10.8.2018 LA VOCE DI NEW YORK
Intervista fiume al magistrato Alfonso Sabella, già sostituto procuratore del pool antimafia di Palermo di Gian Carlo Caselli
Fraterno Sostegno ad Agnese Borsellino
La magistratura
Dottor Sabella, prima di entrare in Magistratura ha svolto la professione di Avvocato, poi decise di tentare il concorso: che cosa la spinse?
“Ambizione personale, ma non di fare il magistrato ma l’avvocato. Il mio obiettivo era quello di diventare il più giovane avvocato cassazionista d’Italia. Non avevo nessun tipo di pulsione etica in quel momento; non mi fraintenda, certamente sono sempre stato un idealista però in quel momento non pensavo di dedicare la mia vita allo Stato. C’era una norma dell’ordinamento giudiziario che consentiva ai magistrati, che avessero fatto almeno 5 anni di carriera in magistratura, di iscriversi direttamente all’albo dei cassazionisti. Gli avvocati abilitati al patrocinio presso la giurisdizione superiore. All’epoca io avrei dovuto fare 12 anni da avvocato per potermi iscrivere tra i cassazionisti mentre se avessi svolto 5 anni da magistrato avrei potuto guadagnare 7 anni. Siccome mi ero laureato giovanissimo il mio obiettivo in quel momento era diventare il più giovane avvocato cassazionista d’Italia e, forse, della storia. Il problema è che l’obiettivo lo abbandonai immediatamente perché capii che se ti trovi a fare il magistrato in Sicilia, e in quel momento storico, non puoi più sottrarti al tuo dovere: sarebbe da vigliacchi”.
Quindi lei è uno di coloro che vive la professione di magistrato come una missione di Giustizia e dello Stato.
“Avevo già uno studio professionale, che era quello dei miei genitori, molto avviato. Mia mamma, ai tempi, fu una delle prime donne Avvocato della provincia di Agrigento. Nel foro di Sciacca fu la prima a svolgere la professione legale. Negli anni ‘50 trovare una donna Avvocato era una rarità e poi nell’entroterra della provincia lo era ancora di più. Successivamente questa scelta per la magistratura l’ha fatta anche mia sorella Marzia”.
Quindi anche sua sorella aveva questo amore per la magistratura piuttosto che per la professione di Avvocato.
“In realtà Marzia voleva fare il notaio, ma credo che non abbia mai fatto il concorso. Marzia, anche per il suo carattere, era meno portata di me a fare l’avvocato. In paese, ancora oggi, molti mi chiamano Avvocato. Iniziarono ad appellarmi così quando ancora andavo al ginnasio. Dicevo a tutti che volevo svolgere la professione dei miei e quindi mi chiamavano tutti Avvocato. In verità incominciai a lavorare nello studio di mio padre prima di laurearmi. A casa mia, a tavola, si mangiava pane e diritto”.
Quindi lei arrivò a Termini Imerese dopo l’uditorato.
“Sì, e devo dire che fu una scelta praticamente obbligata. Svolsi l’uditorato a Palermo in un periodo particolarmente drammatico perché era il 1989. Quindi era il periodo del corvo, della delegittimazione di Giovanni Falcone, era il periodo in cui sostanzialmente si aspettava l’esito del maxiprocesso e c’erano i detrattori sulla tenuta in appello del Maxi. Erano momenti di grande fibrillazione e allora decisi di svolgere il ruolo di Pubblico Ministero. Ma il mio concorso fu anche un po’ sfigato perché noi cominciammo a lavorare alla fine del 1989 e il 24 ottobre dell’89 entrava in vigore il nuovo codice di procedura penale quindi cambiava radicalmente tutto. Quell’anno c’era solo un posto per il settore civile, Tribunale del lavoro a Bologna, e lo prese la prima del concorso. Gli altri erano tutti posti nel penale, la stragrande maggioranza nelle procure e nelle procurine, queste ultime erano gli uffici del PM presso la Pretura. Tra l’altro ero molto ben messo in concorso, nella metà della graduatoria, quindi avevo buone possibilità di scelta e ma l’unica procura vicino Palermo, in Sicilia, era a Termini Imerese. Originariamente era uscite, informalmente, un elenco di sedi da destinare agli uditori. E in quell’elenco informale, che era arrivato dal Consiglio Superiore della Magistratura, c’era un posto a Marsala dove il Procuratore era Paolo Borsellino e allora manifestai subito l’interesse di andare lì. Stesso interesse che manifestò anche un altro mio collega di quel concorso, Bruno Fasciana, adesso giudice a Palermo. Eravamo gli unici due palermitani che volevano fare procura e allora ci precipitammo a Marsala a parlare con Paolo. Quando gli dicemmo che c’era solo un posto si arrabbiò moltissimo perché gli avevano promesso due posti per gli uditori. Ci disse subito: “Non vi preoccupate ragazzi, adesso chiamo e vedete che ce la farete tutte e due a venire a Marsala”. Paolo di fronte a noi chiamò il Consiglio Superiore della Magistratura, qualcuno gli assicurò che i posti a Marsala sarebbero stati due. Quando uscirono le sedi definitive era sparito anche quell’unico posto informale, quindi praticamente a Marsala i posti rimasti erano zero e io e Bruno siamo stati praticamente costretti a scegliere Termini Imerese dove, guarda caso, c’era Giuseppe Prinzivalli che era il nemico giurato di Paolo Borsellino. Prinzivalli aveva trattato il processo sulla strage di piazza Scaffa, come presidente in Corte di Assise, e nella sentenza aveva espresso dei giudizi pesantissimi sul Giudice istruttore che era Paolo Borsellino, giungendo quasi a insultarlo. Anche nella sentenza del maxi-ter, sempre presieduto da Prinzivalli, furono espressi giudizi pesanti sull’operato di Falcone e Borsellino ma niente di paragonabile a quelli su Borsellino per la strage di piazza Scaffa. La strage in cui Scarpuzzedda (Pino Greco) e Lucchiseddu (Giuseppe Lucchese) ammazzarono molti ragazzetti che commettevano furti e avevano rubato qualcosa alla mamma di Scarpuzzedda”.
Ma lei ha conosciuto bene il dottor Borsellino?
“Non ho lavorato fianco a fianco con lui perché comunque lui era Procuratore a Marsala quando io ero a Palermo poi quando venne a Palermo io ero a Termini Imerese. Quindi sostanzialmente non abbiamo mai avuto un rapporto di lavoro, però lo conoscevo, per me era un mito, lo ammiravo, lo idolatravo. Lui e anche Giovanni Falcone. Caratterialmente erano due persone quasi opposte. Tanto aperto e gioviale Paolo tanto ombroso e chiuso Giovanni. Però erano due persone straordinarie. Quando ho ottenuto tutti i risultati nel contrasto alla mafia avevo risorse legislative, economiche, di mezzi e di uomini che Falcone e Borsellino si sognavano. Mi chiedo sempre come sarebbe stato diverso questo Paese se Falcone e Borsellino avessero potuto contare sugli stessi mezzi”.
Molte di quelle risorse legislative furono volute da Giovanni Falcone perché ad esempio il 152 del giugno 91 lo volle Falcone. Probabilmente aveva una visione politica del contrasto alla criminalità organizzata. Aveva capito già all’epoca come bisognava modificare le leggi per ottenere risultati.
“E pensi che io lo criticai l’ultima volta che lo vidi. Fu qualche giorno prima della strage. In quel momento ero molto giovane e non avevo capito che lui aveva visto molto più avanti di noi. In quell’occasione si discuteva dell’obbligatorietà dell’azione penale e lui diceva che bisognava rivedere questa norma costituzionale perché la magistratura non poteva reggere quella mole di procedimenti. Era quindi indispensabile che venisse rivista l’obbligatorietà dell’azione penale e limitare l’azione alla magistratura ai casi in cui era assolutamente necessario intervenire. Io avevo le mie preoccupazioni, come tanti altri, che questa cosa significasse, in qualche modo, mettere l’azione penale nelle mani del governo e della politica e quindi ero contrario. Lui chiaramente sarebbe stato in grado di dominare la politica, io certamente no. Logicamente lo capii dopo. Oppure il suo modo di vedere certi tipi di indagini quando riguardavano personaggi di un certo livello e sarebbe stato necessario essere molto cauti perché altrimenti sì rischiava che poi non ti avrebbero fatto fare neppure ciò che in realtà tu potevi fare. La discussione fu basata sul mandato di cattura che Falcone, nel 1989, aveva emesso contro il presunto pentito Pellegriti il quale aveva accusato Salvo Lima di essere il mandante dei delitti Mattarella, La Torre e Dalla Chiesa e aveva chiamato in causa anche Giulio Andreotti”.
