Mi chiamo PAOLO EMANUELE BORSELLINO


Testo scritto da Riccardo Matera in occasione del compleanno di Paolo Borsellino, utilizzando frasi del Magistrato, unite da sue personali riflessioni, brevissimi intermezzi solo per dare fluidità al discorso.

 

Salve a tutti!

Mi presento soprattutto a beneficio dei più giovani, che forse non mi conoscono. Con questa lettera intendo raccontarvi qualcosa della mia intensa vita.

Mi chiamo PAOLO EMANUELE BORSELLINO e nasco a Palermo il 19 gennaio 1940.

Sì, oggi è il mio compleanno!

La conoscete Palermo? Vi dico la verità, all’inizio «Palermo non mi piaceva, per questo ho imparato ad amarla. Perché il vero amore consiste nell’amare ciò che non ci piace per poterlo cambiare».

In particolare, nasco nel quartiere della Kalsa, in cui vivono tra gli altri anche Giovanni Falcone e Tommaso Buscetta. Sapete, «per anni ho pensato quanto fosse impalpabile, in quel quartiere, il confine che ci separava dalla mafia. Come tanti altri ragazzi che abitano alla Magione, in vicolo del Pallone, in via Butera, avrei potuto imboccare la strada di contrabbandiere, di uomo d’onore, anziché quella di magistrato», ma ci pensate se fossi diventato un uomo d’onore? Scherzi a parte, «non ho mai chiesto di occuparmi di mafia. Ci sono entrato per caso. E poi ci sono rimasto per un problema morale. La gente mi moriva attorno».

«Avevo scelto di rimanere in Sicilia e a questa scelta dovevo dare un senso. I nostri problemi erano quelli dei quali avevo preso ad occuparmi quasi casualmente, ma se amavo questa terra di essi dovevo esclusivamente occuparmi. Non ho lasciato più questo lavoro e da quel giorno mi occupo pressoché esclusivamente della criminalità mafiosa. E sono ottimista perché vedo che verso di essa i giovani, siciliani e non, hanno oggi attenzione ben diversa da quella colpevole indifferenza che io mantenni sino ai quarant’anni. Quando questi giovani saranno adulti avranno più forza di reagire di quanto io e la mia generazione ne abbiamo avuta».

Ma ritorniamo indietro qualche anno. Frequento il Liceo Classico “Meli”, sempre a Palermo, dove dirigo il giornale scolastico “Agorà” in cui si parla dei problemi della mia Sicilia, in un periodo difficile, quando molti lavoratori cominciano ad emigrare per trovare lavoro e questo mi fa soffrire profondamente. Penso che l’unione fra studenti e lavoratori di Palermo possa portare alla soluzione di molti problemi della Sicilia. Infatti, «se gli sforzi dei vari giovani che affrontano ogni anno sacrifici, talvolta anche rilevanti, per dar vita a giornali di istituto resteranno disuniti, i risultati saranno sterili. E questo nostro ottimismo è giustificato dal fatto che si trova in cantiere un giornale unico per tutte le scuole di Palermo e un convegno della stampa cittadina studentesca che getti le basi per una lunga e proficua discussione sui nostri problemi». Il tempo passa e le cose in Sicilia non migliorano!

Nel 1958 accedo alla facoltà di Giurisprudenza di Palermo, anche se la mia famiglia avrebbe preferito una mia iscrizione in Farmacia. Dopo tanti sacrifici, il 27 giugno 1962 – a 22 anni – conseguo la laurea con 110 e lode, discutendo una tesi dal titolo: “Il Fine dell’Azione Delittuosa”.

