Paolo Borsellino, l’ultimo testimone

di Attilio Bolzoni da UOMINI SOLI

 
 

A ventitré anni, Paolo Borsellino è il magistrato più giovane d’Italia

 

Si laurea nel 1962. Quell’anno muore anche suo padre. Lo vede spegnersi. Paolo Borsellino ha ventidue anni.
La farmacia ha bisogno di un titolare ma in famiglia non c’è.
Viene data in affitto per una cifra bassissima, in attesa che la sorella Rita prenda la laurea in farmacia. È un periodo difficile, di sacrifici.
Paolo racimola qualche soldo con le lezioni private, italiano.
Fa pratica nello studio di un avvocato. Intanto si prepara a sostenere gli esami per entrare in magistratura. Ci riesce un anno dopo. A ventitré anni è il più giovane giudice d’Italia.
Per uno di quegli strani giochi del destino finisce a fare l’uditore nella stanza di Cesare Terranova, il magistrato che l’ha prosciolto qualche tempo prima dall’accusa di rissa fra gli studenti di Giurisprudenza.
Comincia al «civile» ad Enna, al centro della Sicilia. Dopo due anni, nel 1967, è pretore a Mazara del Vallo. Va avanti e indietro, dalla mattina alla sera. In uno studio notarile conosce Agnese Piraino Leto, la figlia del presidente del Tribunale di Palermo.
Un anno dopo, nel 1968, Paolo e Agnese si sposano.
Da Mazara del Vallo a Monreale. Ancora in pretura. È il 1969. Sei anni tranquilli. Nel 1975 è a Palermo. Prima giudice di Tribunale e, alla fine dell’estate del 1975, giudice istruttore.
È una città addormentata Palermo. Sembra fuori dall’Italia. Brilla di luce propria. Si sente diversa, lontana. La sua magistratura affonda nel ventre molle di una Sicilia complice.
Ma l’uomo è quello che è. Giusto. Intransigente. Educato ai vecchi principi, cresciuto con il senso del dovere.
Rispettosissimo delle regole. E della legge.


Cresciuto alla Kalsa, il giudice recitava Goethe a memoria in tedesco

 

Palermo l’ha indurito, vive nel dolore. I suoi figli stanno crescendo in una città che non riconosce più. Lo sa che rischia lui e rischia anche tutta la sua famiglia.
Ma Paolo Borsellino ha passione, sentimenti forti, resiste a ogni compromesso, è di una semplicità disarmante, vero, colto, capace di parlare per mezz’ora in un siciliano strettissimo e poi, all’improvviso, di recitare a memoria il Paradiso o i versi di Goethe sulla sua Palermo in tedesco.
È un uomo che ha paura per sé e per i suoi figli ma non arretra mai. È indignato.Non ci pensa un istante a mollare. E finisce giù anche lui.
Muore neanche due mesi dopo la strage di Capaci. Come Giovanni FalconePaolo Borsellino viene dalla Kalsa. Da bambini hanno abitato a pochi passi l’uno dall’altro. 
La farmacia è lì dalla fine dell’Ottocento. Il palazzo dove vivono è proprio difronte, in via della Vetreria. Al piano nobile ci sono i padroni, i marchesi Salvo, al secondo piano c’è la loro casa. Dieci stanze, pavimenti con i mosaici, soffitti altissimi, un grande terrazzo dal quale si scorge il mare del Foro Italico.
Diego Borsellino e Maria Lepanto si sposano nel 1935. Nello stesso anno si ritrovano tutti e due dietro il bancone di legno
della farmacia.
Nel 1938 la prima figlia, Adele. Nel 1940 nasce Paolo. Nel 1942 Salvatore. Nel 1945 arriva Rita.
È una famiglia rispettata alla Magione, quella dei Borsellino.
È benestante, molto religiosa. In casa sono conservatori, credono nel fascismo e sono affascinati dal Duce. Quando la guerra finisce e sbarcano gli americani crolla un mondo.
In via della Vetreria c’è anche lo zio Ciccio, fratello della madre, ex ufficiale di cavalleria, che fa rivivere Mussolini e l’Impero con i suoi strabilianti racconti sulle «campagne» d’Africa.
Paolo Borsellino non ha ancora dieci anni e lo ascolta estasiato. Raccoglie tutto quello che trova sui Savoia, studia la storia di Umberto I e di Vittorio Emanuele III, cataloga tutto quello che trova sulla famiglia reale.
Cominciano però i tempi duri, alla Kalsa. Quello che più di mille anni prima era approdo di emiri e condottieri, ora è un quartiere sopravvissuto ai bombardamenti. Paolo Borsellino cresce in una Palermo che fa fatica ad uscire dalla miseria. La farmacia di via della Vetreria non ha più i clienti di una volta, i Borsellino cambiano casa. Vanno ad abitare in una più piccola, in via Roma.
Il gelato è solo nei giorni di festa.
Alla Marina, sotto la passeggiata delle Mura delle Cattive. Da Ilardo. Spongati. Spumoni. Pezzi duri. Semifreddi. Fette brasiliane e fette gianduia.
Dopo le medie Paolo s’iscrive al «Meli», il liceo classico. La maturità nel 1958. Poi Giurisprudenza. E la politica. Entra alla «Giovane Italia» che poi diventerà Fuan, il Fronte Universitario di Azione Nazionale. È un movimento neofascista.
Davanti alle facoltà ci sono sempre scontri fra studenti. Una mattina c’è una rissa violenta. Feriti. Lì in mezzo c’è anche lui.
Lo denunciano. L’inchiesta finisce a Cesare Terranova, un magistrato che non nasconde le sue simpatie per i comunisti. Paolo Borsellino viene ascoltato in Tribunale. Dice che non c’entra niente con il pestaggio. Terranova gli crede. Archivia.


