utile per comprendere le situazioni psicologiche attraversate dallo Scarantino nella fase che ha preceduto l’avvio di questo dibattimento ed al riguardo non può farsi a meno di ricordare che

nell’interrogatorio del 26.7.1995 lo Scarantino spiega le ragioni per le quali ha eseguito una telefonata alla madre, sapendo che la stessa sarebbe stata registrata per comunicarle la volontà di ritrattare le sue dichiarazioni, che nel successivo

interrogatorio del 16.10.1995 espone le gravi pressioni ricevute dalla moglie Basile Rosalia per indurlo a ritrattare, e, infine, che nell’interrogatorio del 29.5.1996 accenna alla grave situazione in cui si è trovato a seguito del ritorno della moglie a Palermo con i bambini, della sua istanza di affidamento di questi ultimi, avanzata al Tribunale dei minorenni di Palermo, della rottura di ogni rapporto anche telefonico con lui da parte della moglie, e di una finta ritrattazione da lui registrata. Invero le indicazioni provenienti da questi ultimi tre interrogatori, poste in correlazione con altri fatti e comportamenti attuati dallo Scarantino e di cui è traccia negli atti del presente procedimento, consentono di cogliere la gravità delle pressioni cui lo Scarantino è stato sottoposto da parte dell’intero nucleo familiare a seguito della sua decisione di collaborare con la giustizia rendendo dichiarazioni circa la preparazione e l’esecuzione della strage di via D’Amelio.
Nel corso del presente dibattimento lo Scarantino è stato sentito nel pieno contraddittorio delle parti alle udienze del 7 e dell’8 marzo 1997 e del 12, 13, 14 e 15 maggio 1997. Tali ulteriori verbali di esame rappresentano sostanzialmente il prodotto delle stratificazioni di tutte le precedenti dichiarazioni rese nel corso delle indagini ed appare evidente lo sforzo dello Scarantino per superare le originarie incongruenze, imprecisioni e contraddizioni di un racconto che, comunque, è doveroso sottolinearlo, non è mai mutato nella sua struttura iniziale, perché lo Scarantino pur nella notevole variabilità delle dichiarazioni riguardanti i singoli soggetti chiamati in correità, ha sempre confermato la sua partecipazione ad una riunione preparatoria a casa di Calascibetta, ha confermato l’incarico di reperimento di un’auto di piccola cilindrata, ha confermato il riempimento della 126 nella carrozzeria di Orofino, lo spostamento di questa verso piazza Leoni, la visita al bar Baldalamenti nella mattina di sabato di Gaetano Scotto. In particolare lo Scarantino ha dichiarato che una mattina aveva accompagnato il cognato Salvatore Profeta presso la villa di Giuseppe Calascibetta e successivamente, su incarico del Profeta, era tornato indietro, aveva prelevato Renzino Tinnirello e lo aveva portato sempre alla villa di Calascibetta . Quando era entrato nella villa, chiusa da un cancello verde che si apriva con telecomando, aveva notato che all’interno dello spiazzo era posteggiata una 126 bianca ed aveva successivamente saputo che si trattava dell’auto con la quale era arrivato Totò Riina.

Nella villa aveva notato la presenza di diverse persone: all’esterno erano rimasti lo stesso Scarantino, Natale Gambino, Nino Gambino, Cosimo Vernengo, Tanino Murana, Giuseppe La Mattina e Peppuccio Calascibetta, il quale entrava ed usciva dal salone sito a pianoterra dove si trovavano gli altri, mentre all’interno lo Scarantino aveva visto, seduti intorno al tavolo posto al centro del salone, Totò Riina, Salvatore Biondino, Pietro Aglieri, Carlo Greco, Salvatore Cancemi, Salvatore Profeta, Renzino Tinnirello, Francesco Tagliavia, Giuseppe Graviano, Di Matteo, Brusca, La Barbera, Raffaele Ganci ed un tale Salemi o Salerno. Lo Scarantino era entrato alcune volte all’interno del salone per prendere dell’acqua ed aveva avuto modo di sentire alcune parole pronunciate da Riina quali “a stù curnutu s’ha a fare saltare ‘nda l’aria ….”, e da Raffaele Ganci quali “Ca se si ammazza a chistu succede un bordello “. La riunione si era svolta nella mattinata di un giorno compreso tra il 5 e l’8 luglio del 1992 ed aveva avuto una durata di circa due ore, due ore e mezza.

Lo Scarantino, a giustificazione del fatto di non avere parlato della partecipazione alla riunione dei collaboratori di giustizia Di Matteo, La Barbera e Cancemi nonché di Brusca Giovanni e Raffaele Ganci nei primi verbali di interrogatorio, adduceva le ragioni già espresse e sopra riportate e cioè il timore di non essere creduto per i primi e la paura di ritorsioni nei confronti dei suoi familiari per i secondi.

Proseguendo nel suo racconto lo Scarantino ha dichiarato che quando la riunione era già terminata l’Aglieri ed il Profeta lo avevano incaricato del reperimento di una bombola d’ossigeno, consegnandogli un bigliettino contenente la sigla della bombola indicata con le lettere “AGK” o qualcosa del genere, quindi si era recato presso il negozio di Giuseppe Romano il quale gli aveva accennato alla potenza esplosiva della bomba, gli aveva detto che per averla bisognava consegnare il vuoto e fatturarla e gli aveva indicato il cantiere per la costruzione di una stazione della metropolitana, sito in prossimità della villa di Aglieri, dove avrebbe potuto rubare bombole simili, usate per tagliare i binari. Aveva successivamente informato Profeta della cosa e questo gli aveva detto di lasciare perdere. Contestualmente all’incarico di reperimento della bombola il Profeta gli aveva dato l’ulteriore incarico di reperire una automobile di piccola cilindrata, e lo Scarantino ha precisato di avere detto che già aveva nella sua disponibilità una 126 rubata parcata dietro via Giovanni Travaglio, ma di non averla più ritrovata e di essersi deciso a procurarne un’altra ( pag. 206 ).

Tale versione appare chiaramente come un tentativo di fare convergere le prime contraddittorie versioni circa il possesso della 126 rubata precedente all’incarico conferitogli dal Profeta. Si era quindi recato alla Guadagna dove aveva incontrato Salvatore Tomaselli suo socio nel traffico di stupefacenti ed in altre attività criminose, e successivamente Salvatore Candura cui aveva detto di reperire una 126. Dopo due- tre giorni Candura gli aveva comunicato di avere rubato la macchina richiesta e lo Scarantino, assicuratosi con Candura che la macchina fosse stata rubata nella zona centrale di Palermo, gli aveva dato appuntamento per la consegna presso via Roma, nelle vicinanze di un locale dove lavorava una prostituta, dove verso le 22,30-23,00 si era recato per prelevare l’auto in compagnia del Tomaselli ed a bordo di una vespa, la vettura così recuperata veniva lasciata di fronte al magazzino di Tomaselli, sito sotto il ponte del fiume Oreto e da sempre utilizzato dallo Scarantino e dal Tomaselli per nascondere armi, refurtiva e stupefacenti, e dell’avvenuto reperimento veniva avvertito il Profeta. Anche in questo caso Scarantino ha cercato di spiegare i motivi per cui nei primi verbali non ha parlato della consegna della macchina in via Roma, dichiarando invece essergli stata consegnata direttamente da Candura alla Guadagna, dichiarando di non avere parlato subito della consegna in via Roma perchè l’avv. Petronio gli avrebbe riferito che Candura sosteneva che la consegna era avvenuta alla Guadagna e quindi per uniformare le sua dichiarazioni a quelle del Candura. La macchina era rimasta, sempre secondo Scarantino, davanti il magazzino di Tomaselli circa due-tre giorni e comunque fino al venerdì precedente alla strage, giorno in cui lo Scarantino insieme a Cosimo Vernengo e Tanino Murana aveva portato la vettura, dopo averla accesa grazie al contatto dei fili, in via Messina Marine, posteggiandola a circa 50 metri di distanza dalla carrozzeria di Orofino. Scarantino ha dichiarato, conformemente alle prime versioni, che il giorno prima della strage, il sabato alle ore 10,30 circa della mattinata mentre si trovava al bar Badalamenti in compagnia di Cosimo Vernengo e Natale Gambino erano sopraggiunti con una 127 Scotto Gaetano e Scotto Pietro, il primo era sceso dall’auto, era entrato nel bar ed aveva parlato con Natale Gambino dicendogli che “…era tutto a posto …”, successivamente Natale Gambino rivolgendosi a Scarantino gli accennava all’intercettazione telefonica e gli dava appuntamento per il pomeriggio. Deve a proposito sottolinearsi che tra gli argomenti del controesame e delle relative contestazioni (pagg. 58 e segg. del verbale del 13.5.1997), vi è stato l’appellativo di “ragazzo“ dato dallo Scarantino allo Scotto Gaetano nel verbale di interrogatorio del 24.6.1994, tuttavia non può farsi a meno di rilevare quanto già evidenziato a proposito di quel verbale di interrogatorio e cioè che lo Scarantino per definire lo Scotto usa i termini “cristianu“ e “picciottu”, chiaramente percepibili dall’ascolto della registrazione ma nella trascrizione del verbale non tradotto il primo e tradotto come “ragazzo” il secondo. Lo Scarantino ha poi descritto le fasi del sabato sera prima della strage, dichiarando che si era portato alla Guadagna verso le 16,00 a bordo di un motorino e con una pistola ed insieme a Tanino Murana e Natale Gambino si era diretto verso via Messina Marina presso l’officina di Orofino, qui avevano trovato lo stesso Orofino in compagnia di Tinnirello, il quale insieme a Natale Gambino aveva spinto la 126, ancora parcata nei pressi, all’interno dell’officina. Mentre Scarantino, Tanino Murana e Natale Gambino si occupavano di pattugliare via Messina Marine, erano sopraggiunti all’interno dell’officina Salvatore Profeta, Pietro Aglieri, Franco Urso, Santino Di Matteo, Francesco Tagliavia, Graviano Giuseppe, la Mattina Giuseppe e Cosimo Vernengo il quale era entrato dentro a bordo della sua jeep Suzuki. Da Natale Gambino Scarantino aveva appreso che in quell’occasione era avvenuto il caricamento della macchina con l’esplosivo e che doveva tenersi pronto per l’indomani mattina. La domenica mattina verso le 5,30, secondo quanto ha dichiarato Scarantino in dibattimento, dopo essersi incontrato alla Guadagna con Tanino Murana e Natale Gambino ognuno con la sua macchina si erano diretti verso la carrozzeria di Orofino dove avevano trovato Tinnirello con la 126 imbottita di esplosivo. Avevano formato una specie di corteo con in testa Natale Gambino, in mezzo la 126 condotta da Tinnirello, subito dietro la vettura di Tanino Murana e quella di Scarantino, tutti dopo avere attraversato una serie di vie cittadine minutamente elencate dallo Scarantino, si erano portati in Piazza Leoni dove presso una gelateria avevano trovato ad aspettarli Pietro Aglieri e Francesco Tagliavia, i quali gesticolando avevano fatto capire agli altri di andare via, cosa che Scarantino, Murana e Gambino avevano prontamente fatto. Scarantino ha quindi parlato in modo dettagliato e con dovizia di particolari dei suoi movimenti nella giornata di domenica, fornendo informazioni che appaiono solo marginalmente utili alla ricostruzione delle fasi della preparazione della strage, tuttavia ha dichiarato che successivamente alla strage aveva appreso da Natale Gambino che il telecomando era stato schiacciato da “tre chi i corna come l’acciaiu“ e che avendo visto a piazza Leoni, alla consegna dell’autobomba Aglieri, Tagliavia e Tinnirello aveva dedotto che i tre con le “corna d’acciaio” fossero loro. Nel corso degli esami dibattimentali Scarantino ha spesso riferito di pressioni finalizzate a farlo ritrattare provenienti dalla famiglia o da altri ambienti : “a me mi hanno distrutto psicologicamente che io… come io ero molto attaccato alla mia famiglia, e dicendomi che la mia mamma cadeva a terra quando andava in bagno o non si alzava più dal letto, era tipo in coma mia madre …” ( pag. 106 del verbale dell’8.3.1997 ), ed ancora : “Se io ho detto qualche cosa sopra il dottore La Barbera non voglio fare uscire il cervello di fuori a qualcuno; perché se dico chi è stato, chi mi ha fatto dire delle cose sopra il dottore La Barbera…“. Tuttavia il riferimento a tali pressioni, che è quasi sempre di carattere psicologico-affettivo, acquista un particolare significato in un brano del verbale del 12.5.1997 dove lo Scarantino ha effettuato un preciso riferimento ad elementi certi e concreti di natura anche patrimoniale. Infatti lo Scarantino, in sede di controesame (pagg. 101 e segg. del verbale del 12.5.1997) ha parlato di una serie di beni immobili di sua proprietà ma intestati a diversi prestanome, indicando partitamente gli immobili ed i relativi intestatari. Ha precisato però di non potere fare più affidamento sulla disponibilità di detti beni in quanto delle persone non meglio indicate gli hanno fatto sapere che per riaverli avrebbe dovuto ritrattare tutto.

