PROCESSO DEPISTAGGIO news 2021

16.11.2021 – Ingroia: “Borsellino non si fidava di molti pm”/ “Mi disse ‘Manda tutti in ferie’ e…” Antonio Ingroia, ex procuratore aggiunto di Palermo, è stato ascoltato come teste dell’accusa nel processo sul depistaggio sulle indagini della strage di Via D’Amelio: l’oggi avvocato, come riportato da Adnkronos, ha parlato del periodo antecedente alla morte di Paolo Borsellino e dei comportamenti che quest’ultimo aveva. “Non si fidava di molti pm della Procura. Aveva sempre la porta chiusa”. La situazione era cambiata soprattutto negli ultimi tempi. Prima, infatti, era sempre sorridente e amichevole, tanto che “nel suo studio c’era un via vai di colleghi”, a differenza di Giovanni Falcone che era più riservato. Il giudice ucciso il 19 luglio 1992 si fidava, in base alla ricostruzione, di lui e di pochi altri. “Pensava che l’80 per cento della procura fosse controllata dal Procuratore di allora Giammanco. Poi c’era un gruppo sparuto chiamato in modo sprezzante i ‘Falconiani’ che per lui era un punto di riferimento”, ha spiegato Antonio Ingroia. È per questa ragione che quell’estate non voleva che l’ex procuratore aggiunto di Palermo andasse in vacanza. “Mi disse ‘Fai andare tutti questi in ferie e ci lavoriamo noi’”.  Ingroia: “Borsellino non si fidava di molti pm”. La collaborazione con Mutolo Un elemento chiave nel racconto di Antonio Ingroia sugli ultimi giorni di vita di Paolo Borsellino riguarda la collaborazione con Gaspare Mutolo, che doveva restare segreta. “Ricordo un giorno mi disse nella sua stanza di non dire a nessuno di una importante collaborazione che stava per arrivare. La prima volta non mi disse neanche il nome, ma che c’era un grosso pentito che si apprestava a collaborare e che a suo parere poteva fare luce su legami tra Cosa Nostra e altri ambienti”, ha ricordato. Pochi giorni dopo, tuttavia, Bruno Contrada, dirigente dei Servizi Segreti arrestato a dicembre del 1992 per concorso esterno in associazione mafiosa, era a conoscenza del pentimento di Gaspare Mutolo. “Paolo lo percepì come un segnale preoccupante. Pensò che qualcuno dal ministero dell’Interno voleva fargli sapere che Contrada non era solo e c’erano loro dietro di lui”, ha concluso. IL SUSSIDIARIO


15.12.2021 Depistaggio Borsellino, Ingroia: “Mutolo era pronto a parlare di uomini dello Stato”. “Nei giorni immediatamente successivi alla strage di via d’Amelio nell’attivita’ immediatamente sviluppata dalla Procura di Caltanissetta ci venne comunicato che il procuratore capo Tinebra aveva chiesto e ottenuto dal procuratore generale di Palermo di poter avere un ufficio a sua disposizione dentro il palazzo di giustizia di Palermo, che gli venne concesso al primo piano. Tinebra mi contatto’ per incontrarmi. Ci andai“. A raccontare le fasi subito dopo la strage di Via D’Amelio del 19 luglio del 1992, in cui persero la vita Paolo Borsellino e cinque agenti della sua scorta, e’ l’avvocato Antonio Ingroia, ex pm, chiamato oggi a deporre come teste nell’ambito del processo sul depistaggio delle indagini sulla strage, che si svolge a Caltanissetta “Tinebra – ha continuato Ingroia rispondendo alle domande del pm Maurizio Bonaccorso – si presento’ vestito in maniera informale e mi disse che voleva farsi un’idea e se c’erano cose particolari sul quale indirizzare le indagini. Mi parve importante e significativo metterlo a parte di cio’ che avevo saputo la sera stessa della strage, seduto su una delle panchine dei corridoi della Procura di Palermo. Eravamo io, la collega Teresa Principato e il collega Ignazio De Francisci; entrambi mi raccontarono di aver appreso da Paolo Borsellino, il sabato 18, quando io non ero in ufficio, che uno o due giorni prima aveva interrogato Gaspare Mutolo, il quale, fuori verbale, gli aveva anticipato delle rivelazioni che aveva da fare su uomini dello Stato e cioe’ Bruno Contrada e il magistrato Domenico Signorino“.  “Borsellino si recò a Roma al ministero dell’Interno e riferì che con una scusa venne accompagnato in una stanza in cui incontrò Bruno Contrada. Quest’ultimo era a conoscenza dell’inizio della collaborazione di Gaspare Mutolo. Borsellino lo percepì come un segnale preoccupante. Pensò che qualcuno dal ministero dell’Interno voleva fargli sapere che Contrada non era solo e c’erano loro dietro di lui. Questo lo appresi da Carmelo Canale e poi da Agnese Borsellino“.Ha concluso l’avvocato Antonio Ingroia il SICILIA


15.12.2021 – Strage via D’Amelio, Ingroia: ‘Borsellino cominciò a non fidarsi più’. Il processo si svolge a Caltanissetta. “Sono certo che la ritrattazione fatta da Vincenzo Scarantino fu verbalizzata. Scarantino disse che l’avevano indotto a collaborare. I magistrati erano sconcertati e amareggiati. Il dottor Petralia si mise quasi le mani ai capelli. Pensavano: ‘ma Scarantino ci aveva riferito cose che solo chi in qualche modo ha partecipato al fatto può conoscere. E quindi o gliele ha dette qualcuno oppure c’è qualcosa che non va’ “.
L’interrogatorio del ’98. Lo ha detto Santino Carmelo Foresta, ex avvocato di Vincenzo Scarantino, deponendo oggi nel corso dell’udienza del processo sul depistaggio delle indagini sulla Strage di via D’Amelio che si celebra a Caltanissetta, in riferimento a un interrogatorio del 2 settembre del 1998. Accusatosi di aver partecipato all’attentato contro il giudice Paolo Borsellino, Scarantino viene arrestato il 29 settembre 1992. Dopo essere stato recluso nel carcere di massima sicurezza di Pianosa, decise di collaborare con gli inquirenti spiegando come venne organizzata la strage in cui morì il giudice Borsellino. Venne condannato a 18 anni e poi cominciò ad accusare poliziotti e magistrati. Nel 1998 Scarantino ritrattò tutto affermando di non avere preso parte all’attentato di via D’Amelio e di essere stato costretto da Arnaldo La Barbera, ex capo della squadra mobile di Palermo a confessare il falso, e di aver subito maltrattamenti durante la sua detenzione nel carcere di Pianosa. Nel 2007 il pentito Gaspare Spatuzza ha confessato di essere stato l’autore del furto dell’auto Fiat 126 usata per l’attentato, scagionando Scarantino e dimostrando che era un falso pentito, usato per sviare le indagini sulla morte di Borsellino. “Quando Scarantino ritrattò i magistrati si posero il problema che sapeva delle cose che non poteva sapere se si era inventato tutto. Chiaramente quello che era accaduto non era del tutto normale. Durante l’interrogatorio – ha aggiunto il teste rispondendo alle domande dell’avvocato Giuseppe Scozzola – non ricordo se ci fossero state delle pause e non ricordo nemmeno se gli furono mostrate foto. Erano presenti i pm Francesco Paolo Giordano, Annamaria Palma e Carmelo Petralia. Dopo un po’ nel corso del suo interrogatorio ritrattò la sua stessa ritrattazione confermando quanto detto in precedenza”.