La bomba annunciata del 19 luglio

 

C’è l’attentato del 19 luglio 1992, ci sono i sicari di Cosa Nostra e quegli uomini “in giacca e cravatta” che si materializzano in via Mariano D’Amelio poco dopo l’esplosione. Ci sono montagne di atti processuali ma non c’è ancora una piena verità su chi ha voluto morto Paolo Borsellino.
Una sentenza di Corte d’Assise definisce l’inchiesta sull’uccisione del procuratore “uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria italiana”, il caso però non è chiuso e forse solo la storia ci dirà cosa è accaduto a Palermo in quell’estate.
A trent’anni dalla strage in cui morirono Paolo Borsellino e i cinque agenti di scorta – Agostino Catalano, Eddie Walter Cusina, Vincenzo Li Muli, Claudio Traina ed Emanuela Loi – qualcosa di oscuro affiora dal passato e fa molta paura. Perché coinvolti nel massacro ci sono “soggetti inseriti negli apparati dello Stato”, gli stessi che hanno indotto il “pupo” Vincenzo Scarantino a rendere false dichiarazioni accusando innocenti, quelli che hanno fatto sparire l’agenda rossa del magistrato, quelli che in più momenti hanno tentato in tutti i modi di sviare le indagini.
E poi quei cinquantasette giorni che separano il 23 maggio dal 19 luglio.
Il procuratore Paolo Borsellino mai ascoltato come testimone dai suoi colleghi di Caltanissetta, i titolari dell’inchiesta sul massacro di Capaci. L’isolamento subito da Borsellino dentro la procura di Palermo guidata da Pietro Giammanco, le indagini affidate “irritualmente” dal procuratore di Caltanissetta Giovanni Tinebra ai servizi segreti, in particolare a Bruno Contrada che appena qualche mese dopo sarà accusato di connivenza con i boss.