Un anno dopo, nel 1963 supero il concorso in magistratura e divento il magistrato più giovane d’Italia. «Sono diventato giudice perché nutrivo grandissima passione per il diritto civile ed entrai in magistratura con l’idea di diventare un civilista, dedito alle ricerche giuridiche e sollevato dalle necessità di inseguire i compensi dei clienti. La magistratura mi appariva la carriera per me più percorribile per dar sfogo al mio desiderio di ricerca giuridica, non appagabile con la carriera universitaria, per la quale occorrevano tempo e santi in paradiso. Fui fortunato e diventai magistrato nove mesi dopo la laurea (1964) e fino al 1980 mi occupai soprattutto di cause civili, cui dedicavo il meglio di me stesso».

Svolgo una parte dell’uditorato (periodo di pratica per i magistrati) a fianco del giudice Terranova, quindi vengo trasferito ad Enna. Il Presidente del Tribunale, Nello Sciacca parla di me nel discorso di commiato per aver ottenuto il trasferimento a Catania: «Un discorso a parte merita Paolo Borsellino. Tremo per lui e lo raccomando a tutti voi. Cercate di spiegargli pure quante sigarette si possono impunemente fumare in un giorno, quanto pepe vada sparso sulle pietanze, e infine come non sia del tutto indispensabile, uscendo di casa, lasciare la luce accesa, la porta spalancata e tutti i rubinetti aperti. Lo ricorderò sempre come un caro ragazzo, che poteva essere mio figlio, e dietro il quale correvo giù per le scale del tribunale gridando: “Paolo, accidenti a te, torna indietro, fuori piove e fa freddo! Paolo, torna indietro, almeno l’ombrello…”». Sono un po’ scapestrato, è vero, ma forse solo perché sono un uomo normalissimo, con pregi e difetti.

Nel 1967 arrivo a Mazara del Vallo e vengo nominato pretore.

Nella mia vita privata vi parlerò poco, ma l’anno più importante per me è il 1968. Sapere perché? Semplice! È l’anno del mio matrimonio con Agnese! Il 23 dicembre 1968, infatti, ho l’onore di diventare il marito di Agnese Piraino Leto nella Chiesa SS. Trinità alla Magione di Palermo. La notizia del nostro matrimonio viene anche pubblicata sul “Giornale di Sicilia”! Sapete, conservo ancora il ritaglio del quotidiano.

Il 1969 è l’anno del mio trasferimento a Monreale. Conosco il Capitano dei Carabinieri Emanuele Basile e qui, purtroppo, entro in contatto con «la mafia sanguinaria di provincia, i Corleonesi, i “Viddani”, per intenderci.Con interessi radicati nelle campagne, ma con ramificazioni già profonde in altri centri, Palermo in testa». Da questo momento comincia il mio impegno senza sosta per sconfiggere l’organizzazione mafiosa, ma proprio loro, i Corleonesi, «il 4 maggio 1980 uccisero il Capitano Emanuele Basile ed il Commendator Chinnici volle che mi occupassi io dell’istruzione del relativo procedimento. Nel mio stesso ufficio frattanto era approdato, provenendo anche egli dal civile, il mio amico di infanzia Giovanni Falcone e sin dall’ora capii che il mio lavoro doveva essere un altro».

In questa fase drammatica non sono più impiegato a Monreale. Infatti, «nel 1975 per rientrare a Palermo, ove ha sempre vissuto la mia famiglia, ero approdato all’Ufficio Istruzione Processi Penali – proprio diretto da Rocco Chinnici – ma ottenni l’applicazione, anche se saltuaria, ad una sezione civile e continuai a dedicarmi soprattutto alle problematiche dei diritti reali, delle dispute legali, delle divisioni ereditarie ecc.».

La mia vita e quella mia famiglia cambia radicalmente. Aumenta la paura. Certo, «è normale che esista la paura, in ogni uomo, l’importante è che sia accompagnata dal coraggio. Non bisogna lasciarsi sopraffare dalla paura, altrimenti diventa un ostacolo che impedisce di andare avanti», ma io penso che «chi ha paura muore ogni giorno, chi non ha paura muore una volta sola!». In realtà, la cosa assurda è che «noi giudici siamo in libertà vigilata e i boss e i latitanti vanno al mare e al ristorante!».