Quando lei arriva a Termini Imerese si trova come capo Prinzivalli, il quale viene denunciato da lei e dal suo collega Masini. Siete stati i primi a portare Prinzivalli all’attenzione del Csm.
“Diciamo che, in quel momento, abbiamo avuto l’incoscienza dei giovani e dei pazzi. Dovevo prendere una decisione: se andare al Consiglio Superiore della Magistratura e denunciare il capo oppure abbozzare e tenermi tutto. Decisi che saremmo andati a Roma e inviai il telegramma al CSM”.
Che indizi avevate su Prinzivalli? Cosa era successo?
“Noi avevamo aperto un fronte di indagini a Termini Imerese che riguardava la malasanità siciliana. Da ciò scaturirono tutti i processi, sulla sanità dell’epoca, in tutta la Sicilia. Perché poi abbiamo ottenuto la collaborazione di alcuni imprenditori del settore che cominciarono a parlare di appalti in tutta la regione e oltre. Mandammo atti a Perugia, Roma, Torino, Catania, Messina e soprattutto a Palermo. C’erano numerosissimi reati che emersero dopo che alcuni imprenditori iniziarono a parlare. Uno di questi ci raccontò di una tangente data al presidente del comitato di gestione dell’Asl di Termini Imerese, Salvatore Catanese, che era un imprenditore di Caccamo, titolare di un’enorme impresa edile che aveva costruito la diga Rosamarina con altre imprese di livello nazionale. Catanese era anche un massone ed era legatissimo alle cosche mafiose di Caccamo. Era stato anche inquisito da Falcone perché erano stati trovati vari assegni che aveva scambiato con i vari esponenti della mafia di Caccamo ma Falcone aveva dovuto archiviare benché gli elementi fossero seri e validi perché al dibattimento non avrebbero retto. Sostanzialmente era un’archiviazione per insufficienza di prove. Noi trovammo anche i soldi, mi pare che fossero una trentina di milioni, scoprimmo anche da dove venivano prelevati e dove venivano versati. Risalimmo all’imprenditore che poi aveva materialmente pagato. Seguendo il danaro ricostruimmo per filo e per segno tutta la vicenda. Senonché preparammo la richiesta di custodia cautelare nei confronti di Salvatore Catanese e andammo da Prinzivalli per la firma. E lui si rifiutò di vistare. Ci disse che gli elementi non erano sufficienti, perché mancava la confessione dell’imprenditore che aveva fatto da tramite E allora andammo a sentire questo imprenditore, il quale confermò che aveva dato la mazzetta. E preparammo di nuovo la richiesta di custodia cautelare, e anche stavolta ci disse di no. Secondo lui mancava ancora la confessione dell’altro imprenditore che avevamo messo in galera e che era quello che sostanzialmente era stato il beneficiario del denaro liquidato dall’Asl, un certo Amigoni. Allora Luca Masini andò ad interrogarlo a Milano, anche questo signore ci confessò tutto. Ci disse di avergli dato la mazzetta, ricostruì nei minimi dettagli tutto quello che già noi avevamo perché eravamo riusciti a trovare tutte le tracce bancarie e gli atti amministrativi. La cosa stranissima è che quando Luca tornò da Milano e arrivò a casa trovò qualcosa come una decina di telefonate di Prinzivalli sulla segreteria telefonica (all’epoca non avevamo ancora cellulari). Il nostro capo voleva sapere com’era andato l’interrogatorio. Da premettere: Prinzivalli non chiamava mai. La stessa notte scriviamo il provvedimento cautelare e l’indomani mattina ci presentiamo da Prinzivalli a farlo vistare; anche stavolta ci disse di no. Rientrammo nel nostro ufficio incazzatissimi. Non capivamo per quale ragione si opponesse. Nel frattempo ricevemmo una telefonata da parte di Arnaldo Acerbi, comandante della Compagnia dei Carabinieri di Termini Imerese che ci disse che ci voleva parlare e lo raggiungemmo in ufficio; e lì trovammo anche due delle componenti della commissione straordinaria del comune di Termini Imerese che era stato sciolto per infiltrazioni mafiose: un prefetto, Isabella Giannola, e un segretario comunale, la dottoressa Serafina Buarné, attuale segretario generale della città metropolitana di Roma. Sostanzialmente ci dissero che Prinzivalli la sera precedente, prima di fare tutte quelle telefonate e cercare di capire dove fossimo, era stato ad una cena dei Lions, cena alla quale loro tre erano dovuti andare per ragioni istituzionali: Acerbi era il comandante della Compagnia e la Giannola e la Buarné in rappresentanza dell’amministrazione comunale. In quella cena Salvatore Catanese e Prinzivalli si erano messi in disparte a chiacchierare insieme. Le fonti che ci raccontavano quell’incontro erano attendibilissime quindi non avevamo il minimo dubbio. E, a quel punto, facendo un po’ di conti, capimmo anche perché Prinzivalli non voleva firmare e decidemmo di andare al consiglio superiore”.
E il CSM come si comportò con Prinzivalli?
“Il Consiglio Superiore, devo dire, affrontò la questione in maniera eccezionale. Ci ricevettero subito e ci ascoltarono. Tra l’altro disposero immediatamente la tutela perché potevamo correre dei rischi e avviarono la pratica per il trasferimento di ufficio per incompatibilità ambientale di Prinzivalli. Prinzivalli, però, bloccò la pratica chiedendo spontaneamente (!) il trasferimento per Palermo”.
Prinzivalli, alla fine, fu condannato?
“Prinzivalli fu condannato in primo grado a 10 anni di reclusione, non solo per questa vicenda ma anche per le vicende connesse al maxiprocesso. La condanna fu confermata in appello e la cassazione annullò la sentenza disponendo un nuovo processo perché bisognava motivare meglio qualche aspetto. E fu assolto. Intervenne di nuovo la Suprema Corte che annullò quella sentenza e gli atti trasferiti a Catania. Ed a Catania il reato di concorso esterno in associazione di tipo mafioso, di cui era accusato, fu ritenuto prescritto”.
La prescrizione non era un’assoluzione. In sostanza erano state riconosciute le accuse anche se, nel frattempo, il reato si era prescritto.
“Quello che raccontammo era assolutamente pacifico ed evidente. Noi facemmo questo salto nel buio, eravamo dei ragazzini che denunciavano il loro capo davanti al Consiglio Superiore della Magistratura. Scopriremo poi che c’erano stati tanti altri colleghi che prima di noi avevano ritenuto di avere più di un motivo per credere che Prinzivalli non si comportasse in maniera corretta, però erano stati muti.
Non avevano avuto il coraggio…
“Le palle, non avevano avuto le palle”.
I collaboratori
Abbiamo avuto l’impressione che lei nell’ascoltare i collaboratori sia stato favorito dalla “sicilianità”. Conoscere il dialetto, i gesti, le “taliate” o il vissuto dei collaboratori. Quanto è importante, per comprendere il mondo di cosa nostra, essere un siciliano ed avere abitato in Sicilia?
“Fondamentale. Non a caso dico sempre che i siciliani hanno inventato la mafia, ma hanno anche inventato il modo di combatterla. Falcone e Borsellino erano della Magione e della Kalsa, e conoscevano benissimo quei territori, conoscevano benissimo il modo di pensare e di esprimersi dei loro concittadini. Ed è importante. Molto spesso le logiche dei mafiosi non sono le logiche degli altri siciliani. Così come molto spesso le logiche dei siciliani, soprattutto quelle dei paesi e dei quartieri, non sono identiche a quelle della città. Palermo è costituita da un nucleo cittadino e dai quartieri, che sono in realtà delle borgate che stanno intorno al centro, e le borgate non sono per niente diverse dai paesi dove ci si conosce un po’ tutti. È fondamentale mettersi sulla loro stessa lunghezza d’onda. Ma nell’operare contro cosa nostra un grande merito lo ebbe anche un torinese, che è Gian Carlo Caselli, il quale pur non essendo siciliano, e avendo certe volte delle difficoltà a confrontarsi con le nostre categorie mentali, ebbe la grande intelligenza da grande magistrato che è, di capire che bisognava organizzarsi come loro. Ci predispose in Procura come era organizzata la mafia. Cosa nostra è organizzata per mandamenti, e anche noi ci organizzammo per mandamento. C’era la rete che tutelava il latitante, e noi ci organizzammo con le informazioni su quella rete che finivano ad un unico Magistrato. Gian Carlo fu straordinario nel perseguire questa linea della compartimentazione delle indagini e della collettivizzazione delle informazioni”.