La testimonianza di Ingroia. “Borsellino si recò a Roma al ministero dell’Interno e riferì che con una scusa venne accompagnato in una stanza in cui incontrò Bruno Contrada. Quest’ultimo era a conoscenza dell’inizio della collaborazione di Gaspare Mutolo. Borsellino lo percepì come un segnale preoccupante. Pensò che qualcuno dal ministero dell’Interno voleva fargli sapere che Contrada non era solo e c’erano loro dietro di lui. Questo lo appresi da Carmelo Canale e poi da Agnese Borsellino”. Lo ha detto l’avvocato Antonio Ingroia, chiamato oggi a deporre come teste nell’ambito del processo sul depistaggio delle indagini sulla strage di via D’Amelio che si celebra a Caltanissetta, che ha aggiunto: “”Nell’ultima fase della sua vita Paolo Borsellino teneva la porta del suo ufficio sempre chiusa. Il suo carattere era sempre stato allegro ed estroverso, a differenza di quello di Giovanni Falcone che era più riservato. Quindi era uno che aveva sempre tenuto la porta aperta con un viavai continuo di colleghi. Nell’ultimo periodo teneva sempre chiusa la porta. Mi disse che era per tutelare la sua riservatezza, perché chiunque passava vedeva con chi si incontrava. Non si fidava più. Ricordo – ha aggiunto Ingroia, rispondendo alle domande dell’avvocato Fabio Trizzino – che incontrandomi nella sua stanza mi disse di non dire a nessuno di una importante collaborazione che stava per arrivare. La prima volta non mi disse neanche il nome, ma che c’era un grosso pentito che si apprestava a collaborare e che a suo parere poteva fare luce su legami tra Cosa Nostra e altri ambienti. Mi chiese di non dirlo neanche a Roberto Scarpinato, perché quest’ultimo era uno con cui io parlavo”. LIVE SICILIA


15.11.2021 – Depistaggio Borsellino, l’ex avvocato di Scarantino: “Pm sconcertati da ritrattazione”. “Sono certo che la ritrattazione fatta da Vincenzo Scarantino fu verbalizzata. Scarantino disse che l’avevano indotto a collaborare. I magistrati erano sconcertati e amareggiati. Il dottor Petralia si mise quasi le mani ai capelli. Pensavano: ‘ma Scarantino ci aveva riferito cose che solo chi in qualche modo ha partecipato al fatto può conoscere. E quindi o gliele ha dette qualcuno oppure c’è qualcosa che non va‘ “. Lo ha detto Santino Carmelo Foresta, ex avvocato di Vincenzo Scarantino, deponendo oggi nel corso dell’udienza del processo sul depistaggio delle indagini sulla Strage di via D’Amelio che si celebra a Caltanissetta, in riferimento a un interrogatorio del 2 settembre del 1998. Accusatosi di aver partecipato all’attentato contro il giudice Paolo Borsellino, Scarantino viene arrestato il 29 settembre 1992. Dopo essere stato recluso nel carcere di massima sicurezza di Pianosa, decise di collaborare con gli inquirenti spiegando come venne organizzata la strage in cui morì il giudice Borsellino. Venne condannato a 18 anni e poi cominciò ad accusare poliziotti e magistrati. Nel 1998 Scarantino ritrattò tutto affermando di non avere preso parte all’attentato di via D’Amelio e di essere stato costretto da Arnaldo La Barbera, ex capo della squadra mobile di Palermo a confessare il falso, e di aver subito maltrattamenti durante la sua detenzione nel carcere di Pianosa. Nel 2007 il pentito Gaspare Spatuzza ha confessato di essere stato l’autore del furto dell’auto Fiat 126 usata per l’attentato, scagionando Scarantino e dimostrando che era un falso pentito, usato per sviare le indagini sulla morte di Borsellino. “Quando Scarantino ritrattò i magistrati si posero il problema che sapeva delle cose che non poteva sapere se si era inventato tutto. Chiaramente quello che era accaduto non era del tutto normale. Durante l’interrogatorio – ha aggiunto il teste rispondendo alle domande dell’avvocato Giuseppe Scozzola – non ricordo se ci fossero state delle pause e non ricordo nemmeno se gli furono mostrate foto. Erano presenti i pm Francesco Paolo Giordano, Annamaria Palma e Carmelo Petralia. Dopo un po’ nel corso del suo interrogatorio ritrattò la sua stessa ritrattazione confermando quanto detto in precedenza”.IL SICILIA



15.12.2021 *- INGROIA, “PAOLO BORSELLINO NON SI FIDAVA DI MOLTI PM DELLA PROCURA DI PALERMO”. 
“Pensava che l’80 per cento fosse controllato dal Procuratore Giammanco”.. Caltanissetta, 15 dic. (Adnkronos)

“Nel periodo precedente alla strage di via d’Amelio Paolo Borsellino non si fidava di molti pm della Procura di Palermo”. Lo ha detto l’ex Procuratore aggiunto di Palermo Antonio Ingroia deponendo al processo sul depistaggio sulla strage di via D’Amelio a Caltanissetta. Rispondendo alle domande dell’avvocato di parte civile della famiglia Borsellino, l’avvocato Fabio Trizzino, che è anche il genero del giudice ucciso nella strage, ha spiegato che Borsellino si fidava di lui ” pochi altri”.
“Pensava che l’80 per cento della procura fosse controllata dal Procuratore di allora Giammanco”. “Mi disse che era sua intenzione affiancare me a lui durante l’estate per la collaborazione di questi collaboratori, in particolare Leonardo Messina, perché si fidava di me, perché c’erano molti magistrati di cui non si fidava – dice – Io quel giorno, il 15 luglio del 1992, l’ultima volta che lo vidi, gli dissi che stavo per prendermi qualche giorno di ferie ma lui non la prese bene. Io lo andai a salutare ma lui rimase con la testa china, mi salutò freddamente”.
Borsellino aveva chiesto a Ingroia di affiancarlo nella gestione di due collaboratori, Gaspare Mutolo e Leonardo Messina. “Mi disse ‘Fai andare tutti questi in ferie e ci lavoriamo noi’. Perché stava andando in una procura che considerava per l’80 per cento controllata dal procuratore Giammanco. Poi c’era un gruppo sparuto chiamato in modo sprezzante i ‘Falconiani’ che per lui era un punto di riferimento”.

27.11.2021 Pignatone: “Nessun contrasto su mafia-appalti” “Borsellino, almeno in mia presenza e a riunioni a cui partecipai io, non disse mai che sull’inchiesta mafia-appalti si sarebbe potuto fare di più. Cioè non si è mai lamentato che l’indagine non fosse stata valorizzata come meritava”. Lo ha detto Giuseppe Pignatone, ex procuratore di Roma, per anni in Procura a Palermo, deponendo al processo sul depistaggio delle indagini sulla strage di Via D’Amelio in corso davanti al tribunale di Caltanissetta. Imputati, con l’accusa di calunnia aggravata, i poliziotti Mario Bo, Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo. Pignatone è stato citato per riferire dell’inchiesta mafia-appalti secondo alcuni vero movente dell’attentato a Borsellino. Borsellino che, a marzo 1992 fu nominato procuratore aggiunto a Palermo, avrebbe potuto approfondire l’indagine sulle commistioni mafia, politica e imprenditoria e proprio per questo, secondo alcuni, sarebbe stato ucciso.“Nessuno si è mai permesso di dirmi cosa fare dall’esterno o ha fatto pressioni – ha detto Pignatone – In caso contrario lo avrei denunciato. All’interno dell’ufficio l’allora procuratore Giammanco ci disse di lavorare e valorizzare gli elementi che andavano valorizzati, d’altro canto non si arrestano persone senza prove”, ha aggiunto Pignatone smentendo qualunque sottovalutazione dell’inchiesta mafia-appalti.“A metà luglio facemmo un’assemblea dell’ufficio – ha spiegato il teste – In quel periodo dalla stampa arrivavano attacchi alla Procura e accuse di avere insabbiato l’inchiesta. Giammanco convocò i colleghi proprio per una operazione trasparenza e per spiegare come erano andate le cose”. “In quell’occasione Borsellino, con cui già avevamo parlato di una tranche dell’indagine, ci chiese se si trattava degli accertamenti che comprendevano un appalto di Pantelleria e gli dicemmo di sì. A quel punto rispose solo di parlarne con Ingroia”. LA SICILIA


