Se al mondo esiste una terra emblema della contraddizione, questa è la Sicilia.
Della storia di Silvio Badalamenti ho iniziato a narrarne nel precedente articolo dal titolo “Lo stigma di chiamarsi Badalamenti”.
A raccontare la figura di quest’uomo, ucciso a soli 38 anni da “Cosa nostra” è la figlia Maria, dopo che il nome del padre a quasi 40 anni dalla sua uccisione è tornato a comparire nelle cronache a seguito di una sentenza in materia di benefici economici previsti dalla legge a favore dei familiari superstiti delle vittime della criminalità organizzata di stampo mafioso.
Tra i requisiti previsti dalla legge per accedere a tali benefici, , l’ “estraneità della vittima, al tempo dell’evento, ad ambienti e rapporti delinquenziali e al contesto mafioso”.
La sentenza, contraria alla richiesta, riporta di un “radicato rapporto di fiducia” tra Silvio Badalamenti e lo zio, Gaetano (Tano) Badalamenti, boss di Cinisi.
Il “radicato rapporto di fiducia” è l’equivoco che sembra stare alla base di tutta la vicenda.
Silvio Badalamenti era stato infatti stato inserito dagli inquirenti nella associazione mafiosa e raggiunto da ordinanza di custodia cautelare.
Una vicenda di cui narra Giovanni Falcone il 6 settembre 1983 dinanzi al CSM.
Fu infatti Giovanni Falcone a revocare il mandato di cattura spiegandone le ragioni.
“Ho scarcerato Silvio Badalamenti – riferisce Falcone – ma prima di farlo ne ho parlato con Chinnici, spiegandogli motivi, e lui non ha avuto nulla da obiettare.
Su tale scarcerazione ha espresso parere favorevole anche alla Procura.
Faccio presente infatti che Silvio Badalamenti, nonostante provenisse da una famiglia mafiosa, essendo nipote di Tano Badalamenti, non era esso stesso un mafioso.”
Ma non si limita a questo il giudice Falcone.
Spiega anche il motivo dell’uccisione del Badalamenti:
“Dopo la scarcerazione è stato ammazzato, perché la mafia vincente usa la tecnica di uccidere tutti i parenti e gli amici attorno alle persone che vuole eliminare, ma non riesce a individuare, perché si nascondono, in sostanza la tecnica della terra bruciata…”
Alle stesse risultanze portavano le indagini condotte dal Commissariato della Polizia di Stato di Marsala, che il 12 marzo 1984 così relazionava:
“Limitatamente alle indagini ed agli accertamenti esperiti, quanto asserito dalla Ruffino (moglie di Silvio Badalamenti) circa la estraneità del marito a sodalizi o fatti mafiosi, non ha trovato smentita. Infatti è emerso che lo stesso si dedicava soltanto al lavoro ed alla famiglia senza intrattenere particolari rapporti con alcuno.
A parere dello scrivente ufficio, data la personalità dell’ucciso si ha motivo di ritenere che lo stesso sia stato vittima “dell’operazione terra bruciata” posta in essere nel capoluogo siciliano da clan mafiosi avversari, allo scopo di creare il vuoto attorno al noto boss latitante Gaetano Badalamenti, zio del Silvio del cui si parla, che in questi ultimi tempi ha fatto registrare delitti anche all’estero.”
Dell’estraneità di Silvio Badalamenti a “Cosa nostra”, e delle ragioni nel delitto ne aveva già parlato il pentito Tommaso Buscetta:
“Questo non lo aiutava a Gaetano Badalamenti – dichiara Buscetta – A Badalamenti ci hanno ammazzato un sacco di parenti che non ricordo più i nomi, che lui mi ha detto ma io… io non mi ricordo più. Ma questo qua era molto più rimarchevole perché era una persona molto perbene e che non aveva niente a che fare neanche con Gaetano Badalamenti. Era solo perché parente…”
Buscetta, dunque, dell’omicidio di Silvio Badalamenti ne aveva parlato con lo zio, il boss Tano Badalamenti che faceva parte, come Buscetta, della vecchia mafia, i cui uomini durante quegli anni venivano sterminati dai corleonesi che nel tentativo di fargli intorno “terra bruciata” – così come dissero Falcone e gli investigatori -, massacravano chiunque per parentela o amicizia fosse collegabile agli avversari ai quali davano la caccia, anche all’estero.
Stando alla deposizione di Buscetta, Tano Badalamenti riferì allo stesso “che (Silvio – ndr) era stato ammazzato per colpa sua, perché inseguivano lui e quindi avendo trovato il nipote che era un povero ragazzo, lo avessero ammazzato. Era solo un parente. Lui mi disse: Questo non ha niente a che vedere con me, lo hanno ammazzato solo perché…”.
Disconosciuto dalla mafia, dallo zio (Tano Badalamenti), indicato come “non mafioso” da Giovanni falcone che lo scarcerò con il parere favorevole del giudice Chinnici e della Procura, indicato dagli investigatori come estraneo a sodalizi o fatti mafiosi, e dedito soltanto al lavoro ed alla famiglia senza intrattenere particolari rapporti con alcuno, Silvio Badalamenti – anche da morto – pare essere un “apolide sociale” del quale – infuori della famiglia – non importa a nessuno.
Anzi, non deve importare a nessuno.
Perché?
Gian J. Morici