A Monreale le lacrime per il capitano Emanuele Basile

 


Boss e “talpe“, una finta rivolta all’Ucciardone nella Palermo collusa

 

All’alba del 4 maggio del 1980 sono ancora a Monreale, fra i vicoli dove è passata la processione del Santissimo Crocifisso. Di mattina scendo alla caserma «Carini» di Palermo, dietro il mercato del Capo. Ci sono tre ufficiali dei carabinieri stravolti, per tutta la notte hanno interrogato – e forse anche torturato – i tre killer del capitano. Ma quelli non hanno aperto bocca. Verso le dieci arriva la notizia che sono stati appena arrestati una ventina di mafiosi della borgata dell’Uditore. Gli Spatola, gli Inzerillo, i Gambino. È un’altra operazione, questa volta si è mossa la polizia. C’è confusione. Noi giornalisti siamo disorientati. Non riusciamo a capire il collegamento che c’è fra i tre killer del capitano Basile e i boss dell’Uditore. Sappiamo ancora poco di quello che sta accadendo dentro la mafia palermitana, non conosciamo esattamente chi sono i Corleonesi di Totò Riina. Nei nostri articoli chiamiamo «vincenti» quelli che vengono dai paesi della provincia e «perdenti» quegli altri della città. Sto per tornare al giornale per scrivere in fretta il mio «pezzo», ed è allora che si diffonde la notizia. Non è solo una voce. Il questore di Palermo Vincenzo Immordino, all’una del mattino, ha svegliato tutti i funzionari della squadra mobile e li ha convocati d’urgenza «per sedare una sommossa all’Ucciardone». Ma non c’è rivolta, nei bracci del carcere è tutto tranquillo. Il questore Immordino ha fatto scortare alla Lungaro – da agenti scelti da lui, uno per uno – i funzionari della squadra mobile. E li ha rinchiusi lì dentro, nella caserma della polizia stradale, fino all’alba. Sono «consegnati» in alcune stanze, praticamente prigionieri. Non possono uscire, non possono telefonare, non possono parlare con nessuno. Il questore non si fida di loro. Deve partire la retata contro i boss dell’Uditore e, per non farseli scappare, ha chiamato poliziotti da fuori. Alcuni sono arrivati da Roma, altri da Reggio Calabria. Non so come iniziare il mio articolo. Dall’arresto dei killer del capitano? Dal sequestro di persona compiuto dal questore Immordino? Dalla retata?


Primo magistrato siciliano con la scorta e la “mania” delle indagini

 

Quando muore il capitano, Lucia ha dieci anni, Manfredi otto, Fiammetta sei. Sono i tre figli di Paolo Borsellino.

Ricorda sua moglie Agnese: «Fino all’omicidio di Emanuele Basile la nostra è stata una vita normale, come quella di tante famiglie palermitane. Ci incontravamo nei giorni di festa con i parenti o con gli amici, qualche collega di mio marito, i ragazzi erano spensierati». Poi è il finimondo.
Paolo Borsellino è il primo magistrato siciliano con una scorta. Tre carabinieri e una sgangherata Alfa Romeo color amaranto che divide con Antonino Gatto, il sostituto procuratore della repubblica titolare con lui dell’inchiesta sull’uccisione dell’ufficiale dei carabinieri. È una tranquilla vita borghese quella che viene sconvolta.
Tutta la città è testimone della metamorfosi di un uomo e di un giudice.
«Chi te lo fa fare?», gli dice qualche amico.
«Tanto la medaglia non te la danno lo stesso», lo avvertono alcuni colleghi.
Paolo Borsellino scuote la testa, perde il sorriso. Non gli piacciono quei discorsi. Non li manda giù. Sente un groppo in gola. È un magistrato, un uomo perbene, ha giurato di far rispettare la legge. Quelle chiacchiere non lo fermano. Ma neanche lui sa ancora in quale fossa si sta per infilare.
Né Paolo Borsellino né nessun altro, in quegli ultimi mesi del 1980, può sospettare che dietro a quei tre sicari presi a Monreale ci siano i nuovi capi della mafia siciliana.
C’è Totò Riina.
In un Tribunale dove è consuetudine «buttarsi dietro il pietrone», confondersi, nascondersi, Paolo Borsellino si ritrova sempre un passo avanti agli altri. È in vista, allo scoperto. Additato come un giudice troppo audace e con la «mania» delle indagini.
Lui è convinto di aver fatto tutto quello che doveva fare nell’istruttoria sulla morte di Basile. Ed è sicuro che i tre sicari del capitano saranno condannati. C’è ressa al Palazzo di Giustizia, la mattina del 7 ottobre del 1981. Una folla di parenti. Nonne, figli, nipoti. Nella prima aula della Corte di Assise di Palermo comincia il processo per l’agguato nella notte del Santissimo Crocifisso.
Una bella giornalista americana della Cbs si aggira per il tribunale con la sua troupe, i principi del Foro sono tutti schierati, gli imputati ai ceppi. Ridono spavaldi, i tre. Come se non temessero l’ergastolo.
Un giudice popolare viene subito cacciato. È pregiudicato. Un altro è già stato «avvicinato» da un avvocato del suo
paese. Alla quarta udienza, il primo presidente della Corte di Appello Giovanni Pizzillo firma a sorpresa un’ordinanza di espulsione dall’aula di tutti i fotografi e cineoperatori. Vuole «evitare elementi di distrazione».
È quasi un processo a porte chiuse.
Più il dibattimento va avanti e più s’intuisce che in quel processo c’è un solo imputato: il giudice istruttore. È lui, Paolo Borsellino, la fonte di tutte le «disgrazie» dei tre dietro le sbarre. È lui che non ha creduto a certi testimoni, che non ha tenuto conto di una nuova perizia sulle armi, che ha voluto investigare solo su di loro scartando fin dal principio qualsiasi altra pista.