Quindi, lei venendo da un paesino interno della provincia, conoscendo il dialetto e i modi di fare tipicamente siciliani e provinciali ha avuto una marcia in più.
“Questa è stata la mia arma vincente, conoscere la mentalità del paese dove ci si conosce e ci si frequenta tutti, senza barriere o differenze di censo, di livello culturale, di condizioni economiche e quindi sei portato a ragionare come ragiona la gente comune sulla cui lunghezza d’onda, appunto, si tarano i mafiosi. Ho imparato a conoscerli meglio proprio per questo motivo, diciamo che è stato il mio valore aggiunto rispetto ai colleghi della procura di Palermo, bravissimi, che però erano troppo cittadini. Io invece ero un po’ agricolo e, del resto, venivo dalla campagna. Pensi che quando Pietro Romeo iniziò a collaborare, ero l’unico magistrato che riusciva ad interrogarlo, non lo capiva nessuno, solo io. A distanza di anni le racconto un aneddoto che non ho mai divulgato. Arrestammo questo Pietro Romeo, lo strangolatore del gruppo Bagarella, uno dei collaboratori più utili che abbiamo avuto. Con le sue dichiarazioni arrestammo tre o quattro latitanti in una notte, trovammo l’esplosivo a Formello, vicino Roma, che doveva servire per far saltare la torre di Pisa ed era il rimanente del fallito attentato a Totuccio Contorno, rinvenimmo armi a non finire. Ci raccontò di omicidi con dovizia di particolari e riscontratissimi. Quando Romeo decise di parlare noi magistrati della procura di Palermo avevamo deciso di finirla con questi collaboratori che si pentivano e venivano immediatamente scarcerati. Quindi i pentiti, almeno per qualche anno dovevano restare in carcere. Nel frattempo era entrato in vigore l’articolo 141 bis del codice di procedura penale il quale prevede che tutti gli interrogatori di coloro che sono detenuti devono essere fonoregistrati. Il problema fu che quando andammo a interrogare Pietro Romeo io capivo e nella verbalizzazione sintetica scrivevo le cose che lui mi diceva, ma altri colleghi abbandonavano. Olga Capasso, ad esempio, un giorno lo andò a interrogare a Milano e tornò con dei verbali che mi buttò sul tavolo dicendomi: “Questo te lo interroghi tu perché io, quando parla, non capisco nulla”. Quando poi andavamo a sbobinare le cassette delle fonoregistrazioni, i trascrittori non facevano altro che riportare incomprensibile… incomprensibile… incomprensibile…C’era una parola che si capiva, e veniva trascritta, e 100 no, quindi quelle cassette erano sostanzialmente inutili. Potevamo arrestare le persone con gli “incomprensibile” che venivano riportati su quei verbali? Certamente no. Per questa ragione Pietro Romeo fu l’ultimo che beneficiò della scarcerazione quasi immediata. Infatti dovemmo scarcerarlo per poterlo interrogare senza la registrazione altrimenti era assolutamente inutile sentirlo. E utilizzai in tutti gli interrogatori la tradizionale verbalizzazione riassuntiva”.
Pietro Romeo ha ucciso molte persone, un sanguinario, uno dei peggiori che ci siano stati.
“Forse, ma certamente meno di tanti altri. Nel mio libro racconto il mio primo incontro con Romeo. Quando lo arrestammo mi chiamò Santino Giuffrè, all’epoca capo della Criminalpol, e mi disse di parlarci un attimo prima della conferenza stampa perché forse avrebbe potuto saltare il fosso, sembrava disponibile. Romeo era in effetti una persona ingenua. Proprio per questo è stato uno dei collaboratori più affidabili che ho avuto, non mi ha mai detto una mezza falsità. L’unico collaboratore di cui ho riscontrato parola per parola, neanche una sbavatura nei suoi racconti, proprio perché era una persona molto ingenua. La mafia lo utilizzava per la sua forza fisica, uno strangolatore. Ma non era uno di quelli che aveva piacere ad ammazzare, lo faceva come dovere e non si poneva problemi etici”.
Si è occupato di molti collaboratori. Ci ha incuriosito la vicenda di Cancemi in Svizzera. All’epoca vi fece trovare una piccolissima parte del tesoro della mafia. Carla Del Ponte però riuscì a far rimanere in Svizzera il denaro che fu ritrovato. Come avvenne?
“Avevamo chiesto allo Stato elvetico l’autorizzazione alla rogatoria per l’ispezione e il sequestro del denaro. Ma fummo autorizzati a fare solo l’ispezione. La Del Ponte, procuratore federale, si era riservata di autorizzare il sequestro al momento del rinvenimento, se questo fosse avvenuto. La legge in Svizzera prevede che tutto il denaro provento di traffico di stupefacenti, che per una qualunque ragione sia transitato in quel paese, deve essere confiscato dalla stessa Confederazione Elvetica. Dopo il ritrovamento dei soldi, Carla del Ponte (che tra l’altro non poteva farlo perché non c’era neanche l’Avvocato) si portò in ufficio Cancemi e si fece mettere nero su bianco che quel denaro veniva dal traffico di stupefacenti che i mafiosi avevano spedito negli Stati Uniti. Di conseguenza dispose lei il sequestro e il danaro restò lì. Mai mettersi con uno svizzero quando si tratta di soldi. Comunque l’assistenza che abbiamo avuto sul territorio elvetico è stata eccezionale. Sistemi di sicurezza che ci stupirono non poco. Addirittura trovammo le forze speciali con mimetiche e mitragliatori appostati nel bosco. Fecero un lavoro ineccepibile”.
Nel suo libro ha scritto che la mafia delle Madonie fu sottovalutata fino ai primi anni 90. Perché?
“La mafia nelle Madonie la scoprì negli anni ’20 il prefetto Mori. Nel successivo dopoguerra i carabinieri svilupparono molte indagini ma sempre in maniera frammentaria. Il lavoro organico sulla mafia madonita fu avviato solo da Giovanni Falcone ed ebbe il suo sviluppo giudiziario nel noto “blitz delle Madonie ma, come è noto, Antonino Meli, nel frattempo nominato dal CSM Consigliere istruttore al posto di Falcone, divise in mille rivoli quell’indagine che prima si riteneva essere interamente di competenza di Palermo. Perché Falcone partiva dalla base della unicità di cosa nostra, quindi tutto ciò che riguardava cosa nostra era di competenza della Procura di Palermo. Mentre Meli, era di opinione opposta e quindi trasmise alle varie procure del territorio frammenti dell’indagine. Anche a me fu assegnato un pezzo di quel processo, riguardava il favoreggiamento di Michele Greco e qualche estorsione dei Farinella. Ma così si veniva a perdere il significato stesso di quell’indagine. Fu un grosso handicap investigativo”.
Poi nel ’93, la mafia delle Madonie fu di nuovo trattata in pool.
“Certo. Le Madonie erano di mia competenza anche perché arrivavo da Termini Imerese. Fui applicato nel 1993 a Palermo e il processo è il 5616/94 (mi ricordo ancora il numero di RG). Era uno stralcio che nasceva da un ignoto del 1993. Nelle Madonie non c’erano stati collaboratori di giustizia fino all’arrivo nel 2002 di Antonino Giuffrè. Quindi all’epoca una grande mano ce la diedero i pentiti della zona dei Nebrodi che avevano avuto rapporti con i Farinella, che li avevano utilizzati per una serie di omicidi. E grazie a questi collaboratori riuscimmo a ricostruire varie vicende di quegli anni”.
Bagarella è stato tradito da un paio di jeans Levi’s. E Brusca collezionava orologi di pregio. Ma quanto sono narcisisti i mafiosi?
“Sicuramente se Bagarella non fosse andato a ritirare i jeans c’era il rischio di perderlo. Stava cambiando aria e punti di riferimento. I mafiosi sono infinitamente narcisisti. A Brusca avevamo trovato molti orologi di pregio e avevamo stilato un elenco con la provenienza di ognuno di essi. Ad esempio uno glielo aveva regalato un imprenditore per una questione di pizzo, un altro lo aveva ricevuto da Matteo Messina Denaro, e così via. Durante una pausa degli interrogatori gli feci vedere quello che avevo io al polso. Me lo avevano regalato i miei genitori per la laurea. Un normalissimo Rolex di acciaio al quale tengo moltissimo. Tra quelli di Brusca c’era un costosissimo cronografo Ulysse Nardin, prodotto in soli 300 esemplari, che valeva un centinaio di milioni di lire all’epoca. Allora gli chiesi: ‘Io tengo al polso un Rolex e sono contento che lo vedano gli altri anche per una mia questione affettiva ma lei questi orologi così costosi a chi li faceva vedere? A Bagarella, a Messina Denaro? Che magari avevano lo stesso orologio perché glielo aveva regalato lo stesso imprenditore che lo aveva regalato a lei?’. Risposta di Brusca: ‘Dottore, vuole mettere il piacere di possederli? E poi il piacere di guardarmeli addosso?’. Quindi da un lato c’era questo piacere del possesso, e dall’altro il narcisismo di indossarlo”.