Nonostante le ulteriori compulsazioni lo Scarantino non ha detto chi gli avrebbe fatto sapere quanto sopra, ma ha precisato di avere avuto questi “messaggi “ circa un anno e mezzo prima, in periodo ancora precedente a quello della ritrattazione telefonica fonoregistrata , inoltre interrogato sulla sorte di questi beni ha risposto di avere appreso, sempre dalle stesse fonti che “ i soldi sono tutti conservati “. Il ritrovamento di atti processuali con appunti a margine scritti con stile e contenuti sicuramente non riconducibili allo Scarantino rende credibile ciò che già aveva detto la di lui moglie Basile Rosalia nel corso del primo dibattimento per la strage di via D’Amelio e cioè che si era apprestata una attività di studio ed il marito veniva istruito in merito alle dichiarazioni da rendere, cosa questa che ha reso superfluo l’esame dei presunti compilatori degli appunti e degli “assistenti“ allo studio di Scarantino.

Ciò, evidentemente, non consente di imputare l’appianamento di molte contraddizioni ad un migliore ricordo, ma piuttosto alla suddetta attività di studio finalizzata all’aggiustamento di contraddizioni ed incongruenze, per cui non può farsi pieno affidamento sulla attendibilità complessiva delle dichiarazioni dibattimentali di Scarantino. A questa fase è seguito un radicale mutamento dell’atteggiamento processuale di Scarantino Vincenzo, preceduto da anomalie e segnali evidenti di “irrequietezza”, che proiettano una luce sinistra sulla scelta dallo stesso seguita di ritrattare tutte le precedenti dichiarazioni e che fanno apparire detta scelta come l’epilogo annunciato di un copione scritto da altri, più che il frutto di una libera scelta di coscienza comunque apprezzabile, anche se tardiva, nell’ottica di un processo finalizzato alla ricerca della verità reale. Al riguardo va osservato che già la sola denuncia da parte dell’Andriotta nell’ultimo esame dibattimentale di un circostanziato tentativo di indurlo a ritrattare le accuse attraverso minacce e promesse di illeciti compensi, nominando come suoi difensori gli avvocati Scozzola e Petronio, già impegnati nella difesa di diversi imputati del processo per la strage di via D’Amelio, costituisce il segnale estremamente inquietante dell’agitarsi di interessi diretti a condizionare l’esito del processo e si colloca nel contesto di una serie innumerevole di pressioni esercitate direttamente nei confronti di vari soggetti del processo e, in particolare di Scarantino Vincenzo attraverso componenti del suo nucleo familiare, sfruttando il suo particolare attaccamento alla madre, alla moglie ed ai figli (v. dichiarazioni sopra indicate rese dallo stesso Scarantino Vincenzo e confermate anche dalle conversazioni telefoniche registrate nelle cassette depositate dall’avv. Petronio), rivolte ad “aggiustare” un processo originato proprio dalle dichiarazioni rese da Scarantino Vincenzo e dalle sue confidenze al compagno di detenzione Andriotta Francesco.

Le dichiarazioni rese dall’Andriotta su detto tentativo di condizionamento, estremamente dettagliate e riscontrate nelle circostanze di tempo e luogo indicate, non possono ritenersi inattendibili solo per l’imprecisato sospetto che possano essere state riferite solo per ottenere benefici, peraltro difficilmente ipotizzabili in relazione alla attuale posizione processuale del soggetto, ulteriori rispetto a quelli già in atto goduti dall’Andriotta e ciò soprattutto poiché emerge dalle dichiarazioni rese dallo stesso Andriotta e dai riferimenti dallo stesso forniti che tale decisione è stata sicuramente sofferta e rallentata dal comprensibile timore del collaborante di non essere creduto.

Il contenuto di dette dichiarazioni non consente, in mancanza di specifici ed ulteriori elementi di riscontro, di risalire con certezza all’origine dei fatti riferiti e di ritenere provato un chiaro ed univoco intento di inquinamento probatorio, anche perché non può non rilevarsi l’equivocità di una indicazione di nomina di due difensori già impegnati in difesa di imputati del procedimento in questione, che non si comprende esattamente quale ruolo avrebbero dovuto svolgere in considerazione della posizione processuale dell’Andriotta, tuttavia consente di cogliere, come si è detto, il segnale evidente di una agitazione, frenetica e forse anche scomposta, da parte di soggetti, non agevolmente identificabili, ma sicuramente interessati ad influire indebitamente e ad ogni costo sull’esito di un gravissimo procedimento per strage nell’imminenza della decisione del presente giudizio e del giudizio di appello a seguito all’impugnazione della sentenza del primo procedimento per gli stessi fatti.

In tale contesto la lettera, allegata al verbale di una delle udienze rinviate per l’astensione dei difensori degli imputati ed indicata tra gli atti utilizzabili ai fini del giudizio, con la quale Scarantino Vincenzo ha comunicato che non voleva più continuare a collaborare con la giustizia e che voleva tornare in carcere, appare come un ulteriore segnale del clima di irrequietezza in cui si è svolto, specie nelle fasi conclusive, il presente giudizio e potrebbe persino apparire in base alle acquisizioni probatorie relative alle fasi che hanno immediatamente preceduto la ritrattazione dello Scarantino come un segnale di tale intento, segnale che difficilmente poteva essere inizialmente compreso in quanto la collaborazione di Scarantino è stata purtroppo contrassegnata da diverse interruzioni, spesso dovute all’intento di ottenere benefici ulteriori o di risolvere situazioni di tensione nell’ambito familiare, anche perchè la volontà esternata di fare rientro in carcere non solo era in linea con la definitività della condanna riportata dalla Scarantino con la sentenza della Corte di Assise di Caltanissetta nel procedimento n.9/94 R.G.C.A., ben nota allo Scarantino e frutto di una scelta processuale poi rinnegata in sede di ritrattazione, ma non era neppure nuova, avendo lo stesso Scarantino reso in precedenza nel presente giudizio dichiarazioni da cui risulta che lo stesso aveva inscenato plateali proteste presentandosi in carcere per essere arrestato quando ancora collaborava con la giustizia, dichiarazioni queste rese in momento non sospetto e mai modificate e la cui attendibilità ha fatto ritenere superfluo l’esame richiesto da taluni difensori degli operatori penitenziari che avrebbero assistito a tali esibizioni dello Scarantino, anche in considerazione del limitato interesse della vicenda in relazione al tema di prova del presente giudizio. Ben più significativi ed univocamente sintomatici del clima di tensione volutamente creato attorno al processo appaiono, invece, altri episodi verificatisi successivamente, nel corso della assunzione delle prove dedotte dalla difesa. Infatti va ricordato che all’udienza del 24-7-1998 Scarantino Rosario, non solo ha ribadito di avere ricevuto anche nel corso di recenti incontri ammissioni da parte del fratello Vincenzo circa la asserita falsità delle dichiarazioni rese sulla strage di via D’Amelio, ma si è addirittura fatto latore di una precisa richiesta da parte del fratello Vincenzo di essere ulteriormente esaminato in giudizio; nell’udienza fissata per l’audizione di Basile Rosalia, Moglie di Scarantino Vincenzo, poi, si è dovuta registrare una reazione certamente spropositata da parte di quest’ultima, in quanto la stessa ha cercato di sottrarsi all’esame richiesto dalla difesa degli imputati, reazione che ha imposto la necessità, invero insolita per un soggetto ancora sottoposto a programma di protezione, di disporre l’accompagnamento coattivo dopo l’accertamento della insussistenza dei dedotti impedimenti fisici, accompagnamento evitato solo a seguito della decisione, non chiarita nei motivi e difficilmente spiegabile come puro atto di cortesia cavalleresca, da parte della difesa di rinunciare all’esame su cui fino a poco prima aveva insistito. Cogliendo tutti questi segnali di irrequietezza ed inquietudine processuale, certamente negativi per un sereno accertamento della verità, la Corte ha ritenuto di disporre, a seguito delle richieste di prova avanzate dalle parti ai sensi dell’art.507 c.p.p., il confronto tra Scarantino Rosario ed il fratello Vincenzo, in relazione al contrasto emerso circa le dichiarazioni processuali rese da quest’ultimo in veste di collaboratore di giustizia e le private ammissioni di falsità asseritamente ricevute dal fratello Rosario, nel pieno convincimento che il pubblico dibattimento sia l’unica sede in cui devono trovare soluzione tutte le questioni ed i fatti che refluiscono, direttamente o indirettamente, lecitamente o illecitamente, sulla prova dei fatti per i quali si procede. Nel contesto di detto confronto svoltosi all’udienza del 15-9-1998 presso l’aula della Corte di Assise di Como, invero, Scarantino Vincenzo, dopo avere platealmente rinunciato a qualsiasi protezione della sua immagine, come a volere esprimere fisicamente il totale distacco dal ruolo di collaboratore di giustizia svolto fino a quel momento, ha totalmente ritrattato tutte le precedenti dichiarazioni sulla strage di via D’Amelio, affermando in sintesi di non sapere nulla della strage, di avere accusato persone innocenti, di avere inventato tutti i fatti riferiti elaborando notizie giornalistiche e cronache processuali diffuse tramite varie fonti, tra cui principalmente Radio Radicale.

