Fiammetta Borsellino riempie la scena. Spalle larghe e capelli corti biondi ed una voce calma, a tratti emozionata nel ripercorrere, con lentezza accattivante, le fasi successive ed immediatamente precedenti la strage di via D’Amelio del 19 luglio ’92 in cui morirono il padre e cinque agenti di scorta, Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina. La figlia del giudice, seduta su un divano giallo e in tuta nera, ha elencato le “anomalie” dei processi istituiti per fare luce sulla morte del padre e lo ha fatto al “Caffè Internazionale ” di via Basilio a Palermo, in una atmosfera avvolgente. «Tutte le mie dichiarazioni sono supportate da prove contenute negli atti giudiziari».
Con questa premessa Fiammetta Borsellino ha aperto una labirintica trasposizione dei fatti che, nel silenzio più rigoroso, ha intrattenuto i presenti. Fatti, dunque, e mezze verità, nonchè sviste, volute, indotte, ingenuità istintive o sapientemente premeditate. Questo il succo della storia raccontata da Fiammetta Borsellino. I processi dunque. Ne sono stati fatti quattro, ultimo fra tutti, in ordine di tempo il “Borsellino quater” appunto, dove tutto o quasi è stato rifatto, ripreso, vivisezionato a ritroso, cercando di non incappare più negli errori di percorso fatti nei tre precedenti.
Ma procediamo con ordine. Chi ha condotto le prime indagini sulla strage? Il primo team di magistrati era composto dal procuratore Tinebra, oggi defunto, il procuratore Carmelo Petralia, dal pm Annamaria Palma, mentre nel novembre del ’92 si aggiunse il procuratore Nino Di Matteo. Anche Ilda Boccassini e il magistrato Roberto Sajeva,che si occuparono inizialmente della strage di Capaci, si interessarono del “caso Borsellino” ma andando via, nell’ottobre del ’94, sottolinearono, in due lettere “di fuoco”, l’operato dei loro colleghi definendolo addirittura eccentrico.
Le lettere sono piene di ammonimenti circa la necessità a provvedere in tempestivi ravvedimenti nel rispetto delle regole del Codice di rito.
La prima anomalia è ravvisabile nella figura, ambigua, sopra le righe, a tratti inquietante del “pentito” Vincenzo Scarantino che si autoaccusa e dice di essere stato lui a rubare la 126 beige e piazzarla sotto la casa della mamma del giudice non prima di averla imbottita nel garage meccanico “Oro fino” ovviamente del micidiale Semtex.
A Scarantino credono tutti tranne la Boccassini, e il primo processo si fonda sulle sue dichiarazioni e non per niente il “teorema Scarantino” serve a dimostrare, accusare, assolvere e infangare a destra e a manca e a infliggere ergastoli immeritati. La Boccassini anzi già nel ’94 invita i colleghi a rivedere le dichiarazioni di Scarantino, quando si stava preparando il rinvio a giudizio, una fase importante del processo.
Vincenzo Scarantino
Fiammetta non tralascia di parlare del gruppo di funzionari di polizia che si occuparono inizialmente del caso. Il gruppo era capeggiato da Arnaldo La Barbera, anch’egli morto nel frattempo, Mario Bo, Vincenzo Ricciardi, Giovanni Guerrera, Giacomo Pietro Guttadauro e Francesco Zerilli, tutti con brillanti carriere. E poi c’è l’incredibile estromissione di Giammanco, il procuratore capo, il quale non viene chiamato come testimone nei processi, confermando l’anomalia delle anomalie, forse la più “scandalosa”. Lo stesso diretto superiore di Paolo Borsellino non lo informa che nel giugno del’92, poco più di un mese prima della strage quindi, sia arrivato il tritolo destinato per compiere l’attentato, cosa che lo stesso giudice apprende dall’ex ministro della giustizia Salvo Andò incontrato a Fiumicino. Questa notizia sconvolse il giudice sia per la sua gravità che per la “riservatezza” del suo capo, di Giammanco appunto che omette di informarlo. Erano stati i carabinieri ad informare lo stesso procuratore capo. Borsellino, trasferitosi da Marsala a Palermo, vorrebbe occuparsi di mafia, mettendo a frutto le sue esperienze maturate nella cittadina lilibetana ma Giammanco non gli affida alcuna indagine mafiosa, salvo poi cambiare idea la mattina del 19 luglio del ’92, giorno della strage, in cui lo stesso Giammanco , alle 7 del mattino, telefona a Borsellino per informarlo che da quel giorno in avanti si occuperà di mafia, cosa che ovviamente non potrà fare, dato che morirà poche ore dopo. Per non parlare poi del mancato esame del dna alla borsa del padre, rimasta intatta nell’attentato ma da cui è sparita la famigerata agenda rossa. L’FBI voleva collaborare nelle indagini ma è stata tenuta fuori. La borsa, considerata un reperto fondamentale, viene “abbandonata” nella stanza di Arnaldo La Barbera, il quale afferma candidamente che la probabilmente l’agenda in essa contenuta era andata distrutta nell’esplosione, ma non si comprende bene perché non ha subito danni il contenitore mentre il suo contenuto, (l’agenda) sì.
L’omissione di molte procedure avrebbero fin da subito dimostrare l’assoluta inattendibilità dello Scarantino.
Se non fosse stato per Gaspare Spatuzz ,collaboratore di giustizia , Scarantino avrebbe goduto ancora di chissà quali privilegi. Scarantino, inoltre, portato nel garage dove avrebbe imbottito la 126 di tritolo, non sa nemmeno aprirlo, perchè non sa che la serratura è particolare, cosa che invece saprà fare lo stesso Spatuzza portato nello stesso luogo, dato che fu proprio lui a “sistemare” l’auto utilizzata per la strage. Fiammetta Borsellino non risparmia nemmeno il super magistrato Nino Di Matteo, il magistrato Giordano e lo stesso Petralia, i quali, non avrebbero messo a verbale le dichiarazioni del “pentito” Scarantino fatte nel confronto con altri tre mafiosi, ovvero con Cancemi, La Barbera e Santo Di Matteo, padre del piccolo cavallerizzo sciolto in seguito nell’acido. In quella occasione, Scarantino venne letteralmente umiliato da Cancemi ma del confronto non vi è traccia. Scarantino sarebbe stato minacciato e indotto a dire le “verità” che disse da Arnaldo La Barbera, il poliziotto capo del gruppo di indagine “Falcone Borsellino”. Veleni e ritrattazioni e ritrattazioni delle ritrattazioni, un ginepraio da cui è difficile venire a capo. E le parole ascoltate ieri sera, al “Caffè internazionale” edulcorano certamente, apparentemente confondono e di certo inducono a pensare, a riflettere su quello che è successo.
Tiziana Sferruggia SICILIA OGGI 20.9.2017