Perché Brusca fu interrogato in un ufficio postale?
“Quando Brusca iniziò a collaborare per non farci vedere entravamo all’Ucciardone dentro al cofano di una macchina affinché nessuno potesse capire che lo stavamo sentendo. E noi avevamo interesse a mantenere segreta la collaborazione con Brusca. Lo gestimmo segretamente come collaboratore dal 23 maggio al 27 luglio del 1996. Il 27 luglio lo abbiamo dovuto incontrare ufficialmente per la prima volta e onde evitare di interrogarlo in un sito dove qualcuno ci potesse vedere- perché anche le carceri hanno gli occhi- un gruppo scelto della polizia penitenziaria ci trovò un ufficio postale a Palermo che era chiuso al pomeriggio e aveva un garage sotterraneo dove entravano i blindati e i portavalori e quindi si poteva entrare col cellulare, per questo fu scelto un ufficio postale. Ce lo portarono lì e lo interrogammo”.
Quando era a Palermo collaborava costantemente con la polizia giudiziaria, ascoltando addirittura intercettazioni, quanto è importante questa collaborazione così stretta?
“Fondamentale. Devo dire che molti miei colleghi mi criticavano dicendo che il PM si fa nel palazzo di giustizia e non nelle caserme dei Carabinieri o nei Commissariati di Polizia. Però questo consentiva a me, magistrato, di avere un immediato riscontro sul territorio di quello che accertava la polizia giudiziaria e alla polizia giudiziaria di attingere alle mie conoscenze da magistrato di quello che avveniva nei processi, o di quello che dicevano i pentiti, anche dettagli magari che avevamo verbalizzato sommariamente perché non sembravano importanti e poi diventavano fondamentali nella logica di ciò che era emerso sul territorio in determinati rapporti e relazioni. Quindi questo scambio condiviso di informazioni, in tempo reale, tra magistratura e forze di Polizia consentiva di avere un’azione molto più organica. E secondo me ha permesso anche di ottenere risultati importanti”.
Nelle motivazioni della sentenza del Borsellino quater, appena depositate, si parla anche di “anomalie nell’attività di indagine” e “insieme di fattori che avrebbe logicamente consigliato un atteggiamento di particolare cautela e rigore nella valutazione delle dichiarazioni dello Scarantino, con una minuziosa ricerca di tutti gli elementi di riscontro, positive o negative che fossero, secondo le migliori esperienze maturate nel contrasto alla criminalità organizzata, incentrate su quello che veniva giustamente definito il metodo Falcone”. Lei aveva interrogato Scarantino negli anni ’90 a Palermo.
“Scarantino lo interrogai due volte. Ogni pentito veniva affidato a un magistrato. Scarantino era stato affidato a me. Io ero il magistrato a Palermo titolare su quel soggetto. Dopo che lo ascoltai la prima volta andai a fare un po’ di verifiche; tornai a risentirlo, e gli dissi: ‘Se lei è un mafioso, io sono un fisico nucleare’ e me ne andai. Non l’ho mai utilizzato nemmeno per gli omicidi cui si era autoaccusato perché per me era inattendibile fin dall’inizio”.
E ha fatto una nota…
“Ho preparato una nota al Servizio centrale di protezione, firmata da un Procuratore aggiunto, forse Guido Lo Forte o Vittorio Aliquò. Era il nostro parere alla commissione centrale del Ministero dell’Interno sull’attendibilità di Scarantino. La nota non era una presa di posizione radicale contro la procura di Caltanissetta che continuava a considerarlo attendibile. Noi avevamo scritto che non avevamo riscontrato niente, che per noi non era utile ma e che sapevamo che altre procure lo consideravano attendibile. Ovviamente al nostro interno, essendo io il titolare, non l’ho mai utilizzato e invitavo i miei colleghi a cui potevano servire quelle dichiarazioni, a non utilizzarle in alcun modo perché, per quel che mi riguardava era totalmente inaffidabile”.
Quella nota arrivò mai a Caltanissetta?
“Caltanissetta aveva un appunto che era stato predisposto da Ilda Boccassini, che io credo di aver condiviso in qualche modo formalmente. Si faceva un’analisi estremamente e analiticamente critica delle dichiarazioni rese a Caltanissetta. Ma noi non avevamo un substrato dichiarativo di Scarantino, perché mi è bastato ascoltarlo due volte per capire che questo soggetto non capiva nulla di mafia ed era semplicemente una persona che era stata messa lì per qualche ragione che a noi sfuggiva. Però noi non potevamo andare a indagare su fatti di competenza di Caltanissetta. Non so se Caltanissetta abbia ricevuto la nostra nota perché doveva semmai girargliela la commissione centrale del Ministero dell’Interno ma è verosimile che la Procura nissena ne fosse venuta a conoscenza. Era una nota istituzionale, non potevamo certo dire chiaramente che la Procura di Caltanissetta stava prendendo fischi per fiaschi. Chi leggeva quella nota capiva benissimo che noi avevamo un’idea totalmente diversa”.
Ha mai avuto modo di interrogare, o conoscere, un collaboratore (ormai fuori dal programma dal 98), tale Vincenzo Calcara?
“No. Anche perché non penso fosse il massimo dell’affidabilità. Avevo letto suoi verbali di dichiarazioni e mi avevano lasciato molto perplesso. Stessa cosa per Rosario Spatola o Pietro Scavuzzo”.
Il dottor Borsellino, in una audizione al CSM nel dicembre del 1991, parlò della pericolosità di incontri tra collaboratori. Lei ha raccontato di un incontro tra Balduccio Di Maggio e Angelo Siino, avvenuto in una caserma. Quanto possono essere dannosi questi incontri?
“L’incontro tra collaboratori, fuori dalle regole, è devastante. Quando, ad esempio, iniziò a collaborare Giovanni Brusca, e poi suo fratello Enzo, per fare in modo che questi due non avessero la minima possibilità di contatto adottammo certe misure. Mentre Giovanni Brusca restò sotto il controllo del GOM della polizia penitenziaria, nel circuito Penitenziario dei collaboratori, Enzo Brusca lo collocammo in una sezione, non utilizzata, del carcere di Monza, gestita da personale che non aveva il minimo rapporto con quelli del GOM, in modo tale da avere la certezza matematica che questi due non avessero contatti. Ci è capitato di fare incontrare dei collaboratori, perché c’era necessità di confronti, ma gli incontri avvenivano sempre alla presenza dei loro avvocati e con tutta una serie di cautele particolari, tutto videofilmato, anche se la ripresa non era prevista dalla legge. Li facevo registrare proprio perché ci fosse sempre la possibilità di andare a controllare se vi fosse stato qualche gesto, qualche espressione o qualche occhiata, tutti elementi che potevano avere significati criptici o convenzionali tra loro. Penso che l’incontro di Di Maggio e Siino sia un fatto di inaudita gravità perché mentre Di Maggio era un collaboratore sotto protezione Siino era, all’epoca, un mafioso agli arresti domiciliari, quindi quel contatto tra i due poteva determinare esiti nefasti per la genuinità della prova e soprattutto costituire una pericoloso occasione di veicolare informazioni da una parte all’altra”.
Perché avvenne e chi lo organizzò?
“Non lo so”.
E lei come lo aveva saputo?
“Perché c’era qualche relazione di servizio che era “scappata”. Posso dirle che c’ è un fatto molto anomalo nella gestione dei due. Tutti i collaboratori di giustizia erano affidati al Servizio Centrale di Protezione tranne tre. Salvatore Cancemi e Balduccio Di Maggio erano gestiti, di fatto, dal ROS e Francesco Marino Mannoia dalla Polizia ma quest’ ultimo aveva iniziato a collaborare prima che l’Italia si dotasse di una legge in materia e la sua tutela era stata affidata, per le vie brevi, alla Polizia di Stato anche d’intesa con il Dipartimento della Giustizia statunitense. Francesco Marino Mannoia era un caso, obiettivamente, a parte ma tutti i collaboratori erano in carico al Servizio Centrale di Protezione tranne Balduccio Di Maggio e Salvatore Cancemi che erano gestiti dal Ros”.
