La Strage di Portella della Ginestra è universalmente riconosciuta come la prima strage politico-mafiosa dell’Italia unita. Gli esecutori materiali furono il bandito Salvatore Giuliano e i suoi uomini. La strage, senza precedenti, avveniva il 1° maggio 1947, provocando la morte di 11 persone e ferendone gravemente 27, in occasione della prima festa dei lavoratori dell’Italia repubblicana (sotto il fascismo la festa era stata accorpata al Natale di Roma e veniva festeggiata il 21 aprile).
I veri mandanti della Strage non furono mai individuati.
Il 1° maggio 1947 circa 2000 lavoratori e contadini della Piana degli Albanesi si erano riuniti nella piana di Portella della Ginestra (tra i monti Pizzuto e Kometa) per celebrare la festa dei lavoratori, festeggiare la vittoria del Fronte Popolare (l’alleanza PCI-PSI, che alle regionali del 20 aprile aveva vinto le elezioni) e manifestare contro il latifondismo e a favore dell’occupazione delle terre.
In attesa degli oratori ufficiali, un calzolaio di San Giuseppe Jato, Giacomo Schirò, segretario della locale sezione socialista, decise di intrattenere la folla. Dopo pochi minuti dall’inizio del suo discorso, Salvatore Giuliano e la sua banda cominciarono a sparare sui manifestanti: inizialmente gli spari furono scambiati per i tradizionali mortaretti della festa, poi il terrore si impadronì della folla.
Le vittime
- Margherita Clesceri
- Giorgio Cusenza
- Giovanni Megna
- Francesco Vicari
- Vito Allotta
- Serafino Lascari
- Filippo Di Salvo
- Giuseppe Di Maggio
- Castrense Intravaia
- Giovanni Grifò
- Vincenza La Fata
- Emanuele Busellini (ucciso dai banditi mentre si recavano sul luogo della strage).
I feriti
- Giorgio Caldarella (perse la funzionalità della gamba destra)
- Giorgio Mileto
- Antonio Palumbo
- Salvatore Invernale
- Francesco La Puma
- Damiano Petta
- Salvatore Caruso (diventò invalido a vita)
- Giuseppe Muscarella
- Eleonora Moschetto
- Salvatore Marino
- Alfonso Di Corrado
- Giuseppe Fratello
- Pietro Schirò
- Provvidenza Greco (perse l’uso della parola e della vista)
- Cristina La Rocca (figlia di Vincenzo La Rocca)
- Marco Italiano
- Maria Vicari
- Salvatore Renna (anche lui divenne invalido)
- Maria Calderara
- Ettore Fortuna
- Vincenza Spina
- Giuseppe Parrino
- Gaspare Pardo
- Antonina Caiola
- Castrenze Ricotta
- Francesca Di Lorenzo
- Gaetano Modica
- Vita Dorangricchia (morì 8 mesi dopo)
Le reazioni
La prima reazione alla strage fu lo sciopero generale, indetto dalla CGIL, che accusò i latifondisti di voler “soffocare nel sangue le organizzazioni dei lavoratori“. L’ispettore capo di polizia in Sicilia, Ettore Messana, invece, derubricò il fatto a un episodio circoscritto, di carattere locale.
Il 2 maggio 1947 il ministro dell’interno, il democristiano Mario Scelba, intervenne all’Assemblea Costituente, leggendo il telegramma dell’ispettore e accusando da subito come unici responsabili della strage Salvatore Giuliano e la sua banda.
Le testimonianze e le sentenze
Nelle settimane e nei giorni successivi all’eccidio, numerose furono le testimonianze che permisero agli inquirenti di ricostruire la dinamica della sparatoria: l’accerchiamento della folla e l’uso di armi non convenzionali e da guerra dimostrano che fu una vera e propria azione militare studiata nei minimi particolari che andava aldilà delle capacità di Giuliano e i suoi.
In particolare, l’uso delle granate (omesso nel rapporto dei marescialli dei carabinieri Calandra, Lo Bianco e Santucci) permise di disperdere la folla, consentendo ai commandos di operare con maggiore facilità contro i capi della manifestazione: se, infatti, tutte quelle armi da guerra fossero state destinate solo alla folla, il bilancio finale delle vittime sarebbe stato maggiore.
