Il magistrato Sabella e quella stretta di mano a Brusca
A distanza di anni, quali sono i suoi sentimenti sul caso Brusca? “In quegli anni, per noi Brusca incarnava il male assoluto perché era l’uomo rampante di Cosa nostra, con il più alto livello militare. Il suo nome era legato alla strage di Capaci e al sequestro del figlio di Di Matteo – che, in realtà, fu opera degli uomini di Giuseppe Graviano -. Ad acuire la sua aura contribuì senz’altro la sfortuna che avemmo in quegli anni nella sua cattura: si trattò di due irruzioni andate a vuoto, una nella sua casa nel gennaio ’96, l’altra il 25 febbraio successivo. Eravamo molto tesi in quei mesi, perché percepivamo la cattura di Brusca come una corsa contro il tempo”.
Chi è veramente Giovanni Brusca? “È un personaggio che è stato sopravvalutato nelle strategie criminali, ma che ha avuto un ruolo nel portarle a termine. Lui è nato mangiando pane e mafia, perché figlio di Bernardo Brusca, grande amico di Totò Riina. Il rapporto tra questi e il giovane Brusca fu ambivalente: da una parte Riina lo rispettava in nome della stima per suo padre e perché era sveglio, dall’altro Brusca fu un ribelle, pertanto non sempre accettato in toto. Quando andai a interrogare Brusca dopo la sua cattura, pensi che non si ricordava nemmeno di tutti quelli che aveva ucciso. Ricordo che arrivai con l’elenco dei morti da lui ammazzati fino alla cattura e con lui spuntavamo la lista. Noi aiutammo la sua memoria”.
Secondo lei, per una persona che ha ucciso quasi 200 persone, il legislatore dovrebbe considerare due tipologie di assassini? “Va ricordata una cosa: il requisito dei collaboratori con la giustizia è la rilevanza. Sembra paradossale, ma più è alto il numero dei reati di una persona, più importante è la sua collaborazione. La realtà è che la distinzione la fanno i magistrati sui collaboratori di giustizia. In merito ai collaboratori di giustizia, la legge prevede la detenzione domiciliare dopo che essi hanno scontato un quarto della loro pena. Brusca, invece, ha scontato quasi tutta la sua pena e ancora non è in detenzione domiciliare. Come vede, la differenza i magistrati la fanno. Tina Montinaro, la vedova del poliziotto Antonio Montinaro ucciso nella strage di Capaci, ricorda che molti autori della strage di Capaci oggi sono liberi. Brusca è sì un personaggio particolare, ma ricordiamoci che la sua collaborazione è stata importantissima”.
Perché la sua personalità è così dirimente? “Perché dirimente è stata la questione del ravvedimento dell’individuo, dove la Procura Nazionale Antimafia e la Magistratura di sorveglianza hanno dato due pareri differenti. La prima ha valutato la rilevazione della collaborazione che il detenuto dà. La magistratura di sorveglianza , invece, il suo percorso morale. Su questo, Brusca resta un arrogante, in lui non c’è un ravvedimento morale. Per questo io non ho voluto mai chiamare i collaboratori di giustizia ‘pentiti’. A differenza del collaboratore di giustizia, il pentito ha un valore molto più alto, perché è un uomo che vuole fare ammenda, chiede scusa”.
Quanti pentiti ci sono fra ex-mafiosi? “Si contano su una mano. Ho saputo di pentiti che hanno avviato un volontariato presso le parrocchie, per esempio, e che hanno fatto un percorso interiore di dolore e di rifiuto del peccato. Per la stragrande maggioranza di loro, invece, dovremmo parlare di collaboratori di giustizia: persone che hanno deciso di stipulare un contratto con lo Stato che avrà dei profili poco etici, ma è indispensabile. A tal proposito, occorre ricordare che questo tipo di contratto è stato voluto dal volto della lotta alle mafie, il giudice Giovanni Falcone, che proprio Brusca uccise”.
Ma lei, tolte le vesti del magistrato, che sentimenti prova davanti a tali storie brutali? “I miei sentimenti umani li ho anche raccontati nel libro Il cacciatore di mafiosi. Ricordo un episodio: quando ricevetti la telefonata in cui mi annunciarono che Brusca voleva collaborare, ricordo che mi accasciai su una poltrona per venti minuti. Il mio pensiero fu: ‘come farò a stringere la mano a una persona del genere?’”
Alla fine, gliel’ha stretta? “Sì, credo sia stato un modo per dimostrare che la forza dello Stato non risiede nella vendetta, ma nelle regole. L’uomo resta un essere umano. E tutti gli esseri umani nascono uguali in dignità e diritti, come recita la Dichiarazione dei diritti universali dell’uomo, compresi Brusca e Riina”.
Secondo lei, oggi sono cambiati i collaboratori di giustizia rispetto a ieri? “Adesso c’è una componente di calcolo maggiore. I mafiosi che hanno iniziato a collaborare quando non c’era una normativa che dava certe garanzie, probabilmente avevano un afflato etico maggiore rispetto a quelli di oggi. La differenza, semmai, la ravviso nella gestione dei magistrati”.
In che senso? “I magistrati devono avere le competenze scientifiche per gestire il collaboratore di giustizia, che è una ‘bestia’ stranissima. Questi cerca di compiacere il suo interlocutore e se non sei bravo a farti capire, acquisisci le sue dichiarazioni in maniera più genuina di come dovresti. Oggi, inoltre, c’è un calo di professionalità da parte dei magistrati. In passato, lo Stato mandava i suoi uomini migliori a contrastare le mafie. Oggi abbiamo una maggiore professionalità globale della magistratura, ma una mancanza di punte d’eccellenza e capita che alcuni casi non vengano trattati con la dovuta e meticolosa attenzione che avevamo noi all’epoca. Al confronto, noi eravamo attentissimi”.