Assieme a me lavorano Giovanni Falcone e Giovanni Barrile. Falcone «lo conoscevo… quando eravamo ragazzi. È più grande di me di sei mesi, si è diplomato e laureato tre mesi prima di me, persino nell’ingresso in magistratura mi ha preceduto: tre mesi di anticipo, anche lì».

Le nostre indagini concentrate principalmente nella lotta alle cosche iniziano a dare i primi frutti. Arriva la prima intervista televisiva importante e subisco le “critiche spietate” da parte di mio figlio Manfredi a causa del mio accento troppo siciliano e del modo strascicato di parlare. Mi accusa di aver parlato come se fossi seduto a tavola a mangiare, non pensando di essere davanti a milioni di persone. Gli sorrido.

Accanto ai successi investigativi arrivano inevitabilmente le accuse contro Chinnici e contro di noi. Ma «questa faccenda dei mandati di cattura facili viene sollevata sempre quando c’è di mezzo un colletto bianco. Nessuno si lamenta quando si usa il giusto rigore con i delinquenti comuni».

Il mio duro lavoro viene molto apprezzato da Rocco Chinnici che scrive persino un encomio in mio favore. Ve lo leggo: «Magistrato degno di ammirazione, dotato di raro intuito, di eccezionale coraggio, di non comune senso di responsabilità, oggetto di gravi minacce, ha condotto a termine l’istruzione di procedimenti a carico di pericolose associazioni a delinquere di stampo mafioso». Ma la richiesta di questo encomio non verrà accolta. Non importa. Ci sono cose ben peggiori nella vita, peggiori delle critiche e delle accuse.

Infatti, il 29 luglio 1983 un’autobomba esplode in Via Pipitone Federico a Palermo. Rocco Chinnici muore assieme ai due membri della scorta e al portiere dello stabile dove risiedeva il mio capo. Sapete perché è stato ucciso Chinnici? Perché «la mafia ha capito tutto. Avrebbero potuto colpire me o Falcone, ma avrebbero solo reciso la diramazione di un corpo articolato. Uccidere Chinnici, il consigliere istruttore che ha impresso una svolta epocale nelle indagini antimafia, significa troncare la testa di quel corpo, la mente di un ufficio».

A sostituire Chinnici arriva a Palermo il giudice Antonino Caponnetto. Siciliano d’origini, prende le redini di un ufficio istruzione smarrito, mettendo in piedi una squadra di giovani magistrati che si occupano esclusivamente degli affari di Cosa Nostra. Oltre a me e Giovanni Falcone, ci sono Leonardo Guarnotta e Giuseppe Di Lello. Nasce il Pool Antimafia! Esso si propone «di stimolare la produzione di adeguati Pool di giudici inquirenti ben distribuiti e in costante contatto, così come avvenuto per il terrorismo», «il potenziamento degli organi di polizia giudiziaria», «la revisione dei criteri di scelta dei giudici popolari per assicurarne la piena indipendenza», «l’istituzione di un’anagrafe bancaria per scovare i capitali sporchi della mafia».

Come potete immaginare, la nostra attività si intensifica e approfondisce vari filoni d’inchiesta. Iniziamo a lavorare su quello che verrà definito il “Maxiprocesso”, anche grazie alle dichiarazioni del collaboratore di giustizia Tommaso Buscetta. «Con Buscetta abbiamo visto la mafia dal di dentro, abbiamo scoperto che accanto agli uomini d’onore ci sono collaboratori stabili, ma esterni».

Purtroppo, il 28 luglio 1985, la violenza mafiosa colpisce il Funzionario della Squadra Mobile di Palermo, Beppe Montana, nostro fidato ed esperto collaboratore. Questo evento delittuoso provoca un altro cambiamento nella mia vita e in quella della mia famiglia. «Ricordo ciò che mi disse Ninnì Cassarà allorché ci stavamo recando assieme sul luogo dove era stato ucciso il dottor Montana alla fine del luglio del 1985, credo. Mi disse: “Convinciamoci che siamo dei cadaveri che camminano”».

