I PROCESSI E I DEPISTAGGI – Per la strage di via D’Amelio l’iter giudiziario è stato lunghissimo. Confessioni, falsi pentiti, condanne poi ribaltate. Le rivelazioni del pentito Gaspare Spatuzza hanno riaperto le indagini sull’attentato scoprendo il depistaggio che era costato la condanna all’ergastolo a sette innocenti poi scagionati. Si è arrivati al cosiddetto “processo quater”, che ha messo un punto forse definitivo nello stabilire una verità sui fatti. Il 30 giugno 2018 la Corte d’Assise di Caltanissetta ha depositato 1865 pagine di motivazioni per il quarto processo sull’attentato Borsellino, la cui sentenza era arrivata 14 mesi prima. Secondo i giudici si è trattato di “uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria italiana” con protagonisti uomini dello istituzioni. Il 20 aprile del 2017 il processo aveva portato alle condanne all’ergastolo per Salvino Madonia e Vittorio Tutino, il primo tra i mandanti, il secondo tra gli esecutori materiali. Altri imputati sono stati condannati per calunnia in quanto finti collaboratori di giustizia usati per creare una ricostruzione a tavolino delle fasi esecutive della strage costata in precedenza l’ergastolo a sette innocenti. Per Vincenzo Scarantino, il più discusso dei falsi pentiti, protagonista di ritrattazioni nel corso di vent’anni di processi, i giudici hanno dichiarato la prescrizione concedendogli l’attenuante prevista per chi viene indotto a commettere il reato da altri.
I poliziotti rinviati a giudizio – I giudici di Caltanissetta hanno puntato il dito anche contro i servitori infedeli dello Stato autori dei depistaggi. Secondo i magistrati, l’allora capo della Squadra Mobile Arnaldo La Barbera (ora morto) ebbe un “ruolo fondamentale nella costruzione delle false collaborazioni con la giustizia ed è stato intensamente coinvolto nella sparizione dell’agenda rossa”. Alcuni investigatori, mossi da “un proposito criminoso”, avrebbero quindi indirizzato l’inchiesta e costretto Scarantino a raccontare una falsa versione della fase esecutiva dell’attentato. Inoltre avrebbero compiuto “una serie di forzature, indebite suggestioni, radicalmente difformi dalla realtà”. La Procura di Caltanissetta ha chiesto il rinvio a giudizio di tre poliziotti per il depistaggio delle indagini. Il funzionario Mario Bo, che è stato già indagato per gli stessi fatti e che ha poi ottenuto l’archiviazione, e i poliziotti Michele Ribaudo e Fabrizio Mattei. Sono accusati di calunnia in concorso aggravata. Nel settembre 2018, i tre sono stati rinviati a giudizio.
La storia del depistaggio su Via D’Amelio – Come la procura di Caltanissetta si ostinò per anni a proteggere un’accusa falsificata, facendo condannare persone estranee all’attentato a Paolo Borsellino di Enrico Deaglio Questo articolo è parte di uno speciale sul depistaggio con cui agenti di polizia e magistrati costruirono e portarono a sentenza una versione falsa sui responsabili della morte del giudice Paolo Borsellino e degli agenti della sua scorta, e sul documento investigativo del 1998 – reso pubblico per un “disguido” nel 2013 – che suggeriva questa tesi. Il 23 maggio scorso, in occasione del 25esimo anniversario della strage di Capaci, la RAI ha organizzato un “evento” per ricordare i tre eroi nazionali, Giovanni Falcone, Francesca Morvillo e Paolo Borsellino, uccisi dalla mafia insieme alle loro scorte in due successivi attentati nel 1992: il primo sull’autostrada all’altezza di Capaci, vicino a Palermo, dove fu fatta esplodere l’auto del magistrato Giovanni Falcone uccidendo lui e sua moglie, anche lei magistrato, e tre uomini della scorta; il secondo a Palermo in via D’Amelio, dove un’altra esplosione uccise il magistrato Paolo Borsellino e cinque uomini della sua scorta. La serata televisiva è stata guidata da Fabio Fazio che si è avvalso di molti contributi di personaggi famosi. I contatti televisivi sono stati 13 milioni, a dimostrazione dell’affetto che gli italiani continuano ad avere per i loro eroi uccisi, e ha scontato, come spesso accade in queste rievocazioni, la retorica e l’autoglorificazione delle cariche presenti che hanno