Via D’Amelio, quei 100 giudici ‘distratti’ e le scuse mancate

 

 

Quale verità abbiamo offerto ai nostri eroi di cui celebriamo il sacrificio come segno di riconoscenza? Un interrogativo che dovrebbe toglierci il sonno. Trent’anni fa la mafia uccideva in via D’Amelio Paolo Borsellino e cinque dei sei membri della sua scorta: Agostino Catalano, Walter Eddie Cosina, Emanuela Loi, Claudio Traina e Vincenzo Fabio Li Muli.

Da allora la magistratura cerca la verità. E nella ricerca ha commesso degli errori grossolani. Tali sono stati e restano, pur premettendo la buona fede di tutti. Solo nel corso del quarto processo sulla strage le bugie del falso pentito Vincenzo Scarantino sono state ufficialmente smascherate.

Come si è potuto credere a un anonimo picciotto di borgata che diceva di avere partecipato alla strage Borsellino assieme ai vecchi padrini?

Conteggiando anche i giudici popolari, a conti fatti, più di cento persone – fra pubblici ministeri e giudici, togati e non – hanno letto e studiato i verbali dei pentiti farlocchi. Nessuno, o quasi, si è accorto delle incongruenze, contribuendo ad un abbaglio collettivo.

C’erano gli elementi per evitare la distrazione di massa? La risposta è sì, pur riconoscendo l’attenuante di avere vissuto una stagione storica di grande impatto emotivo.

Leggendo la sentenza del processo “Borsellino ter”, emessa dalla Corte d’assise allora presieduta da Carmelo Zuccaro, oggi procuratore di Catania, un campanello di allarme avrebbe dovuto suonare.

Il ter è l’unico processo che si è salvato dopo le dichiarazioni di Gaspare Spatuzza, killer di Brancaccio, che ha azzerato i racconti di Scarantino. Si tratta del processo al termine del quale sono stati condannati i boss della cupola di Cosa nostra, i quali diedero il via libera alla strage. Nelle motivazioni di quella sentenza le dichiarazioni dei pentiti erano state bollate come spazzatura. “Parto della fantasia”, “dichiarazioni non genuine perché gravemente sospette di essere state attinte addirittura dalla stampa”: così avevano scritto i giudici. Eppure nei processi futuri le condanne sono arrivate lo stesso.

Compresi gli ergastoli a delle persone che con la strage nulla c’entravano. Gli imputati, dopo decenni trascorsi in carcere, qualche anno fa sono stati scarcerati al termine del processo di revisione. Fu celebrato a Catania ed è l’unico momento in cui la magistratura ha fatto pubblica ammenda.

Restano agli atti della storia giudiziaria italiana le parole delle sostitute procuratrici generali Concetta Ledda e Sabrina Gambino. “Quali rappresentanti dello Stato, ci sentiamo in dovere di chiedere scusa, nonostante – hanno detto – non siano nostre le responsabilità, per le condanne ingiuste inflitte nell’ambito del processo per la strage di Via D’Amelio”.

Nel 1995 Scarantino venne messo a confronto con Gioacchino La Barbera, Mario Santo Di Matteo e Salvatore Cancemi, e cioè con tre pentiti la cui attendibilità è stata certificata. Scarantino sosteneva di avere partecipato con loro alla riunione in cui Totò Riina e soci diedero il via libera all’esecuzione del piano stragista.

Se Scarantino “fa parte di Cosa Nostra” allora “sono cambiate le regole”, disse La Barbera. Di Matteo fu tranciante: “… o tu sbagli persona o stai dicendo un sacco di cazzate”. Cancemi perse pure la pazienza: “… tu non lo sai cosa significa uomo d’onore, tu sei bugiardo… quello che vi sta dicendo (rivolto ai magistrati) è una lezione che qualcuno gli ha messo in bocca”.

I verbali dei confronti furono depositati solo in fase processuale. Per anni nessuno aveva avuto la possibilità di leggerli.

Da decenni si parla di depistaggi, di mandanti esterni, di buchi investigativi. Tutto vero e vanno ricordati, almeno i più importanti. Chi era l’uomo, così ha detto Spatuzza che non lo conosceva, presente nel garage di via Villasevaglios quando la Fiat 126 fu imbottita di tritolo prima di essere parcheggiata in via D’Amelio? Come sapevano i boss degli spostamenti di Borsellino il giorno dell’attentato? Chi ha rubato l’agenda rossa? Perché, contra legem, il procuratore di Caltanissetta Giovanni Tinebra coinvolse subito i servizi segreti nelle indagini? Perché nei 57 giorni tra la strage di Capaci e quelli di via D’Amelio Paolo Borsellino non fu mai sentito a Caltanissetta?

L’elenco dei “perché” potrebbe continuare. Resta l’interrogativo iniziale. Che giustizia abbiamo garantito ai nostri eroi e ai loro parenti? La giustizia gli è stata negata. Non può esserci giustizia senza verità. Il punto è che chi la doveva cercare, la verità, ha commesso quanto meno degli errori senza mai chiedere scusa.

Alcuni magistrati sono stati chiamati in aula a testimoniare. Da parte loro tanti “non ricordo”. È vero, di tempo ne è passato tanto ed è umano non ricordare tutto. Non sarebbe corretto ritenere reticenza il difetto di memoria che però viene giudicato tale, quasi in un automatismo, solo quando chi non ricorda non indossa la toga.

Allora vale la pena citare le parole di Fabio Trizzino, avvocato di parte civile per i figli di Paolo Borsellino, Manfredi, Lucia e Fiammetta.

Ha parlato al processo sul depistaggio per conto della famiglia, di cui ormai fa parte avendo sposato Lucia. “Per quanto loro si possano credere assolti – ha detto riferendosi ai pubblici ministeri che hanno indagato sulle stragi – riteniamo che siano lo stesso per sempre coinvolti. Avevamo una procura dilaniata sull’attendibilità di Scarantino e alla fine sono stati i pm i sostenitori della sua attendibilità. E’ questo è inquietante. Si sono spaventati? Avevano paura di buttare giù tutto l’edificio che stavano tirando su? Di fronte a certe storture procedurali – ha continuato Trizzino – rimango allibito. Le mie parti civili devono leccarsi non solo le ferite della strage di via D’Amelio ma anche del depistaggio. Abbiate pietà da questo punto di vista. Si poteva fermare quel depistaggio”.