«La notizia che la mafia progettava qualcosa contro di noi e dei nostri familiari giunse dalla squadra speciale di agenti carcerari che raccoglieva voci ed umori delle celle. Adesso questa squadra non esiste più. Ricordo che fummo presi, io, Giovanni, sua moglie Francesca, mia moglie e i miei tre figli. In 48 ore ci portarono all’Asinara: in aereo fino ad Alghero, poi a Porto Torres via terra ed infine nell’isola con la motovedetta degli agenti».

Pochi giorni dopo il nostro trasferimento forzato, il 6 agosto 1985, viene assassinato anche Ninni Cassarà, Dirigente della Squadra Mobile di Palermo, a cui ero molto legato. Partecipai al suo funerale nonostante il confino coatto. «Era difficile continuare a lavorare. I telefoni funzionavano male e non avevamo con noi le carte. Giovanni era riuscito a portarsi appresso la parte che riguardava l’omicidio Dalla Chiesa. Per me era più difficile perché, per quello che dovevo fare, avrei dovuto portare all’Asinara circa 800 volumi. Tra parentesi, tutta questa vicenda ha provocato una grave malattia a mia figlia, l’anoressia psicogena, e mi scese sotto i 30 chili. Siamo stati buttati all’Asinara a lavorare per un mese e alla fine ci hanno presentato il conto, ho ancora la ricevuta. Pagammo – noi e i familiari – diecimila lire al giorno per aver utilizzato la foresteria del carcere, sei stanzette, e in più pagammo i pasti. I magistrati fuori sede hanno diritto alla missione. Ma quella era una missione particolare. Avremmo dovuto chiedere il rimborso. Non lo facemmo, allora avevamo cose più importanti da fare».

Finalmente, lunedì 10 febbraio 1986, inizia nell’aula bunker di Palermo il “Maxiprocesso” contro Cosa Nostra: quasi cinquecento imputati sono accusati di associazione mafiosa, omicidio, estorsione e traffico di droga.

Io, tuttavia, in quel periodo prendo servizio a Marsala in una delle Procure più impegnate sul fronte della lotta alla criminalità organizzata. In seguito a quel nuovo incarico, accadde una cosa che mi ferì davvero. Leonardo Sciascia, sul Corriere della Sera, attacca me e il sindaco di Palermo Leoluca Orlando in un articolo dal titolo «I Professionisti dell’Antimafia». In particolare, vengo attaccato io per la nomina a Marsala e dice che «nulla vale più, in Sicilia, per far carriera nella magistratura, del prender parte a processi di stampo mafioso». Vengo considerato un «privilegiato» poiché in Sicilia si sostiene che il potere fondato sulla lotta alla mafia «è molto simile, tutto sommato, al potere mafioso e al potere fascista». Ma come potete intuire facilmente, «c’è qualcuno che ha interesse a screditarmi, un burattinaio che ha sfruttato la buonafede dello scrittore».

Antonino Caponnetto è costretto a lasciare la guida del Pool di Palermo per motivi di salute. Giovanni Falcone è l’erede naturale di Caponnetto, ma il CSM non è dello stesso parere. «Quando Giovanni Falcone solo, per continuare il suo lavoro, propose la sua aspirazione a succedere ad Antonino Caponnetto, il CSM, con motivazioni risibili gli preferì il consigliere Antonino Meli. Falcone concorse, qualche Giuda si impegnò subito a prenderlo in giro, e il giorno del mio compleanno il CSM ci fece questo regalo». «Si doveva nominare Falcone per garantire la continuità all’Ufficio», ma «hanno disfatto il Pool antimafia», «hanno tolto a Falcone le grandi inchieste», e rendetevi conto «la Squadra Mobile non esiste più», «stiamo tornando indietro, come 10 o 20 anni fa!». «Il vero obiettivo del CSM era eliminare al più presto Giovanni Falcone». Per queste dichiarazioni vengo messo sotto inchiesta!