Un giudice nel mirino, così Cosa Nostra ha trovato il suo bersaglio

 

La mafia di Palermo ha individuato il suo obiettivo.
In procura, per una volta sono tutti uniti. Il pubblico ministero Vincenzo Geraci chiede tre ergastoli. Il processo sembra segnato. La sentenza è vicina.
Ma non è così. Una mattina, il presidente della Corte di Assise Carlo Aiello ordina la sospensione del dibattimento.
Il pretesto è una macchia. Una macchia bianca ritrovata su uno stivale di cuoio nero di Giuseppe Madonia e mai esaminata
dai periti. Da dove viene? Cos’è? Perché nessuno l’ha mai notata prima?
Un processo che si sta avviando verso la conclusione viene fermato. Tutti gli atti tornano al giudice istruttore. A Paolo Borsellino.
Deve ordinare una perizia su quella macchia bianca. È una manna che cade dal cielo per i tre killer.
La «prova del fango», come viene definita con evidente allusione dai palermitani, dura quindici mesi.
La perizia non accerta niente. È servita solo a prendere tempo.
Il processo riprende in un clima di terrore. Minacciano altri avvocati. I giudici popolari tremano. E intanto il presidente della prima Corte di Assise cambia. Non è più Carlo Aiello ma Salvatore Curti Giardina. È un anonimo magistrato che ha fatto una carriera silenziosa nei Palazzi di Giustizia di mezza Sicilia, fino a quando arriva a Palermo e si ritrova difronte ai tre killer di Emanuele Basile.
Il processo che a qualunque costo non si doveva celebrare, è un’altra volta alla vigilia del verdetto. Sembra scontato. Condanne. Ergastoli.
Il 31 marzo del 1983, nemmeno tre anni dopo l’uccisione del capitano, gli imputati vengono assolti. Tutti per insufficienza di
prove. I testimoni non vengono creduti, le prove spazzate via.
Clamorose le motivazioni del presidente della Corte: «Paradossalmente bisogna concludere, quindi, che meno problematico, se non addirittura certo, sarebbe stato il convincimento di colpevolezza di questa Corte in presenza di un più ristretto numero di indizi».
Troppi indizi per una condanna.
Così, il presidente Salvatore Curti Giardina ordina «l’immediata scarcerazione se non detenuti per altra causa» di Armando Bonanno, Vincenzo Puccio e Giuseppe Madonia. Gli avvocati difensori sono euforici: «Per fortuna ci sono ancora magistrati coraggiosi».
I carabinieri si sfogano: «Qui a Palermo succedono cose molto gravi, ora sappiamo che non possiamo contare sull’appoggio di altre forze dello Stato».
Il giudice Paolo Borsellino è annichilito.
La sua istruttoria è stata demolita con cavilli e mosse fraudolente. L’assoluzione lo lascia ancora più solo, indifeso. Nel mirino.
Il giorno dopo la sentenza, firma un’ordinanza di «accompagnamento coatto» degli imputati del processo Basile in tre comuni della Sardegna. Al soggiorno obbligato. Ci stanno due settimane. Poi fuggono indisturbati su grossi motoscafi d’altura.
Tornano a Palermo. Per uccidere. È la prima volta che Paolo Borsellino ha veramente paura. Per sé e per la sua famiglia. Nella sua casa di via Cilea quei nomi – Bonanno, Madonia, Puccio – si ripetono sottovoce ogni giorno. Sono fuori. Sono «innocenti» e pronti a sparare ancora