Nell’esame seguito nel corso della stessa udienza, dopo la chiusura di un confronto ormai divenuto superfluo, Scarantino Vincenzo ha dichiarato di essere stato strumento di una macchinazione ordita per incolpare persone innocenti da magistrati inquirenti e organi di polizia, che gli avevano offerto la possibilità di sottrarsi ad un regime penitenziario che da tempo non sopportava, sfruttando, quindi, indebitamente un suo stato di debolezza psicologica che lo aveva indotto a chiedere di collaborare per riferire quanto a sua conoscenza sui traffici di droga cui aveva partecipato.

Appare estremamente utile, nell’ottica della necessaria valutazione dell’attendibilità della fonte, riportare testualmente quanto riferito da Scarantino Vincenzo con riferimento alle pressioni esercitate nei suoi confronti per indurlo ad accusare ingiustamente persone innocenti, in quanto lo stesso non si è limitato a fornire una versione diversa dei fatti minuziosamente narrati ed ampiamente riscontrati, come si dirà appresso, nella loro oggettività, ma ha addirittura dichiarato di avere inventato ogni cosa asserendo per giustificare siffatto atteggiamento processuale di avere subito pressioni da parte di polizia e magistrati inquirenti nel contesto di una sorta di complotto istituzionale in cui erano coinvolti i Pubblici Ministeri dell’epoca ed il dott. La Barbera della Questura di Palermo, diretto a costruire le accuse contro gli odierni imputati e ad impedire che Scaranrino Vincenzo le ritrattasse dopo avergliele fatte rendere. Altrettanto significativo, anche ai fini della successiva introspezione dell’attendibilità astratta dello Scarantino, appare il fatto che lo stesso abbia asseritamente dichiarato a chi lo interrogava le prime volte che non sapeva nulla della strage per la quale si procede e che era disposto a fornire informazioni su traffici di droga che avrebbero consentito agli inquirenti di “arrestare mezzo Palermo”.

AVV. MAMMANA: –  Signor Scarantino lei ha reso varie dichiarazioni ai Pubblici Ministeri anche in pubblici dibattimenti in ordine alla strage Borsellino. Desidero sapere se ha detto sempre la verita’

IMP. SCARANTINO V.: – Tutte bugie, tutto, ho inventato tutto io assieme alla polizia e i giornali, inventai tutto, tutto. L’unica cosa di vero che c’e’ la droga, che io lavoravo con la droga, mi ho inventato tutto

AVV. MAMMANA: – Io desidero un pochettino soffermarmi, che lei si soffermi, cioe’, sui tempi e sui modi attraverso i quali e’ maturata in lei la decisione di collaborare falsamente, diciamo, per quello che lei ha detto, come perche’ e con chi ha parlato

IMP. SCARANTINO V.: – Io con chiunque parlavo, con tutti i Pubblici Ministeri, perche’ e’ quattro anni che io voglio dire la verita’, solo che non mi e’ stato mai permesso, ha quattro anni. Io giurai su Dio a Caltanissetta, Presidente dottor Di Natale, ho giurato su Dio, quando ho fatto il confronto con mia moglie e che Dio mi perdoni perche’ ho giurato falsamente. Tutti i giuramenti che ho fatto precedentemente tutta verita’, che io ho giurato al dottor Di Matteo a parola d’onore, all’onore della mia famiglia che io me ne devo andare in carcere perche’ sono innocente. Questi diciotto anni che mi ha fatto fare la Falzone, che mi ha fatto cadere definitivo, non c’e’ stato il mio consenso. Mi ha detto la Falzone, dice, di diciotto anni, dice, e’ diciotto anni che il Presidente sentendo dire che…. definitivo da un altro aspetto

AVV. MAMMANA: – Comunque non mi interessava la parte successiva, questa poi, lei potrà aggiungere quello che ritiene opportuno. Io desidero sapere, lei stava parlando di incontri investigativi quando abbiamo interrotto il confronto, desidererei che lei specificasse quanti colloqui investigativi ha avuto e che cosa è maturato, se è maturato qualcosa, nelle sue decisioni

IMP. SCARANTINO V.: – E` maturata la mia disperazione, il mio stato d’animo, io stavo impazzendo, io stavo impazzendo. Io avevo detto al dottor La Barbera: “Io collaborerò “, però solamente per droga, perché io per droga riesco a fare questo e quest’altro a tre quarti di Palermo, però tutto il resto, riguardo cosa di mafia io non ne sò niente. (v. verbale 15-9-98 ff. 133 e segg.)

Invero nel corso dell’esame svoltosi nelle udienze del 13 e del 14 ottobre 1998 Scarantino Vincenzo ha palesemente tradito quest’ultima dichiarazione di intenti, poiché si è limitato a riproporre le dichiarazioni precedentemente rese e ad accusare di piccoli traffici di stupefacenti persone decedute, preoccupandosi semplicemente di ridimensionare il suo ruolo all’interno della criminalità operante nel quartiere della Guadagna attraverso una sorta di patetica autoironia su alcuni episodi precedentemente riferiti, quali quello della sua iniziazione presso la sala Boomerang e quello del confronto con i collaboratori di giustizia che aveva accusato di avere partecipato alla riunione preparatoria presso la villa di Calascibetta, nell’intento evidente di dare di sè una immagine di piccolo delinquente di borgata, ben lontana dalla figura di personaggio emergente nell’ambito della famiglia mafiosa della Guadagna derivante dai suoi legami di parentela con un esponente di primo piano come Salvatore Profeta, marito della sorella, da rapporti di particolare confidenza avuti con i vertici della suddetta organizzazione mafiosa come Pietro Aglieri, Carlo Greco, Peppuccio Calascibetta ed, infine, dall’ampiezza dei traffici illeciti gestiti e dalla abilità dimostrata nel portare a termine le più efferate azioni delittuose come lo strangolamento di persone sciolte nell’acido proprio nella villa di Calascibetta o la orrenda sgozzatura dei fratelli Lucera all’interno di un casolare dopo una riunione conviviale. Dopo avere analiticamente esposto l’evoluzione, cronologicamente ordinata, delle dichiarazioni rese da Scarantino Vincenzo in relazione all’esecuzione della strage di via D’Amelio appare doveroso procedere ad una attenta valutazione critica della attendibilità intrinseca delle suddette dichiarazioni, alla luce dei principi elaborati dalla giurisprudenza in materia di valutazione delle prove richiamati in precedenza. In tale ottica appare opportuno sotto il profilo logico-sistematico procedere a ritroso, muovendo proprio dalle ultime dichiarazioni rese dallo Scarantino, in quanto in linea teorica appare evidente che un eventuale giudizio positivo di attendibilità di dette dichiarazioni, con cui la fonte ha sostanzialmente ritrattato ogni precedente accusa, renderebbe pressocchè superflua ogni ulteriore indagine, non consentendo di ritenere attendibili le precedenti propalazioni accusatorie. In concreto, tuttavia, va osservato che, a giudizio di questa Corte, le dichiarazioni con cui Scarantino Vincenzo ha ritrattato le accuse mosse nei confronti degli odierni imputati sono palesemente ed inequivocabilmente prive di ogni attendibilità, perché manifestamente illogiche, perché contrastanti con numerose acquisizioni probatorie autonome e perché frutto di una concertata attività di inquinamento probatorio in cui sono stati coinvolti numerosi soggetti e che è stata ampiamente provata dalla pubblica accusa nel corso del dibattimento. Sotto il primo profilo va, infatti, osservato che l’assunto sostenuto da Scarantino Vincenzo, secondo cui le sue originarie dichiarazioni erano frutto di una fantasiosa elaborazione di notizie giornalistiche o di suggerimenti ricevuti da organi inquirenti, appare prima facie inverosimile per una serie di considerazioni logiche:

le dichiarazioni rese sin dalla fase iniziale della collaborazione sono diverse e molto più dettagliate rispetto alle notizie che all’epoca erano state diffuse dai mezzi di informazione, che fino alla collaborazione di Scarantino non potevano avere diffuso alcuna informazione sulla riunione preparatoria della strage, sulle modalità di caricamento dell’autobomba, sul collocamento della stessa sul luogo dell’attentato e sul ruolo operativo svolto in ciascuna fase dagli odierni imputati;


Scarantino, come ha ripetutamente ammesso e come è emerso nel presente dibattimento, non aveva e non ha tutt’ora la capacità e l’abitudine di leggere attentamente i giornali, anche per le sue limitate capacità culturali ( lo stesso Scarantino in tono autoironico ha dichiarato di avere conseguito la terza elementare per anzianità ed Andriotta ha confermato che lo stesso aveva forti difficoltà persino a leggere i giornali ed altri scritti);


sicuramente Scarantino non aveva potuto conseguire un valido acculturamento mafioso, tale da consentirgli di simulare in modo credibile la sua appartenenza a Cosa nostra semplicemente ascoltando le trasmissioni di Radio Radicale, che peraltro all’epoca si limitava a trasmettere le registrazioni di dibattimenti riguardanti anche fatti di criminalità ascritti ad organizzazioni diverse e lontane territorialmente da “cosa nostra” siciliana;


certamente nessuno degli inquirenti avrebbe potuto suggerire a Scarantino dettagli che all’epoca erano assolutamente ignoti, come l’esistenza della villa di Calascibetta ove lo stesso si rifugiava da latitante. Addirittura ridicole appaiono, poi, le dichiarazioni di Scarantino sull’attività di depistaggio ed inquinamento probatorio, che sarebbe stata svolta con la partecipazione anche del dott. Arnaldo La Barbera, all’epoca capo della squadra mobile della Questura di Palermo, concretatasi fra l’altro, secondo l’ultima versione dei fatti fornita dal collaboratore, nell’avere fatto esplodere presso una discarica una Fiat 126 e nell’avere poi trasferito i pezzi sul luogo della strage allo scopo di fare incolpare gli odierni imputati e quelli del primo procedimento per gli stessi fatti. Invero, anche prescindendo da facili considerazioni circa la manifesta irragionevolezza di una azione così congegnata, appare evidente come l’assoluta coerenza dei dati emersi nel corso degli accertamenti e dei rilievi tecnici compiuti nell’immediatezza dei fatti rende materialmente impossibile lo svolgimento dei fatti prospettati dallo Scarantino, apparendo peraltro assolutamente assurdo che qualcuno, mentre erano in corso i rilievi tecnici protrattisi per diversi giorni dopo la strage con la costante presenza di ingenti forze di polizia appartenenti a diversi corpi, possa avere portato sui luoghi i pezzi di un’altra autovettura fatta esplodere altrove, realizzando una dispersione dei vari frammenti di meccanica e carrozzeria compatibile con le prove di scoppio eseguite in via sperimentale dai consulenti tecnici, evitando che fossero trovati residui meccanici dell’autobomba effettivamente esplosa in via D’Amelio e curando addirittura dettagli raffinatissimi come ad esempio quello di conficcare nel cratere stondato creato dall’esplosione i frammenti delle balestre di una Fiat 126 trovati dai consulenti tecnici.

