Via d’Amelio, trent’anni di depistaggi e silenzi di Stato

 

Questa data, il 19 luglio, è divenuta il simbolo della cattiva coscienza della nomenclatura del potere statale, e momento di grave imbarazzo istituzionale.

Il testo che segue è l’intervento integrale che Roberto Scarpinato, uno dei più importanti magistrati antimafia della storia italiana, ha tenuto nell’ambito di un evento organizzato dal Partito democratico a Palermo nel giorno del trentesimo anniversario dell’uccisione di Paolo Borsellino.

Palermo, 19 luglio 2022 – Credo sia evidente a tutti, e soprattutto ai palermitani, che esiste una stridente differenza tra le cerimonie celebrative dell’anniversario della strage di Capaci  del 23 maggio 1992 e quelle dell’anniversario della strage di Via D Amelio del successivo 19 luglio. Una differenza che è ancora più significativa in occasione di questo trentennale.
Le cerimonie celebrative dell’anniversario della strage di Capaci vedono la partecipazione in pompa magna di tutti i principali vertici degli apparati istituzionali: dal Presidente della Repubblica, a Ministri, capi delle Forze di Polizia e via elencando. Nel corso degli anni, tali cerimonie si sono sempre più venute trasformando in una autocelebrazione di Palazzo, in una Falconeide sedativa e rassicurante che rimuove verità scomode annegandole dentro un mare di retorica di Stato. Lo schema della narrazione di tale Falconeide ufficiale – non a caso tutta incentrata esclusivamente  sul maxiprocesso  –   può riassumersi nei seguenti termini:
Da una parte vi è Falcone  – eroe di Stato e personificazione del bene – che con il maxiprocesso lancia una sfida senza precedenti alla Mafia. Dall’altra vi sono i soliti brutti sporchi e cattivi, personaggi come Salvatore Riina, Bernardo Provenzano, assetati di sangue e denaro, personificazione assoluta e totalizzante del male di mafia. Falcone ottiene la vittoria del maxi processo con la conferma in Cassazione dell’impianto accusatorio, e Riina e i suoi si vendicano uccidendolo a Capaci.
Storia tragica, semplice, ma a lieto fine , e soprattutto, storia del passato, perché – si ripete ad ogni piè sospinto  – i carnefici, i portatori del male di mafia, sono stati tutti  identificati e condannati, la mafia cruenta di Riina è stata sconfitta,  e quindi la mafia non rappresenta più un pericolo e si può procedere a smantellare pezzo dopo pezzo la legislazione antimafia approvata nel periodo delle stragi che si giustificava solo per una emergenza venuta ormai  meno.
Storia semplice perché basata sulla macroscopica falsificazione culturale della riduzione della mafia solo alla sua componente militare e popolare, e nella forzata rimozione  dalla narrazione e dalla memoria collettiva della verità storica documentata da centinaia di sentenze,  che Riina e i suoi erano solo una delle componenti di un sistema di potere mafioso vasto e ramificato che annoverava al suo interno esponenti di vertice dell’ establishment: Presidenti del Consiglio dei Ministri, Ministri, Parlamentanti, Presidenti di Regione, Assessori regionali, Capi dei Servizi Segreti, Capi della Polizia, Banchieri, e via elencando uno stuolo interminabile di colletti bianchi appartenenti ai piani alti della piramide sociale.

