- PIETRO AGLIERI depone al “Borsellino Quater” (AUDIO)
- PIETRO AGLIERI: “Non incaricammo Scarantino, non davo confidenza a gente simile”
(ANSA) Per la prima volta il boss Pietro Aglieri, dal ’97 al 41 bis, ammette l’esistenza della mafia e il suo ruolo di capo parlando come teste in udienza al Borsellino quater. Ha confermato di avere ipotizzato, davanti all’ex procuratore nazionale antimafia Pierluigi Vigna, la possibilità di una sorta di “desistenza”: l’uscita dalla “famiglia”. E ha parlato del depistaggio del falso pentito Scarantino per la strage di via D’Amelio, mentre non ha risposto alle domande su Totò Riina.
Borsellino quater, parla Pietro Aglieri: “Non incaricammo Scarantino, non davo confidenza a gente simile”
“Conosco Scarantino. Era della mia stessa borgata, quella della Guadagna. Lo incontravo quasi giornalmente. Eravamo vicini di casa. Posso ribadire quanto già detto in precedenza: Scarantino non poteva essere investito da me di alcun incarico per commettere azioni rilevanti. Escludo che io nella mia posizione abbia dato confidenza a gente simile”. Comincia così la deposizione del boss Pietro Aglieri al processo Borsellino quater, in corso a Caltanissetta, che vede imputati della strage di via D’Amelio i capimafia Vittorio Tutino e Salvo Madonia e di calunnia aggravata i falsi pentiti Vincenzo Scarantino, Calogero Pulci e Francesco Andriotta.
E’ la prima volta che Aglieri depone in un processo: il boss viene sentito come testimone assistito e non come imputato di procedimento connesso, quindi può solo parzialmente avvalersi della facoltà di non rispondere. Il dibattimento, che nasce dalle dichiarazioni del pentito Gaspare Spatuzza, sta facendo luce sul clamoroso depistaggio messo in essere da Scarantino e altri falsi collaboratori di giustizia costato l’ergastolo a 7 innocenti.
“Non sono mai stato coinvolto nella strage di via D’Amelio nè direttamente, nè indirettamente. Mi accertai, dopo l’arresto di Scarantino, che lui non c’ entrasse nulla con il furto della 126 e mi venne escluso. Per questo ero tranquillo che non sarei stato tirato in mezzo all’ inchiesta. Cosa che poi invece accadde”. Nega di essere coinvolto nell’uccisione del giudice Paolo Borsellino e della sua scorta il boss mafioso Pietro Aglieri che sta deponendo al processo Borsellino quater. “Quando arrestarono Scarantino – aggiunge – capii che qualcuno stava costruendo prove contro di me e i miei: per questo chiesi di accertare che Scarantino, che conoscevo in quanto viveva nella mia borgata, non era coinvolto nel furto della 126 (auto usata per la strage, ndr)”.
Alla domanda se avesse mai parlato con Totò Riina delle accuse di coinvolgimento nell’eccidio rivolte a uomini del suo mandamento Aglieri ha risposto: “Certo non potevo andare da Riina a fare domande perchè avrei dato per scontato che lui sapeva qualcosa. Ma a me di questa strage nessuno mi aveva parlato, quindi come avrei potuto dare per presupposto che lui aveva informazioni?”.
“Non ho mai pensato di dissociarmi o di collaborare con la giustizia. Ebbi un colloquio investigativo con l’allora procuratore nazionale Vigna. E gli dissi esplicitamente che non volevo nè collaborare nè dissociarmi. Allora lui mi chiese cosa si poteva fare per questa nostra terra e io risposi che non potevo prendere certe decisioni per gli altri e che casomai se c’era una possibilità era che ciascuno singolarmente dicesse ‘desisto dal continuare ad andare contro lo Stato e a delinquere’”. Precisa la sua posizione rispetto a Cosa nostra il boss Pietro Aglieri che, per la prima volta, sta rispondendo alle domande del pm in un processo. La testimonianza è in corso nell’ambito del cosiddetto Borsellino quater, processo in corso davanti alla corte d’assise di Caltanissetta.