Stanza numero 63 e stanza numero 64, una grande amicizia in tribunale

 

Uno dei primi fascicoli che arriva nel suo ufficio è un’indagine preliminare sulle ruberie della Valle del Belice, i fondi che sono spariti per la ricostruzione dei paesi distrutti dal terremoto del 1968. Comincia a indagare su un presidente della Regione. È un’inchiesta choc. In città parlano tutti del giudice che è partito all’attacco dei potenti. Arriva sulla sua scrivania anche l’indagine su un appalto sospetto che coinvolge il presidente della Provincia Gaspare Giganti. Si convince della sua colpevolezza, piomba in consiglio provinciale insieme agli agenti di polizia giudiziaria, sequestra documenti, firma contro di lui un mandato di cattura. Gaspare Giganti è il primo uomo politico di Palermo che entra all’Ucciardone. Gli anni di Palermo «felicissima» stanno per finire. Cominciano quelli della paura e dei «grandi delitti». Anche l’inchiesta sull’uccisione del commissario Boris Giuliano è sua. Mese dopo mese, insieme al capitano Emanuele Basile, si avvicina alla mafia di Monreale. E alla notte del Santissimo Crocifisso.
La sua stanza all’ufficio istruzione del tribunale di Palermo è la numero 64. La numero 63 è quella di Giovanni Falcone. Si conoscono fin da ragazzi, fra i vicoli e della Kalsa e i cortili intorno alla chiesa della Magione. Si rivedono nelle aule della facoltà, a Giurisprudenza. Si rincontrano lì, al Palazzo di Giustizia, tanto tempo dopo. Nel 1979 Borsellino ha trentanove anni, Falcone uno di più. Sono fianco a fianco, giorno dopo giorno. Lo resteranno fino alla primavera del 1992. La scrivania di Paolo Borsellino è un mare di carte, faldoni, rapporti di polizia. C’è l’inchiesta sul Palazzo dei Congressi, uno scandalo sulle alleanze mafiose e imprenditoriali svelate nel 1982 da Pio La Torre e dal generale Carlo Alberto dalla Chiesa.  C’è quella sull’avvocato Salvatore Chiaracane, un penalista legato alla feroce cosca di Corso dei Mille.
C’è anche l’indagine su Giancarlo Parretti, il cameriere di un hotel di Siracusa, Villa Politi, che dopo pochi anni è diventato un noto finanziere e il boss della società cinematografica più famosa del mondo, la Metro Goldwyn Mayer.
Paolo Borsellino va ad ascoltare Luciano Liggio nel carcere di Bad’ e Carros in Sardegna. Interroga Vito Ciancimino, per la prima volta in carcere, a Rebibbia.
Lui e Giovanni Falcone sono legatissimi, due fratelli. E buoni sono anche i rapporti con gli altri giudici dell’ufficio istruzione. Soprattutto con Leonardo Guarnotta. Tutti indagano su tutto. Si scambiano informazioni, incrociano nomi e dati. Mafia. Traffico di droga e armi. Riciclaggio. Cominciano le prime rogatorie internazionali. Singapore. Ankara. New York.


