Un po’ di luce su via D’Amelio: intervista a Claudio Fava

Palermo, 19 luglio 1992, un carabiniere in via D’amelio, dove un’autobomba uccise il giudice Paolo Borsellino e cinque agenti di scorta: Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina (Antoine 

PALERMO. Quattro anni fa, alla vigilia del 19 luglio, in una delle sale di Palazzo dei Normanni, fastosa sede dell’Assemblea regionale siciliana, si trovano una davanti all’altro Fiammetta Borsellino e Claudio Fava. Lei è la figlia del magistrato ammazzato da Cosa nostra e da qualche tempo ha preso la parola per dire che non si accontenta di verità rivelate e ricostruzioni infiocchettate, che vuole sapere davvero chi, perché e con quali complicità ha ucciso suo padre; lui è giornalista, scrittore, sceneggiatore e ha perso il padre per mano della mafia: si chiamava Giuseppe Fava, faceva il giornalista e dava fastidio. Adesso, Claudio Fava è deputato regionale e presiede la commissione Antimafia del parlamento siciliano.

Da quell’incontro di quattro anni fa viene fuori la relazione della Commissione antimafia sul grande depistaggio. Ottanta pagine di ricostruzione minuziosa di quello che resta di uno dei tanti misteri italiani a far luce sul quale non sono bastati quattro, dicasi quattro, processi. Succede che all’indomani del 19 luglio 1992, giorno in cui avviene la strage di via D’Amelio, una squadra di investigatori guidata dall’ex questore di Palermo, Arnaldo La Barbera, scova un balordo di quartiere, Vincenzo Scarantino e gli mette addosso la casacca prima del mafioso e poi del pentito. Facendogli raccontare una verità posticcia ma utile  a chiudere nel più breve tempo possibile le indagini sulla morte di Paolo Borsellino e degli agenti che lo proteggevano. Trent’anni dopo resta la domanda principale: chi aveva interesse a costruire una verità di comodo e perché?

Claudio Fava, intanto perché decideste di occuparvi del mistero del depistaggio sulla strage di via D’Amelio?

«La decisione la prendemmo quattro anni fa quando decidemmo di ascoltare in Commissione antimafia, alla vigilia della commemorazione della strage, Fiammetta Borsellino. Non tutte le domande che ci mise davanti avrebbero potuto trovare cittadinanza in un’aula di giustizia e così abbiamo deciso di avviare l’indagine parlamentare».

In particolare quali dubbi vi sottopose la figlia di Borsellino?

«Ci disse: io mi faccio domande che non hanno risposta. Per esempio: perché mio padre è stato tenuto fuori dalla porta della procura di Caltanissetta che indagava sulla strage di Capaci? Che fine hanno fatto le  audizioni al Csm dei magistrati di Palermo sentiti dall’organo di autogoverno dopo che venne alla luce il conflitto tra alcuni pm della procura di Palermo e l’allora procuratore capo Pietro Giammanco?».

Ecco, fermiamoci un attimo. Perché venne messo in piedi il piano che portò all’arresto di finti colpevoli per la strage nella quale morirono Borsellino e gli agenti della scorta? C’era solo la volontà di trovare un colpevole a tutti i costi per dare risposte a un Paese sotto attacco o cos’altro?

«C’era la volontà di chiudere la vicenda con un movente risibile: che si fosse trattato solo di una vendetta della mafia. Che dietro la mafia non c’era nessun altro. Eppure, bastava riflettere su una cosa: sei mesi dopo  la strage di via D’Amelio sarebbero scaduti i termini del 41 bis (il carcere duro per i mafiosi). Che necessità aveva la mafia di incrudelire il clima? Di provocare una ulteriore e prevedibile reazione dello Stato?».

Resta allora la domanda: a chi giovava il depistaggio? A chi conveniva una verità posticcia sulla morte di Borsellino?

«Guardi, l’unica cosa certa è che c’era l’urgenza di liberarsi di Borsellino. Perché sapeva dell’inchiesta mafia-appalti? Perché aveva appreso di rapporti che avrebbero portato a un “armistizio” tra lo Stato e la mafia? Noi nella relazione indichiamo strade. Certo è che il depistaggio ha giovato anche ad altri attori sulla scena. Borsellino non era un pericolo solo per la mafia. Il depistaggio evitò che nella strage venissero considerate presenze diverse da quella della mafia».

Alcuni dei protagonisti, su tutti l’ex questore Arnaldo La Barbera che condusse le indagini  e mise in piedi la verità posticcia, sono morti. E nell’ultimo processo sono imputati solo tre poliziotti.

«Questo processo è un modo per dire: abbiamo ricostruito una parte di verità, ma non siamo stati in condizione di farci dire la verità. Eppure qualcuno che è vivo, e che sa, c’è ancora. E dunque capisco la rabbia della figlia di Borsellino».

Dal processo, per esempio, sono usciti i magistrati che indagarono e avallarono la verità posticcia costruita intorno al falso pentito Scarantino.

«Sì, tra quei magistrati ci sono state omissioni e reticenze che non credo fossero figlie di un coinvolgimento diretto quanto piuttosto della incapacità di bloccare una indagine che era comunque avviata. Alcuni dei magistrati che abbiamo ascoltato durante l’inchiesta parlamentare, e che presero parte alle indagini sulla strage di via D’Amelio, ci dissero: “Sì, ci accorgemmo che Scarantino non era credibile, ma come potevamo fermarci?”. Credo che questi magistrati fossero presi dall’ansia da prestazione, probabilmente anche dalla volontà di carriera. Rispondevano alla necessità di chiudere al più presto l’indagine».

Per la verità, uno dei magistrati che partecipavano all’indagine sulla strage Borsellino, la dottoressa Ilda Boccassini, si tirò fuori sostenendo che stavano sbagliando tutto, che Scarantino non era credibile, che quella verità era costruita ad arte.

«Ecco, appunto. Che fine ha fatto la lettera di Ilda Boccassini nella quale la magistrata diceva “fermiamoci, stiamo sbagliando tutto”? Tutti la ignorarono e nessuno sa dove sia andata a finire».

Insomma sulla scena del grande inganno ci sono i colpevoli, gli ipocriti e perfino gli ignavi.

«Io credo che il procuratore di Caltanissetta, Giovanni Tinebra, e il poliziotto Antonio La Barbera non fossero sulla scena del depistaggio per caso. Così come è accertato che in via D’Amelio ci fossero presenze strane, a cominciare da uomini del Sisde. Possibile che uomini del Sisde partecipino a un incontro sull’andamento delle indagini e che il governo non ne sappia nulla? Altri, come i magistrati, è vero che sono sulla scena del depistaggio però ci hanno detto che loro non potevano opporsi. Guardi che, per esempio, quando Spatuzza comincia  a fare le sue rivelazioni uno dei magistrati impegnati nelle indagini lo ritiene non rilevante. E aggiunge: le sue dichiarazioni potrebbero mettere in dubbio la verità accertata».

Resta in piedi l’ipotesi che il depistaggio sia servito a coprire la trattativa tra la mafia e lo Stato.

«È un fatto storico che in quel momento era in atto un tentativo di lanciare un ponte verso la mafia stragista. Ripeto: un fatto storico, non giudiziario. Bisognava chiudere quella stagione consentendo che qualcuno, nei rapporti di potere, sopravvivesse. E Paolo Borsellino, su questo piano, era un ostacolo».

Sul Venerdì del 15 luglio 2022