27.11.2021 – Scarpinato accusa i carabinieri del Ros. «Dopo la morte di Paolo Borsellino, precisamente a settembre del 1992, il Ros dei carabinieri depositò la cosiddetta informativa Sirap in cui si sosteneva che dietro le illecite aggiudicazioni degli appalti in Sicilia c’erano politici come Nicolosi, Mannino e Lima. Scoprimmo allora che i carabinieri erano in possesso di intercettazioni a carico di questi e altri personaggi ‘illustri’ già dal 1990 e che fino al 1992, nonostante nel 91 ci avessero consegnato una prima informativa, non vi avevano fatto cenno». Punta il dito sui carabinieri del Ros l’ex procuratore generale di Palermo Roberto Scarpinato, sentito come teste al processo sul depistaggio delle indagini sulla strage di via D’Amelio in corso a Caltanissetta. Scarpinato è stato citato dal legale di due degli imputati, l’avvocato Giuseppe Seminara che assiste i poliziotti Michele Ribaudo e Fabrizio Mattei, imputati del depistaggio e accusati di calunnia aggravata, insieme al funzionario di polizia Mario Bo. Oggetto della deposizione l’inchiesta mafia-appalti condotta dalla procura nei primi anni ’90. Secondo alcuni legali proprio il rischio che da quell’indagine venissero fuori collusioni tra mafia, politica e imprenditoria sarebbe stata il movente dell’accelerazione dell’attentato a Borsellino che dal marzo dal marzo 1992 arriva come aggiunto in Procura a Palermo. La Procura all’epoca venne accusata con una campagna di stampa di aver insabbiato gli accertamenti. Accusa respinta da Scarpinato che ha ricostruito tutte le fasi dell’indagine che portò poi ad arresti e condanne di politici e imprenditori e quindi – spiega il magistrato – fu tutt’altro che chiusa. Tornando alle intercettazioni depositate dopo due anni dalla loro effettuazione Scarpinato ha aggiunto: «Chiedemmo perché non ce le avevano depositate prima, un maresciallo del Ros ci disse che aveva ricevuto indicazioni dal Ros di non consegnarle “perché non erano rilevanti”. Questo fu il vero insabbiamento – ha aggiunto – e fu fatto credere che la procura aveva intercettazioni su personaggi eccellenti e le nascondeva mentre le aveva il Ros. Fu una cosa gravissima ed è grave che ogni tanto, specie in fasi nodali di certi processi parte della stampa la ritiri fuori».    «Borsellino mi chiese a fine maggio del 1992 a che punto fosse l’indagine mafia e appalti. L’inchiesta lui la conosceva perché aveva letto la richiesta di misura cautelare che avevamo fatto. Gliela avevamo mandata perché c’era un episodio relativo a un appalto di Pantelleria sul quale lui, da procuratore di Marsala, rivendicava la competenza a indagare. In quell’occasione gli feci una sintesi dell’indagine». Lo ha detto Roberto Scarpinato, ex procuratore generale di Palermo, sentito come teste al processo sul depistaggio delle indagini sulla strage di via D’Amelio in corso a Caltanissetta. Scarpinato è stato citato dal legale di due degli imputati, l’avvocato Giuseppe Seminara che assiste i poliziotti Michele Ribaudo e Fabrizio Mattei, imputati del depistaggio e accusati di calunnia aggravata, insieme al funzionario di polizia Mario Bo. Oggetto della deposizione l’inchiesta mafia-appalti condotta dalla Procura di Palermo nei primi anni ’90. Secondo alcuni legali proprio il rischio che da quell’indagine venissero fuori collusioni tra mafia, politica e imprenditoria sarebbe stata il movente dell’accelerazione dell’attentato a Borsellino che a marzo 1992 era arrivato come aggiunto in Procura a Palermo. Borsellino, avrebbe temuto qualcuno, poteva rappresentare una minaccia prendendo in mano l’inchiesta. Scarpinato ha poi raccontato di un secondo incontro con Borsellino avvenuto prima della sua morte. «Mi chiese particolare riservatezza. – ha spiegato – Era arrivato l’esposto cosiddetto del Corvo bis in cui si parlava di incontri tra l’ex ministro Mannino e il boss Totò Riina e del presunto patto stretto tra loro: i voti della mafia alla corrente di Mannino in cambio di appalti a imprese mafiose e benefici carcerari ai boss. Nel documento si invitavano anche le autorità a cui era indirizzato a rivedere l’inchiesta mafia-appalti».  «Borsellino ragionò con me su chi aveva potuto scrivere l’anonimo – ha spiegato – e mi disse: mi hanno detto che potrebbe essere un ufficiale del Ros, ho avuto un appuntamento per cercare di capire chi è, ma tienitelo per te». «Non mi risulta – ha concluso – che Borsellino si sia lamentato che l’indagine non avesse avuto il respiro che meritava». «Vidi Falcone quando si parlava della sua nomina alla Procura Nazionale Antimafia e mi disse che Mutolo aveva iniziato a collaborare e che avrebbe fatto rivelazioni esplosive. Mi invitò a fare domanda per andare alla Procura Nazionale prospettandomi che avremmo indagato insieme su Gladio. Gladio d’altro canto era un argomento sul quale ci eravamo già confrontati e su cui avevamo avuto scontri con l’allora procuratore Giammanco. Per Falcone si doveva partire da lì per ricostruire i delitti politici, mentre Giammanco era contrario» ha detto Roberto Scarpinato. «Borsellino, almeno in mia presenza e a riunioni a cui partecipai io, non disse mai che sull’inchiesta mafia-appalti si sarebbe potuto fare di più. Cioè non si è mai lamentato che l’indagine non fosse stata valorizzata come meritava» ha detto Giuseppe Pignatone, ex procuratore di Roma, per anni in Procura a Palermo, deponendo al processo sul depistaggio delle indagini sulla strage di Via D’Amelio in corso davanti al tribunale di Caltanissetta. «Nessuno si è mai permesso di dirmi cosa fare dall’esterno o ha fatto pressioni – ha detto Pignatone – In caso contrario lo avrei denunciato. All’interno dell’ufficio l’allora procuratore Giammanco ci disse di lavorare e valorizzare gli elementi che andavano valorizzati, d’altro canto non si arrestano persone senza prove», ha aggiunto Pignatone smentendo qualunque sottovalutazione dell’inchiesta mafia-appalti. «A metà luglio facemmo un’assemblea dell’ufficio – ha spiegato il teste – In quel periodo dalla stampa arrivavano attacchi alla Procura e accuse di avere insabbiato l’inchiesta. Giammanco convocò i colleghi proprio per una operazione trasparenza e per spiegare come erano andate le cose». «In quell’occasione Borsellino, con cui già avevamo parlato di una tranche dell’indagine, ci chiese se si trattava degli accertamenti che comprendevano un appalto di Pantelleria e gli dicemmo di sì. A quel punto rispose solo di parlarne con Ingroia». LA SICILIA


27.11.2021 – Scarpinato: “Falcone voleva indagare anche su Gladio”. «Incontrai Giovanni Falcone quando si parlava della sua nomina alla Procura Nazionale Antimafia. Mi disse che Mutolo aveva iniziato a collaborare e che avrebbe fatto rivelazioni esplosive. Mi invitò a fare domanda per andare alla Procura Nazionale prospettandomi che avremmo indagato insieme su Gladio». Lo ha detto l’ex procuratore generale di Palermo, Roberto Scarpinato deponendo a Caltanissetta al processo sul depistaggio delle indagini sulla strage di via D’Amelio. Imputati, con l’accusa di calunnia aggravata, i poliziotti Mario Bo, Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo, componenti della squadra «Falcone-Borsellino» guidata Arnaldo La Barbera. «Gladio d’altro canto era un argomento sul quale – ha proseguito Scarpinato – ci eravamo già confrontati e su cui avevamo avuto scontri con l’allora procuratore Giammanco. Per Falcone si doveva partire da lì per ricostruire i delitti politici, mentre Giammanco era contrario»

Mafia e appalti, nessun insabbiamento «La Procura di Palermo non ha mai insabbiato i nomi dei politici Lima, Mannino e Nicolosi. Per il semplice motivo che il Ros depositò l’informativa ‘Mafia e appaltì con questi nomi dopo la strage di via D’Amelio e la morte di Paolo Borsellino. Questo deposito avvenne il 5 settembre 1992. Nell’informativa depositata in precedenza, nel febbraio 1991, non si fa alcun cenno a questi, anche se le intercettazioni risalivano al maggio 1990». Afferma inoltre l’ex procuratore generale di Palermo, Roberto Scarpinato, che all’epoca era sostituto procuratore alla Procura della Repubblica di Palermo.  Oggetto della deposizione l’inchiesta mafia-appalti condotta dalla procura nei primi anni ’90. Secondo i legali proprio quell’indagine sarebbe il movente dell’accelerazione dell’attentato a Borsellino. «Borsellino prese servizio come aggiunto a Palermo – ha proseguito Scarpinato – e lo incontrai due volte, in una riservatamente. Gli dissi che già nel giugno 1991 avevamo dato una delega di indagine sulla parte principale dell’informativa che riguardava la Sirap e appalti per 1000 miliardi. Purtroppo – ha aggiunto – questa informativa, in cui c’erano anche i politici, è stata depositata solo dopo la morte di Paolo Borsellino. E nessuno ha ritenuto di dirci nulla neanche di fronte all’omicidio di Salvo Lima. Nessuno dei carabinieri che, mentre noi cercavamo di capire qualcosa, che ci avvertisse. Queste intercettazioni le aveva il Ros e sono rimaste nella caserma del Ros. E invece, tramite articoli di stampa, si citavano e fu fatto credere, tramite articoli di stampa, che la Procura di Palermo insabbiava le carte. Quelle carte in quel momento non le avevamo fatte». Scarpinato ha inoltre aggiunto che, nel secondo incontro, il giudice Borsellino a proposito del cosiddetto «Corvo» gli disse che «era scritto con cura da un ufficiale del Ros e che aveva degli appuntamenti per capire chi era».  LA SICILIA