L’estate di fuoco e il soggiorno “sicuro” nel carcere dell’Asinara

 

Paolo Borsellino, un giorno, deve affrontare un viaggio molto lungo, arrivare fino in Brasile per interrogare quattro mafiosi a Belo Horizonte. Gli altri, così, scoprono che ha paura di volare. Salire su un aereo per lui è un incubo. Si affida sempre a riti scaramantici. Sono in quattro, in Brasile. C’è Falcone. C’è il sostituto procuratore Giuseppe Ayala e c’è anche Ninni Cassarà, il capo della sezione investigativa della squadra mobile. La sentenza ordinanza del maxi processo nell’estate del 1985 è quasi conclusa. Ma, a pochi mesi dall’inizio del dibattimento, Ninni Cassarà muore ammazzato. Una settimana prima hanno ucciso anche Giuseppe Montana, il suo collega che dà la caccia ai latitanti. Un funzionario di polizia avverte il consigliere istruttore Antonino Caponnetto che una sua «fonte», all’interno delle carceri, gli ha raccontato che stanno per far fuori anche due giudici. Prima Borsellino e poi Falcone. I due giudici vengono caricati dopo poche ore su un elicottero. Borsellino, la moglie Agnese, i tre figli. Falcone, la compagna Francesca e la madre di lei. Conoscono il luogo dove li nasconderanno solo in volo: l’isola dell’Asinara. Li rinchiudono in un carcere di massima sicurezza. Sono al sicuro soltanto in mezzo al mare. La tragedia pubblica di Palermo per Paolo Borsellino è anche una grande tragedia privata. 
Lucia, la figlia più grande, si ammala. Non mangia più. Da molti mesi è scivolata in un malessere profondo. È una ragazzina, la vita blindata del padre la sta devastando. La sera prima dell’Asinara, nella loro casa sul mare di Villagrazia irrompono all’improvviso gli agenti dei corpi speciali. C’è anche un mezzo blindato per trasportare la famiglia Borsellino fino all’aeroporto.

Su quei giorni all’Asinara, il ricordo di Lucia è affidato al giornalista Umberto Lucentini: Sono lì da una settimana quando decido di passeggiare, di esplorarla un po’ quest’isola dove ci hanno spedito lontano dal pericolo di vendetta della mafia. È il momento che mi rendo conto che nemmeno all’Asinara possiamo stare tranquilli… Nell’attimo in cui metto un piede fuori dal giardino che circonda la foresteria e mi incammino con mia sorella tra i campi, scorgo un corteo di persone che ci seguono, si nascondono dietro i cespugli, con i mitra spianati… mi crolla il mondo addosso, altro che rifugio sicuro. Da quell’attimo mi passa la voglia di passeggiare, di fare qualsiasi cosa. Mi rinchiudo in camera per cinque giorni di fila. Non ho più fame. Ogni giorno che passa è sempre peggio. Mio padre capisce subito cosa sta succedendo. Io no: quando mi chiede «Perché non mangi?» non so dargli risposta. Gli dico che vorrei tornare a casa. Papà sa che il rischio è altissimo, ma non sente ragioni: prende me e Fiammetta, ci infila in gran segreto in elicottero e ci accompagna fino a Palermo. Restiamo con i nonni a Villagrazia, lui torna all’Asinara. Sono ridotta a uno scheletro quando papà torna a Palermo. Da quel momento papà non mi lascia un secondo.


 

Dal pool antimafia di Palermo alle misteriose terre trapanesi

 