E Siino quindi non era ancora sotto protezione?
“Siino era un mafioso detenuto agli arresti domiciliari per ragioni di salute e che, poi, sapremo essere in quel momento fonte del Ros. Però senza che avesse formalizzato la collaborazione, senza che avesse incontrato mai un magistrato o reso rituali confessioni”.
C’è qualche collaboratore che lei ha incontrato e in cui ha notato un pentimento dal punto di vista umano?
“Sì, ma solo in quelli che non avevano un substrato familiare mafioso. Il primo che mi viene in mente è Antonio Calvaruso che venne cooptato in cosa nostra per caso. Mi ricordo che un funzionario del Servizio Centrale di Protezione mi disse che erano in difficoltà nella gestione di questo collaboratore perché si era messo a fare volontariato; andava nelle parrocchie e nelle case di famiglie indigenti, facendo lavori umili per aiutarli. Era figlio di un imbianchino e dava una mano ai vecchietti che non avevano soldi per pagarsi dei lavoretti in casa. In Calvaruso ho visto un pentimento vero, ma potrei anche sbagliarmi”.
Ci sono anche altri?
“Probabilmente uno che ha fatto un certo percorso sul piano morale è anche Enzo Brusca, anche se viene da una storica famiglia mafiosa ed è il fratello minore di Giovanni Brusca. E’ chiaro che la scelta di collaborare l’ha fatta anche lui per interesse. E questo tipo di “pentitismo” non mi sconvolge perché lo Stato non è in grado di conoscere i segreti interni della mafia; di conseguenza le Istituzioni hanno bisogno di rivolgersi ai collaboratori e questi si fanno il conto, è un contratto. Lo fanno senza alcun tipo di afflato etico. Premesso ciò, in Enzo Brusca credo di aver notato una qualche resipiscenza sul suo terribile passato criminale. Un altro è sicuramente Emanuele Di Filippo che secondo me è una persona cambiata anche sul piano umano, probabilmente anche Salvatore Grigoli, l’assassino di Don Pino Puglisi, ma anche in questi due casi si tratta di persone che non nascono in ambienti mafiosi ma che, in un certo momento della loro vita, si sono imbattute, per caso, in cosa nostra”.
Vorremmo toccare la questione del sequestro del piccolo Di Matteo. Da qualche anno il tribunale per i minori di Reggio Calabria ha adottato il protocollo “Liberi di scegliere”. Il dottore di Bella riesce a sottrarre bambini alla mafia con la limitazione della potestà genitoriale che è comunque un atto civilistico. Ecco, lo stesso provvedimento si sarebbe potuto fare all’epoca per tutelate Giuseppe Di Matteo? Quando Santino Di Matteo iniziò a collaboratore la moglie non volle seguirlo sotto protezione. Non si è pensato che c’erano i figli che potevano essere in pericolo?
“Col senno di poi potrebbe essere facile dirlo ma all’epoca non aveva logica un provvedimento di questo tipo. Sottrarre il bambino alla famiglia, perché il padre aveva scelto di collaborare con lo Stato, sarebbe un risultato anche moralmente scorretto e avrebbe avuto pure effetti deterrenti su altre possibili collaborazioni. Questo tipo di provvedimento sulla limitazione della potestà genitoriale si attua quando in realtà si capisce che il bambino non ha alternative diverse dal crescere in un ambiente mafioso e non certo quando i suoi familiari decidono di allontanarsene collaborando con la Giustizia”.
Ma all’epoca non c’era un provvedimento che si poteva attuare qualora il bambino fosse stato in una situazione di pericolo? Non la limitazione, vera e propria, della responsabilità genitoriale, però costringere i familiari a seguire Santino Di Matteo.
“Ma quello è un discorso diverso. Non credo che la legge consenta di sottoporre forzatamente a misure di protezione chi le rifiuta, com’era appunto avvenuto per la mamma di Giuseppe Di Matteo che aveva tutto il diritto di tenere con sé il bambino minorenne, cosa su cui penso fosse d’accordo anche il padre. È vero che Santino Di Matteo era il primo collaboratore a parlare della strage di Capaci, ma il 1993 non era il periodo delle vendette trasversali. Queste, da qualche tempo, si erano ormai arrestate ai familiari dei pentiti storici Contorno, Buscetta e Mannoia. Non c’erano segnali in questo senso e comunque io non ero alla Procura di Palermo quando iniziò a collaborare Di Matteo. Chi ha valutato la situazione all’epoca sapeva perfettamente che in qualche modo anche i nonni del bambino gravitavano in contesti mafiosi (il padre di Santino Di Matteo era un uomo d’onore e il suocero era legato a Benedetto Spera). Quindi la pubblica dissociazione dei familiari doveva essere sufficiente a evitare ritorsioni. La decisione di sequestrare il piccolo di Matteo fu un atto che io ho considerato di tipo politico, posto in essere da Bagarella e non una decisione rivolta veramente a far ritrattare Santino di Matteo. Questa era la tesi che io ho sostenuto a processo, ma con la sentenza mi hanno dato torto anche se sono ancora convinto che ci avevo visto giusto. Al processo ho sostenuto che la scelta di rapire il piccolo di Matteo fu in qualche modo determinata da una difficoltà in cui si trovava Leoluca Bagarella. Bagarella, di fronte all’emorragia di pentiti dopo le stragi del ’92 e ’93, aveva la necessità di dare un segnale iniziando con vendette trasversali ma questo tipo di vendette era impossibilitato a farle per più motivi. Bagarella era sposato con Vincenzina Marchese, e il fratello di Vincenzina, Pino Marchese, era il primo dei cosiddetti vincenti che aveva iniziato a collaborare con la Procura di Palermo. E poi il cugino di Marchese, Giovanni Drago, aveva un fratello che era a sua volta il cognato di Bagarella perché aveva sposato un’altra Marchese. Bagarella avrebbe dovuto ordinare vendette trasversali ma non poteva perché avrebbe dovuto iniziare in primis dai familiari di sua moglie. Quindi non potendo ammazzare i parenti di Vincenzina elabora l’apparente strategia di rapire un familiare di un collaboratore promettendone il rilascio qualora questi avesse ritrattato le sue dichiarazioni. Secondo me, invece, si trattava di una vera e propria vendetta trasversale mascherata. Infatti era chiaro fin dall’inizio che il bambino sarebbe stato ucciso. Però non doveva passare il messaggio, agli occhi di cosa Nostra, che fosse questo il motivo del rapimento, altrimenti qualcuno ne avrebbe chiesto conto e ragione a Bagarella”.
Era questo il motivo per cui tanti non erano d’accordo?
“Certo, anche perché un’eventuale ritrattazione di Santino di Matteo sarebbe stata priva di qualsiasi significato giuridico. Gli art. 500 e 503 del codice di procedura penale, vigenti all’epoca, ci consentivano di utilizzare le precedenti dichiarazioni, quindi se anche Di Matteo avesse ritrattato nel processo il pregiudizio per la pubblica accusa sarebbe stato irrisorio; e i mafiosi lo sapevano. Al limite una ritrattazione ci avrebbe, addirittura, agevolato perché avremmo potuto semplicemente produrre le sue precedenti dichiarazioni e non avremmo avuto neanche il rischio di un controesame nel corso del quale gli avvocati avrebbero potuto, con le loro domande, farlo cadere in contraddizione”.
I mafiosi del trapanese non volevano questo bambino nel loro territorio…
“Non lo hanno voluto, né Peppe Ferro né Peppino Farinella. Ferro fece il diavolo a quattro quando seppe che il piccolo era nel suo mandamento. Stessa cosa Farinella quando ebbe la notizia che il piccolo si trovava nelle Madonie. Moltissimi non erano d’accordo”.
Perché non si sono spesi per riuscire a salvarlo?
“Perché in cosa Nostra non comanda chi è più intelligente o più saggio, comanda chi è il più forte, chi ha più armi e più soldati. In quel momento i più forti erano Bagarella, Brusca e Matteo Messina Denaro”.
Quindi l’unico del trapanese ad essere d’accordo era Matteo Messina Denaro.
“Sì. Infatti il bambino fu poi spostato dal mandamento di Castellammare, che era di Peppe Ferro, al territorio di Trapani e nel mandamento di Castelvetrano dove c’era la competenza di Matteo Messina Denaro, che era tra quelli che avevano voluto quel sequestro”.