Altrettanto incoerenti e prive di senso logico appaiono le accuse mosse nei confronti dei magistrati del Pubblico Ministero, apparendo assolutamente inconsistenti gli asseriti motivi di rancore che avrebbero spinto Scarantino Vincenzo ad accusare persone innocenti e, soprattutto, le ragioni che potrebbero avere animato il complotto istituzionale prospettato fantasiosamente da Scarantino.

Attraverso l’esame di tutte le dichiarazioni rese nel corso delle indagini dal predetto collaboratore di giustizia risulta, ad esempio, che Tagliavia Francesco non è stato accusato progressivamente dallo Scarantino, per il fatto che lo stesso avrebbe appreso di pesanti offese rivoltegli dal Tagliavia, ma è stato invece accusato sin dal primo interrogatorio della partecipazione a tutte le fasi preparative della strage di cui ha parlato Scarantino Vincenzo, il quale ha indicato la presenza del Tagliavia sin dall’inizio alla riunione a casa di Calascibetta, al caricamento dell’autobomba ed al trasporto della stessa sul luogo dell’attentato.

Del tutto evidente appare, poi, il contrasto delle ultime dichiarazioni di Scarantino Vincenzo con numerose autonome acquisizioni probatorie. Basti pensare alla stridente contrapposizione tra la globale ritrattazione dello Scarantino, che ha negato in toto le precedenti dichiarazioni senza salvarne alcuna, e le precise dichiarazioni oggettivamente riscontrate rese da Candura circa il furto della Fiat 126 utilizzata come autobomba; tra la minuziosa descrizione della villa di Calascibetta da parte dello Scarantino (spinta fino al punto di descrivere la posizione originaria di un frigorifero che da indagini espletate è risultato effettivamente spostato da qualcuno) e l’occasionalità della frequentazione di detta abitazione prospettata in sede di ritrattazione da Scarantino, che vi si sarebbe recato solo per consegnare al Calascibetta delle sigarette di contrabbando e per ricevere in dono un cucciolo; tra il ruolo di piccolo delinquente di borgata che da ultimo Scarantino ha cercato di ritagliare per sè e l’immagine ben diversa che emerge dalle dichiarazioni di altri collaboratori come Augello, il quale ha riferito del prestigio che godevano i fratelli Scarantino nel territorio della famiglia mafiosa della Guadagna (anche per il rapporto di parentela che li legava ad un personaggio di spicco come Profeta Salvatore), della consistenza dei traffici illeciti cui gli stessi erano dediti, precisando in particolare che proprio Vincenzo aveva un rapporto di particolare confidenza personale con un personaggio di primo piano come Pietro Aglieri; ed ancora tra l’estraneità per ultimo asserita ai numerosi fatti delittuosi prima confessati oltre alla partecipazione alla strage per cui si procede ed i dettagli, spesso raccapriccianti, forniti al riguardo nelle prime dichiarazioni, certamente frutto di una conoscenza diretta dei fatti riferiti.

Le suddette considerazioni inducono a ritenere che la decisione di Scarantino Vincenzo di ritrattare le precedenti dichiarazioni, accusando di oscuri ed incomprensibili complotti gli organi inquirenti, sia stata una scelta necessitata, imposta dalla minuziosità e concordanza delle prime dichiarazioni, che difficilmente potevano essere smentite solo in parte e tantomeno da un soggetto, sicuramente furbo, ma dotato di scarse capacità intellettive come Scarantino Vincenzo. Ciò che conferma, comunque, l’assoluta mendacità della ritrattazione di Scarantino Vincenzo è l’acquisizione nel presente dibattimento di prove certe della concreta attuazione di una concertata e laboriosa preparazione di detta ritrattazione, con l’intervento di diversi soggetti che hanno realizzato una deplorevole opera di inquinamento probatorio che, fortunatamente, è stata scoperta prima della definizione del presente giudizio e che dovrà formare oggetto di attenta valutazione in separata sede per accertare eventuali responsabilità a vario livello.

E’ doveroso avvertire che tali ultime acquisizioni probatorie non rientrano nel tema specifico di prova del presente giudizio se non nella misura in cui consentono di fare luce sull’anomalo sviluppo delle dichiarazioni rese da una fonte primaria come Scarantino Vincenzo, per cui ogni riferimento a condotte riferibili a soggetti diversi dagli odierni imputati sarà limitato in funzione di tale specifica finalità. Al riguardo va, in particolare, osservato che le dichiarazioni testimoniali rese dal sacerdote Giovanni Neri, parroco della Chiesa di Mazzaglia ove Scarantino Rosario ha trovato ospitalità insieme al suo nucleo familiare, hanno consentito di ricostruire con sufficiente chiarezza i movimenti e le discussioni che hanno preceduto la ritrattazione dibattimentale di Scarantino Vincenzo, consentendo agli inquirenti di assumere le iniziative di indagine necessarie per individuare indebite pressioni esterne dirette ad indurre o quantomeno a rafforzare l’intenzione di Scarantino Vincenzo, poi concretamente attuata, di ritrattare tutte le precedenti accuse.

Appare assolutamente significativo in tal senso il fatto che nel verbale del 13-10- 1998 il citato sacerdote abbia parlato di strane minacce di Vincenzo Scarantino al fratello Rosario, di una lite tra Rosario e la moglie per una ingente somma che doveva essere data a Vincenzo collegata alla sua ritrattazione, del riferimento a minacce e pressioni su Rosario provenienti da soggetti palermitani per ottenere detto risultato, di una vera e propria festa familiare, segnata anche dall’intervento della madre degli Scarantino, a Mazzaglia poco prima della ritrattazione di Como ed in vista di questa. Da tali dichiarazioni emerge chiaramente che la decisione di Scarantino Vincenzo di ritrattare certamente non è frutto, come lo stesso ha cercato di far credere, di una spontanea e travagliata scelta morale, dettata dal rimorso di avere accusato persone innocenti, ma, al contrario, discende da una decisione lucida, fredda e calcolata dell’ex collaboratore di giustizia, più volte annunciata attraverso comportamenti anomali e preceduta da una lunga contrattazione con ambienti mafiosi palermitani evidentemente interessati a detta ritrattazione, mediata dal fratello Rosario e culminata con l’acquisizione di concrete garanzie economiche, giuridiche e familiari. In buona sostanza, se non può evidentemente escludersi che sia stato proprio Scarantino Vincenzo ad assumere l’iniziativa di una simile indecente trattativa, appare certo che detta trattativa vi sia stata in concreto e che alla stessa abbiano preso parte attiva, in veste quantomeno di garanzia o di raccordo con ambienti mafiosi palermitani, componenti del nucleo familiare di Scarantino Vincenzo, cioè quegli stessi soggetti che sin dall’inizio hanno ostinatamente e disperatamente cercato di arginare la decisione del congiunto di collaborare con la giustizia esercitando, come si è detto, indicibili pressioni su quest’ultimo pur di mantenere i “privilegi” di cui godevano nel territorio della Guadagna per la luce mafiosa riflessa dal parente acquisito Profeta Salvatore, quegli stessi soggetti, ancora, che, come riferito da don Neri, hanno festeggiato poco prima che Scarantino Vincenzo venisse a ritrattare nell’udienza in Como del 15-9-1998, pur sapendo bene che le dichiarazioni che di li a poco avrebbe reso Scarantino Vincenzo, se avrebbero consentito loro di recuperare almeno in parte il prestigio in precedenza goduto nell’ambito della consorteria mafiosa, avrebbero comunque segnato irrimediabilmente la vita futura del loro congiunto, aprendogli le porte di una carcerazione certamente non breve e segnata, per di più, da un indelebile marchio di infamità, secondo gli inaccettabili principi dell’etica mafiosa. Una contrattazione come quella che ha preceduto la ritrattazione di Scarantino Vincenzo paradossalmente poteva persino apparire umanamente comprensibile se avesse avuto ad oggetto solamente garanzie di sicurezza per i familiari. La stessa, invece, ha certamente avuto un ignobile contenuto patrimoniale che la rende assolutamente scellerata, poiché risulta dalla deposizione di Don Neri che Scarantino Vincenzo come prezzo della sua ritrattazione ha preteso di rientrare in possesso di valori e beni precedentemente acquisiti attraverso la sua pregressa attività criminale. Appare in questa sede poco importante quantificare le utilità economiche che sono state procurate a Scarantino Vincenzo per il suo mutato atteggiamento processuale o accertare compiutamente le esatte modalità con cui dette utilità sono state procurate, apparendo sufficiente in questa sede avere accertato attraverso le precise ed inequivoche dichiarazioni rese da Don Neri che è stata realizzata una complessa manovra, cui ha attivamente partecipato Scarantino Rosario, per consentire alla famiglia Scarantino di recuperare beni, verosimilmente intestati a prestanome facilmente controllabili dalla organizzazione mafiosa, di cui gli stessi non potevano disporre direttamente, e che siffatta manovra ha integrato parte del “prezzo” preteso, in modo arrogante e violento come risulta dalle minacce pronunciate nei confronti del fratello, da Scarantino Vincenzo per la sua ritrattazione. Una conferma indiretta di una simile indecente operazione si trae, come si è detto, dall’anomalo comportamento che questa Corte ha potuto verificare con riferimento al disposto esame di Basile Rosalia, moglie di Scarantino Vincenzo, ma soprattutto si trae dalle intercettazioni e dai pedinamenti compiuti nei confronti di D’Amore Cosima, moglie dell’imputato latitante Scotto Gaetano. Invero da tali intercettazioni e dalle dichiarazioni rese dal dott. Mario Bo circa l’esito delle indagini al riguardo svolte emerge in modo assolutamente inequivoco l’impegno di carattere economico richiesto ai familiari di un imputato latitante (significativo al riguardo è il fatto che gli stessi si interroghino sulle ragioni per le quali proprio loro avrebbero dovuto pagare, v. trascrizione della intercettazione in atti) per offrire a Scarantino Vincenzo le garanzie, anche di assistenza processuale, da lui richieste, nonché, anche a seguito di un apposito servizio di osservazione, un anomalo intervento nella vicenda, al di fuori dell’ordinario ambito processuale, da parte del difensore di Scotto Gaetano, avv. Giuseppe Scozzola.