assicurato: “non sono morti invano, non accadrà mai più”. A un certo punto, però, qualcosa ha guastato la celebrazione unanime. Sul palco è comparsa la signora Fiammetta Borsellino, la figlia minore del magistrato, che nel 1992 aveva 19 anni. Negli anni, gli italiani hanno imparato a conoscere e ad apprezzare la famiglia: Rita, la sorella, che si è sobbarcata l’onere della testimonianza politica, come europarlamentare e candidata a governatore della Sicilia; Lucia, la figlia maggiore, già assessora regionale alla sanità, costretta alle dimissioni dopo minacce disgustose e completamente false; Manfredi, il figlio, valente e schivo commissario di polizia di Termini Imerese e Salvatore, il fratello, che guida un movimento che chiede la verità sulle stragi. La moglie del giudice, la signora Agnese, morta nel 2013, ha testimoniato negli ultimi anni della sua vita i sospetti che il marito aveva sulle istituzioni (dicendo tra l’altro: «Paolo mi confidò, sconvolto, che il generale dei Ros Antonio Subranni era “punciutu”», affiliato alla mafia).
E dunque, Fiammetta, ora diventata una signora di 44 anni, con i capelli corti, vestita casualmente, è apparsa per la prima volta su un palco; e con molta emozione, ha detto: Credo che ricordare la morte di mio padre, di Giovanni Falcone, di Francesca e degli uomini della scorta, possa contribuire a coltivare il valore della memoria. Quel valore necessario per proiettarsi nel futuro con la ricchezza del passato significa anche dire in maniera ferma da che parte stiamo, perché noi stiamo dalla loro parte, dalla parte della legalità e della giustizia per le quali sono morti. Credo che con questa stessa forza dobbiamo pretendere la restituzione di una verità che dia un nome e un cognome a quelle menti raffinatissime che con le loro azioni e omissioni hanno voluto eliminare questi servitori dello stato, quelle menti raffinatissime che hanno permesso il passare infruttuoso delle ore successive all’esplosione, ore fondamentali per l’acquisizione di prove che avrebbero determinato lo sviluppo positivo delle indagini. Quelle prove a cui mio padre e Giovanni tenevano così tanto. Tutto questo non può passare in secondo piano, e non può passare in secondo piano che per via di false piste investigative ci sono uomini che hanno scontato pene senza vedere in faccia i loro figli, come quei giovani che sono morti nella strage di Capaci. Questa restituzione della verità deve essere anche per loro. La verità è l’opposto della menzogna, dobbiamo ogni giorno cercarla, pretenderla e ricordarcene non solo nei momenti commemorativi. Solo così, guardando in faccia i nostri figli, potremmo dire loro che siano in un paese libero, libero dal puzzo del potere e del ricatto mafioso.
Anche Fabio Fazio si era commosso, e ha dato a Fiammetta Borsellino un’empatica carezza sulla schiena. Ma evidentemente nemmeno Fazio ha il potere di far parlare i muti e l’appello non è stato ripreso.
La signora Fiammetta Borsellino si riferiva al fatto che, a distanza di un quarto di secolo, non solo non si conosce quasi nulla del delitto Borsellino, ma è tuttora in pieno svolgimento il più lungo depistaggio – qualsiasi siano le ragioni che lo hanno determinato, probabilmente più d’una – che la storia della nostra Repubblica ricordi; un depistaggio che ha ostinatamente impedito la ricerca della verità, che ha mandato all’ergastolo (e al 41 bis, il carcere severissimo) nove persone estranee a quell’accusa per 11 anni e ha coinvolto – restituendoli al mondo corrotti e umiliati di fatto, ma fieri e soddisfatti pubblicamente – decine di investigatori, di magistrati e di uomini delle istituzioni.
Seguo questa storia dal giorno dello scoppio di via D’Amelio, sono testimone del depistaggio fin dalle sue origini e cinque anni fa ho pubblicato un libro che si chiama “Il vile agguato”, che parlava di tutto ciò. Credo che questa vicenda sia la più grave – e tuttora molto oscura – della recente storia d’Italia. Ora poi c’è molto di più. Esistono delle cose provate e delle notizie che rispondono all’appello per la verità di Fiammetta Borsellino, ma non ne parla nessuno.