26.11. 2021  “Paolo sapeva dell’archiviazione mafia-appalti”, Lo Forte si difende dalle accuse dei Borsellino le testimonianze al processo Depistaggio via D’Amelio

  • L’avv. Fabio Trizzino, legale della famiglia Borsellino, e genero del giudice ucciso nell’attentato del 19 luglio del 1992 pochi giorni fa lo aveva accusato di aver nascosto la notizia dell’archiviazione del dossier mafia-appalti.
  • Oggi il magistrato Guido Lo Forte in aula si difende: “Non nascosi nulla, Borsellino sapeva”.
  • “Gravi anomalie dei Ros su intercettazioni”
  • Testimonianze anche di Pignatone e Scarpinato

“Tutto il pool antimafia, compreso Paolo Borsellino, sapeva della richiesta di archiviazione che peraltro riguardava una tranche residuale dell’indagine mafia-appalti. Spiegammo che era una scelta obbligata perché per le posizioni per cui volevamo chiedere l’archiviazione non avevamo prove e tutto ciò fu condiviso all’unanimità, senza rilievi. E’ assolutamente falso che avrei nascosto a Borsellino il fatto di aver firmato la richiesta di archiviazione. Borsellino era già informato di questa prospettiva e poi io stesso ne parlai ai colleghi, lui compreso, in occasione della riunione del 14 luglio del 1992″. Lo ha detto l’ex procuratore di Messina Guido Lo Forte, per anni aggiunto a Palermo, deponendo al processo sul depistaggio delle indagini sulla strage di via D’Amelio.

La testimonianza. Lo Forte è stato citato dal legale di due degli imputati, l’avvocato Giuseppe Seminara che assiste i poliziotti Michele Ribaudo e Fabrizio Mattei, imputati del depistaggio e accusati di calunnia aggravata, insieme al funzionario di polizia Mario Bo. Oggetto della deposizione l’inchiesta mafia-appalti condotta dalla Procura di Palermo nei primi anni ’90. Secondo alcuni legali proprio il rischio che da quell’indagine venissero fuori collusioni tra mafia, politica e imprenditoria sarebbe stata il movente dell’accelerazione dell’attentato a Borsellino che a marzo 1992 era arrivato come aggiunto in Procura a Palermo. Qualcuno avrebbe temuto che Borsellino, occupandosi di quella inchiesta avrebbe rappresentato una minaccia. “Borsellino mi chiese solo se si trattava dell’indagine che riguardava anche un appalto di Pantelleria di cui già avevamo parlato e io risposi di sì- ha aggiunto – Il discorso finì lì”.

“Gravi anomalie dei Ros su intercettazioni” Lo Forte ha confermato che i carabinieri del Ros comunicarono solo nel 1992 l’esistenza di intercettazioni del 1990 che avrebbero potuto evitare la richiesta di archiviazione e soprattutto che avrebbero potuto portare molto prima a indagini su politici e pezzi dell’imprenditoria italiana che poi la Procura comunque portò avanti.

“Si trattò di una anomalia grave – ha aggiunto – Come anomalo fu il fatto che il pm Lima di Catania ci avvertì molto dopo delle dichiarazioni di un testimone, il geometra Lipera, sull’imprenditore De Eccher che poi noi incriminammo. Informammo di tutto il Csm e il ministero della Giustizia”, ha concluso.

In aula anche Pignatone: “nessun contrasto su mafia-appalti” “Borsellino, almeno in mia presenza e a riunioni a cui partecipai io, non disse mai che sull’inchiesta mafia-appalti si sarebbe potuto fare di più. Cioè non si è mai lamentato che l’indagine non fosse stata valorizzata come meritava”. Lo ha detto Giuseppe Pignatone, ex procuratore di Roma, per anni in Procura a Palermo, deponendo al processo sul depistaggio delle indagini sulla strage di Via D’Amelio in corso davanti al tribunale di Caltanissetta. Anche Pignatone è stato citato per riferire dell’inchiesta mafia-appalti secondo alcuni vero movente dell’attentato a Borsellino.  “Nessuno si è mai permesso di dirmi cosa fare dall’esterno o ha fatto pressioni – ha detto Pignatone – In caso contrario lo avrei denunciato. All’interno dell’ufficio l’allora procuratore Giammanco ci disse di lavorare e valorizzare gli elementi che andavano valorizzati, d’altro canto non si arrestano persone senza prove”, ha aggiunto Pignatone smentendo qualunque sottovalutazione dell’inchiesta mafia-appalti.  “A metà luglio facemmo un’assemblea dell’ufficio – ha spiegato il teste – In quel periodo dalla stampa arrivavano attacchi alla Procura e accuse di avere insabbiato l’inchiesta. Giammanco convocò i colleghi proprio per una operazione trasparenza e per spiegare come erano andate le cose. In quell’occasione Borsellino, con cui già avevamo parlato di una tranche dell’indagine, ci chiese se si trattava degli accertamenti che comprendevano un appalto di Pantelleria e gli dicemmo di sì. A quel punto rispose solo di parlarne con Ingroia”.

Scarpinato “a insabbiare il dossier mafia-appalti fu il Ros”. A puntare il dito contro i carabinieri del ROS anche l’ex procuratore generale di Palermo Roberto Scarpinato, sentito stamani come teste al processo in corso a Caltanissetta.

“Dopo la morte di Paolo Borsellino, precisamente a settembre del 1992, il Ros dei carabinieri depositò la cosiddetta informativa Sirap in cui si sosteneva che dietro le illecite aggiudicazioni degli appalti in Sicilia c’erano politici come Nicolosi, Mannino e Lima. Scoprimmo allora che i carabinieri erano in possesso di intercettazioni a carico di questi e altri personaggi ‘illustri’ già dal 1990 e che fino al 1992, nonostante nel 91 ci avessero consegnato una prima informativa, non vi avevano fatto cenno”. La Procura all’epoca venne accusata con una campagna di stampa di aver insabbiato gli accertamenti. Accusa respinta da Scarpinato che ha ricostruito tutte le fasi dell’indagine che portò poi ad arresti e condanne di politici e imprenditori e quindi – spiega il magistrato – fu tutt’altro che chiusa. Tornando alle intercettazioni depositate dopo due anni dalla loro effettuazione Scarpinato ha aggiunto: “chiedemmo perché non ce le avevano depositate prima, un maresciallo del Ros ci disse che aveva ricevuto indicazioni dal Ros di non consegnarle perché non erano rilevanti”.  “Questo fu il vero insabbiamento – ha aggiunto – e fu fatto credere che la procura aveva intercettazioni su personaggi eccellenti e le nascondeva mentre le aveva il Ros. Fu una cosa gravissima ed è grave che ogni tanto, specie in fasi nodali di certi processi parte della stampa la ritiri fuori”.