Va ribadito al riguardo che non rientra tra i compiti specifici di questa Corte accertare se da parte di uno dei difensori siano stati in concreto violati precisi doveri giuridici o semplicemente deontologici, ma non può farsi a meno di considerare il fatto che con riferimento alla ritrattazione di Scarantino Vincenzo si sia riprodotta una situazione per certi versi analoga e forse parallela a quella denunciata da Andriotta Francesco, riguardante le pressioni asseritamente esercitate nei suoi confronti per indurlo a modificare le dichiarazioni precedentemente rese, poiché tale fatto refluisce, evidentemente, sulla attendibilità delle ultime dichiarazioni di Scarantino Vincenzo e rafforza il convincimento che le stesse siano frutto di una concertata opera di convincimento esercitata su una importante fonte di prova al di fuori del processo e delle garanzie del contraddittorio e, cosa questa particolarmente grave, che la decisione di Scarantino Vincenzo di ritrattare era ben nota ad alcune parti processuali ben prima che la stessa venisse esternata nel pubblico dibattimento, quando ancora la fonte era sottoposta ad un particolare sistema di protezione diretto ad assicurare non solo l’incolumità fisica del collaboratore di giustizia, ma anche a sottrarlo ad indebite pressioni esterne che potessero coartare la sua scelta di collaborazione con la giustizia.

Alla luce delle considerazioni sin qui svolte la ritrattazione operata da Scarantino Vincenzo, come si è anticipato all’inizio della presente esposizione, deve essere ritenuta del tutto inattendibile in quanto illogica, incoerente con altre autonome acquisizioni probatorie e frutto di una inaccettabile concertazione che appare particolarmente inquietante ove si consideri non solo la rilevata simmetria con il tentativo di indurre alla ritrattazione un’altra importante fonte come Andriotta Francesco, ma anche il riferimento operato dallo stesso Scarantino sempre nell’ambito di questo dibattimento a precedenti analoghi interventi subiti ad opera di suoi familiari circa il possibile recupero dei suoi beni condizionato ad una ritrattazione delle accuse, riferimento che fa apparire il verbale delle dichiarazioni rese da Scarantino Vincenzo all’udienza di Como del 15-9-1998 come la cronaca di una ritrattazione annunciata, che si è svolta secondo un copione scritto al di fuori del dibattimento e delle garanzie offerte dal contraddittorio tra le parti.

Le suddette considerazioni, comunque, non comportano che ogni affermazione di Scarantino Vincenzo in sede di ritrattazione debba necessariamente ritenersi per definizione inattendibile. Al contrario, infatti, sempre in forza della concordanza con altre pregnanti acquisizioni probatorie, questa Corte ritiene che talune dichiarazioni rese in tale ultimo contesto da Scarantino Vincenzo siano concretamente attendibili e contribuiscano addirittura a far piena luce su taluni punti oscuri delle precedenti dichiarazioni di segno inverso dello Scarantino.

In particolare appare credibile l’affermazione di Scarantino secondo cui lo stesso si era determinato a collaborare perché sostanzialmente non sopportava più il rigoroso regime penitenziario cui era sottoposto. Di ciò emergono dagli atti diversi riscontri (v. dichiarazioni di collaboratori che hanno parlato persino di disperate scritte sulle pareti della nave con cui aveva viaggiato Scarantino quando era detenuto) ed il fatto non risulta neppure nuovo poiché lo Scarantino ne aveva in parte parlato anche nelle precedenti dichiarazioni. Tale peculiare motivazione della decisione di collaborare con la giustizia, se per un verso induce a valutare con cautela le originarie dichiarazioni accusatorie in quanto frutto di una base psicologica non forte che come si è potuto constatare non ha consentito allo Scarantino di reggere alle fortissime pressioni esercitate nei suoi confronti sin dall’inizio della collaborazione, per altro verso non consente di ritenere che dette dichiarazioni siano frutto di fantasia, poiché lo Scarantino ha riferito dettagli molto precisi, oggettivamente riscontrabili ed assolutamente concordanti con altre autonome fonti probatorie, che spesso hanno arricchito le conoscenze investigative dell’epoca e che quindi non potevano in alcun modo essere suggerite, come si è detto, dagli inquirenti che hanno raccolto le prime dichiarazioni dello Scarantino.

Altrettanto credibile appare l’affermazione dello Scarantino secondo cui lo stesso più volte nel corso della sua collaborazione aveva mostrato segni di cedimento ed aveva persino cercato di costituirsi in carcere per essere arrestato. Anche in questo caso si tratta di dichiarazioni non nuove che erano già state rese in epoca non sospetta dallo stesso Scarantino in una precedente fase di questo dibattimento, circostanza questa che ha indotto questa Corte a ritenere sostanzialmente superfluo l’approfondimento probatorio sul punto richiesto dalle difese in sede di richieste formulate ai sensi dell’art.507 c.p.p., anche in considerazione del limitato rilievo probatorio di un fatto idoneo a provare semplicemente la fragilità psicologica del soggetto e la sua lunga oscillazione tra la nuova vita offertagli dalla collaborazione con la giustizia ed il forte legame con un ambiente familiare permeato dai collegamenti con la criminalità mafiosa, considerazioni queste ampiamente desumibili dal complesso degli elementi già acquisiti. Analogamente attendibile appare Scarantino Vincenzo quando afferma di avere ”studiato” le dichiarazioni precedentemente rese prima di comparire nei dibattimenti cui ha preso parte allo scopo di evitare di incorrere in incertezze e contraddizioni che potessero incrinarne l’attendibilità. Ancora una volta si è difronte a fatti già desumibili da precedenti acquisizioni probatorie.

Alcuni difensori hanno ritenuto di potere argomentare l’ultima istanza di rimessione del procedimento addirittura sul rigetto della Corte della richiesta di ammissione dell’esame dei poliziotti indicati dallo stesso Scarantino come partecipi allo studio degli atti processuali, omettendo di considerare che la Corte non poteva esplicitare la motivazione di ritenere già positivamente provato il fatto senza anticipare indebitamente una valutazione, ma soprattutto trascurando il fatto che dalla deposizione resa da Basile Rosalia, moglie di Scarantino Vincenzo, nel primo dibattimento per la strage di via D’Amelio, i cui verbali sono stati acquisiti al presente giudizio e sono stati espressamente dichiarati utilizzabili, risulta già confermato il fatto e risultano addirittura indicati i nomi di battesimo, corrispondenti a quelli dei due soggetti indicati dallo Scarantino, degli agenti addetti alla protezione del collaboratore che lo avrebbero aiutato in tale opera di “ripasso” delle precedenti dichiarazioni e di individuazione delle contraddizioni da evitare in sede dibattimentale. Poteva ancora ritenersi assolutamente indispensabile ai fini del decidere l’esame dei testi sopra indicati alla stregua dei criteri fissati dall’art.507 c.p.p.? La domanda è evidentemente retorica poiché appare evidente dalle annotazioni aggiunte alle copie dei verbali che erano in possesso di Scarantino, che questa Corte ha acquisito su richiesta dei difensori, che Scarantino Vincenzo ha effettivamente analizzato il complesso delle dichiarazioni rese prima di affrontare gli esami dibattimentali senza incorrere in contraddizioni, avvalendosi verosimilmente dell’aiuto di qualcuno magari più colto di lui (il tenore letterale delle annotazioni rivela questo intento e l’intervento di qualcuno meno ignorante dello Scarantino), ma tutto ciò, ancora una volta, se induce a particolare cautela nel valutare possibili “aggiustamenti” delle dichiarazioni dibattimentali rese dallo Scarantino al fine di evitare incongruenze che, peraltro, appaiono assolutamente fisiologiche in relazione ad un numero assai elevato di dichiarazioni rese in un arco di tempo piuttosto ampio, non inficia in alcun modo le prime dichiarazioni rese dallo Scarantino all’inizio della collaborazione con la giustizia, la cui genuinità non può certo essere stata compromessa da una attività di “studio” delle dichiarazioni come quella sopra indicata, iniziata sicuramente dopo.