Oggi qual è il nuovo volto delle mafie? “A livello di pericolosità, Cosa nostra è al terzo posto, dopo camorra e ‘ndrangheta. Il volto delle mafie oggi è cambiato. Parlando della ‘ndrangheta, per esempio, il mafioso può essere un imprenditore che gestisce fiumi di denaro in attività lecite e illecite”.
Quali mezzi si utilizzano oggi per contrastarla? “Il metodo migliore è avere una voce all’interno che racconta quello che è accaduto. Per questo la nostra legge sui collaboratori di giustizia è importante, tant’è che è stata copiata anche da altri Paesi europei. Come dico sempre, le mafie si contrastano sì con la repressione ma, cosa più importante, con la sostituzione. Se la magistratura è impegnata a ‘tagliare’ la criminalità, lo Stato deve prendere il posto occupato dalla mafia. Mi viene in mente un episodio che ho vissuto dopo la cattura di Pietro Aglieri nel ’97. Quando si rifiutò di collaborare con la giustizia, mi disse: ‘Quando voi andate nelle scuole a parlare di mafia, i ragazzi pensano sia giusto; ma quando i ragazzi cercano un lavoro o una casa, chi trovano se non noi?’. È, dunque, necessario che sia lo Stato a soddisfare i bisogni della gente e fare in modo che i diritti dei cittadini non siano trasformati in favori”.
Oltre a Giovanni Falcone, secondo lei vi sono altri modelli virtuosi? “Vorrei ricordare la figura di don Pino Puglisi, che venne ammazzato il 15 settembre 1993 a Palermo, morì perché non si limitò a condannare la mafia a parole: creò il centro Padre Nostro, dove insegnava ai ragazzi in difficoltà a farsi una cultura ed essere autonomi per avviarli in un percorso di libertà nella vita sociale. Questo le mafie non potevano tollerarlo”.
Lei ieri a Storie Italiane ha parlato di subcultura mafiosa da sradicare… “Se si pensa ai giovani di Brancaccio dopo la chiusura del centro di don Puglisi, i giovani avevano i mafiosi come loro idoli. La loro idea di scala sociale puntava a raggiungere le più alte sfere della mafia, per loro l’uomo che conta restava il mafioso”.
A tal proposito, cosa pensa delle serie televisive e di quei film che mettono al centro i mafiosi, e che spingono molti giovani ad immaginarsi tali? “Credo che sia importante chiarire da che parte stare. In alcuni prodotti televisivi, c’è il rischio che passi un’immagine epica, finanche un po’ etica, della mafia. Cito un film straordinario dal punto di vista tecnico come Il padrino. Nel film, don Vito Corleone è ritratto quasi come un uomo giusto. Ma la mafia che ho conosciuto negli anni Novanta era solo incentrata sul potere e l’avidità di denaro. Creare questo ‘fascino del male è quanto di più sbagliato noi educatori possiamo fare, perché si rischia di alimentare un fenomeno”.
In che senso? “Il male affascina, ahimè, più del bene. Quando ero magistrato a Palermo, avevo il diritto di censura sulle lettere che ricevevano Riina e Bagarella, cioè controllavo la loro corrispondenza personalmente. Ha idea di quante donne si dichiaravano innamorate dei due? All’inizio non ci credevo, poi ho compreso che si tratta del fascino del male che Riina e Bagarella suscitavano. Questo dovrebbe farci riflettere, perché oggi si tende a rendere il male cool“.
Sull’ergastolo ostativo, invece, cosa ne pensa? “Io credo che un punto su cui bisognerebbe insistere è quello della giustizia riparativa. Oggi bisognerebbe modificare le norme, tenendone però il substrato. Un tempo, fui fervente assertore dell’abolizione dell’ergastolo; quando ho conosciuto la mafia, mi sono ricreduto. Penso che in taluni casi l’ergastolo ostativo sia uno strumento di cui il nostro Paese non può fare a meno. Aspettiamo, però, la sentenza della Corte di Giustizia europea, ma la giustizia riparativa potrebbe essere un’ottima soluzione perché favorire il contatto tra vittime e carnefici è dignitoso”.
Che cosa si potrebbe fare, invece, per i familiari delle vittime? “La maggioranza di loro viene ricordata, ma occorrerebbe che le istituzioni siano più presenti con loro, non solo nel tempo di un applauso ai funerali”.
Cosa pensa invece della richiesta del reddito di cittadinanza da parte dell’ex brigatista Saraceni, che per l’Inps è regolare? “Da magistrato posso dire che, se per legge, la sua richiesta è regolare, lo Stato dovrebbe riconoscerglielo. Ma la legge che consente questo è moralmente ingiusta, per cui da cittadino, penso che in questi casi il legislatore debba fare una modifica normativa per impedire a queste persone l’accesso al reddito di cittadinanza”.
Molto spesso la mafia ha utilizzato la parvenza del religioso per le sue affiliazioni. Che lettura dà di questo binomio, che è connaturato ai contesti in cui la mafia si sviluppa? “Non si tratta di religione, ma di superstizione. Quando senti di mafiosi che, prima di un omicidio, invocano l’aiuto di Dio o pregano, ti rendi conto che si tratta di superstizione che usa i simboli cattolici, diametralmente opposta alla figura e ai valori di Gesù Cristo. Lo aveva già ricordato papa Giovanni Paolo II nel suo straordinario, storico discorso alla Valle dei Templi, purtroppo in contrasto con quello che in passato è avvenuto con alcuni prelati della Chiesa siciliana, che non hanno avuto la stessa equidistanza con la mafia, come invece dovuto”. IN TERRRIS 10 ottobre 2019e