Il più sanguinario oltre a Bagarella e Brusca è stato Matteo Messina Denaro. “All’epoca certamente. Del resto nel commando che andò a sparare a Rino Germanà nel settembre del 92 c’erano loro tre: Bagarella, Brusca e Matteo Messina Denaro”.
Lei ha un’ipotesi sul perché non si riesce a trovare Messina Denaro?
“Logicamente non posso saperlo, perché non ci lavoro io. Posso solo ipotizzare che Messina Denaro abbia fatto buon governo della linea Provenzano, rifiutando la tecnologia e, soprattutto, muovendosi pochissimo sul territorio, resta in qualche modo coperto. Spesso mi capita di ripetere che per arrestare Bagarella c’erano 4 o 5 strade buone, per arrestare Brusca ce ne erano due o tre mentre per arrestare Provenzano ce n’era sempre una alla volta, quindi o se non si imboccava quella giusta sarebbe stato impossibile catturarlo. Io credo che mantenere dei contatti molto radi sia stata la prima scelta di Messina Denaro, e soprattutto passare sempre solo da un canale. O si individua quel canale o non si ha alcuna possibilità di arrivare al latitante. Questo ovviamente comporta che ti devi muovere molto poco. I tempi di risposta alle tue domande sono molto più lenti perché, chiaramente, passa tutto, e sempre, solo attraverso una persona con tempi molto più lunghi. Non facendo uso della tecnologia, farà probabilmente, un grande ricorso ai pizzini e, forse, quella che è la scelta vincente di Matteo Messina Denaro- che lo differenzia persino da Provenzano- è il fatto che lui probabilmente, scientemente, non voglia fare il capo di Cosa nostra; quindi mantiene comunque un profilo basso, si tiene il suo territorio nel trapanese e non va oltre. Questo è ciò che posso ipotizzare”.
Questo ci porta ad un’altra domanda. Dopo la morte di Riina, che era considerato, anche in carcere, il capo della cupola siciliana come si sono stabilizzati gli equilibri interni a cosa nostra?
“Guardi, io all’epoca anche in contrasto con qualche altro mio illustre collega, che si prefigurava un bagno di sangue e cose del genere, dissi che in realtà non sarebbe avvenuto nulla di tutto questo. Per quella che è la mia conoscenza di cosa nostra posso supporre che questa sia una fase di assestamento e probabilmente al vertice dell’associazione mafiosa c’è adesso una sorta di triumvirato costituito da un gruppo di persone anziane di un certo prestigio mafioso e con ogni probabilità, il centro decisionale è tornato a Palermo perché è finito il tempo dei “viddani”. Credo infatti che la maggioranza di questa sorta di costituente di vecchi “saggi mafiosi” che si sta occupando di riannodare le fila dell’associazione sia composta da esponenti di famiglie palermitane. Non penso che ci sia un capo indiscusso. Si potrebbe essere creata una situazione simile a quella che aveva portato Michele Greco a capo della commissione anche se in realtà contava molto meno di Riina e Bontade. Già all’epoca avevano trovato Michele Greco come persona di prestigio mafioso da mettere a fare il “Papa” ma la realtà era che all’epoca dominava il triumvirato di Riina, Bontade e Badalamenti, fino a quando i corleonesi non hanno rotto l’equilibrio sterminando i rivali palermitani nella cosiddetta seconda guerra di mafia”.
Come mai ci sono poche donne che collaborano o testimoniano? Avviene perché il mondo delle mafie è soprattutto maschile?
“Fin quando stavo a Palermo, e posso affermarlo con certezza, cosa nostra era un’organizzazione di uomini, di soli uomini. E non c’era proprio spazio per le donne. C’erano delle donne che avevano incrociato la loro vita con la mafia. Erano state delle mogli, delle figlie o delle sorelle di uomini d’onore, e verosimilmente erano a conoscenza di tanti segreti. C’erano donne che in rarissimi e determinati casi di fibrillazione avevano anche svolto qualche ruolo per conto degli uomini della famiglia che potevano essere il padre, il marito o il fratello, però non c’erano donne di mafia vere e proprie. Alla fine degli anni ’90 la situazione è un po’ è cambiata perché ho visto quello che ha fatto Giusi Vitale. Io l’avevo arrestata ma per singoli reati specifici, come il favoreggiamento o l’estorsione; mai avrei pensato che la Vitale potesse assumere, dopo la cattura dei fratelli Vito e Leonardo, un ruolo così importante nella cosca di Partinico. Me ne sono andato da Palermo con la convinzione che cosa nostra fosse ancora rimasta un organizzazione per soli uomini, e penso ancora oggi che sia in realtà così. Ed è proprio per questa ragione che le collaboratrici di mafia sono poche. Ci sono alcune testimoni di giustizia, come lo fu Rita Atria, ma come testimone non come collaboratrice”.
Le donne all’interno della famiglia di mafia hanno un ruolo preponderante nel portare avanti quei valori nei confronti dei figli. Perché i mariti, magari, sono latitanti o in carcere.
“Questo sicuramente. Sul piano culturale la mentalità della donna di mafia esiste, eccome. Ad esempio Ninetta Bagarella non credo che abbia cresciuto i suoi figli maschi inculcando valori diversi da quelli di suo marito o dei suoi fratelli Calogero e Leoluca. Ma non è sempre così. Ci sono madri che hanno, in qualche modo, subito questa situazione e, quando hanno potuto farlo, si sono poste in una situazione di dissenso rispetto a mariti, padri o fratelli, magari sperando per i loro figli un futuro diverso e migliore. E credo che ce ne siano state tante in Sicilia. Ho avuto a che fare con donne come Giusi Tagliavia che, quando il marito era detenuto, ho fatto rinviare a giudizio perché secondo me gestiva per suo conto le estorsioni, anche se è stata poi assolta. Ma c’era anche una ragazza, ad esempio, di Villabate che ci aveva dato una mano ad arrestare il suo compagno facendoci installare una microspia nella camera da letto. Proprio per riuscire a liberarsi dal giogo del mafioso”.
E Saveria Palazzolo, la moglie di Provenzano?
“Non so che ruolo abbia avuto. Credo sia o sia stata intestataria di società o imprese per conto del marito però l’atteggiamento verso i figli, da ciò che mi risulta, dovrebbe essere stato significativamente diverso da quello della moglie di Riina. I figli di Provenzano non sono mai stati coinvolti in nulla di illecito. Almeno per quel che è emerso fino ad adesso”.
Quando arrivò la notizia dell’ipotesi che cosa nostra stesse preparando un attentato nei suoi confronti fu mandato in una località segreta in Trentino Alto Adige.
“Dopo la cattura di Bagarella e dei suoi uomini più fidati pervennero diverse notizie di possibili attentati contro di me. Una di quelle più concrete riguardava Vito Vitale che nel ’98, mi voleva far fuori con un lanciamissili. Poi, quando avevo già lasciato la Procura di Palermo, nel 2003, ebbi notizia di una intercettazione ambientale eseguita in contrada Acque Bianche, nel comune di Bivona dove sono nato, vicino casa mia. Nella registrazione della discussione, di scarsa qualità perché è caratterizzata da vari fruscii e rumori di sottofondo, uno dei mafiosi diceva che volevano attaccare qualcosa alla macchina del giudice, che conosceva il posto e che sapeva “che c’è scritto La Barbera”. La Barbera è il cognome di mia madre e davanti casa mia, ancora oggi, c’è la targa dello studio legale dei miei: ‘Studio legale Sabella-La Barbera’. Seppi poi, quando la cosa era finita sui giornali, che il presunto capomafia locale, nel bar del paese, aveva stretto platealmente la mano a mio padre quasi a dire che l’attentato non aveva il suo consenso. Comunque questa restò solo un’ipotesi. Mentre l’altro progetto, quello di Vitale (forse riconducibile direttamente a Riina perché gli avevo arrestato e fatto condannare all’ergastolo il figlio maggiore), era decisamente più concreto. Di conseguenza mi mandarono “in vacanza” in una località segreta gestita dalla Polizia. Era collocata in una ridente cittadina altoatesina. Ottimi cibi ma una noia mortale, gli unici passatempi erano giocare a bocce o a tresette. E dopo una settimana scappai”.
Intorno al 2000 va al DAP, al Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria.