L’11 dicembre 1991 ritorno alla Procura di Palermo come Procuratore Aggiunto, insieme al sostituto Antonio Ingroia. Si ricomincia a lavorare con l’impegno e la dedizione di sempre, anche grazie al contributo di nuovi pentiti e di nuove rivelazioni confermano il legame tra mafia e politica. «I rapporti tra mafia e politica? Sono convinto che ci siano e ne sono convinto non per gli esempi processuali, che sono pochissimi, ma per un assunto logico: è l’essenza stessa della mafia che costringe l’organizzazione a cercare il contatto con il mondo politico. È maturata nello Stato e nei politici la volontà di recidere questi legami con la mafia? A questa volontà del mondo politico non ho mai creduto». Ricordatevi che «politica e mafia sono due poteri che vivono sul controllo dello stesso territorio: o si fanno la guerra o si mettono d’accordo».

«L’equivoco su cui spesso si gioca è questo: si dice quel politico era vicino ad un mafioso, quel politico è stato accusato di avere interessi convergenti con le organizzazioni mafiose, però la magistratura non lo ha condannato, quindi quel politico è un uomo onesto. E NO! Questo discorso non va, perché la magistratura può fare soltanto un accertamento di carattere giudiziale, può dire: beh! Ci sono sospetti, ci sono sospetti anche gravi, ma io non ho la certezza giuridica, giudiziaria che mi consente di dire quest’uomo è mafioso. Però, siccome dalle indagini sono emersi tanti fatti del genere, altri organi, altri poteri, cioè i politici, le organizzazioni disciplinari delle varie amministrazioni, i consigli comunali o quello che sia, dovevano trarre le dovute conseguenze da certe vicinanze tra politici e mafiosi che non costituivano reato ma rendevano comunque il politico inaffidabile nella gestione della cosa pubblica. Questi giudizi non sono stati tratti perché ci si è nascosti dietro lo schermo della sentenza: questo tizio non è mai stato condannato, quindi è un uomo onesto. Ma dimmi un poco, ma tu non ne conosci di gente che è disonesta, che non è stata mai condannata perché non ci sono le prove per condannarla, però c’è il grosso sospetto che dovrebbe, quantomeno, indurre soprattutto i partiti politici a fare grossa pulizia, non soltanto essere onesti, ma apparire onesti, facendo pulizia al loro interno di tutti coloro che sono raggiunti comunque da episodi o da fatti inquietanti, anche se non costituenti reati».

Purtroppo, «lo Stato non si presenta con la faccia pulita. Che cosa si è fatto per dare allo Stato un’immagine credibile?». «La vera soluzione sta nell’invocare, nel lavorare affinché lo Stato diventi più credibile, perché noi ci dobbiamo identificare di più in queste istituzioni».

Fra l’altro, «io non mi sento protetto dallo Stato perché quando la lotta alla mafia viene delegata solo alla magistratura e alle forze dell’ordine, non si incide sulle cause di questo fenomeno criminale». Ma vado avanti! Sono abituato a fare il mio dovere! «A fine mese, quando ricevo lo stipendio, faccio l’esame di coscienza e mi chiedo se me lo sono guadagnato».

Il 23 maggio 1992 è senza dubbio il giorno più brutto della mia vita. A Capaci, in seguito ad un terribile attentato mafioso dalla violenza inaudita, muoiono Giovanni Falcone, Francesca Morvillo e tre agenti della scorta.

«Falcone “È morto così, tra le mie braccia”». «La mia vita è cambiata innanzitutto perché, dalla morte di questo mio vecchio amico e compagno di lavoro. È chiaro che io sono rimasto particolarmente scosso e sono ancora impegnato […] a recuperare tutte le mie possibilità operative sulle quali il dolore ha inciso in modo enorme».