Certamente sincera ed attendibile appare, infine, l’ammissione di Scarantino Vincenzo nel corso della ritrattazione di avere mentito nell’indicare i collaboratori di giustizia Cancemi Salvatore, La Barbera Gioacchino e Di Matteo Mario Santo come partecipanti alla riunione nella villa di Calascibetta e nell’avere mantenuto tale posizione nel corso dei confronti sostenuti con i tre collaboratori di giustizia sopra indicati, allo scopo di non essere più creduto, con l’intento o almeno la speranza di essere in futuro smentito dagli stessi ed uscire in tal modo dalla condizione di collaboratore di giustizia che stava diventando per lui troppo pesante, anche per le gravissime pressioni nel frattempo subite nell’ambito della sua stessa famiglia di sangue, rimasta, come si è visto, tenacemente aggrappata a quell’ambiente mafioso in cui aveva trovato protezione e prosperità. Tale ultimo intento, palesemente rivelato in sede di ritrattazione, risulta, infatti, univocamente confermato dalla semplice considerazione che in effetti è proprio dopo la suddetta aggiunta di nomi e dopo l’ulteriore integrazione delle originarie dichiarazioni con l’indicazione tra i partecipanti di soggetti improbabili come Brusca Giovanni e Ganci Raffaele, integrazioni tutte riferibili ad un periodo successivo alla ripresa dei contatti da parte di Scarantino Vincenzo con il mondo esterno e con i propri familiari, che le originarie dichiarazioni perdono sempre di più l’originaria coerenza e logicità, come seguendo un oscuro disegno, certamente ben ideato, diretto a screditare progressivamente la fonte, ponendola sempre più in contrasto con tutte le altre acquisizioni probatorie. Traendo spunto da queste ultime considerazioni va rilevato che le dichiarazioni rese da Scarantino Vincenzo, epurate della inattendibile ed orchestrata ritrattazione dallo stesso posta in essere in chiusura del presente giudizio, hanno mantenuto una certa costanza ed astratta coerenza: Scarantino Vincenzo, infatti, non ha mai mutato la struttura essenziale del suo racconto dei fatti relativi alla strage di via D’Amelio, in quanto, sin dalla prima dichiarazione ha riferito di una riunione organizzativa nella villa di “Peppuccio Calascibetta”, di una attività preparatoria nel corso della quale gli fu affidato il compito di reperire la Fiat 126 utilizzata come autobomba, di una attività di intercettazione telefonica per conoscere gli spostamenti del dott. Borsellino, di un caricamento dell’esplosivo sull’auto da lui procurata e di un trasferimento dell’autobomba sul luogo dell’attentato. La sostanziale costanza e coerenza strutturale delle dichiarazioni di Scarantino Vincenzo risulta incrinata in concreto solamente dalla aggiunta, operata in tempi successivi ai primi interrogatori resi in carcere, di qualche partecipante a taluna delle suddette fasi preparatorie, aggiunta che, tuttavia, grazie alla acquisizione di tutte le dichiarazioni rese dallo Scarantino nel corso delle indagini, è stato possibile circoscrivere nel tempo individuandone l’evidente scopo di neutralizzazione delle precedenti dichiarazioni anche in relazione alle pressioni di vario genere subite dallo Scarantino successivamente alla dimissione dello stesso dal circuito penitenziario in considerazione della sua collaborazione con la giustizia, da sempre osteggiata in ogni modo, come si è rilevato, dai familiari dello Scarantino. Un primo inquinamento interno alle dichiarazioni rese da Scarantino Vincenzo durante la sua collaborazione con la giustizia va individuato sicuramente nella indicazione dei tre collaboratori di giustizia Cancemi, La Barbera e Di Matteo tra i partecipanti alla riunione presso la villa di Calascibetta. Tale aggiunta risponde ad una logica elementare nell’ottica di chi pensi di volersi sganciare dalla intrapresa collaborazione con la giustizia, poiché non vi sarebbe stato metodo migliore per diventare inattendibile che quello di farsi smentire dai tre pentiti all’epoca più credibili per avere rivelato i segreti della recente strage di Capaci, più che rischiare una ritrattazione estremamente difficoltosa dopo le una serie di dichiarazioni estremamente dettagliate e corredate da riferimenti precisi ed oggettivamente riscontrabili, senonchè l’autorevole smentita che Scarantino, in tempi brevi, probabilmente si attendeva di ricevere, come ha candidamente ammesso nelle ultime dichiarazioni dibattimentali prima richiamate non si è avuta ed è rimasta confinata nell’ambito di tre verbali di confronto con Cancemi, La Barbera e Di Matteo, assunti nel contesto di un distinto procedimento penale tutt’ora in corso, che di fatto non sono valsi all’epoca a demolire la credibilità di Scarantino, anche perché nel frattempo l’immagine dei tre suddetti collaboratori di giustizia aveva perduto, almeno in parte, l’originaria nitidezza per una serie di circostanze sopravvenute: perché Di Matteo ha, per così dire, rallentato la propria collaborazione travolto dalla dolorosa esperienza del sequestro del figlio, perché La Barbera è stato coinvolto, insieme ad altri “pentiti” appartenenti alla sua originaria famiglia, in vicende ancora non del tutto chiarite e comunque in azioni difficilmente compatibili con il ruolo di collaboratore di giustizia, perché, infine, altri attendibili collaboratori di giustizia, come si dirà più avanti, hanno rivelato la partecipazione di Cancemi Salvatore all’esecuzione della strage di via D’Amelio dallo stesso ostinatamente negata anche in occasione del confronto sostenuto con lo Scarantino. Ulteriore elemento inquinante nelle dichiarazioni rese da Scarantino Vincenzo successivamente alla sua uscita dal circuito penitenziario è costituito poi dalla aggiunta dei nomi di altri due noti esponenti mafiosi, che all’epoca svolgevano ruoli di capomandamento, come Brusca Giovanni e Ganci Raffaele a quelli in precedenza fatti con riferimento ai partecipanti alla riunione nella villa di Calascibetta. Appare evidente la forza dirompente di una simile aggiunta, poiché quella che in base alle prime dichiarazioni poteva essere agevolmente interpretata come una riunione operativa tra uomini appartenenti ai due mandamenti cui era stata affidata l’esecuzione materiale della strage, come altre ve ne erano state nell’esperienza di “Cosa nostra”, con la partecipazione di Salvatore Riina nella veste di coordinatore delle decisioni della Commissione provinciale e dei vertici dei due mandamenti, diviene improvvisamente un ibrido insensato ed incomprensibile, che non può essere certo considerato in base alle conoscenze acquisite come una riunione di Commissione per la deliberazione di un fatto delittuoso “eccellente” per la presenza attorno ad un unico tavolo di capi mandamento e semplici uomini d’onore e che comunque non può logicamente giustificare la presenza di due capi mandamento, esperti e cauti, come Brusca e Ganci in un contesto in cui erano assenti uomini dei rispettivi mandamenti.

L’aggiunta di questi ulteriori nomi tra i partecipanti alla famosa riunione risponde dunque alla medesima logica di neutralizzazione delle originarie dichiarazioni rese da Scarantino Vincenzo attraverso la progressiva demolizione della coerenza intrinseca di dette dichiarazioni e va posta in correlazione con l’aggiunta dei nomi dei tre collaboratori di giustizia sopra indicati, la cui falsità emerge in modo palese non solo dall’esito dei confronti che sono stati acquisiti a questo dibattimento, ma anche dalle stesse ammissioni rese in sede di ritrattazione dallo stesso Scarantino Vincenzo ritenute sul punto attendibili in base alle considerazioni sopra espresse. Invero queste ultime aggiunte appiono come una ulteriore progressione nell’attività di inquinamento probatorio sopra evidenziata, attraverso l’introduzione di nuovi elementi di falsità, ancora una volta diretti a minare dall’interno la credibilità della fonte, che rivelano peraltro una sottigliezza di pensiero (appare quasi che rispondano ad una sapiente conoscenza dei principi elaborati dalla giurisprudenza per valutare l’attendibilità delle dichiarazioni assunte ai sensi dell’art.210 c.p.p.) che potrebbe indurre a ritenere che possano essere frutto non solo della intelligenza di Scarantino Vincenzo e che, considerato che intervengono tutte dopo l’uscita del collaboratore dal circuito penitenziario e quindi dopo la ripresa dei contatti con l’esterno e con i familiari, possano essere state in parte suggerite da chi evidentemente aveva un interesse diretto a neutralizzare l’effetto delle originarie dichiarazioni di Scarantino.

Appare doveroso segnalare a questo punto che le suddette inquinanti chiamate aggiuntive sono state purtroppo favorite e rese inizialmente credibili a causa di una improvvida indicazione in bianco contenuta nei primi verbali di interrogatorio, nei quali gli organi inquirenti, quasi a prevenire una temuta reticenza dello Scarantino, a seguito di reiterate e pressanti domande hanno ottenuto da Scarantino l’ammissione che nella riunione presso la villa di Calascibetta vi potessero essere altre tre o quattro persone di cui non ricordava il nome. Ciò evidentemente ha offerto successivamente a Scarantino Vincenzo l’opportunità di colmare questi spazi vuoti con le suddette integrazioni inquinanti, sfruttando persino in modo assai abile (forse troppo per le limitate capacità dell’ex collaboratore, il che rafforza il sospetto di una cooperazione inquinante esterna e raffinata) l’equivoco creato dal riferimento di Andriotta Francesco al nome di tale Mattia o La Mattia asseritamente fattogli dallo Scarantino, per accreditare attraverso un riscontro esterno l’assunto della partecipazione alla strage nella fase del caricamento dell’autobomba del collaboratore di giustizia Di Matteo Mario Santo pure in precedenza indicato tra i partecipanti alla riunione nella villa di Calascibetta. E’ agevole osservare che quest’ultima coincidenza, peraltro dovuta ad una semplice assonanza (al riguardo potrebbe persino osservarsi che l’indicazione dell’Andriotta è più vicina foneticamente al cognome di La Mattina che corrisponde a quello di uno degli odierni imputati) e verificatasi tra una fonte diretta ed una che riferisce solo notizie apprese da quest’ultima, determina solamente una parvenza di credibilità che non regge per le considerazioni sopra sviluppate ad un attento vaglio critico alla luce del complesso degli elementi probatori acquisiti, ma soprattutto deve rilevarsi che in ogni caso rimane inspiegabile, se non nell’ottica di un intento di inquinamento probatorio perseguito in un certo momento della collaborazione dallo Scarantino, il fatto che quest’ultimo non abbia ricordato nel primo interrogatorio nomi così importanti nell’ambiente mafioso come quelli di Brusca, Di Matteo, La Barbera, Ganci e Cancemi, che, peraltro, nel momento in cui la fonte ha avviato la collaborazione con la giustizia erano riportati quotidianamente da tutti i mezzi di informazione ed erano perciò ben conosciuti non solo negli ambienti della criminalità mafiosa, ma da chiunque seguisse anche distrattamente la cronaca giudiziaria sulle due stragi verificatesi nel 1992 a Palermo.

Appare probabile, a ben vedere, che gli inquirenti nella prima fase delle indagini siano potuti incorrere in un involontario e comprensibilissimo errore prospettico, che si è peraltro riflesso nella originaria formulazione del dell’imputazione di cui al capo F) della rubrica, poi modificata all’udienza del 4-6-1997, ritenendo che la riunione presso la villa di Calascibetta di cui aveva riferito Scarantino fosse una riunione deliberativa della strage che avrebbe dovuto necessariamente coinvolgere, secondo le concordi indicazioni fornite da tutti i collaboratori di giustizia in tema di omicidi “eccellenti”, tutti i componenti della commissione provinciale di “Cosa nostra”, non considerando invece che potesse trattarsi di una delle tante riunioni operative per organizzare l’esecuzione di una azione delittuosa particolarmente complessa, già deliberata nel rispetto delle regole dell’organizzazione mafiosa. Una ultima conferma della chiara volontà perseguita a partire da un preciso momento da Scarantino Vincenzo di aggiungere elementi di falsità alle sue originarie dichiarazioni può trarsi, infine, dal vero e proprio “pasticcio” lucidamente creato da Scarantino Vincenzo in occasione dei riconoscimenti fotografici predisposti dagli inquirenti anche in esito alle aggiunte dei nomi sopra indicati. Invero Scarantino Vincenzo, pur nella sua dichiarata ignoranza, non può non avere compreso la valenza negativa ai fini della intrinseca attendibilità di una indicazione di persone con precisazione delle precise occasioni di incontro seguita, poi, da un mancato riconoscimento o peggio ancora da uno scambio di immagini fotografiche.