Insomma settori portanti del potere nazionale che della mafia si sono serviti come strumento di ordine e di governo,  che con la mafia hanno costruito carriere politiche e fortune economiche e che con la mafia si mossero sempre all’unisono per delegittimare, emarginare e ridurre all’impotenza Falcone e Borsellino, come Paolo Borsellino tenne a rimarcare nel corso del suo interventodel 25 giugno.
Ma tutto ciò ancora a trenta di distanza dalle stragi, resta argomento tabù nelle cerimonie ufficiali commemorative del 23 maggio.
Dopo che si spengono le luci delle commemorazioni del 23 maggio, le autorità statali si dileguano e si guardano bene dal ripresentarsi a Palermo il successivo 19 luglio a replicare lo stesso canovaccio.
Le pubbliche autorità sanno bene di non potere replicare gli stantii riti della retorica ufficiale in Via D’Amelio dove la loro presenza è stata da sempre bandita, e quindi si limitano a partecipare in sedi defilate a frettolose cerimonie riservate, come per togliersi il pensiero e adempire ad un obbligo, mentre in Via D’Amelio e in altri luoghi si svolgono talune commemorazioni e dibattiti che mai potrebbero trovare ospitalità nelle sedi istituzionali per i loro contenuti critici, spinosi e urticanti proprio nei confronti del Palazzo che prima lasciò solo Paolo Borsellino, poi contribuì a depistare le indagini e a tutt’oggi ha fallito il compito di dare un volto  a mandanti e complici esterni della strage di via D’Amelio.
Sicché questa data – il 19 luglio – è divenuta il simbolo della cattiva coscienza  della nomenclatura del potere statale, e  momento di grave imbarazzo istituzionale.
Questa divaricazione tra il Palazzo e la Piazza che dura a tutt’oggi, è iniziata sin dai giorni immediatamente successivi alla strage del 19 luglio  e da allora non si è mai sanata e ricomposta.
I funerali di Borsellino furono celebrati in forma strettamente privata il 24 luglio 1992 nella chiesa di S. Maria Luisa di Marillac proprio in manifesta polemica con le Autorità statali  che furono escluse dalla partecipazione al rito funebre. Ma quello fu solo un primo segnale. Quello stesso  24 luglio si verificò infatti un altro episodio drammatico e altamente significativo documentato dai filmati d’epoca che rappresentò in modo iconico che si era aperta una  profonda frattura tra  la Piazza e i Palazzo.

In occasione dei funerali di Stato dei cinque agenti della scorta di Paolo periti con lui nella strage – Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli,, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina – e celebrati lo stesso giorno 24 luglio, venne a Palermo il Presidente della Repubblica Scalfaro accompagnato dal capo della Polizia Parisi che nel loro percorso si trovarono al centro di una folla immensa che si era riversata  nella piazza.
Ad un certo punto dalla  folla iniziò a levarsi  contro di loro – i massimi rappresentanti dello Stato – il  grido “assassini”,  e la  situazione sembrò poter degenerare al punto tale che i poliziotti che si trovavano accanto al Presidente e al Capo della Polizia furono costretti a fare scudo con i loro corpi per proteggerli.
A distanza di trenta anni, dobbiamo riconoscere che quel grido che si levò dal cuore della folla quel giorno, quel grido che in sostanza accusava lo Stato di essere complice della strage, quel grido che allora sembrò un atto incomprensibile, inconsulto e irrazionale, conteneva un seme scandaloso  e profondo di verità.
Abbiamo tutti gli elementi oggi per poter dolorosamente ammettere la tragica verità che la strage di via D’Amelio fu una strage che chiama doppiamente in causa lo Stato.
Soggetti appartenenti agli apparati istituzionali sono ripetutamente intervenuti prima per fare sparire l’agenda rossa, e poi per sviare le indagini della magistratura mediante la costruzione a tavolino di un falso collaboratore di giustizia.
E poiché tale duplice attività di depistaggio non fu  certo finalizzata a coprire la responsabilità dei mafiosi esecutori materiali della strage, è gioco forza pervenire alla conclusione che il depistaggio di Stato fu finalizzato a coprire responsabilità di apparati statali nella stessa esecuzione della strage.
Conclusione questa alla quale peraltro si perviene anche alla luce di tante convergenti risultanze probatorie che stasera tralascio di citare per ragioni di tempo.
E, dunque, l’eco di quel grido della folla contro uno Stato al cui interno si celavano complici degli assassini di Paolo  Borsellino,  continua a distanza di trent’anni ad attraversare il tempo, ponendoci dinanzi ad un quesito drammatico e ineludibile.
Se lo Stato fu complice della strage di Via D’Amelio, potrà mai lo Stato processare se stesso e come è possibile che lo Stato sia complice di una strage?
La chiave per rispondere a queste domande viene dalla lezione della storia.
La storia della prima Repubblica è stata tenuta a battesimo da una strage politico mafiosa , la strage di Portella  delle Ginestre del 1 maggio 1947 ed è stata segnata da una sequenza ininterrotta di stragi e di omicidi eccellenti che non ha uguali in nessun altro paese europeo. Per limitarmi solo a quelle più note mi limito a ricordare  la strage di Piazza Fontana a Milano nel ’69, quella di Peteano nel ’72, quella dell’Italicus nel ’74, di Piazza della Loggia a Brescia nel ’74, di Bologna nel 1980, del Rapido 904 nel 1984, di Pizzolungo del 2 aprile 1985 sino alle stragi politico mafiose del 1992 e del 1993.