Paolo Borsellino è segnato dal dolore. Fuori la guerra a Cosa Nostra e una città nemica, in famiglia il dramma di Lucia. Ma quel 1985 non è ancora finito. Gli ultimi mesi riservano altre sofferenze. È il 25 novembre e un corteo blindato attraversa a tutta velocità le strade di Palermo. È all’altezza di un incrocio di via Libertà, quasi davanti al «Meli», il liceo che ha frequentato Borsellino. Sbuca un’utilitaria, una delle Alfette dei carabinieri sbanda e finisce su un marciapiedi dove stanno gli studenti appena usciti dalla scuola. Biagio Siciliano, 15 anni, muore sul colpo, Maria Giuditta Milella, 16 anni, muore dopo sette giorni. Altri tre sono in coma. Sull’auto blindata ci sono Paolo Borsellino e il suo amico Leonardo Guarnotta.
Per la Palermo infastidita o spaventata dalle indagini antimafia, è il momento ideale per scatenarsi. Per rilanciare le polemiche sulla magistratura che sta «rovinando» la città. Gli sciacalli non mancano. Si avvicina l’inizio del maxi processo.
E ogni occasione è buona per dare addosso ai giudici del pool.
Ricomincia la campagna contro una Palermo sotto assedio. La «lotta alla mafia» che porta solo sventure in Sicilia. Uccide «anche gli innocenti».
Ogni sera, Paolo Borsellino va a trovare in ospedale i ragazzi feriti. Parla con i loro genitori. Per gli anni che gli restano si trascinerà un profondo senso di colpa per i ragazzi del «Meli».
La monumentale istruttoria è conclusa. Nel bunker dell’ufficio istruzione c’è molta eccitazione, l’aula bunker ha bisogno degli ultimi ritocchi. Una cinta esterna, le telecamere, un camminamento sotterraneo per trasferire ogni mattina in sicurezza i detenuti rinchiusi all’Ucciardone.
Il lavoro del pool è finito, per il momento.
È in quelle ultime settimane del 1985 che Paolo Borsellino decide di presentare una domanda al Consiglio Superiore della Magistratura: è in pista per la nomina a procuratore capo della repubblica a Marsala.
Ne parla con gli amici del pool. Sono tutti felici. Il sostituto procuratore Vincenzo Geraci – il pubblico ministero che ha
sostenuto in aula l’accusa contro gli assassini del capitano Basile nel primo processo – è al Consiglio Superiore della Magistratura e gli annuncia il suo appoggio e quello della sua corrente.
Paolo Borsellino non sta abbandonando la prima linea, non sta scappando da Palermo. Al contrario. Marsala è una città al centro di una provincia, quella di Trapani, dove da vent’anni non si celebra un processo alla criminalità organizzata. Il territorio, dal golfo di Castellammare fino alla Valle del Belice e a Mazara del Vallo, è governato da decine di famiglie mafiose.
Nessuno ha mai indagato.


Invidie, sentenze cassate e tanti veleni nel palazzo di Giustizia

 

Paolo Borsellino vuole ricominciare da lì. Da Marsala. Candidati a quel posto di procuratore ci sono altri due magistrati. Tutti e due godono di una maggiore anzianità in magistratura. Uno è Giuseppe Alcamo, presidente di una sezione del Tribunale di Palermo. L’altro è Giuseppe Prinzivalli, presidente di Corte di Assise.
Il più giovane fra loro è proprio Paolo Borsellino. Ma è anche quello che, dopo quasi sei anni all’ufficio istruzione, ha accumulato una straordinaria esperienza in materia di indagini mafiose.
Il Consiglio Superiore deciderà a breve. Paolo Borsellino è in attesa. Ma intanto a Palermo una sua inchiesta viene cancellata con una sentenza.
«Un brutto segnale per il maxi processo», scrivono sui giornali i commentatori di cose di mafia.
È l’istruttoria sul massacro di piazza Scaffa, otto morti ritrovati la notte del 18 ottobre 1984 in una stalla nei quartieri orientali della città. Macellavano clandestinamente senza l’«autorizzazione» dei boss di Ponte Ammiraglio e di Sant’Erasmo, gli Zanca e i Vernengo. Uno sgarro che provoca la strage.
*Paolo Borsellino istruisce l’inchiesta sulle accuse della moglie di una delle vittime – Pietra Lo Verso – e di due pentiti, Vincenzo Sinagra e Stefano Calzetta.
Per la Corte di Assise, la denuncia della donna «è il risultato di uno scambio di idee fra comari». Ai pentiti non credono. Tutti assolti anche questa volta. Anche i latitanti Carmelo Zanca e Pietro Vernengo.
Il presidente della Corte di Assise è Giuseppe Prinzivalli, uno dei «concorrenti» di Paolo Borsellino alla guida della procura della repubblica di Marsala.
L’aula bunker è avvolta nel silenzio quando all’improvviso sento una voce: «Quel giudice ha coraggio da vendere: ha due
palle come il mio mulo di Ciaculli». Mi volto e vedo un sorridente Michele Greco aggrappato alle sbarre della sua cella. Sta commentando la sentenza con la quale – per la prima volta – una Corte lo ha appena assolto dal reato di associazione a delinquere di stampo mafioso. Con lui, altri 78 imputati vengono dichiarati innocenti. È il verdetto di un troncone del maxi processo, presidente è Giuseppe Prinzivalli, giudice intento solo a demolire tutte le inchieste del pool antimafia. Chiacchierato da anni per i suoi benevoli giudizi nei confronti dei boss della Cupola, Prinzivalli è «chiamato» da alcuni pentiti che raccontano di borse piene di soldi e di favori che non si possono rifiutare.
Condannato a 10 anni in primo grado per l’«aggiustamento» di processi, condannato a 8 anni in Appello, il presidente Prinzivalli viene graziato dalla Cassazione e poi ancora condannato da un’altra Corte di Appello. Ma è troppo tardi. Il reato contestato ormai è prescritto. Anche se viene accertato «il suo contrasto livoroso» per tutte le inchieste del giudice Falcone e la sua disponibilità «ad assecondare le richieste degli imputati di mafia».
Il mulo di Ciaculli non gli somigliava per niente


