Quali sono i pericoli?
“Scoraggia i collaboratori di giustizia, o meglio quelli che potrebbero diventarlo. Perché collaborare se c’è un regime dello Stato che ti consente di uscire senza accusarti di nuovi delitti, esporti a rappresaglie o dichiarare tutto il patrimonio che hai sottratto alla confisca? In più contiene un messaggio culturalmente drammatico: la normalizzazione dell’omertà”.
In che senso?
“Per usufruire del beneficio della liberazione condizionale occorre dimostrare che si “rieducati”. Con la riforma,non è necessario collaborare per dimostrarlo. Significa legittimare il rifiuto dei mafiosi condannati ad accusare i loro complici che continuano a uccidere, estorcere e sdoganare così la cultura dell’omertà. Qualche anno fa una proposta simile sarebbe stata impensabile”.
Cos’è cambiato?
“Il sistema Paese. L’ultima evoluzione è l’oligarchizzazione del potere. La ricchezza e il potere si accumulano sempre più nei piani alti della piramide sociale, la stessa cosa sta avvenendo nelle mafie”.
In cosa si traduce?
“I criminologi li definiscono sistemi crimino-affaristici o criminali, oppure cricche, P3, P4. Sono associazioni di cui fanno parte dei soggetti di mondi diversi – politica, finanza, colletti bianchi della mafia – che mettono insieme le risorse di cui dispongono – il potere di relazioni, economico, eventualmente anche militare – per mettere le mani su fette della società e dell’economia. Questa nuova soggettività criminale usa sempre meno la violenza. A cosa serve se non ci sono ostacoli da superare?”.
Mi faccia un esempio.
“Partecipazione alla predazione della spesa pubblica: non c’è più bisogno di ammazzare un Mattarella. Ci sono metodi più efficaci per sedersi al tavolo che vanno dalla corruzione alla penetrazione nei sistemi crimino-affaristici”.
Come si arriva a questa evoluzione?
“La storia della Repubblica nasce con una strage politico-mafiosa, Portella della Ginestra. Da allora è stata una successione ininterrotta: piazza Fontana nel 1969, Peteano nel ’72, Italicus e Brescia nel ’74, Bologna nel 1980, l’Italicus nel 1984, fino ad a quelle del ’92-93. E tutte hanno un unico denominatore: i depistaggi”.
Perché si depista?
“Per evitare che emerga una verità destabilizzante che chiama in causa pezzi di Stato. Non della politica, perché la politica è contingente, ma una struttura che dura fino ad oggi”.
Le stragi del ’92-93 come si inseriscono in questo contesto?
“Sono quelle degli orfani della Guerra fredda. Alle mafie, a Cosa nostra e alla ‘Ndrangheta, è stato affidato il ruolo di braccio armato. Dopo la caduta del muro di Berlino si rompe un sistema di equilibri. Internazionali e nazionali. I vertici delle lobbies criminali del tempo – mafie, massoneria deviata, servizi – si trovano in una situazione difficile c’era il rischio che si aprissero gli armadi e uscissero tutti gli scheletri. E gli interessi economici erano fortissimi”.
Risultato?
“L’insieme di queste forze che sono state protagoniste della strategia della tensione, mette insieme le risorse di cui dispone – l’hardware mafioso e il software degli strateghi della tensione – per governare la transizione in modo da evitare l’epilogo politico naturale e per arrivare a una soluzione che sia indolore e traghetti il vecchio nel nuovo, cosa che gli è riuscita benissimo”.
Questa struttura è ancora in piedi?
“Dopo la caduta del muro di Berlino, ci sono delle filiere che si sono riprodotte sia all’interno dei servizi, sia all’interno dello Stato, sia all’interno della mafia. E questo spiega perché anche in tempi recenti si assista a depistaggi”.
C’è qualcuno che potrebbe raccontare una verità completa?
“Non più di una quindicina di persone: i Ganci, Santapaola, i Graviano. I più probabilmente non parlano perché sanno di doversi confrontare con un potere così grande che nessuno li può proteggere”.
Dopo 30 anni di silenzio, Graviano qualcosa in aula l’ha detta
“La sua memoria difensiva sembra dettata dei servizi. Sostanzialmente riproduce lo stesso contenuto del famoso Corvo contro Falcone. La cui storia per altro andrebbe riscritta”
In che senso?
“È stata raccontata come una storia mafiocentrica e sembra naturale che sia così, era il più grande magistrato antimafia. Però Falcone non è stato solo questo. Lui inizia a indagare sulla mafia militare, arriva al mondo della P2, dei grandi riciclatori e dei colletti bianchi, quindi finisce per toccare i rapporti fra mafia, pezzi di Stato e agenzie straniere. Lì inizia la sua seconda via crucis. Perché si scontra con un mondo molto più pericoloso, con molto più potere di quello che aveva affrontato prima. E non gli lascia scampo”.
Lei ha mai incrociato questi mondi?
“Nella mia ultima indagine ho scoperto cose che andavano al di là di quello che potessi immaginare, che mi hanno fatto molto riflettere perché sono verità che sono state nascoste per lungo tempo”.
Si riferisce all’inchiesta sull’omicidio del poliziotto Nino Agostino?
“Ha riaperto un vaso di Pandora che porta poi sempre ai rapporti fra pezzi di Stato, alla mafia dei delitti eccellenti e alle stragi del ’92-93. Vincenzo Agostino, il padre dell’agente ucciso, mi ha detto: “Le stragi del ’92-93 sono iniziate a casa mia”. E ha ragione perché affondano le radici in quello che è successo prima, dall’omicidio Mattarella in poi. La storia di Agostino attraversa questo terreno che non è stato assolutamente arato dalle indagini”.
Per quale motivo?
“Perché il processo è un’impresa collettiva che coinvolge un’intera società. Se i testi non parlano, se la polizia inizia a far sparire documenti, se il consulente fa una perizia falsa, salta tutto. Basta che un punto solo di questa struttura ceda e non si può arrivare a una verità processuale”.
C’è la possibilità che questa impresa collettiva si realizzi?
“Credo che questo Paese non sia in grado né di fare certi processi né di affrontare la verità. Ormai c’è un’amnesia collettiva, una normalizzazione culturale sul tema delle stragi che impedisce anche un dibattito aperto. E penso che la partita sia perduta”.
Ha rimpianti?
“Ho fatto quello che potevo, in tutti i modi possibili. Quando non l’ho fatto, è stato solo perché mi hanno impedito di fare certe indagini”.
E oggi che è in pensione?
“Faccio quello che posso per diffondere la consapevolezza collettiva. Sento un muro di gomma, sento la volontà di rimozione, di censura ma continuo perché sono fatto in un certo modo. E non cambierò certo adesso”