Borsellino e l’indagine su mafia e appalti. “Borsellino mi chiese a fine maggio del 1992 a che punto fosse l’indagine mafia e appalti. L’inchiesta lui la conosceva perché aveva letto la richiesta di misura cautelare che avevamo fatto. Gliela avevamo mandata perché c’era un episodio relativo a un appalto di Pantelleria sul quale lui, da procuratore di Marsala, rivendicava la competenza a indagare. In quell’occasione gli feci una sintesi dell’indagine”. Blog Sicilia 

12.11.2021 L’OPINIONE DI MARTELLI, MINISTRO DELLA GIUSTIZIA  Paolo Emanuele Borsellino (Palermo, 19 gennaio 1940 – Palermo, 19 luglio 1992) è stato un magistrato italiano. Assassinato da cosa nostra assieme a cinque agenti della sua scorta nella strage di via d’Amelio, è considerato uno dei personaggi più importanti e prestigiosi nella lotta contro la mafia in Italia, insieme al collega ed amico Giovanni Falcone. nella foto: omicidio di Paolo Borsellino Photo LaPresse Turin/Archives historical Hystory 19/07/1992 Palermo Paolo Borsellino in the photo: Paolo Borsellino In realtà esistevano “altri” corpi di polizia giudiziaria, perfettamente attrezzati per esperienza e cultura investigativa, per indagare su Capaci e via D’Amelio. Certamente lo era la Direzione Investigativa Antimafia, di recentissima costituzione, che fu messa inopinatamente da parte dalla procura di Caltanissetta. E che invece avrebbe ben potuto svolgere il lavoro di raccolta d’informazioni e di profiling criminale che si intestò il Sisde. Com’è potuto accadere? Lo abbiamo chiesto all’allora ministro della Giustizia Martelli, all’allora ministro degli Esteri Scotti (ministro dell’Interno fino a qualche settimana prima) e al dottor Ingroia, stretto collaboratore di Paolo Borsellino.

  • MARTELLI, già Ministro della Giustizia. Beh, che sia stato possibile lo apprendo da lei adesso… Era stata già istituita la DIA e l’Agenzia aveva riunificato dentro di sé, in posizioni paritarie per evitare di suscitare gelosie, i reparti di intelligence dei carabinieri, della polizia di Stato, della guardia di finanza… e dunque semmai era alla DIA che il dottore Tinebra avrebbe dovuto rivolgersi per averne collaborazione… Da quel che io mi ricordo non abbiamo mai avuto notizia di simili iniziative, di un simile coinvolgimento contra legem di servizi di intelligence nelle indagini. Anche qui, se si guarda a quello che è successo dopo, e che non sorprende, siamo sempre in quella catena di omissioni, di responsabilità e forse di peggio che comincia con la mancata protezione di Borsellino.
  • SCOTTI, già Ministro dell’Interno. Io sono stato contrario, nettamente, a tutte queste forme particolari di indagine e di investigazione, cioè devono esserci i corpi dello Stato e la DIA era stata pensata come un corpo dello Stato, non come un corpo di “emergenza”. C’è uno scritto di Falcone su questo, quando lui dice che ad ogni uccisione, strage o azione, viene subito riproposto di costituire un organismo ad hoc, lui dice che questa non è una cosa corretta e funzionale alla lotta alla mafia. Ne discutemmo con Falcone ed io aderii alla sua posizione: ho una diffidenza ed una ostilità a queste strutture speciali perché non consentono mai di avere chiarezza necessaria per controllare quello che si fa e a chi si risponde.
  • FAVA, presidente della Commissione. Lei era Ministro degli Esteri il 19 luglio. Ci fu un momento in cui in Consiglio dei Ministri, vista la gravità e l’atrocità di quello che era accaduto, alcune scelte vennero discusse insieme? Penso, ad esempio, alla decisione di creare questo corpo speciale di investigazione: se ne parlò mai all’interno del Consiglio dei Ministri?
  • SCOTTI, già Ministro dell’Interno. Io non ricordo se ci fu una discussione specifica in Consiglio dei Ministri, può darsi… Tra l’altro io ero a Bruxelles quella domenica sera perché lunedì mattina avevo una riunione con i Ministri degli Esteri. Fui raggiunto in ambasciata dalla troupe della Rai.. ed io dissi che quello era il segno che non potevamo più giocare nella lotta alla mafia: o c’era una strada o non c’era. Ebbi una telefonata cui mi si chiedeva di non interferire in quanto non più Ministro dell’Interno.
  • FAVA, presidente della Commissione. Chi la chiamò?
  • SCOTTI, già Ministro dell’Interno. Il mio capo di Gabinetto, il quale era stato incaricato di dirmi questo.
  • FAVA, presidente della Commissione. Era stato incaricato da chi?
  • SCOTTI, già Ministro dell’Interno. Non lo so.
  • FAVA, presidente della Commissione. Non chiese al suo Capo di Gabinetto chi lo aveva sollecitato a farle quella telefonata?
  • SCOTTI, già Ministro dell’Interno. Misi il telefono giù.
  • FAVA, presidente della Commissione. Ma qual è, secondo lei, la ragione di questa sollecitazione, cioè “fai il Ministro degli Esteri, non sei più Ministro dell’Interno”? Cos’è che preoccupava di ciò che lei aveva dichiarato?
  • SCOTTI, già Ministro dell’Interno. Io l’ho presa in termini buoni, cioè non volevano confusioni.
  • FAVA, presidente della Commissione. Lei ebbe modo di confrontarsi col nuovo Ministro dell’Interno, Mancino, sulle scelte investigative?
  • SCOTTI, già Ministro dell’Interno. Mai.
  • FAVA, presidente della Commissione. Esistevano sul campo altre strutture investigative, diciamo, “normali” che avrebbero potuto lavorare al fianco della Procura di Caltanissetta su quelle indagini?
  • INGROIA, già magistrato. Ovviamente. Innanzitutto, la DIA, la Direzione investigativa antimafia.
  • FAVA, presidente della Commissione. Che invece venne esclusa.
  • INGROIA, già magistrato. Venne esclusa da Caltanissetta. All’epoca il capo della DIA era Gianni De Gennaro che aveva un ruolo di stretta collaborazione in passato sia con Falcone, sia con Borsellino. E che poi, come vedremo nelle indagini successive, percepì alcuni temi che, evidentemente, a Tinebra non interessava coltivare, compreso quello della cosiddetta trattativa Stato-mafia. DOMANI 

17.9.2021 -“Scarantino nella stanza con Tinebra”, nuovi dettagli al processo Depistaggio Borsellino  LA TESTIMONIANZA DI DOMENICO MILITELLO “Il 29 giugno del ’94 Vincenzo Scarantino fu interrogato alla procura di Caltanissetta. Lo abbiamo accompagnato nella stanza degli interrogatori, c’era la dottoressa Ilda Boccassini. Io sono rimasto fuori e non ricordo di aver partecipato. Quando hanno finito l’interrogatorio lo accompagnammo nella stanza del dottore Tinebra. Il suo stato d’animo era assolutamente tranquillo”. A raccontare quell’episodio nel corso dell’udienza di stamane sul depistaggio della Strage di via D’Amelio che si celebra a Caltanissetta, Domenico Militello, sostituto commissario adesso in pensione, in servizio alla Dia, ex appartenente al gruppo investigativo ‘Falcone e Borsellino’.

Nella stanza con Tinebra “Quando è finito l’interrogatorio lo abbiamo accompagnato nella stanza del Procuratore Tinebra. Non lo avevo mai detto fino ad oggi perché nessuno me lo aveva chiesto…”, aggiunge Militello.

“Scarantino era di una gelosia folle” Scarantino è il falso pentito che, secondo l’accusa, fu costretto a fare false dichiarazioni per depistare le indagini sulla strage di via D’Amelio. Accuse mosse ai tre imputati del processo, per calunnia aggravata in concorso, i poliziotti Mario Bo, Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo.

“Faccio presente – ha continuato Militello – che Scarantino all’epoca era un detenuto e quindi veniva accompagnato ovunque. Alla fine di quell’interrogatorio Scarantino fece una serie di domande che riguardavano lui, la moglie e i figli. Fu spiegato a Scarantino ciò che è previsto per un collaboratore di giustizia. Lo stato d’animo di Scarantino era assolutamente tranquillo. I problemi con Scarantino sorgevano solo quando c’era la moglie perché lui era di una gelosia folle. Nei 3 giorni che sono stato con lui era assolutamente tranquillo”.

Difende La Barbera Nel 1998 Scarantino ha ammesso di non avere preso parte all’attentato di via D’Amelio sostenendo di essere stato costretto da Arnaldo La Barbera, ex capo della squadra mobile di Palermo, a confessare il falso, e di aver subito maltrattamenti durante la sua detenzione nel carcere di Pianosa. A Militello è stato chiesto se La Barbera avesse mai avuto incontri con mafiosi. “Assolutamente no. La Barbera era un tipo schivo – ha risposto Militello – usciva sempre scortato, ogni tanto si faceva qualche passeggiata la sera con qualche collega, qualche funzionario. Da solo non usciva mai anche perché era stato minacciato di morte”.