Nonostante questo, le sentenze di Viterbo (1952) e di Roma (1956) individuarono solamente in Salvatore Giuliano e i suoi i responsabili della strage, ignorando molte delle testimonianze (tra cui quelle di quattro cacciatori della banda Giuliano, catturati sui roccioni del Pelavet il giorno stesso della strage) che indicavano altri correi nella strage. In particolare, associarono le indagini con quelle della Strage contro le Camere del Lavoro della provincia di Palermo, sempre compiuta dalla Banda Giuliano il 22 giugno dello stesso anno, negando l’esistenza di mandanti.
Una strage politica
Nel 1948 Salvatore Giuliano scrisse una lettera all’Unità, in cui affermava lo scopo politico della strage e facendo una serie di allusioni sui rapporti da lui intrattenuti con noti esponenti politici, tra cui Mario Scelba. Dopo quella lettera, molti degli esponenti della banda furono catturati, finché il 5 luglio 1950Giuliano venne ritrovato morto nel cortile della casa di un avvocato di Castelvetrano: un comunicato del Ministero dell’Interno annunciò ufficialmente che era stato ucciso in un conflitto a fuoco avvenuto la notte precedente con un reparto dei carabinieri alle dipendenze del capitano Antonino Perenze.
Le perplessità della versione ufficiale emersero in un articolo del giornalista de L’Europeo Tommaso Besozzi, intitolato “Di sicuro c’è solo che è morto“, nella quale mise in luce le incongruenze della versione data dai carabinieri sulla morte del bandito e indicò come assassino di Salvatore Giuliano il suo luogotenente Gaspare Pisciotta, il quale poco prima della morte di Giuliano era segretamente diventato un informatore del colonnello Luca.
Al processo per il massacro di Portella della Ginestra tenutosi a Viterbo, Pisciotta si autoaccusò dell’omicidio di Giuliano e accusò anche i deputati Bernardo Mattarella, Gianfranco Alliata, Tommaso Leone Marchesano e Mario Scelba di essere i mandanti politici della strage, dichiarando: “Servimmo con lealtà e disinteresse i separatisti, i monarchici, i democristiani e tutti gli appartenenti a tali partiti che sono a Roma con alte cariche, mentre noi siamo stati scaricati in carcere. Banditi, mafiosi e carabinieri eravamo la stessa cosa”.
Come emerso dalle dichiarazioni di Pisciotta al processo, fu lui ad uccidere Giuliano nel sonno nella casa di Castelvetrano dove si nascondeva e il cadavere sarebbe poi stato trasportato nel cortile della casa stessa, dove gli uomini del colonnello Luca e del capitano Perenze inscenarono una sparatoria mentre Pisciotta si dava alla fuga.
Il 9 febbraio 1954 Pisciotta fu avvelenato nel carcere dell’Ucciardone con un caffè alla stricnina, prima che potesse rendere la sua testimonianza sulla strage di Portella della Ginestra al procuratore Pietro Scaglione.
Il contesto storico
Ad avvalorare la tesi della strage politico-mafiosa è anche il contesto politico italiano e internazionale che la precede. Il 1947 fu un anno di svolta: subito dopo la strage, il 13 maggio De Gasperi metteva fine all’esperienza dei governi di unità nazionale, cacciando le sinistre all’opposizione e inaugurando, il 30 maggio, il suo IV esecutivo, che sanciva la fine dell’anomalia italiana dei partiti social-comunisti al governo in un paese sotto l’egida USA. Parallelamente, in Sicilia il democristiano Giuseppe Alessi varava un governo minoritario appoggiato dai partiti sconfitti alle elezioni del 20 aprile.
Bibliografia
- Santino U., La democrazia bloccata. La strage di Portella della Ginestra e l’emarginazione delle sinistre, 1997, Rubettino
- Tranfaglia N., Come nasce la Repubblica. La mafia, il Vaticano e il neofascismo nei documenti americani e italiani. 1943-1947, 2004, Bompiani
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