Tante di queste stragi hanno un unico comun denominatore che le accomuna alla strage di via D Amelio in modo significativo.
I depistaggi  posti in essere da appartenenti agli apparati istituzionali che hanno sistematicamente sabotato le indagini allo scopo di impedire alla magistratura di identificare mandanti e complici eccellenti.
Circostanza questa attestata anche da varie sentenze di condanna definitive di  esponenti di  vertici dei Servizi e della Polizia, troppo spesso dimenticate e ignorate dal grande pubblico e dai media.

Mi limito telegraficamente a  ricordare che per la strage di Milano alla banca dell’Agricoltura del 1969 sono stati condannati con sentenza definitiva, per avere depistato le indagini e favorito la fuga all’estero di due estremisti della dx eversiva implicati ,  due vertici dei servizi segreti: il generale Gianadelio MALETTI e il capitano Antonio LABRUNA.
Per la strage di Peteano  del  31 maggio 1972 sono stati condannati con sentenza definitiva del 1992  a tre anni e dieci mesi di reclusione  il  generale Dino MINGARELLI e il colonnello Antonino CHIRICO, accusati di soppressione di atti, falso materiale ed ideologico.
Per la strage di Brescia Piazza della Loggia del 28 maggio 1974 è stato accertato che i servizi segreti avevano nascosto alla magistratura per 40 anni, che uno degli esecutori della strage, Maurizio TRAMONTE, poi condannato nel 2017, era un informatore dei servizi segreti.
Nel processo per quella  strage furono inoltre  accertate alcune  condotte degli apparati istituzionali che avevano  intralciato le indagini  determinando  la soppressione di prove essenziali per la ricostruzione dei fatti   e l’individuazione dei responsabili.
Meno di due ore dopo la strage, era stato impartito  l’ordine di ripulire  frettolosamente con le autopompe il luogo dell’esplosione, così spazzando via indizi, reperti e tracce di esplosivo prima che alcun magistrato o perito potesse effettuare alcun sopralluogo o rilievo.  Sparirono misteriosamente pure i reperti e le tracce di esplosivo prelevati in ospedale dai corpi dei feriti e dei cadaveri, anch’essi di fondamentale importanza ai fini dell’indagine.
Per le indagini sulla strage di Bologna del 1980 sono stati condannati con sentenza definitiva per avere depistato le indagini due  vertici dei servizi segreti: il generale Pietro MUSUMECI, il colonnello dei carabinieri Giuseppe BELMONTE nonché l’agente segreto Francesco PAZIENZA e Licio GELLI.

La lezione della storia dunque contiene un primo germe di risposta alla domanda iniziale che ci siamo posti.
Una parte dello Stato è stata coinvolta in stragi e omicidi eseguiti all’interno della c.d. strategia della tensione che ha segnato tutta la storia del secondo dopoguerra.

Gli esiti dei processi su quelle stragi attestano una realtà complessa dello Stato. Accanto ad un Stato visibile che ha operato  con procedure legalitarie, ha convissuto uno Stato invisibile, un Deep State, uno Stato occulto e profondo che si è reso autore e complice di stragi e di omicidi, stringendo patti segreti anche con la mafia e con altri specialisti della violenza.
Una mafia che sin dall’origine della Repubblica è stata compartecipe della strategia della tensione unitamente a Servizi Segreti, esponenti della dx eversiva, esponenti della massoneria deviata.
Da Portella delle Ginestre alla partecipazione al progetto di Golpe Borghese del 1970, al progetto di colpo di Stato del 1974  a quello del 1979, alla esecuzione della strage del treno 904.
Una mafia che ha offerto un altro importante contributo alla strategia della tensione partecipando alla esecuzione di delitti politici come l’omicidio del Presidente della Regione Siciliana Piersanti Mattarella e del segretario regionale del PCI Pio La Torre  che, come aveva scoperto Giovanni Falcone, celavano sotto l’apparente causale mafiosa, una sottostante causale politica che doveva restare segreta.
I processi celebrati per le stragi della strategia della tensione, ci offrono come chiarirò tra poco, anche un’altra importante indicazione per capire che le stragi del 1992 e del 1993 furono il secondo tempo e la prosecuzione delle stragi compiute in precedenza, e che le une e le altre furono opera dello stesso sistema criminale complesso e articolato che annoverava al suo interno componenti dello stato profondo, esponenti della destra eversiva e  mafia.
Esattamente la conclusione a cui pervenne la Dia già nel 1994 quando trasmise alla  magistratura  una  informativa  nella quale si comunicava che dietro le stragi del 1992 e del 1993 si muoveva una “aggregazione di tipo orizzontale, in cui ciascuno dei componenti è portatore di interessi particolari perseguibili nell’ambito di un progetto più complesso in cui convergono finalità diverse”; e che dietro gli esecutori mafiosi c’erano menti che avevano “ dimestichezza con le dinamiche del terrorismo e con i meccanismi della comunicazione di massa nonché una capacità di sondare gli ambienti della politica e di interpretarne i segnali”.