Tra i rottami in Via D’Amelio E poi racconta che dopo la strage di via D’Amelio “sono andato all’anagrafe per identificare gli immobili di tutti, per vedere se c’era qualche soggetto noto. Sono stato impegnato diverse ore, all’indomani sono andato in via D’Amelio. Abbiamo collaborato con la Scientifica e i vigili del fuoco per risalire ai pezzi di macchine saltati in aria, per cercare di portare via i rottami”. BLOG SICILIA


21.6.2021 – DEPISTAGGIO STRAGE BORSELLINO, IL DIRETTORE DEL CARCERE DI PIANOSA “NESSUN SOPRUSO A SCARANTINO”


14.5.2021 deposizione del luogotenente DIA: “Nessuno imboccava Scarantino”


23.4.2021 – Depistaggio Borsellino: giallo intercettazioni Scarantino, poliziotta ‘c’erano strane anomalie’.(Adnkronos)– “Nei brogliacci contenenti le intercettazioni” dell’ex pentito Vincenzo Scarantino, dopo la strage di Via D’Amelio, “c’erano delle anomalie. Non so se si trattava di problemi di linea, ma c’era qualcosa che non andava. Forse anomalie di funzionamento…”. A rivelarlo, deponendo al processo sul depistaggio sulle indagini sulla strage di via D’Amelio è la Sovrintendente della Polizia di Stato Carmela Sammataro, che dal 14 al 24 gennaio 1995 fu trasferita a Imperia per “assistere Scarantino” che aveva iniziato a collaborare da poco con la giustizia “e la sua famiglia”. La poliziotta risponde alle domande dell’avvocato Giuseppe Panepinto, legale di Mario Bo, il funzionario di Polizia imputato con altri due colleghi poliziotti, Michele Ribaudo e Fabrizio Mattei, per concorso in calunnia aggravata a Cosa nostra. Presente in aula anche il Procuratore aggiunto Gabriele Paci. Nell’udienza del 18 ottobre 2019 un altro poliziotto, l’ispettore Giampiero Valenti, deponendo in aula aveva parlato di intercettazioni “che venivano interrotte”. “Mi ordinarono di interrompere la registrazione di Scarantino perché il collaboratore doveva parlare con i magistrati”, disse Valenti in aula. All’inizio del 1995, l’ex picciotto della Guadagna di Palermo era sotto intercettazione. Quelle telefonate intercettate sono state scoperte solo due anni fa in un archivio del palazzo di giustizia di Caltanissetta. “Fu il collega Di Ganci, mio superiore, a dirmi che dovevamo staccare l’apparecchio. Quando poi smise di parlare coi magistrati, mi disse di riavviare”, rivelò a sorpresa, in aula, Valenti. La Procura di Messina aveva iscritto nel registro degli indagati i due magistrati che indagarono sulla strage di Via D’Amelio, Carmelo Petralia e Annamaria Palma, accusati di calunnia aggravata in concorso. Ma di recente le loro posizioni sono state archiviate. Nel frattempo la procura di Messina ha fatto trascrivere dal Ros le bobine delle conversazioni di quello scorcio di 1995 e sono emersi altri dialoghi ritenuti interessanti per provare a fare luce sui troppi buchi neri di questa storia. Scarantino parlava anche con Annamaria Palma. “E’ importante che lei faccia questo interrogatorio”, gli diceva la pm.


24.3.2021 Ombra dei servizi segreti sul depistaggio


24.3.2021 – Depistaggio Borsellino, il pentito e l’ombra dei servizi segreti   Torna l’ombra dei servizi segreti nel processo sul depistaggio sulla strage di via D’Amelio. Questa volta a parlarne è il pentito di mafia Angelo Fontana, ex ‘picciotto’ dell’Acquasanta di Palermo, mafioso “da quattro generazioni”, come si vanta lui stesso collegato in videoconferenza da una località segreta. Alla sbarra ci sono tre poliziotti, Mario Bo, Michele Ribaudo e Fabrizio Mattei, tutti accusati di calunnia aggravata in concorso. Secondo l’accusa, i tre avrebbero ‘indottrinato’ il falso pentito Vincenzo Scarantino a rendere dichiarazioni false. “Si diceva che Gaetano Scotto avesse contatti con i servizi segreti…”, dice Fontana, rispondendo alle domande dell’avvocato Giuseppe Seminara, che difende Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo. Gaetano Scotto, imprenditore edile e costruttore dell’Arenella di Palermo, è ritenuto il ‘boss dei misteri’. Diversi pentiti lo indicano come il trait d’union fra i vertici di Cosa nostra e servizi segreti deviati.  E oggi, al processo di Caltanissetta, il collaboratore Fontana ha confermato: “Ai primi anni Novanta, diciamo tra il ’91 e il ’92, Scotto girava con un maggiolone Volkswagen nero. Parlando con Nino Pipitone gli dicevo ‘Chissu chi va a fare a Montepellegrino? U guardone?” Cioè cosa ci va a fare a Montepellegrino, il guardone?- dice Fontana- e Pipitone mi diceva che andava, invece, a trovare degli ‘amici'”, facendo capire che si trattava di uomini dei servizi segreti. Nei giorni scorsi il boss Gaetano Scotto, che nel processo di Caltanissetta si è costituito parte civile perché accusato falsamente da Scarantino, è stato rinviato a giudizio per l’omicidio del poliziotto Antonino Agostino e della moglie Ida Castelluccio.  Il nome del costruttore Scotto è tornato più volte nelle indagini sui mandanti occulti della strage Borsellino, del 19 luglio 1992. Sarebbe stato Scotto – o almeno, il suo telefonino – a chiamare, il 6 febbraio di quell’anno, il castello Utveggio di Palermo, la scuola per manager Cerisdi che avrebbe nascosto una struttura dei servizi. Un fatto quest’ultimo mai acclarato. Scotto è tornato in carcere un anno fa dopo un blitz della Dda contro la famiglia mafiosa dell’Acquasanta. Come ha ricostruito la Dda di Palermo Gaetano Scotto, appena tornato libero a gennaio del 2016, avrebbe ripreso in mano il comando della famiglia mafiosa dell’Arenella, che durante la sua detenzione sarebbe stato affidato ai fratelli. Con esiti che al boss non sarebbero piaciuti, anche da un punto di vista economico perché sarebbe stato in parte dilapidato il suo patrimonio.  Sempre oggi è stato controesaminato Vincenzo Maniscaldi che ha parlato di Scarantino  Nel corso dell’udienza di oggi è stato controesaminato dal Procuratore aggiunto Gabriele Paci anche il poliziotto, oggi in pensione, Vincenzo Maniscaldi. Che dopo le stragi fece parte del gruppo investigativo ‘Falcone e Borsellini’. “Vincenzo Scarantino era molto geloso della moglie. Quando ero in servizio a San Bartolomeo al Mare meno stavo in casa è meglio era. E quando la moglie doveva uscire per fare delle incombenze allora preferivo che andasse solo la nostra collega donna”, ha detto ancora Maniscaldi. Oggi il procuratore aggiunto Gabriele Paci ha mostrato i brogliacci delle intercettazioni a Maniscaldi chiedendo di riconoscere la grafia dei colleghi che avevano firmato i documenti. ”Questa grafia è di Mattei – dice – la riconosco perché abbiamo fatto insieme le squadre del fantacalcio”. Dichiarazioni che sono già agli atti del processo. Parlando ancora di Scarantino ha spiegato che ”era un tipo molto particolare ma io non ho mai avuto problemi con lui”.  Poi l’ex ispettore ha ricordato il periodo in cui la Polizia venne a sapere della ritrattazione di Scarantino. “La scoprimmo solo per caso nel 1998 – ricorda – Stavamo facendo delle intercettazioni ambientali a casa di Gaetano Scotto, che era latitante, e ascoltammo una conversazione della moglie di Scotto che lamentava di dovere tirare fuori dei soldi per pagare il legale di Scarantino dopo che quest’ultimo aveva deciso di ritrattare. Noi sapevamo già da maggio che Scarantino avrebbe ritrattato”.  Nel 1998 Scarantino fece crollare l’impianto accusatorio della Procura nissena  Era il 15 settembre del 1998 quando Vincenzo Scarantino fece crollare l’impianto accusatorio messo in piedi dalla procura di Caltanissetta. Davanti ai giudici del processo bis, che si stava svolgendo a Como, Scarantino quel giorno si era rimangiato tutto e disse: “Io dell’omicidio di Borsellino sono innocente”, mentre in passato si era accusato di aver procurato la Fiat 126 poi imbottita di tritolo che è costata la vita al giudice antimafia e ai cinque uomini della scorta. Grazie alle dichiarazioni di Scarantino, nella prima tranche del processo erano stati condannati all’ergastolo Pietro Scotto, Giuseppe Orofino e Salvatore Profeta. A lui stesso erano stati inflitti diciotto anni di carcere. Poi, solo successivamente, gli imputati accusati ingiustamente vennero assolti. “Dopo avere ascoltato le intercettazioni della moglie di Scotto – dice ancora Maniscaldi- abbiamo messo sotto controllo le utenze che facevano riferimento a Scarantino. Scoprimmo così che la moglie di Scarantino era andata via e si era portata anche la sorella. Il pm ci delegò un decreto di intercettazione”.  Nel corso dell’udienza Maniscaldi ha anche parlato dell’archivio con i faldoni sulle indagini sulle stragi di Falcone e Borsellino. “Dove si trova?”, gli ha chiesto l’avvocato dello Stato, Giuseppe La Spina. E il poliziotto: “In una stanza blindata nell’archivio della Squadra mobile, ma nel 1999 quando venne chiuse il gruppo, i documenti vennero portati in via Arimondi, da qui a Bagheria, poi sono ritornati alla Squadra mobile. E adesso sono in una stanza blindata. A meno che non si sia perso qualche faldone, è ancora tutto lì”. Il processo proseguirà venerdì per sentire alcuni testi della difesa ADNKRONOS