Le superiori considerazioni inducono a ritenere provato che le modifiche introdotte da Scarantino Vincenzo alle originarie dichiarazioni siano frutto della volontà, maturata dopo avere reso le dichiarazioni che hanno dato l’avvio al presente giudizio, di rendere sostanzialmente inattendibili dette dichiarazioni, sottraendosi alle conseguenze sociali ed umane derivanti dalla condizione di collaboratore di giustizia e recependo i chiarissimi segnali e le pressioni in tal senso provenienti principalmente dal proprio ambiente familiare, rimasto tenacemente legato alla cultura mafiosa da cui era permeato. Ciò che, comunque, deve essere sottolienato con forza è che tutti i segnali di inquinamento interno della fonte si verificano significativamente in un momento successivo all’avvio della collaborazione con la giustizia da parte di Scarantino Vincenzo e, più in particolare, quando non era più in atto la detenzione carceraria del collaboratore, sicuramente più idonea a garantire la genuinità della fonte, e quando quest’ultimo aveva ripreso i contatti con i componenti del proprio nucleo familiare, che, come si è avuto modo di rilevare, hanno sicuramente avuto un ruolo importante nella vita di Scarantino e che sin dall’inizio hanno cercato di ostacolare, frenare e deviare in vario modo e con ostinata perseveranza la scelta di quest’ultimo di collaborare con la giustizia, fino ad ottenere l’integrale ritrattazione nell’udienza dibattimentale tenutasi a Como il 15-9-1998, preceduta come si è detto da una allucinante festa familiare, esercitando una pressione enorme su una personalità fragile come quella di Scarantino Vincenzo. Non è superfluo in questa sede richiamare le numerose pressioni fisiche e psichiche che Scarantino Vincenzo ha rivelato di avere subito da propri familiari, il sincero dolore provato da Scarantino quando gli venivano riferiti in modo quantomeno esasperato le sofferenze asseritamente subite dalla madre, da altri familiari e persino da amici a seguito della sua collaborazione con la giustizia, le interminabili contese sostenute con la moglie per convincerla a seguirlo nelle località protette e persino per potere vedere i figli o parlare con loro nel periodo in cui erano lontani. Tutto ciò, infatti, ha sicuramente inciso negativamente sulla capacità di Scarantino Vincenzo di mantenere ferma la scelta di collaborazione con la giustizia seguita nelle primissime fasi con lucidità, coerenza, determinazione e coraggio, contribuendo a determinare l’inquinamento probatorio delle originarie dichiarazioni rese dal collaboratore nei termini sopra riferiti.

In conclusione del lungo excursus, a ritroso, attraverso le dichiarazioni rese da Scarantino Vincenzo nella fase delle indagini e nel corso del presente dibattimento non rimane che esaminare attentamente le dichiarazioni originarie che risalgono al periodo in cui lo Scarantino era sottoposto a custodia cautelare in carcere, prima cioè che intervenissero i fattori di inquinamento sin qui evidenziati allo scopo di valutarne l’intrinseca attendibilità, sul presupposto della rilevata scindibilità delle singole dichiarazioni, rinviando la ricerca di eventuali riscontri esterni individualizzanti alla parte che sarà dedicata alla valutazione della posizione dei singoli imputati.

Dal tenore delle considerazioni sin qui svolte è agevole intuire che questa Corte ha ritenuto di potere attribuire una piena attendibilità intrinseca alle dichiarazioni rese da Scarantino Vincenzo nei primi interrogatori e precisamente alle dichiarazioni raccolte nei primi tre verbali, rese in carcere subito dopo la manifestazione della volontà di collaborare con la giustizia. Va osservato in proposito che dette dichiarazioni appaiono assolutamente complete nella loro struttura essenziale, coerenti sotto il profilo logico e persino concordanti nelle linee generali sia con rilievi di carattere oggettivo, sia con dichiarazioni successivamente rese da altri collaboratori di giustizia che evidentemente non potevano essere conosciute da Scarantino Vincenzo né per scienza diretta, né attraverso suggerimenti esterni che lo stesso Scarantino in sede di ritrattazione ha cercato di accreditare senza, tuttavia, riuscire ad apparire credibile. Invero, sotto il primo profilo è agevole constatare che Scarantino Vincenzo già nella prima dichiarazione, ha esaurito nelle linee essenziali l’esposizione dei fatti relativi alla strage di via D’Amelio, nelle dichiarazioni successive non ha né mutato la struttura e l’articolazione del suo racconto, né aggiunto particolari di rilievo, ma ha semplicemente integrato l’indicazione dei nomi fatti con riferimento alle varie fasi organizzative cadute sotto la sua diretta percezione ed ha precisato dettagli e circostanze di minore rilievo. Le prime dichiarazioni peraltro, come si è rilevato prospettano coerentemente una organizzazione della strage preceduta da una riunione di carattere esclusivamente operativo tra esponenti dei due mandamenti cui era stata affidata l’esecuzione finale della strage.

In tale specifica ottica le prime dichiarazioni di Scarantino circa la riunione nella villa di Calascibetta assumono una logicità ed una concretezza tali da rendere assolutamente incontestabile l’attendibilità intrinseca delle dichiarazioni medesime. Infatti se, come pare confermato da una consistente serie di acquisizioni probatorie autonome, di cui meglio si dirà più avanti, ed in particolare dalle dichiarazioni sul punto di Brusca Giovanni, Cancemi Salvatore, Ganci Calogero, ed altri, si muove dal presupposto che l’uccisione del dott. Borsellino era stata adottata dai componenti della Commissione provinciale coordinata all’epoca da Riina Salvatore e che, conseguentemente, nella riunione descritta da Scarantino si sia semplicemente organizzata l’esecuzione materiale di una azione delittuosa particolarmente eclatante e complessa quale l’uccisione di un importantissimo magistrato sottoposto a rilevanti misure di protezione con un mezzo devastante quale una vettura imbottita di esplosivo affidata per volontà del Riina in modo diretto a due mandamenti (: Brancaccio e S.Maria di Gesù-Guadagna), appare evidente che ad una riunione come quella descritta da Scarantino, come indicato nella prima dichiarazione, oltre Riina e Biondino che svolgevano compiti di coordinamento e di raccordo con l’azione di copertura e di fiancheggiamento che sarebbe stata svolta da altri mandamenti, non potevano partecipare altri se non i vertici ed i “soldati” dei due mandamenti sopra indicati, cui era stato riservato, per volontà proprio del coordinatore della Commissione provinciale, Riina Salvatore, il compito di portare a termine la fase più direttamente esecutiva della strage, assegnando ad altri mandamenti compiti di copertura ed azioni di fiancheggiamento quali quelli del reperimento e della prova del telecomando, del pattugliamento delle strade il giorno dell’attentato, secondo una prassi ormai sperimentata di distribuzione degli incarichi delittuosi con l’alternanza a volte simmetrica dei vari mandamenti. Sarebbe stato assurdo in tale contesto, e non è un caso che non emerga dalle prime dichiarazioni giustamente ritenute attendibili di Scarantino, che il capo di un diverso mandamento avesse partecipato ad una riunione operativa come quella che Scarantino ha dichiarato essere avvenuta nella villa di Calascibetta, poiché sarebbe stata superflua ed irrituale la sua presenza e poiché ciò lo avrebbe solamente esposto inutilmente in un periodo particolarmente “caldo” e pericoloso come quello tra le due stragi del ’92. Addirittura per Ganci Raffaele, all’epoca capo del mandamento della “Noce”, è agli atti un diretto riscontro della logicità di quest’ultima argomentazione, poiché risulta dalle dichiarazioni del figlio Calogero Ganci che lo stesso, da persona cauta e da profondo conoscitore delle regole mafiose, invitato da Biondino ad assistere alle fasi di caricamento dell’autobomba si era limitato a declinare cortesemente l’invito ed a dichiarare la sua disponibilità in caso ve ne fosse bisogno.

Sempre nell’ottica di considerare la riunione descritta da Scarantino come un incontro rigorosamente organizzativo di una azione delittuosa già decisa, la presenza di un capo indiscusso come Salvatore Riina allo stesso tavolo attorno al quale erano seduti anche semplici “soldati” e persino l’insolita entrata, probabilmente irriguardosa secondo i dettami del galateo mafioso, di un guardaspalle come Scarantino Vincenzo per prendere dell’acqua mentre era in corso la discussione, oltre a risultare perfettamente in linea con il livello di educazione non solo mafiosa di Scarantino, appare come un fatto quasi ordinario, che rientra nella comune esperienza. Per dare un senso logico all’intero racconto di Scarantino e per giustificare anche la durata della riunione indicata dallo stesso basta, come si è detto, abbandonare l’idea, certamente suggestiva ma non sorretta da alcun elemento di riscontro, che la riunione descritta da Scarantino sia stata quella in cui era stata deliberata l’uccisione del dottore Borsellino e ritenere, invece, che in tale riunione Riina Salvatore abbia semplicemente incontrato gli esponenti dei due mandamenti cui era stata attribuita la responsabilità dell’esecuzione finale di una strage già deliberata dai componenti della commissione provinciale, in attuazione di quei principi di compartimentazione dell’organizzazione “Cosa nostra” prudentemente seguiti da Riina Salvatore sia per ciò che concerne gli incontri di vertice, sia per ciò che concerne l’esecuzione di azioni delittuose eclatanti, in modo da evitare, dopo che l’inizio del fenomeno del “pentitismo” aveva messo in seria crisi l’organizzazione, che gli appartenenti ad un determinato mandamento mafioso conoscessero le attività di tutti gli altri gruppi. Il fatto che la riunione di cui ha parlato Scarantino Vincenzo si sia svolta nella casa di un latitante è una incongruenza solo apparente, poiché innanzitutto i sopralluoghi eseguiti hanno dimostrato che il luogo era perfettamente idoneo allo scopo da un punto di vista strettamente logistico, trattandosi di una villa situata nel cuore di un rione ad altissima densità mafiosa, in una zona relativamente distante da altre abitazioni all’epoca occupate, cui si giunge attraverso una strada stretta e lunga che avrebbe consentito di notare con ampio anticipo movimenti sospetti di forze di polizia e che avrebbe consentito un rapido allontanamento dei partecipanti attraverso un secondo sbocco della strada chiuso da un cancello, ma soprattutto perché si è accertato che l’immobile, intestato ad un prestanome parente del Calascibetta, era ampiamente sicuro in quanto non conosciuto dalle forze di polizia, atteso che la prima perquisizione eseguita al suo interno è stata eseguita in epoca ampiamente successiva alla strage per cui si procede. Le dichiarazioni rese da Scarantino Vincenzo nella prima fase della sua collaborazione, contrariamente a quanto da lui sostenuto in sede di ritrattazione, non possono neppure ritenersi inficiate da oscillazioni nell’attribuzione dei ruoli ai singoli compartecipi, né da apprezzabili motivi di rancore verso alcuni dei soggetti chiamati in correità.