Esattamente quello che aveva compreso Paolo Borsellino grazie alle chiavi di lettura che gli aveva fornito in precedenza Giovanni Falcone e alle confidenze ricevute da alcuni collaboratori di giustizia – Gaspare Mutolo, Leonardo Messina, ed altri individuati di recente – che egli aveva annotato nella sua agenda rossa.
Paolo Borsellino aveva capito che la strage di Capaci non era solo di mafia e si apprestava a verbalizzare dinanzi alla Procura di Caltanissetta le informazioni di cui era in possesso, come annunciò la sera del 25 giugno 1992. Bisognava dunque fermarlo prima che la sua ricostruzione dei complessi  scenari che si celavano dietro la strage di Capaci e che chiamavano in causa vicende del passato e  componenti dello Stato profondo, potesse essere verbalizzata dinanzi alla magistratura di Caltanissetta.
Per questo motivo qualcuno si recò da Riina e gli disse che si era creata una improvvisa emergenza e che occorreva anticipare l’uccisione di Borsellino organizzando la strage in pochissimo tempo.
È lo stesso Riina a rivelarlo ad un suo compagno di detenzione nel corso di alcune conversazioni intercettate mentre era detenuto nel carcere di Opera a Milano.
Nella conversazione intercettata il 6 agosto 2013 Riina  confidò al suo interlocutore che mentre la strage di Capaci era stata studiata da mesi, quella di via D’Amelio era stata invece “studiata alla giornata”, perché, come aggiunse  in una successiva  conversazione del 20 agosto: “Arriva chiddu, ma subito… subito… Eh ..Ma rici ..macara u secunnu? E Vabbè, poi ci pensu io..rammi un poco di tempo ca..”
E cioè era arrivato qualcuno che gli aveva detto  che bisognava fare quella strage “subito, subito” e  Riina aveva chiesto di dargli un poco di tempo.
Ma non bastava uccidere Borsellino, perché se la sua agenda rossa fosse finita nelle mani della magistratura lo scopo della sua eliminazione sarebbe stato vanificato. Ed ecco che si realizza un perfetto coordinamento operativo tra mafiosi esecutori materiali della strage  e uomini degli apparati statali.
I primi svolgono il colpito di uccidere Borsellino facendo esplodere la Fiat 126 imbottita di esplosivo, ma subito dopo devono immediatamente dileguarsi, non possono restare ancora sulla scena del crimine per prelevare l’agenda rossa. E’ troppo rischioso, vi è il pericolo di essere visti da qualche testimone.
Per svolgere la seconda parte della missione, occorre che entrino in campo degli insospettabili, uomini che grazie ai ruoli istituzionali ricoperti di pubblici ufficiali, possono accedere alla macchina al cui interno di trova la borsa di Paolo Borsellino e prelevare l’agenda rossa che ivi era custodita.
Vi sono indici inequivocabili che Paolo Borsellino aveva capito che il pericolo per la propria incolumità proveniva  non solo dai mafiosi ma anche da apparati interni dello Stato. Agnese Borsellino deponendo dinanzi alla Corte di Assise di Caltanissetta, ha dichiarato che il marito le aveva raccomandato di tenere abbassate le tende di casa perché temeva di essere osservato a distanza dalla sede dei Servizi Segreti che si trovava al Castello Utveggio a breve distanza in linea  di aria dalla sua abitazione in via D’ Amelio. E ancora ha dichiarato che  il marito le confidò di avere scoperto che alcuni dei massimi vertici delle Forze di Polizia erano “Pungiuti”, cioè erano collusi con la mafia e che sarebbe stata la mafia ad ucciderlo, ma solo quando altri lo avessero deciso.
E Agnese Borsellino ha aggiunto che ciò che il marito  aveva scoperto e capito lo aveva talmente traumatizzato che era preso a tratti da conati di vomito. Il trauma di un uomo di Stato che è costretto a scoprire che all’interno dello Stato si annidava  un potere malato capace di uccidere e che si apprestava ad ucciderlo.