Paolo Borsellino è a Marsala e scopre una mafia sconosciuta

 


«I professionisti dell’Antimafia», l’attacco di Sciascia contro Borsellino

 

La mattina del 10 gennaio 1987 un articolo in prima pagina su Corriere della Sera parla di lui. E di come è diventato procuratore capo della repubblica di Marsala.
Il titolo è una perfetta sintesi: «I professionisti dell’Antimafia».
L’articolo è di Leonardo Sciascia, il siciliano che ha fatto conoscere con i suoi libri la mafia agli italiani.
Che cosa scrive Sciascia?
Prende spunto da una documentata analisi dello storico inglese Christopher Duggan sulla mafia ai tempi del Fascismo, ricorda le retate del prefetto Mori, poi sostiene che l’antimafia può trasformarsi in «uno strumento di potere». E fa due esempi. Il primo è quello del popolarissimo sindaco di Palermo: Leoluca Orlando. È un democristiano che, proprio sul tema dell’antimafia, ha diviso e fatto rivivere Palermo. Leonardo Sciascia non cita il suo nome. Cita però quello di Paolo Borsellino.
È lui il secondo «campione» di quell’antimafia che può raggiungere «un potere incontrastato e incontrastabile».
La riflessione di Sciascia parte proprio dalla nomina del nuovo procuratore capo di Marsala, scelto per «meriti di antimafia» a scapito dei criteri di «anzianità». Borsellino, grazie alla sua attività nel pool di Caponnetto e di Falcone, ha superato in graduatoria colleghi – come Alcamo e Prinzivalli – che potevano contare su una più lunga carriera in magistratura.
L’articolo del Corriere ha l’effetto di una bomba. Con Leonardo Sciascia si schiera quasi tutta l’Italia. Intellettuali. Professori. Uomini politici al di sopra e al di sotto di ogni sospetto. E tutti i personaggi di quella Sicilia livorosa che detesta il pool. C’è chi non sta più nella pelle per la felicità: uno dei più grandi scrittori italiani del secolo è al loro fianco.
Non se ne può più di indagini nel mucchio. Finiamola con i talebani della giustizia. È la dittatura dell’antimafia.
Contro Leonardo Sciascia scrivono Eugenio Scalfari, Giampaolo Pansa, Nando dalla Chiesa e pochi altri.
La polemica monta giorno dopo giorno.
Si scopre anche che un paio di vecchi giudici del Tribunale di Palermo hanno incontrato Sciascia per consegnargli la copia della sentenza sulla strage di piazza Scaffa, il verdetto del presidente Giuseppe Prinzivalli che ha annullato e mortificato l’istruttoria di Paolo Borsellino.
Il procuratore di Marsala è nella tempesta. Per alcuni giorni tace. Tutti lo cercano, Borsellino si fa negare. Anche perché lui, come moltissimi siciliani, ha sempre amato i libri di Sciascia. Le parole dello scrittore offrono a tutti i nemici dell’antimafia l’occasione di scatenarsi una volta ancora contro i giudici. Il maxi processo è in corso. La sentenza è attesa per la fine dell’anno.


Quell’articolo sul Corriere, le polemiche e una ferita che sanguina sempre

 


La denuncia della fine del pool antimafia, così esplode il “caso Palermo”

 

 

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