“Venni trasferito a Roma quale magistrato di collegamento tra la Commissione Parlamentare Antimafia e il Ministero della Giustizia. In realtà avrei dovuto fare il consigliere del Ministro per le questioni più strettamente connesse con le organizzazioni mafiose. Un ruolo di Magistrato che, all’epoca, era previsto dai regolamenti. Ma, diciamo, non svolsi a lungo tale funzione perché con Oliviero Diliberto, che era il Ministro in quel momento, non legammo molto, troppe volte la pensavamo diversamente. Quando introdusse il rito abbreviato anche per delitti puniti con la pena dell’ergastolo, e dunque diede anche ai mafiosi la possibilità di evitare il carcere a vita e l’isolamento diurno, lo criticai anche aspramente. Nel frattempo Gian Carlo Caselli era divenuto capo del DAP e mi chiese di dargli una mano in quel Dipartimento, e ci andai molto volentieri. Mantenni comunque il doppio ruolo di magistrato di collegamento della commissione e capo dell’ufficio ispettorato del DAP”.
In questo si inserisce la famosa nota sulla dissociazione che invia il ministro Fassino?
“Sì. Il fatto avvenne esattamente il 25 maggio del 2000, quando Caselli mi chiamò e mi fece vedere questa lettera. Era firmata dal ministro Fassino, ma in realtà la bozza era stata preparata dal suo Capo di Gabinetto quel grande servitore dello stato che, secondo me, è stato Loris D’Ambrosio, nonostante tutto il fango che gli si è tirato addosso. Nella lettera, sostanzialmente, si diceva a Caselli che il procuratore Vigna aveva intrattenuto dei colloqui con alcuni mafiosi detenuti al 41 bis- e faceva anche nomi- i quali avrebbero voluto arrendersi davanti allo stato e avere la possibilità di dissociarsi allo stesso modo dei terroristi. Attenzione però, solo dissociarsi da cosa nostra senza fare nomi e senza collaborare. Ma, prima di fare questo passo, avrebbero voluto incontrare altri quattro o cinque mafiosi. Era il Gotha delle persone legate a Provenzano. L’unico legato a Riina, che era in quella lista, era Salvo Madonia che aveva però un interesse preciso perché doveva salvare il fratello Aldo da una condanna per stupefacenti e si doveva accollare lui la responsabilità di una riunione con gli emissari dei trafficanti colombiani: quindi aveva un interesse assolutamente personale nella vicenda. Gli altri erano tutti legati all’area dei cosiddetti moderati provenzaniani. Con la lettera, che era diretta dal Ministro della Giustizia, si badi bene, a un suo sottoposto qual era il Capo del Dap, prima, si comunicava che il procuratore Vigna aveva intrattenuto quei colloqui e, “per le implicazioni politiche della vicenda” aveva ritenuto di informare il Ministro, e, poi, si dava mandato allo stesso Capo del Dap, che, ricordiamolo ancora, svolgeva e svolge funzioni amministrative e tutt’al più di raccordo tra l’amministrazione e la politica, di valutare non solo “come” fare incontrare i boss ma anche, soprattutto, “se” farli incontrare. Dunque, è questa è una sottigliezza che potrebbe sfuggire a molti, Fassino, in concreto, sembrava rimettere la decisione politica che spettava a lui a Caselli cui in concreto diceva “decidi tu se questi signori si devono realmente incontrare”. In realtà, da uomo delle Istituzioni qual era il mio amico Loris D’Ambrosio, ben consapevole che tutti noi eravamo nettamente contrari all’idea di estendere ai mafiosi i benefici previsti per i terroristi dissociati, aveva trovato una soluzione equilibrata per bloccare sul nascere quell’idea cui anche Fassino era decisamente contrario senza però chiudere bruscamente la porta in faccia al Procuratore Nazionale Antimafia che, forse, voleva invece verificare se quella strada fosse praticabile. Per questo, come ho saputo anche dallo stesso Loris, si era deciso di investire ufficialmente della questione “politica” anche Gian Carlo Caselli e, quindi, pure me. E noi facemmo quello che ci si aspettava che facessimo, tanto è vero che formalmente non rispondemmo scrivendo che non si poteva fare politicamente per questo o quest’altro motivo, ma rispondemmo dicendo che Nitto Santapaola era detenuto al centro clinico di Pisa, un altro aveva una situazione che lo impossibilitava, un altro ancora non poteva essere spostato dal carcere e così via. In sostanza gli dicevamo che era impossibile farli incontrare ma in realtà nessuno di noi voleva che gli incontri avvenissero. Purtroppo uscì la notizia e ci fu una riunione un po’ animata nell’ufficio di Fassino, dove io spiegai le ragioni per cui quella dissociazione non poteva essere fatta e gli feci vedere le intercettazione di Carlo Greco dalle quali si capiva, praticamente, che l’ipotesi di far estendere i benefici previsti per la dissociazione come per i terroristi era uno degli obiettivi che cosa nostra, almeno lato Provenzano, coltivava dal 1996, e conseguentemente la cosa non si fece. La discussione da Fassino era nata anche a causa di una mia intervista che avevo rilasciato a Peter Gomez de L’Espresso, in cui avevo dichiarato che secondo me dietro a questa proposta di dissociazione c’era lo zampino di Bernardo Provenzano. E la buonanima di Piero Vigna, con cui anni dopo chiarii tutto ma in quel momento eravamo su due fronti opposti, si lamentò con me per averlo di fatto accusato di essere stato “il braccio armato di Provenzano”. Così nacque quella accesa discussione nell’ufficio del Ministro il quale, comunque, fu assolutamente irremovibile e disse” Non si tratta con i mafiosi. Punto e basta””.
Fassino fece il suo dovere da Ministro e da galantuomo.
“Si, ma si comportarono tutti da galantuomini, anche Vigna che aveva il dovere di ascoltare le richieste dei boss e di informare il ministero della giustizia della situazione. È chiaro che in qualche modo in Vigna c’era anche una sorta di voglia di far dissociare in massa dei mafiosi; quasi a prendersi il merito, se ci fosse riuscito, di essere il procuratore nazionale antimafia che aveva sconfitto Cosa Nostra facendo pubblicamente riconoscere ai boss l’Autorità dello Stato. Secondo me, invece, la dissociazione non sarebbe servita a niente perché nella mafia non c’è alcuna componente etica o ideologica e la rinnegazione delle precedenti scelte criminali da parte dei boss detenuti non avrebbe avuto nessun effetto sui loro gregari e sottoposti che erano fuori. Questi avrebbero continuato a fare i loro affari come in passato”.
A un certo punto subentra la questione di Tinebra e la soppressione del suo ufficio.