Mi viene offerto di sostituire Falcone alla Superprocura, ma rifiuto! «La scomparsa di Giovanni Falcone mi ha reso destinatario di un dolore che mi impedisce di rendermi beneficiario di effetti comunque riconducibili a tale luttuoso evento». «In pochi giorni mi sento invecchiato di dieci anni, non solo perché ho perso un amico, ma perché ho perso il mio scudo: mi sento solo!».

La mia vita è cambiata, ormai in maniera irreversibile. «È cambiata anche perché sia per la morte di Falcone, sia per taluni altri fatti, mi riferisco alle dichiarazioni ormai pubbliche di quel collaboratore che ha parlato e ha detto di essere stato incaricato di uccidermi e la notizia è arrivata alla stampa in concomitanza con la notizia della strage di Capaci. Le mie condizioni sono state estremamente appesantite le misure di protezione nei miei confronti e nei confronti dei miei familiari. È chiaro che in questo momento io ho visto quasi del tutto, anzi, vorrei dire del tutto, pressoché abolita la mia vita privata. Ho temuto nell’immediatezza della morte di Falcone una drastica perdita di entusiasmo nel lavoro che faccio. Fortunatamente, se non dico di averlo ritrovato, ho almeno ritrovato la rabbia per continuarlo a fare».

«Io voglio decisamente credere che la morte di Falcone così dirompente, così di ammanco che riescano finalmente ad avere la forza di prendere una serie di decisioni ordinarie ma drastiche».

Ma sapete davvero perché è morto Falcone? «Perché non è fuggito, perché ha accettato questa tremenda situazione… per amore. La sua vita è stata un atto d’amore verso questa città, verso questa terra che lo ha generato. Perché se l’amore è soprattutto ed essenzialmente dare, per lui, amare Palermo e la sua gente ha avuto e ha il significato di dare a questa terra qualcosa, tutto ciò che era possibile dare delle nostre forze morali, intellettuali e professionali per rendere migliore questa città e la patria a cui essa appartiene. Giovanni, Francesca e gli uomini della scorta «sono morti per noi e abbiamo un grosso debito verso di loro. Questo debito dobbiamo pagarlo gioiosamente, continuando la loro opera, rifiutando di trarre dal sistema mafioso anche i benefici che possiamo trarne, anche gli aiuti, le raccomandazioni, i posti di lavoro, facendo il nostro dovere […] dimostrando a noi stessi e al mondo che Falcone è vivo!».

Io vado avanti! Non mi fermeranno! «Non sono né un eroe né un kamikaze, ma una persona come tante altre. Temo la fine perché la vedo come una cosa misteriosa, non so quello che succederà nell’aldilà. Ma l’importante è che sia il coraggio a prendere il sopravvento. Se non fosse per il dolore di lasciare la mia famiglia, potrei anche morire sereno».

«Io ho sempre accettato rischio del lavoro che faccio, del luogo dove lo faccio e, vorrei dire, anche di come lo faccio. Lo accetto perché ho scelto, ad un certo punto della mia vita, di farlo e potrei dire che sapevo fin dall’inizio che dovevo correre questi pericoli. La sensazione di essere un sopravvissuto e di trovarmi, come viene ritenuto, in estremo pericolo, è una sensazione che non si disgiunge dal fatto che io credo ancora profondamente nel lavoro che faccio, so che è necessario che lo faccia, so che è necessario che lo facciano tanti altri assieme a me. E so anche che tutti noi abbiamo il dovere morale di continuarlo a fare senza lasciarci condizionare dalla certezza che tutto questo può costarci caro».

«Davanti alle difficoltà non bisogna arrendersi. Al contrario, devono stimolarci a fare sempre di più e meglio, o superare gli ostacoli per raggiungere i risultati che ci siamo prefissati».