La prima versione sulla strage di via D’Amelio Le indagini sulla strage di via D’Amelio, avvenuta il 19 luglio 1992, vennero assegnate al “gruppo Falcone-Borsellino” guidato dal capo della Squadra Mobile di Palermo Arnaldo La Barbera. L’iniziativa (confermata da un decreto urgente della presidenza del consiglio) fu del prefetto Luigi De Sena, all’epoca capo del Sisde, in seguito diventato senatore del PD, che è morto nel 2015: Arnaldo La Barbera, che aveva trascorsi di carriera in Veneto come lui, era un suo vecchio amico ed era stato anche suo confidente al Sisde, il servizio segreto del ministero degli Interni. Ovvero: il Sisde affidò le indagini a un uomo del Sisde (il servizio segreto aveva avuto anche un controverso accidente del caso: il dirigente del Sisde Bruno Contrada, con il suo fedele assistente Lorenzo Narracci, era casualmente in vacanza su una barca a vela di fronte al porto al momento dello scoppio; furono tra i primi a esserne informati – con una tempistica così rapida da essere oggetto di sospetti e accuse mai provate – e poi ad arrivare sul posto). I giorni seguenti la strage di via D’Amelio – causata da un’autobomba fatta esplodere davanti alla casa della madre di Paolo Borsellino al momento dell’arrivo di quest’ultimo – furono di grande angoscia. Magistrati e poliziotti di Palermo erano in rivolta, la famiglia Borsellino aveva rifiutato i funerali di Stato, l’esercito italiano stava per scendere in forze in Sicilia, la lira stava crollando sui mercati, il “nemico” (ma chi era?) sembrava in grado di condurre a termine inaudite operazioni militari. C’era bisogno di rincuorare l’opinione pubblica e di trovare un colpevole rapidamente. La polizia comunicò immediatamente che la bomba era stata messa in un’utilitaria. Già il 13 agosto il Sisde di Palermo annunciò di aver individuato l’automobile usata e la carrozzeria dove era stata preparata; alla fine di settembre venne nominato il “colpevole”, nella persona di Vincenzo Scarantino, 27 anni: era stato lui a organizzare il furto della Fiat 126. Lo accusavano altri tre delinquenti arrestati un mese prima per violenza carnale. (Un mese dopo, intanto, in seguito ad un’indagine collegata agli ultimi impegni investigativi di Borsellino e sulla base delle dichiarazioni di alcuni pentiti, venne arrestato per il reato di “concorso esterno in associazione mafiosa” il numero tre del Sisde, Bruno Contrada, l’uomo che veleggiava e i cui uomini avevano per primi intuito la pista Scarantino: sarebbe stato condannato con sentenza definitiva nel 2006, ma dichiarata “ineseguibile” nei giorni scorsi in seguito ai dubbi espressi dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo sulla validità del reato di “concorso esterno in associazione mafiosa”). Le prime indagini furono, effettivamente, scandalose per una quantità enorme di omissioni e di iniziative grottesche, quali quella di riempire 56 sacchi neri di detriti dell’esplosione e di spedirli a Roma per farli valutare dall’FBI. Vennero interrogati pochissimi testimoni, in particolare non vennero interrogati alcuni inquilini del palazzo che dopo vent’anni si scoprì essere stati molto importanti; il consulente informatico della polizia, Gioacchino Genchi, venne estromesso dalle indagini da La Barbera; non si seppe nulla per tre mesi e mezzo della borsa di Paolo Borsellino, che era rimasta sul sedile posteriore dell’auto che lo trasportava e poi depositata in una questura. I familiari denunciarono subito la scomparsa di un’agenda di colore rosso che il giudice portava sempre con sé.