Ho anticipato prima che i processi sulle stragi della strategia della tensione ci offrono una preziosa indicazione per comprendere come e perché le stragi del 1992 e del 1993 siano state il secondo tempo e la prosecuzione delle stragi degli anni Settanta e Ottanta e come le une e le altre siano opera dello stesso Sistema criminale.
Intendevo fare riferimento ai più recenti sviluppi delle indagini sulla strage di Bologna del 2 agosto 1980.
Come sapete nell’aprile del 2022 la Corte di Assise di Bologna ha condannato come ulteriore esecutore della strage del 2 agosto 1980 Paolo Bellini, esponente della dx eversiva, uomo collegato a Stefano delle Chiaie e ai Servizi Segreti.

Paolo Bellini è lo stesso soggetto che durante il periodo delle stragi nel  1991  e nel 1992 si recò  ripetutamente in Sicilia ed incontrò  i mafiosi esecutori della strage di Capaci suggerendo loro  – come ha riferito Giovanni  Brusca – di fare attentati contro i beni artistici nazionali, consiglio  seguito come dimostrano gli attentati realizzati a Firenze, a Milano e a Roma nel 1993.
Le più recenti indagini sulla  strage di Bologna condotte dalla Procura Generale di Bologna hanno portato alla conclusione che la strage fu eseguita su mandato di Licio Gelli con la complicità di Umberto Federico D’Amato, capo dell’ Ufficio Affari  riservati del Ministero degli Interni, uno dei massimi vertici dello Stato e uomo della Cia in Italia.
Possiamo dunque definire la strage di Bologna come una strage eseguita con la complicità di componenti dello Stato.
Altre utili indicazioni che possono spiegare perché un soggetto come Paolo Bellini  autore della strage di Bologna, sia stato presente nello scenario delle stragi di Capaci  di Via D’Amelio, si traggono dalla motivazione della sentenza del 7 gennaio 2021  con la quale la Corte di Assise di Bologna aveva in precedenza condannato come esecutore della strage Gilberto Cavallini unitamente a Valerio Fioravanti, Francesca Mambro e Luigi Ciavardini.
Nella motivazione della sentenza di condanna di Cavallini, la Corte di Assise  di Bologna ha dedicato cento pagine circa ad una completa rivisitazione critica del processo per l’omicidio del Presidente della Regione Siciliana Piersanti Mattarella, giungendo  alla conclusione che esiste una stretta connessione tra quell’omicidio e la strage di Bologna, e  che aveva ragione Giovanni Falcone quando indagando sull’omicidio Mattarella aveva imboccato la c.d. pista nera,  rinviando a giudizio come esecutori dell’omicidio di Mattarella,  Valerio Fioravanti e Gilberto Cavallini due esponenti della destra eversiva che pochi mesi dopo l’uccisione di Mattarella,  avevano   eseguito la strage di Bologna su mandato di Gelli e  con complicità di Federico Umberto D’ Amato.
In effetti come ebbe anche a dichiarare nel corso di una audizione del 3 novembre 1988 a lungo secretata dinanzi alla Commissione Parlamentare Antimafia, Giovanni Falcone pervenne alla conclusione che l’omicidio di Mattarella era una replica del caso Moro, e che nella la morte del Presidente  della Regione Siciliana, così come nella esecuzione di altri delitti politici come l’omicidio del Segretario regionale del PCI Pio La Torre, erano coinvolti gli strateghi della strategia della tensione: Servizi segreti, esponenti della dx eversiva e alta mafia.
Giovanni Falcone si era reso conto che proprio dopo che aveva imboccato questa pista investigativa che lo porterà il 19 ottobre 1989 a firmare il mandato di cattura contro Fioravanti e Cavallini, erano scesi in campo contro di lui affiancandosi a Cosa Nostra, le “menti raffinatissime”, cioè uomini dei Servizi che il 5 giugno 1989 diramarono, inviandolo a varie autorità, il famoso esposto anonimo del Corvo con il quale accusarono Falcone di avere fatto segretamente  rientrare in Sicilia il collaboratore di giustizia Salvatore Contorno per utilizzarlo come killer di stato contro i corleonesi, e il successivo 21 giugno collaborarono con i mafiosi per organizzare l’attentato all’Addaura.
Nello stesso periodo i telefoni dell’Ufficio di Giovanni Falcone vengono intercettati abusivamente e gli atti di indagine da lui compiuti sulla pista nera vengono attentamente monitorati da alcuni vertici delle Forze di Polizia, al punto che – come è stato recentemente scoperto – il capo della Criminalpol trasmise al Ministero dell’Interno un appunto riservato sul contenuto di un interrogatorio di Licio Gelli che Falcone aveva compiuto l 7 aprile 1990, e ciò in violazione di tutte le regole  perché si trattava di atto istruttorio coperto dal segreto.
Falcone non smise mai di indagare sui delitti politici e sul ruolo di Gladio in Sicilia ed era fermamente intenzionato non appena fosse stato nominato procuratore nazionale antimafia a rilanciare le indagini da quella postazione istituzionale, sicuro di potere pervenire alla cattura di alcune “menti raffinatissime” che aveva già individuato.
Di tutto ciò e delle sue intenzioni prima di morire Falcone aveva pienamente informato Paolo Borsellino, come hanno riferito alcuni testimoni.