Continuerò a lavorare, a qualsiasi costo! Per questo, all’indomani della Strage di Capaci, mi sono sentito di affermare: «Chi vuole andare via da questa Procura se ne vada. Ma chi vuole restare sappia quale destino ci attende».

Per 57 giorni mi impegno senza un attimo di respiro e potete ben immaginare il mio stato d’animo. «Devo fare in fretta, adesso tocca a me». Non posso fermarmi. Non ci riesco. È più forte di me. Trascuro la mia famiglia, i miei figli, ma devo fare in modo che i miei cari si abituino al distacco.

Il problema è che «sto vedendo la mafia in diretta» e sono sicuro che «mi ucciderà la mafia, ma saranno altri che mi faranno uccidere, la mafia mi ucciderà quando altri lo consentiranno».

«Se muoio adesso, il mio compito l’ho svolto. Ho dato alla luce e fatto crescere tre figli come voi, l’educazione e gli insegnamenti che potevo darvi li ho trasmessi. Ho la fortuna di non essere una persona sconosciuta, se pronunci il mio nome la gente sa chi sono e cosa ho fatto. Ho svolto il mio lavoro onestamente, ho saputo dare tanto amore alla mia famiglia, sono contento perché credo di essere stato un buon figlio, un buon marito, un buon padre». «Devo essere pronto… in ogni momento!».

Arriva il 19 luglio 1992! Trascorro una rilassante giornata al mare nella casa di Villagrazia di Carini con la mia famiglia, la mia scorta e degli amici. Purtroppo, mia figlia Fiammetta si trova in Indonesia con alcuni compagni. So che «il tritolo è arrivato anche per me», ma cerco di passare una domenica diversa dopo settimane estenuanti di duro lavoro e incredibili tensioni.

Nel pomeriggio vado da mia madre, Maria Lepanto, in Via Mariano D’Amelio perché la devo accompagnare a fare una visita cardiologica. Verso le 16.58 sento una fortissima esplosione che fa tremare la terra. Si ode un boato infernale! Lo scenario è apocalittico! La vista si annebbia! Tutto diventa confuso! Perdo di vista i membri della mia scorta. La mia Agenda Rossa scompare dalla borsa. Ripeto, tutto è confuso! Non so dire se è la luce troppo intensa a impedirmi di vedere o il buio troppo fitto!

Ho solo un pensiero in testa, raggiungere mia madre! Lei pensa che siano saltate le tubature del gas. Le vado incontro. In quel inferno chiamato Via D’Amelio la strada a ingombra di vetri e vedo mia madre mentre scende le scale a piedi nudi. Non posso permettere che si ferisca. La sollevo con le mie braccia e la conduco in un angolo dove non possa vedere quello scempio provocato dalla crudeltà umana.

Miei cari giovani, non voglio annoiarvi ulteriormente con i miei ricordi. Sono felice che oggi ricordiate il mio compleanno, ma vi prego, non limitatevi alle commemorazioni. «Parlate della mafia. Parlatene alla radio, in televisione, sui giornali. Però parlatene». «Se la gioventù le negherà il consenso, anche l’onnipotente mafia svanirà come un incubo».

Non dovete dimenticare che «i giudici non vogliono tifosi, vogliono cittadini attenti». «La Rivoluzione si fa nelle piazze con il popolo, ma il cambiamento si fa dentro la cabina elettorale con la matita in mano. Quella matita, più forte di qualsiasi arma, più pericolosa di una lupara e più affilata di un coltello».

«La lotta alla mafia, il primo problema da risolvere, nella nostra terra bellissima e disgraziata, non – deve – essere soltanto una distaccata opera di repressione, ma un movimento culturale e morale che – coinvolga – tutti e specialmente le giovani generazioni, le più adatte a sentire subito la bellezza del fresco profumo di libertà che fa rifiutare il puzzo del compromesso morale, della indifferenza, della contiguità e quindi della complicità».

Non scordatevi di me!