MORTE BORSELLINO: PROSEGUE LA NARRAZIONE TOSSICA

 

 

ROBERTO GRECO 28 Luglio 2022 GLI STATI GENERALI

 

Prosegue, imperterrita, la tossica narrazione relativa alla morte del dottor Paolo Borsellino. Scoop, carte disvelate dal tempo, dichiarazioni manipolate continuano ad essere il leitmotiv di una spregiudicata operazione di clickbait sulla pelle dei morti.

Che sia giunto il momento di “alzare il tappeto” sotto il quale sono stati sapientemente spazzati dettagli non trascurabili e documenti che sembrano essere stati scritti con “inchiostro simpatico”, è sicuramente vero e necessario ma, la continua manipolazione dei fatti, della loro datazione e il proseguire un’incessante campagna mediatica realizzata mescolando frammenti di verità a notizie false è, a dir poco, vergognoso.

Il riferimento è a quanto pubblicato, lo scorso 19 luglio su TPI online, e il 22 luglio nell’edizione settimanale cartacea, a firma di Simona Zecchi che ha annunciato sulle sua pagine social lo “scoop del 2022” e il conseguente rilancio, con opportuna manipolazione, operato da Antimafia2000nel pezzo pubblicato il 23 luglio dal titolo “Borsellino e le informative nascoste sull’attentato: il magistrato poteva essere salvato“.

Innanzitutto è necessario premettere una considerazione: è vero che in quel periodo ci fossero enormi problemi di sicurezza per i magistrati della Procura di Palermo, e non solo, come si evince peraltro dalle audizioni della fine di luglio 1992 dei magistrati applicati alla stessa Procura di Palermo e rese pubbliche dal Csm lo scorso 20 luglio. Cardine delle problematiche legate alla sicurezza può essere definita la famosa lettera che otto magistrati firmarono contestando l’operatore del procuratore Giammanco, lettera che sollecitò al Csm le sopracitate audizioni. E che non è vero quanto dice il dottor Di Matteo quando afferma di aver desecretato lui, che non erano secretate, le audizioni nel 2020 perché erano disponibili da tempo, ma come ha testimoniato il dottor Palamara, il Csm non li rese pubblici per non rompere gli equilibri della magistratura.

Ma, ahimè, il problema non è questo. Ossia il problema non è che “Borsellino poteva essere salvato” ma che Borsellino doveva essere salvato proprio per la qualità e la quantità d’informazioni che erano state messe in campo e che indicavano, senza dubbio alcuno, che l’esecuzione della strage era imminente. Si tratta, evidentemente, di superficialità, di pressapochismo e di sottovalutazione ma non sicuramente di un complotto ordito dal Ros, come si sottintende, che, invece, ha sempre fornito tutte le informazioni in suo possesso.

La cronologia, più che mai, è importante anche perché in tutti i casi, sia quelli citati su Tpi sia quelli citati da Antimafia2000 erano già noti e instillare il dubbio sulla qualità delle informazioni agli atti non fa sicuramente onore al concetto di verità ma alla causa degli eterni complottisti.

Ritengo che si possa iniziare sgombrando il campo dalle imprecisioni che questa narrazione tossica ha messo in campo, ad esempio, a proposito di quanto accadde il 15 giugno. «A sentire D’Anna, nel carcere di Fossombrone, andammo io – ha detto Sinico nel corso della sua testimonianza come teste della difesa al processo Mori – Lombardo e il comandante della compagnia di Carini, Giovanni Baudo, ma Lombardo fu il solo a parlare con D’Anna, che disse dell’esplosivo e dell’idea di attentato. Subito ripartimmo e andammo dal procuratore a riferirglielo e lui ci rispose in quel modo, di saperlo e di dover lasciare qualche spiraglio. “Procuratore, risposi io, allora cambiamo mestiere”». Ma chi era Girolamo D’Anna e perché parlò con il maresciallo Lombardo? Girolamo D’Anna era un uomo d’onore di Terrasini “posato”, ossia estromesso, perché vicino a Gaetano Badalamenti e confidente del maresciallo che comandava la stazione di quel paese, Antonino Lombardo.