“Con Vigna – aggiunge – non si intavolò una trattativa. Io gli dissi che forse, come prevedeva la legge sul terrorismo, si poteva parlare di desistenza. La desistenza doveva servire a desistere dall’associazione, anche perchè siccome dopo il mio arresto ebbi un altro colloquio investigativo e mi dissero che nella zona di mia influenza le estorsioni erano aumentate, il mio principale interesse era quello di non associare il mio nome a queste nuove situazioni che contrastavano col mio modo di pensare. Chiunque avesse accettato la desistenza doveva anche cercare di fare opera di persuasione per evitare cose che andavano contro il popolo”. “Mai chiesi – spiega – che ci venisse tolto il 41 bis. Casomai parlai di applicazione dei benefici carcerari che valevano per i singoli detenuti”.
“A un certo punto Scarantino lasciò la località protetta e tornò a casa. Io dissi che nessuno doveva toccarlo perchè era solo un povero diavolo che si era trovato in mezzo a una cosa più grossa di lui. Come si sia accusato di cose che non stavano nè in cielo nè in terra non lo so. I suoi familiari dissero che veniva sottoposto a pressioni fisiche e psichiche e chi c’è passato so a cosa mi riferisco”, ha precisato il boss durante il processo Borsellino.
“Nonostante le pressioni lui resisteva – ha aggiunto – Pare che chi lo interrogava gli dicesse: ‘mentre sei qua tua moglie ti tradisce’. Credo sia stato questo il motivo che gli fece cambiare atteggiamento. Infatti la prima cosa che chiese fu di vedere i figli”. “Scarantino raccontò ai familiari – ha spiegato – che più di una volta era stato chiamato in carcere da gente in borghese che voleva indurlo a collaborare”. Il capomafia della Guadagna ha anche specificato che gli fu subito chiaro, dopo l’arresto di Scarantino, che le indagini “avevano preso una piega che faceva acqua da tutte le parti” e che l’allora capo della mobile di Palermo Arnaldo La Barbera “era in mala fede”.
“Scarantino -ha affermato- era un ladruncolo e nel pomeriggio della strage si trovava in un albergo. Per noi era risaputo che l’arresto di Scarantino altro non era che un errore giudiziario e che prima o poi la verità sarebbe venuta fuori. Era evidente che qualcuno stesse costruendo delle prove contro di noi. Era scontato che Scarantino non fosse coinvolto. Essendo tuttavia un ladruncolo, poteva essere stato coinvolto nel furto di una 126 ma non sulla strage di via d’Amelio”. Fu proprio con l’arresto di Scarantino che iniziò un enorme depistaggio sulla strage di via D’Amelio.
Secondo Aglieri, “Scarantino inizialmente riuscì a resistere a tutte le torture fisiche e psichiche subite ma il suo punto debole era il suo essere molto legato alla moglie. Mi disse che in carcere fu contattato da persone in borghese per indurlo a collaborare e che firmò dei fogli in bianco”. A proposito dell’allora capo della Squadra Mobile di Palermo, Arnaldo La Barbera, che arrestò Scarantino e lo accusò della strage, Aglieri ha detto: “Mon riuscivamo a spiegarci perchè La Barbera e il suo pool avessero scelto questa linea che faceva acqua da tutte le parti. Era evidente -ha poi commentato- che fosse una persona in malafede”. In merito a una sua dissociazione da Cosa nostra, o come l’ha chiamata lui “desistenza”, Aglieri si è limitato a riferire di averla avviata insieme ad altri boss con l’allora procuratore nazionale antimafia Pier Luigi Vigna. “Non chiedevamo l’abolizione del 41 bis ma di ottenere solo qualche beneficio carcerario”, ha specificato. Sui suoi rapporti con Totò Riina, il boss ha preferito avvalersi della facoltà di non rispondere.
“Vincenzo Scarantino era una nullità, era una persona inaffidabile. Si occupava di scippi, contrabbando di sigarette, furti e spacciava droga”. Così anche l’ex boss Carlo Greco, deponendo a Caltanissetta. Greco, rispondendo ad una domanda del pm Stefano Luciani, ha tenuto a precisare che -contrariamente alle voci circolate su di lui- non si è mai dissociato da Cosa nostra. “Mi interrogò l’allora procuratore nazionale antimafia, Pietro Vigna. Ero disponibile ad una desistenza ma il tema con Vigna in realtà non venne mai più approfondito. Questa è una storia che mi porto dentro da 18 anni. Sono contrario alla dissociazione perchè corrisponderebbe al ruolo di un pentito”, ha affermato Greco. L’ex boss ha sostenuto di non aver mai preso parte a nessuna delle riunione in cui furono decise le stragi del ’92. Il processo riprendera’ il 22 dicembre, quando sono citati a depore gli ex ufficiali dei Ros, Mario Mori e Giuseppe De Donno.