“Sì, ma prima c’è un passaggio importante. Nel gennaio 2001 Repubblica fece uno scoop. La prima notizia sul tentativo dei boss di trattare la dissociazione era stata pubblicata da Guido Ruotolo sul Manifesto e da Ciccio La Licata su La Stampa e Repubblica aveva preso quello che giornalisticamente si chiama “buco”. Questa volta le parti si invertono e Repubblica acquisisce, da fonti attendibili ovviamente, che c’era stato un cambiamento di programma dei boss sulla dissociazione che aveva iniziato ad interessare tutte le mafie e non solo i mafiosi legati a Bernardo Provenzano. E quindi anche Riina aveva dato il suo ok. In base alla notizia riportata dal quotidiano romano, ci sarebbe stato un accordo tra Cosa Nostra, ‘Ndrangheta, Camorra e Sacra Corona Unita per nominare una sorta di ambasciatore presso lo Stato proprio per trattare una normativa sulla dissociazione dei mafiosi. Il referente di tutte le mafie era Salvatore Biondino, che, ricordiamolo, non solo l’autista di Riina ma soprattutto era capo mandamento di San Lorenzo, quindi un personaggio di assoluto spessore all’interno di Cosa nostra. La notizia non venne mai smentita e, devo dire la verità, sembrava pure attendibile ma restò sospesa, a galleggiare nell’aria. Nel giugno di quell’anno cambiò il governo, io restai al DAP e, al posto di Caselli, arrivò Giovanni Tinebra che divenne il mio nuovo capo. Non avevo grandi rapporti personali con Tinebra, anzi avevamo avuto alcuni contrasti di tipo professionale quando lui era procuratore di Caltanissetta e io ero a Palermo perché comunque le strategie giudiziarie dei nostri uffici non sempre concordavano. Si erano tenute anche diverse riunioni presso la Procura nazionale per provare a definire delle linee unitarie tra le Procure di Palermo, Caltanissetta e Firenze in relazione ai processi per le stragi. Tanto che gli chiesi se fosse il caso che me ne andassi ma lui mi invitò a rimanere manifestandomi stima e apprezzamento per il mio lavoro a Palermo. Rimasi lì, sempre come capo dell’ufficio ispettorato, in attesa di trovarmi altra sistemazione; in realtà volevo maturare l’anzianità per provare a trasferirmi alla procura nazionale. Nei mesi successivi mi chiamò mia sorella Marzia, che era PM presso la procura di Palermo, e mi disse che sul suo tavolo era arrivata una strana richiesta di Salvatore Biondino il quale voleva l’autorizzazione a svolgere un lavoro di scopino all’interno del carcere. E la cosa non la convinceva affatto perché Biondino era uno degli uomini più potenti e ricchi di cosa nostra quindi non aveva certo bisogno di guadagnarsi 50 mila lire facendo umilissimi servizi nel carcere. Le dissi di sospendere tutto e farmi fare un po’ di verifiche. E mi misi a controllare cosa fosse successo nel frattempo, perché io non ero all’ufficio detenuti e non avevo quindi il polso della situazione. Appurai che, a seguito di vari spostamenti e trasferimenti, nello stesso reparto di Rebibbia, in quel momento, si trovavano proprio tutti i capimafia indicati nella lettera di Vigna. Facendo lo scopino Salvatore Biondino avrebbe avuto possibilità di accesso anche nelle altre sezioni dove c’erano i vari Buscemi, Santapaola, Farinella, Salvo Madonia e gli altri protagonisti del primo tentativo di trattativa. Quindi mi venne il sospetto che il vero scopo della richiesta di Biondino fosse quello di portare avanti quel progetto e che il boss cercasse un confronto con gli altri detenuti. Misi tutto nero su bianco e chiesi a Tinebra di allertare il Gruppo Operativo Mobile della Polizia Penitenziaria affinché verificasse meglio la situazione e impedisse occasionali contatti tra quei detenuti e, logicamente, dissi a mia sorella di non dare nessuna autorizzazione. Scrissi la lettera per Tinebra il giovedì, venne protocollata, e arrivò sul tavolo di Tinebra il venerdì, ma lui era già partito per Caltanissetta, per cui la lesse il lunedì. Lo stesso giorno convocò Francesco Gianfrotta che era il direttore dell’ufficio dei detenuti, e questi gli confermò che i miei sospetti erano fondati anche perché, cosa che nemmeno io conoscevo, un tale Antonino Imerti, personaggio di secondo piano della ‘ndrangheta che divideva la cella con Biondino, aveva chiesto giusto una settimana prima a Gianfrotta di andarlo a sentire in carcere perché voleva dissociarsi. L’incontro tra Tinebra e Gianfrotta avvenne il 3 dicembre e il giorno dopo, il 4, Gianfrotta mise nero su bianco queste sue preoccupazioni. Il 5 Tinebra soppresse l’ufficio ispettorato e mi mise a disposizione del CSM, in sostanza mi costrinse ad andar via. Questo è quanto, di più non so”.
Tinebra aveva il potere di sopprimere un ufficio del genere?
“Non ce l’aveva, lo poteva fare solo il Ministro trattandosi di un Ufficio centrale del Dap. È vero che c’era un decreto di riordino che prevedeva anche la trasformazione di quell’ufficio ma il decreto non era stato ancora attuato e il Ministro Roberto Castelli aveva espressamente riservato alla sua esclusiva competenza l’adozione dei relativi provvedimenti che non aveva nemmeno delegato ai Sottosegretari. E infatti scrissi al ministro dicendo che c’era un suo capo dipartimento che si era arrogato le sue prerogative ma Castelli, in sostanza, mi mandò a quel paese. Logicamente scrissi anche al CSM e anche il Consiglio superiore mi rispose picche. Ovviamente il CSM, in quel momento, era molto attento a mantenere l’unità delle correnti e non a tutelare un singolo magistrato che non apparteneva ad alcuna corrente”.
La mafia nel Lazio è stata molto sottovalutata, soprattutto la ‘ndrangheta anche se è presente nella regione da metà anni 70. Ci sono relazioni di servizio che lo testimoniano ma a livello politico non fu mai considerata.
“Cosa Nostra era già presente nel Lazio fin dagli anni ’80: Pippo Calò fu arrestato a Roma, i rapporti con la Banda della Magliana erano solidissimi e la mafia siciliana forniva la maggior parte degli stupefacenti nella Capitale. Sul litorale cosa nostra contava sui fratelli Vincenzo e Vito Triassi, originari di Siculiana ma da tempo residenti a Ostia. E fu seguendo loro che nel 98 arrestai Pasquale Cuntrera in Spagna. Ma non solo la Ndrangheta; anche la Camorra poi è risalita lentamente su, dal litorale pontino è arrivata fino a Roma e adesso, probabilmente, è l’organizzazione non autoctona più influente nella capitale. La Ndrangheta prima ha fatto degli investimenti poi ha cominciato a controllare tutta una serie di attività economiche. Stringendo anche solidi accordi con alcune associazioni criminali locali che usano metodi tipicamente mafiosi. Ancora è dura far digerire ai romani che nella Capitale le mafie esistono e sul piano giudiziario, nonostante lo straordinario e particolarmente efficace impegno di magistratura e polizia giudiziaria negli ultimi anni, siamo ancora all’inizio”.
Nel 2001, nei giorni del G8 a Genova, in quanto capo del servizio ispettivo del Dipartimento di Amministrazione Penitenziaria, fu indagato ma rinunciò alla prescrizione e chiese di essere processato. La sua posizione venne archiviata. Adesso la Corte dei Conti la condanna in via “sussidiaria” a pagare dei danni come se stessero dicendo: “Se non pagano gli altri paghi tu” ma è in netto contrasto con un decreto di archiviazione.
“Stendiamo un velo pietoso su Genova. Non ho proprio voglia di parlarne. L’unico dato certo, per quanto mi riguarda, che emerge dalle indagini e dalle sentenze è che dove ero presente io – e, purtroppo, solo dove ero presente io – non sono state commesse violenze nei confronti degli arrestati. Ho ovviamente impugnato la sentenza e se anche in appello non mi daranno la possibilità di difendermi mi rivolgerò alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Non ho mai avuto alcuna contestazione precisa degli addebiti che mi vengono mossi, e ancora oggi non li conosco ma, soprattutto, non ho mai avuto la possibilità di far sentire un testimone che sia uno, e mi è stata persino negata la possibilità di parlare e farmi interrogare nonostante sia l’unico a Genova ad aver rinunciato alla prescrizione e l’unico, addirittura, nella storia giudiziaria italiana che ha formalmente chiesto che la sua posizione non venisse archiviata. E, nonostante, come magistrato ordinario della Repubblica italiana ho sempre dato a tutti, compresi i peggior criminali della storia recente di questo Paese, la più ampia possibilità di difendersi; così come, almeno ai magistrati ordinari, impongono l’art. 111 della Costituzione e l’art. 6 della Convenzione Europea dei diritti dell’Uomo”.
Dottore, ma lei vorrebbe tornare a lavorare in Sicilia?
“La Sicilia è la mia terra ed è chiaro che ci vorrei tornare. Ma le dico la verità, sul piano professionale mi stimola molto anche Napoli dove lavoro in questo momento. Poi sono assolutamente convinto che attualmente il problema principale di questo paese non siano tanto le mafie ma la corruzione. Mi dispiace quasi dirlo ma credo che il diffuso basso livello etico dei nostri pubblici amministratori e la frequente distrazione degli interessi pubblici a favore di quelli privati sia un problema, almeno in questo frangente temporale, addirittura più preoccupante rispetto alle mafie. Quindi mi piacerebbe tanto lavorare sulla corruzione e sto valutando la procura di Milano se non dovessi avere la possibilità di andare in procura a Roma”.
Lei ha una figlia che studia Legge. E abbiamo letto che quando era piccola le leggeva e spiegava gli articoli della Costituzione. È stata fortunata ad avere un padre così. Ma ci sono migliaia di ragazzi nelle scuole italiane che non conoscono neanche i nomi di Chinnici, Falcone, Borsellino o Dalla Chiesa, né tanto meno la Costituzione. E si è visto, ultimamente, agli esami di Stato, perché vi è stato un tema sulla Costituzione ma poco apprezzato dagli studenti. Le chiediamo quanto sarebbe necessario introdurre, ex legem, nei programmi didattici una materia come ” lo studio della legalità”?
“Credo che sia il caso di recuperare, eventualmente cambiandole nome, la vecchia e, da me rimpianta, Educazione Civica. In realtà penso che sarebbe molto più utile estendere, fino agli anni ‘90 almeno, i programmi di Storia che, di fatto, si fermano alla Seconda Guerra Mondiale o a qualche anno dopo. I ragazzini di oggi non sanno nemmeno chi sia Aldo Moro…”.
Questa intervista è dedicata ad Ettore Marini, recentemente scomparso prematuramente, nostro collaboratore e gran combattente nella ricerca di verità e giustizia.