A riprova della comunicazione immediata da parte di Sinico al dottor Borsellino nella sentenza del “Borsellino Ter”, sulla base di quanto deposto da Sinico, si legge: «Allora, il giorno del ritorno a Palermo, mi pare che fosse nella tarda mattinata del giorno successivo alla… al colloquio di Fossombrone, andammo nell’Ufficio del Procuratore BORSELLINO, che era affollatissimo: c’erano sicuramente i miei colleghi della Sezione, c’era sicuramente il maresciallo CANALE e ritengo che ci fosse… fosse stato presente anche qualche collega del dottore BORSELLINO, però non saprei dire chi; probabilmente c’era il… non il dottor INGROIA, ma il dottor NATOLI forse, non… Adesso non riesco a ricordare bene chi fosse presente, comunque c’era anche qualche collega del Procuratore. E gli riferimmo, naturalmente…»

Questo conferma che la prima comunicazione al dottor Borsellino, seppur informale, fu fatta il 16 giugno, ossia il giorno successivo alle rivelazioni della c.d. fonte confidenziale, anticipando quindi la nota ufficiale che l’Arma emise il 19 giugno. Peraltro le problematiche relative alla sicurezza di Borsellino non erano competenza del Ros ma degli organi competenti cui era stata invitata la nota.

A proposito, invece, dell’incontro che avvenne 25 giugno presso la Casera Carini con i Ros, non è vero che Carmelo Canale partecipò all’incontro bensì accompagnò Borsellino alla Caserma Carini perché, all’incontro, parteciparono solo Borsellino, Mori e De Donno quindi non è considerabile la valutazione del Canale in quanto non presente. Come dichiarato dal dottor Manduzio, allora sostituto procuratore ad Agrigento e oggi presidente della sezione penale al Tribunale di Venezia, in un’intervista rilasciata a Rita Pedditzi nel programma di approfondimento “Inviato Speciale” di Rai Radio1: «Quello che spontaneamente mi disse per quanto riguardava l’ufficio, è che c’era una situazione pesante, perché c’era questa distanza dai Ros. In particolare i Ros, si erano distaccati un po’ dal rapporto con la Procura di Palermo, proprio perché, avendo presentato quel rapporto mafia-appalti, c’era stata una divergenza di opinioni. “Io però (disse Borsellino – ndr)devo cercare di fare di tutto per riallacciare i rapporti, perché non è possibile che non ci sia una collaborazione tra la Procura e i Ros”». Come ricorda il dottor Manduzio, il giudice Borsellino gli parlò proprio dell’incontro che avrebbe voluto tenere con i Ros nel quale chiese ai carabinieri se erano disposti a portare avanti l’indagine mafia-appalti, e di riferirne a lui personalmente. Che Borsellino fosse interessato a quel dossier si evince non solo da decine di atti e testimonianze, ma anche dai verbali delle già citate audizioni del luglio ‘92 del dottor Patronaggio e del dottor Gozzo oltre che dall’audizione del dottor Ingroia alla Commissione Antimafia Regionale, con presidente Claudio Fava, e dalla testimonianza dello stesso dottor Ingroia al “Borsellino Bis”.