17.3.2021  DEPISTAGGIO VIA D’AMELIO, AL PROCESSO TENSIONI TRA PARTI CIVILI E POLIZIOTTO SANTORO   Tensione tra poliziotto teste e parti civili – Legale Scotto, mandare atti a pm per reticenza – Chieste serie di precisazioni su intercettazioni delle conversazioni di Scarantino Nega di essersi occupato d’intercettazioni e disconosce la sigla apposta ai brogliacci di alcune conversazioni registrate. “Il mio lavoro non era quello di seguire le intercettazioni”, dice il poliziotto Antonino Santoro, sentito questa mattina come teste nell’ambito del processo sul depistaggio delle indagini sulla strage di via D’Amelio che si celebra a Caltanissetta. Imputati del reato di calunnia aggravata i poliziotti Mario Bo, Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo. Accusate persone innocenti secondo l’accusa Secondo l’accusa avrebbero costruito a tavolino pentiti fasulli come Vincenzo Scarantino inducendoli, anche con minacce, a mentire e ad accusare dell’attentato persone innocenti. La falsa verità sull’eccidio è costato la condanna all’ergastolo a 8 persone, poi scagionate in fase di revisione grazie alle rivelazioni del collaboratore di giustizia Gaspare Spatuzza. Una serie di “non ricordo” quelli di Santoro che poi si è soffermato sul periodo in cui si trovava in servizio a San Bartolomeo a Mare come dove risiedeva Scarantino con la sua famiglia. Legale scotto chiede invio atti a Pm per reticenza “A San Bartolomeo a Mare – continua il teste che vigilava sulla sicurezza di Scarantino- quando non andavamo a fare la spesa per portarla alla sua famiglia prendevamo i bambini dalla scuola”. “I suoi non ricordo sono troppi e le ricordo che tutt’ora lei è un assistente di polizia”, ha detto l’avvocato Giuseppe Scozzola, legale di Gaetano Scotto, uno dei personaggi condannati sulla base delle accuse dei falsi pentiti ora parte civile, a Santoro nel corso del suo controesame. Al teste sono state chieste una serie di precisazioni sulle intercettazioni delle conversazioni di Scarantino, sull’utilizzo del telefono da parte del falso pentito, sulla modalità in cui venivano registrate le chiamate. “A questo punto – ha detto l’avvocato Scozzola – chiedo che venga inviato alla Procura un verbale per la palese reticenza”. BLOG SICILIA


26.02.2021 Depistaggio strage via D’Amelio, il funzionario di polizia, “Non ho mai indagato né conosciuto Scarantino”Depistaggio indagini strage di via D’Amelio, nuova udienza del processo a Caltanissetta A deporre stamani Claudio Sanfilippo, attuale questore di Sassari, per anni in servizio alla Squadra Mobile di Palermo Sanfilippo ha specificato di non aver mai indagato sulla strage, e di non aver mai incontrato Scarantino“Al momento in cui bisognava redigere il rapporto sulla strage Borsellino, l’ex capo della Mobile Arnaldo La Barbera mi chiese di dare una mano al collega Bo. A La Barbera era difficile dire di no e quindi collaborai. Non avevo fatto nessuna indagine quindi lo aiutai semplicemente a fare una collazione degli atti per il rapporto finale, il cosiddetto ‘rapportone’. La mia attività è stata davvero molto limitata. Era Bo che conosceva le attività svolte fino a quel momento”. Lo ha detto Claudio Sanfilippo attuale questore di Sassari, per anni in forza alla Squadra Mobile di Palermo, deponendo al processo sul depistaggio delle indagini sull’attentato costato la vita al giudice Paolo Borsellino e agli agenti della scorta, in corso a Caltanissetta. Tre funzionari di polizia accusati di calunnia aggravata Imputati tre funzionari di polizia, tra cui Mario Bo, accusati di calunnia aggravata: avrebbero costruito a tavolino una verità di comodo sull’eccidio, creando ad arte tre falsi pentiti. La deposizione di Claudio Sanfilippo Il giorno della strage di via D’Amelio – ha raccontato – ero libero dal servizio e mi trovavo fuori Palermo, era domenica. Dal luogo dove mi trovavo raggiunsi via D’Amelio. Ricordo che c’era una grandissima confusione, gente che andava e veniva. Mi misi semplicemente a disposizione ma non svolsi alcuna attività. Mi fermai lì fino a sera. Quello che era successo lo capivamo tutti. C’era un enorme cratere e quindi si capiva che l’esplosione era stata causata da un’autobomba”. Il funzionario La Barbera ritenuto la mente del depistaggio Non ho mai fatto parte del gruppo investigativo Falcone-Borsellino, sebbene il dottore Arnaldo La Barbera me lo avesse chiesto. Ero alla sezione ‘catturandi’ e mi piaceva quello che facevo”. Sanfilippo, ricordando la Barbera che gli inquirenti ritengono la mente del depistaggio, ha sostenuto che il funzionario, nel frattempo morto, non è mai entrato nel merito del modo in cui lui svolgeva le indagini. L’ex poliziotto Gioacchino Genchi e il pentito Scarantino “Quando il dottore Genchi sparì dalla Squadra Mobile – ha spiegato riferendosi all’ex poliziotto Gioacchino Genchi – si disse che c’era stata una lite ma non so nulla di cosa accadde. I rapporti tra Bo e il dottore La Barbera erano ottimi. So di qualche piccolo problema personale che il dottore Bo aveva avuto, ma non credo che questo abbia mai incrinato il rapporto tra i due”. “Non ho mai visto Vincenzo Scarantino, il suo nome per me era assolutamente sconosciuto”, ha concluso.BLOG SICILIA 26.2.2021