Così, per esempio, le dichiarazioni inizialmente rese nei confronti di Tagliavia Francesco sono contrassegnate da una assoluta costanza, poiché Scarantino ha indicato sin dall’inizio il predetto imputato come partecipe a tutte le fasi organizzative della strage di cui ha parlato (riunione, caricamento dell’autobomba e trasporto sul luogo dell’attentato) e non ha progressivamente aggravato la chiamata, e ciò per il semplice fatto che nel primo interrogatorio che ha reso non poteva certo essersi verificato l’episodio della espressione offensiva proveniente dal Tagliavia riferito da Scarantino in sede di ritrattazione quale causa scatenente del suo asserito risentimento nei confronti del Tagliavia. Le uniche incongruenze nel racconto di Scarantino, a ben vedere, riguardano soltanto le indicazioni relative alla data della riunione in casa di Calascibetta, al reperimento della Fiat 126 utilizzata come autobomba, alla partecipazione dell’imputato Romano ed all’impiego della bombola di gas che sarebbe stata procurata sulla base delle informazioni fornite da quest’ultimo.

Orbene, con riferimento a questi ultimi due punti è agevole osservare che i dettagli del racconto di Scarantino circa il luogo ove poteva essere reperita la bombola e, precisamente il cantiere per la realizzazione della metropolitana in prossimità della villa di Pietro Aglieri, circa il possibile impiego della bombola e le potenziali capacità devastanti della stessa hanno trovato sostanziale riscontro negli atti processuali. Il fatto che gli accertamenti ed i rilievi tecnici eseguiti abbiano escluso sostanzialmente l’impiego concreto di una bombola di gas del tipo di quella indicata da Scarantino non comporta certamente l’inattendibilità delle dichiarazioni di quest’ultimo, poiché da una attenta lettura di dette dichiarazioni emerge in modo chiaro che Scarantino Vincenzo non ha in alcun modo partecipato al furto della bombola di gas e che ha semplicemente dedotto tale fatto ed il conseguente impiego per l’esecuzione della strage solamente dalla constatazione dell’effetto dirompente dell’esplosione di via D’Amelio e dalla corrispondenza a quanto aveva sentito dire da alcuni compartecipi. Più complessa appare, invece, l’analisi delle dichiarazioni rese da Scarantino Vincenzo circa la data della riunione ed il reperimento della Fiat 126 commissionatagli dal cognato Profeta Salvatore, infatti appare incontestabile sin dalle prime dichiarazioni una parziale reticenza, l’indicazione di una sequenza di fatti assolutamente improbabile e, infine, la confluenza di tutte le dichiarazioni sul punto in una confusione inestricabile di affermazioni contrastanti, sopra richiamata. A giudizio di questa Corte la verità essenziale che emerge dagli atti è che la Fiat 126 utilizzata come autobomba fu effettivamente procurata da Scarantino su incarico del cognato Profeta Salvatore e che Scarantino si sia rivolto effettivamente al Candura per procurarsela. Proprio quest’ultima circostanza e, in particolare, il fatto che Scarantino Vincenzo, anzicchè rubare personalmente la vettura che doveva essere impiegata per una azione tanto atroce quanto importante per gli interessi di “Cosa nostra”, si sia rivolto ad un balordo tossicodipendente come Candura per reperirla offre una convincente chiave di lettura di tutte le reticenze, le bugie e gli imbarazzi di Scarantino nel riferire l’esatta sequenza dei fatti relativi al reperimento della 126 utilizzata come autobomba. In sostanza appare ragionevole ritenere che le oscillanti indicazioni di Scarantino Vincenzo circa la data della riunione (facilmente correlabile alla data certa del furto dell’autovettura della Valenti Pietrina), lo sforzo per accreditare l’ipotesi del possesso di un’altra autovettura dello stesso tipo rubata precedentemente e poi sparita (di cui non vi è alcuna traccia nelle acquisizioni probatorie in atti), la negazione di dettagli più o meno rilevanti circa la consegna dell’auto riferiti dal Candura, le contrastanti indicazioni fornite circa la conservazione dell’autovettura prima che venisse caricata di esplosivo (discordanti in parte persino col racconto riferito dal compagno di detenzione Andriotta), altro non siano che ingenui ed infantili tentativi da parte di Scarantino, sin dalle prime fasi della sua collaborazione, di nascondere la verità che egli con estrema leggerezza aveva delegato un compito così delicato come quello di rubare l’auto che doveva essere utilizzata per l’esecuzione della strage di via D’Amelio ad una persona estranea ed inaffidabile come Candura, che poi in effetti si è rivelato come l’anello debole della catena, quello che ha consentito agli inquirenti di sviluppare le indagini arrivando a soggetti coinvolti nell’esecuzione materiale della strage come Scarantino Vincenzo ed il cognato Profeta Salvatore.

Il suddetto atteggiamento processuale di Scarantino Vincenzo non è in contrasto con la piena collaborazione avviata nei primi interrogatori in quanto appare evidente che non è legato semplicemente ad una esigenza di tutela della propria immagine, che già sarebbe stata inevitabilmente ed irreversibilmente segnata dalla scelta di collaborare con la giustizia secondo i principi dell’etica mafiosa, quanto piuttosto all’esigenza, assolutamente primaria per Scarantino Vincenzo, anche dopo la scelta di collaborazione avviata, di preservare l’immagine ed il prestigio mafioso di un soggetto determinante per gli interessi dell’intera famiglia di sangue di Scarantino Vincenzo come Salvatore Profeta, personaggio emergente nel panorama mafioso, che nel pensiero costante del collaboratore di giustizia sarebbe stato l’unico capace di preservare da conseguenze gravi tutti i suoi familiari e in particolare i suoi figli ancora in tenera età e persino di proteggere lui stesso se un giorno avesse abbandonato la strada della collaborazione con la giustizia, idea questa che Scarantino Vincenzo, come ha candidamente ammesso in sede di ritrattazione aveva già maturato nel momento in cui indicò falsamente come partecipanti alla famosa riunione i tre collaboratori Di Matteo, La Barbera e Cancemi, iniziando a mentire affinchè non venissero più ritenute attendibili le sue precedenti dichiarazioni. Perché tutto ciò si potesse avverare era tuttavia essenziale che Profeta Salvatore mantenesse intatto il suo prestigio mafioso, cosa che difficilmente sarebbe potuta avvenire se si fosse avuta conferma del modo superficiale e balordo con cui era stata procurata l’autovettura con cui è stata eseguita la strage, esponendo a gravissimi rischi l’intera organizzazione.

La valutazione di intrinseca attendibilità delle iniziali dichiarazioni rese da Scarantino Vincenzo non riposa, tuttavia, solo sulla loro coerenza logica e sulla possibilità di spiegare le incongruenze sopra evidenziate, bensì anche, e forse soprattutto, sulla concordanza perfetta con altre dichiarazioni rese da collaboratori di giustizia, estremamente attendibili, con i quali per ragioni logiche e cronologiche Scarantino Vincenzo certamente non può essersi accordato. Come meglio si dirà più avanti, nelle parti dedicate all’esame delle dichiarazioni rese da altri collaboratori di giustizia, quanto riferito da Cancemi Salvatore, Ganci Calogero, Ferrante Giovan Battista, Brusca Giovanni ed altri dimostra in modo inequivoco, per l’attendibilità e la concordanza di dette dichiarazioni, che la fase più direttamente esecutiva della strage di via D’Amelio fu affidata da Salvatore Riina ai mandamenti di Brancaccio e della Guadagna; ebbene, come avrebbe potuto un soggetto sicuramente non importante nell’organizzazione mafiosa e le cui conoscenze di fatti di mafia non avrebbero potuto valicare i ridotti confini del territorio mafioso in cui operava, riferire della riunione organizzativa della strage indicando tra i partecipanti (oltre Riina e Biondino) sin dalla prima dichiarazione, da ritenere la più attendibile per le considerazioni sopra espresse, solamente soggetti appartenenti proprio ai due suddetti mandamenti mafiosi, se i fatti riferiti non fossero effettivamente caduti sotto la sua diretta percezione, posto che nessun inquirente avrebbe potuto suggerirgli elementi che sarebbero emersi solamente da acquisizioni probatorie successive? Ed ancora, come avrebbe potuto un semplice uomo d’onore di borgata riferire con certezza che Salvatore Riina era giunto alla riunione in compagnia di Biondino Salvatore a bordo di una autovettura di piccola cilindrata che, a differenza delle autovetture degli altri partecipanti alla riunione era stata parcheggiata all’interno della villa, conformemente ad una prassi costante che poi è stata confermata da diversi altri collaboratori, se non riferendo quanto aveva avuto modo di notare personalmente, posto che le dichiarazioni dei collaboratori che hanno confermato siffatta abitudine del Riina nel giungere nei luoghi di riunione sono tutte successive a quelle dello stesso Scarantino? La risposta a queste domande, alla luce delle considerazioni sopra sviluppate, non può che essere una: le dichiarazioni di Scarantino Vincenzo nella prima fase di collaborazione e, precisamente, quelle rese prima che intervenissero con la liberazione del collaboratore quei fattori di inquinamento che una attenta analisi ha consentito di individuare con relativa sicurezza, sono da ritenere intrinsecamente logiche, coerenti con altre acquisizioni probatorie e, quindi, astrattamente attendibili ed idonee a costituire prova dei fatti per i quali si procede ove sorrette da sufficienti riscontri individualizzanti di carattere oggettivo.

E’ doveroso osservare che l’operazione di cesello che ha consentito di enucleare dal complesso delle dichiarazioni rese da Scarantino Vincenzo un gruppo omogeneo di dichiarazioni intrinsecamente attendibili, rese nella prima fase della collaborazione, sul presupposto della scindibilità delle dichiarazioni provenienti da una medesima fonte, non è priva di effetti sul piano pratico della valutazione della prova, poiché, come si è detto, nell’ambito di detta valutazione non può non tenersi conto di elementi che incidono sicuramente sulla attendibilità astratta del soggetto, quali la costanza e la continuità delle accuse, che innegabilmente difettano nelle dichiarazioni di Scarantino Vincenzo considerate nel loro complesso.

Ciò, tuttavia, coerentemente con i principi ermeneutici prima richiamati, non può portare ad escludere a priori l’utilizzabilità a fini di prova di tutte le dichiarazioni rese dalla stessa fonte, anche nelle parti intrinsecamente attendibili, ma impone più semplicemente al giudice di ricercare riscontri oggettivi individualizzanti più pregnanti, senza accontentarsi di riscontri di valenza minore o puramente logici per ritenere confermate oggettivamente le accuse fondate sulle dichiarazioni ritenute intrinsecamente attendibili.