Ma c’era Scarantino, e questo contava. Il suo arresto era stato annunciato così dal procuratore Tinebra: «Siamo riusciti con un lavoro meticoloso e di gruppo, con la partecipazione di magistrati, tecnici e investigatori, che hanno lavorato in sintonia, a conseguire un risultato importante quale l’arresto di uno degli esecutori della strage di via D’Amelio». Appena di Scarantino si seppe qualcosa di più, fu però una vera delusione, tanto apparve fasullo. Era un ragazzo, di bassissimo livello intellettuale, piccolo spacciatore, non affiliato a Cosa Nostra benché nipote di un boss della Guadagna, il quartiere meridionale di Palermo dove era conosciuto come lo scemo della borgata. Però aveva confessato, e nei mesi seguenti questo personaggio così improbabile, da semplice ladro d’auto che scambiava con qualche dose di eroina, si trasfigurò in astuto organizzatore, reclutatore di un piccolo esercito, stratega militare, partecipante di prestigio alle riunioni della Cupola. Ma già di fronte alle obiezioni dei giornalisti nella prima conferenza stampa il procuratore Tinebra aveva risposto: «Scarantino non è uomo di manovalanza».
Come denunciò subito l’avvocato Rosalba De Gregorio, difensore di alcuni imputati coinvolti da Scarantino: «Scarantino era un insulto alla nostra intelligenza». Messo a confronto con due grossi boss collaboranti, questi stessi si indignarono che la polizia potesse pensare che Cosa Nostra si avvalesse di un personaggio simile («Ma veramente date ascolto a questo individuo?»). I verbali con gli esiti di quei confronti, sparirono: non li fecero sparire però i servizi, ma i pm.
L’inchiesta marciava spedita con molta hybris da parte di La Barbera, sicuro che sarebbe riuscito a piazzare un prodotto che lui per primo non avrebbe comprato. Il ragazzo stesso, peraltro, si smentiva, ritrattava, denunciava, piangeva, ma nessuno gli dava retta malgrado emergessero via via testimonianze di violenze e pressioni sulla sua famiglia, dei verbali ritoccati e concordati, degli interrogatori condotti in modi anomali: le sue ritrattazioni erano «tecniche di Cosa Nostra che conosciamo bene», scrisse il pm Nino Di Matteo, che in una requisitoria sostenne che «la ritrattazione dello Scarantino ha finito per avvalorare ancor di più le sue precedenti dichiarazioni»; «dietro questa ritrattazione c’è la mafia» disse il pm Palma. Intanto, il procuratore di Palermo Sabella che aveva interrogato Scarantino su altro lo aveva invece ritenuto «fasullo dalla testa ai piedi»: «decidemmo di non dare alcun credito alle sue rivelazioni».
In tre successivi processi – il Borsellino 1, il Borsellino 2, il Borsellino Ter – l’attendibilità di Scarantino venne certificata da un’ottantina di giudici, tra Assise, Appello e Cassazione. Il ragazzo aveva intanto denunciato torture a Pianosa, promesse, inganni, – arrivò persino a fuggire dal suo rifugio e a telefonare al tg di Italia1 per denunciare la sua situazione – ma i magistrati non vollero credergli e Scarantino riuscì a ottenere solo pesanti condanne per calunnia.
Arnaldo La Barbera, intanto, per meriti scarantiniani, diventò prima Questore di Palermo e di Napoli, poi Prefetto, poi capo dell’Ucigos, l’Ufficio centrale per le investigazioni generali e per le operazioni speciali, un ufficio centrale della polizia di stato. L’ultima immagine ce lo mostra con casco e scarpe da tennis all’assalto della scuola Diaz durante il G8 del 2001 nella “giornata nera” della polizia italiana. Allontanato dall’incarico dopo quello scandalo, La Barbera morì per un tumore al cervello nel 2002 a soli 60 anni.
Tutta la “baracca Scarantino”, intanto, continuò placidamente fino al 2008, senza che nessuno – giornalisti, politici, mafiologi, commissione antimafia, CSM – trovasse strano che, in mezzo a tanti discorsi su strategie, trattative, struttura di Cosa Nostra, eccetera, la realizzazione della strage di via D’Amelio fosse stata affidata a un ragazzo bocciato tre volte in terza elementare; un ragazzo che non era stato neppure ricompensato per la sua impresa, ma che dopo il “colpo del secolo” aveva continuato a tramestare nel suo quartiere rubando gomme. POST 13 LUGLIO 2017