5.2.2021 –  Via D’Amelio, il poliziotto accusato del depistaggio in lacrime: “Non ho dato suggerimenti a Scarantino”  Al processo di Caltanissetta, interrogato l’ex ispettore della squadra mobile di Palermo Fabrizio Mattei. “Il nostro compito era di farlo stare tranquillo” “Tutti i giorni mi sveglio ripensando a quel periodo e mi chiedo se avrei potuto fare altro per evitarlo e penso sempre che avrei rifatto la stessa cosa”. Scoppia in un pianto a dirotto Fabrizio Mattei, l’ex ispettore della squadra mobile di Palermo sotto processo per il depistaggio delle indagini sulla strage di Via d’Amelio, è stato sentito oggi dal tribunale di Caltanissetta. Secondo l’accusa, insieme a due colleghi, avrebbe costretto il falso pentito Vincenzo Scarantino a mentire e accusare dell’attentato persone innocenti, inquinando così l’inchiesta. “Dopo la prima volta che ho letto a Scarantino il verbale che aveva reso durante le prime indagini non mi sono più sottratto a questo ‘compito’ perché questa persona non aveva nessuno a cui rivolgersi. Aveva solo noi. Lui dei suoi problemi di vita quotidiana  discuteva con noi. C’è stato pure un pò di tornaconto nostro, devo ammetterlo, perché entrare in contrasto con lui significava trascorrere 15 giorni d’inferno”. Il riferimento è al fatto, sostenuto dall’accusa, che a Scarantino, che doveva rendere testimonianza, venivano fatte rileggere le dichiarazioni rese in precedenza. Circostanza che, secondo i pm, dimostrerebbe che il falso pentito veniva imbeccato, fatto “studiare”, insomma, perché non cadesse in contraddizione e confermasse le cose già dichiarate. Mattei nega di avere “dato suggerimenti” al falso pentito. “Non ho mai discusso con Vincenzo Scarantino della sua collaborazione sulla strage di via D’Amelio – dice Mattei – Ero totalmente all’oscuro di qualsiasi cosa, non ci ho mai parlato. E non ricordo neppure se Scarantino voleva entrare in argomento. Lui non mi conosceva, per cui non aveva nessun motivo per parlarmi, non mi aveva mai visto, non sapeva chi ero. Insomma, io non mi ero mai interessato a queste cose”. Il pm Stefano Luciani lo incalza: “Mi faccia capire, lei ha partecipato cinque interrogatori consecutivi con Vincenzo Scarantino, come fa a non sapere?”. Questa la risposta di Mattei: “Io scrivevo ma l’attenzione che prestavo era alla scrittura e non al contenuto”. E il pm Luciani: “Ne prendo atto, ho sempre saputo che per scrivere bisogna comprendere …”. Mattei controreplica: “Si può scrivere una tesi di ingegneria senza capirne niente…”. Il pm ha poi chiesto se l’uffico avesse dato nel 1994 “direttive su come relazionarsi con Scarantino?”, il poliziotto ha risposto: “Lo sa qual era l’indicazione? ‘Andate lì ragazzi, basta che non fate scoppiare casini, fate in modo che vada tutto bene. Non dovete darci fastidio’. Insomma, ci dicevano ‘disturbateci il meno possibile'”. E quando il pm chiede se fossero arrivate “indicazioni di farlo stare tranquillo?”, Mattei risponde: “No, dovevano stare tranquilli quelli di Palermo”. Il magistrato gli ricorda una dichiarazione resa dallo stesso poliziotto al processo ‘Borsellino quater’, aveva detto: “Era un servizio particolare, le direttive erano quelle di far passare 15 giorni in maniera tranquilla, perché più passava il tempo e più Scarantino si lamentava per questa situazione, ma erano le sue rimostranze”. Per il legale di Mattei, l’avvocato Giuseppe Seminara, “non c’è contraddizione tra le due frasi”. La prossima udienza è fissata per il 12 febbraio nell’aula bunker di Caltanissetta. LA REPUBBLICA 5.2.2021


Lacrime di «coccodrillo» sul sangue di via d’Amelio aspettando la prescrizione che incombeFabrizio Mattei, uno dei tre agenti a giudizio per depistaggio, si è messo a piangere improvvisamente mentre stava deponendo. Piangere “lacrime di coccodrillo” è un modo di dire utilizzato non solo nella lingua italiana. Chi piange lacrime di coccodrillo è colui il quale commette una cattiva azione di proposito e poi finge di pentirsene. Sembra infatti che i coccodrilli lacrimino dopo aver ucciso e mangiato le loro prede. Si dice che ciò avvenga principalmente quando questi grossi predatori si cibano di prede umane, oppure quando le femmine divorano i propri piccoli. È successo durante l’udienza del procedimento “Mario Bo e altri” che si è tenuta a Caltanissetta lo scorso 5 febbraioFabrizio Mattei, uno dei tre agenti a giudizio per depistaggio, si è messo a piangere improvvisamente mentre stava deponendo: «Tutti i giorni mi sveglio pensando a quei giorni e mi chiedo se avessi potuto fare qualunque cosa per evitare la strage». Mattei, insieme ai colleghi Mario Bo e Michele Ribaudo, è accusato di calunnia aggravata dall’aver favorito cosa nostra. Secondo l’accusa i tre poliziotti avrebbero indotto il falso pentito Vincenzo Scarantino a rendere false dichiarazioni sottoponendolo a minacce, maltrattamenti e pressioni psicologiche e costringendolo ad accusare dell’attentato persone a messo estranee. Oggi sono rimasti gli unici possibili colpevoli dopo la decisione del Gip di Messina, la dottoressa Simona Finocchiaro, che ha accolto la richiesta della Procura di archiviare l’inchiesta a carico dei magistrati Anna Maria Palma e Carmelo Petralia, accusati di calunnia aggravata nell’ambito dell’inchiesta sul depistaggio sulla strage di via D’Amelio. In una intervista rilasciata a “il Quotidiano di Sicilia”, l’avvocato Rosalba Di Gregorio, parte del collegio di difesa delle sette persone accusate da Scarantino e poi risultate innocenti, a questo proposito ha dichiarato: Avvocato, la sensazione è quella che la colpa della manipolazione di Scarantino e del conseguente depistaggio messo in essere sia esclusivamente da addebitarsi a coloro che, nel tempo, sono morti. La sua non è una tesi azzardata. Nella stessa richiesta di archiviazione fatta dalla Procura di Messina si dice che manca, ossia siamo monchi, dell’eventuale contributo di Tinebra e La Barbera proprio perché sono venuti a mancare. In realtà, qualora fossero ancora vivi, sarebbero certamente stati indagati e avrebbero però potuto avvalersi della facoltà di non rispondere. Ci saranno quindi implicazioni anche sulla sentenza del procedimento “Mario Bo e altri”? Questo è da vedere. Su quel procedimento c’è un problema di prescrizione incombente e, visto che anche la pandemia non sta aiutando il normale corso delle udienze, stiamo correndo un grande rischio. Abbiamo il timore che si possa arrivare alla prescrizione. Di fatto quest’archiviazione indica che i responsabili del depistaggio e della manipolazione di Scarantino sono stati solo i poliziotti e solo loro. Questa ordinanza di archiviazione mette quindi la parola fine all’intreccio che relativo al depistaggio? Sì. Salvo che non occorra una condanna molto severa nei confronti dei poliziotti sotto processo, e parlo del procedimento “Mario Bo e gli altri” anche se l’attuale andazzo di pacificazione non mi fa ben sperare, poiché in questo caso, qualcuno potrebbe anche decidere di iniziare a parlare veramente. E le lacrime di “coccodrillo”, inevitabilmente s’iscrivono in questa strategia. Il Mattei ha inoltre dichiarato: “Tutti i giorni mi sveglio ripensando a quel periodo e mi chiedo se avrei potuto fare altro per evitarlo e penso sempre che avrei rifatto la stessa cosa. (…) Dopo la prima volta che ho letto a Scarantino il verbale che aveva reso durante le prime indagini non mi sono più sottratto a questo ‘compito’ perché questa persona non aveva nessuno a cui rivolgersi. Aveva solo noi. Lui dei suoi problemi di vita quotidiana discuteva con noi. C’è stato pure un po’ di tornaconto nostro, devo ammetterlo, perché entrare in contrasto con lui significava trascorrere 15 giorni d’inferno”. Lo stesso Mattei, inoltre, racconta. “Il fatto che abbia partecipato a cinque interrogatori di Vincenzo Scarantino non vuol dire che io conosca tutte le sue vicende. Facevo i verbali, scrivevo senza comprendere, stavo attento solo alla scrittura, non al contenuto (…) Vincenzo Scarantino aveva difficoltà enormi a leggere e scrivere – ha continuato Mattei -. Le prime volte mi chiedeva di leggergli il giornale”. Anche nell’occasione della deposizione di Valenti ci fu un momento di commozione in aula, quando l’ispettore, scoppiando in lacrime, aveva detto: «Io con questa storia non c’entro proprio nulla». «Ero stato solo mandato a Imperia, una o due volte non ricorda, per scortare Scarantino». E aggiunse: «Mi ordinarono di interrompere la registrazione di Scarantino perché il collaboratore doveva parlare con i magistrati». Una circostanza che Mattei ha negato decisamente oggi. La prossima udienza è fissata per il 12 febbraio nell’aula bunker di Caltanissetta. ROBERTO GRECO WORDNEWS 6.2.2021