Quella sera del 25 giugno 1992 Paolo Borsellino, come possiamo oggi comprendere – si sentiva schiacciato dall’enorme peso che gravava ormai sulle sue spalle, sapendo che doveva affrontare ormai da solo la stessa sfida che aveva portato a morte Giovanni Falcone il 23 maggio 1992. Un uomo dello Stato legale si apprestava a  compiere un gesto di portata enorme che non gli fu consentito compiere: svelare le trame segrete dello Stato occulto e le sue complicità con la mafia.
Riusciremo mai a pervenire ad una verità giudiziaria completa sulla strage di Via D’Amelio che dia un volto ai mandanti e a complici eccellenti?
Sino a qualche anno fa residuava una significativa speranza.
La speranza era che qualcuno dei boss stragisti condannati all’ergastolo e a conoscenza dei segreti che si celano dietro le stragi del 1992 e del 1993, decidesse di collaborare con la giustizia.
Ma questa speranza è stata ridotta ai minimi termini dalla  recente riforma dell’ergastolo ostativo ormai in dirittura di arrivo, che accogliendo le richieste ininterrottamente formulate dai boss stragisti sin dalla seconda metà degli anni Novanta, consentirà loro di  uscire dal carcere senza collaborare,  solo dimostrando di avere deposto definitivamente le armi.
Una soluzione questa che il boss Pietro Aglieri tra i primi a proporla il 28 marzo 2002 in una lettera indirizzata al Procuratore Nazionale Pierluigi Vigna aveva  definito testualmente una soluzione “concreta e intelligente”.
Una soluzione “concreta e intelligente” che, in sostanza, prevedeva lo scambio tra il silenzio dei boss stragisti sui complici eccellenti nelle stragi e la loro fuoriuscita dal carcere.
Non è un caso che – come hanno riferito vari collaboratori di Giustizia – i fratelli Giuseppe e Filippo Graviano depositari di scottanti segreti, abbiano sempre nutrito una granitica fiducia che nonostante le loro condanne all’ergastolo, prima o poi sarebbero usciti dal carcere.
Bisognerebbe chiamare questa riforma dell’ergastolo ostativo  per quello che è: una amnistia mascherata per i boss stragisti ai quali sarà riservato lo stesso trattamento premiale che è stato riservato in passato ad altri esecutori di stragi in cambio del loro silenzio.
Come ad esempio Valerio Fioravanti e Francesca Mambro ammessi alla liberazione condizionale dopo 26 anni di carcere.
Scende  così un plumbeo  silenzio di Stato sulle stragi del 1992 e del 1993, e il grido “assassini” lanciato dalla folla in quel lontano 24 luglio 1992, sembra destinato ad continuare ad echeggiare  nel tempo come una triste e dolorosa verità rimossa.