Tossica è la narrazione che Antimafia2000propone, invece, a proposito dell’incontro che avvenne il 28 giugno all’aeroporto di Roma tra Borsellino, Andò e la Ferraro. Tossica perché smentita dalle dichiarazioni della stessa Ferraro. È evidente che gli orfani della c.d. trattativa continuano a propinarla tra le righe ma non è vero che «Liliana Ferraro, all’epoca membro della direzione generale degli Affari Penali, la quale, in disparte, accennò al procuratore che Mario Mori e Giuseppe De Donno, tramite Vito Ciancimino, avevano imbastito la famosa trattativa con Cosa nostra per fermare le stragi» perché proprio Liliana Ferraro, nell’audizione del 16 febbraio 2011 alla Commissione Parlamentare Antimafia con presidente Giuseppe Pisanu, dichiarò che «Nel tempo che passammo insieme all’aeroporto Paolo mi spiegò prima di tutto la ragione per la quale mi aveva chiesto d’incontrarlo e di andare con lui a Palermo: voleva parlarmi del caso Mutolo, che so essere già a conoscenza di questa Commissione perché ne ha riferito il dottor Pierluigi Vigna. Gaspare Mutolo, detenuto per fatti di mafia, mesi prima aveva chiesto di parlare con il dottor Giovanni Falcone il quale aveva ritenuto di sentirlo ma si era fatto accompagnare dal dottor Sinisi, svolgendo egli funzioni amministrative. Il Mutolo dichiarò di essere disponibile a collaborare con la giustizia ma chiedeva di farlo solo con il dottor Falcone, come era accaduto per Buscetta. Il dottor Falcone gli rispose che questo non era possibile ma aggiunse che avrebbe avvertito il Ministro della giustizia, il Ministro dell’interno e il capo della Polizia sollecitando questi ad affidare l’incarico a Gianni De Gennaro, mentre per la parte giudiziaria gli disse che lo avrebbe affidato completamente al dottor Borsellino. Questa è la ragione per la quale Mutolo, come già detto dal dottor Vigna, si rifiutava di parlare con altri o in presenza di altri. Il procuratore Giammanco, come ha già riferito il dottor Vigna alla Commissione, continuava tuttavia a respingere le richieste di Borsellino. Paolo mi spiegò che probabilmente se la stessa richiesta l’avessi formulata io al procuratore, considerato il mio ruolo al Ministero e la possibilità che avevo di informare non solo il ministro Martelli ma anche il Ministro dell’interno, forse Giammanco si sarebbe convinto. Decisi di chiamare immediatamente Palermo da una cabina telefonica nell’atrio dell’aeroporto, in quanto i cellulari non funzionavano, per avvertire il procuratore Giammanco che il giorno dopo avevo assolutamente bisogno di parlare con lui; cosa che feci l’indomani mattina trovando nel procuratore molta resistenza. Al termine di una lunga e vivace conversazione il procuratore passò a una risposta più possibilista, ma da adottare qualche giorno dopo perché aveva in corso, mi disse, una sorta di redistribuzione del lavoro tra i magistrati della procura. Fu in occasione della telefonata dalla cabina dell’aeroporto che incontrammo, Paolo e io, alcune persone e l’allora Ministro della difesa Ando`. Ritornati nella saletta, il dottor Borsellino mi fece altre domande sulle attività di Giovanni nell’ultimo periodo e volle che gli raccontassi ciò che sapevo sulla cosiddetta indagine sugli appalti. Era un rapporto contenente spunti di attività investigativa in relazione a una rete di appalti in Sicilia che aveva diramazioni con grandi aziende anche sul continente e che, a giudizio del Ros che l’aveva redatto, se adeguatamente sviluppata avrebbe potuto portare all’accertamento delle attività economiche svolte da cosa nostra in Sicilia e nel resto del Paese. Questo rapporto era arrivato al ministro Martelli in plico sigillato inviato dal procuratore della Repubblica di Palermo. Il Ministro, come era sua abitudine per le questioni che riguardavano le attività degli uffici giudiziari in materia penale, lo aveva inviato immediatamente al dottor Falcone il quale era appena partito per Palermo per il fine settimana. Io lo avvertii dell’arrivo del plico ed egli mi pregò di cominciare a leggerlo per capire quale provvedimento la procura della Repubblica di Palermo stesse chiedendo al Ministero. Poco tempo dopo – non più di due ore – il dottor Falcone mi richiamò e mi disse di risigillare immediatamente i faldoni pervenuti da Palermo e di predisporre una bozza di lettera a firma del Ministro per accompagnare la restituzione degli atti alla procura. Così facemmo».

E fu proprio per le scelte del Procuratore Giammanco relative alla collaborazione di Mutolo che al suo rientrò a Palermo Borsellino si adirò e “batté i pugni sul tavolo”. Ancora una volta risulta essere fondamentale per meglio comprendere quando ha dichiarato il dottor Lorenzo Matassa nel corso di un’intervista rilasciata a Gian Joseph Morici per la testata “La Valle dei Templi”, diretta dallo stesso Morici: «Non si pensi, però, che Giammanco non avesse i suoi “supporters” interni. I suoi “nipotini”, così erano vezzosamente appellati, erano tanti. Molti di quei nomi hanno avuto carriere professionali fulminanti nel quadro dell’antimafia militante. Assistetti personalmente all’ultima riunione che Paolo Borsellino ebbe nell’ufficio di Procura in un giorno canicolare del luglio 1992. In un clima da paradosso, Giammanco ci aveva convocato nell’aula biblioteca del secondo piano. Ci parlò di un importante “Uomo d’Onore” che aveva deciso di rivelare temi mai prima del tempo toccati da nessuno. Quel collaborante, però, voleva parlare solo con Borsellino e nessun altro. Da uno dei sostituiti “nipotini” si udì l’invito al Giammanco a non dare seguito a quella esclusiva richiesta. La frase rimase storica nelle menti di chi partecipò alla riunione: “Io e te, Pietro. Andiamo io e te ad ascoltare questo pentito. Io e te, Pietro!”. Guardammo tutti, stupiti, Paolo Borsellino e lui rispose ai nostri occhi interrogativi con il sorriso amaro di quei giorni e ponendo una mimica del corpo che invitava i due ad andare».

E veniamo, dulcis in fundo, alle informazioni del 15 luglio, non del 16 come indicato negli articoli citati, oggetto dello scoop dell’ultim’ora e relative a un possibile attentato nei confronti del dottor Borsellino e del dottor Di Pietro: «Ricordo perfettamente le circostanze che portarono alla redazione dell’informativa 33/92 di protocollo del 16 luglio ‘92– dichiarò l’allora maggiore dell’Arma dei Carabinieri Vincenzo Alonzi in servizio presso la Sezione Anticrimine Carabinieri di Milano in un verbale di assunzione di informazioni del 14 novembre 1995 innanzi al pm Fabio Salamone assistito dal dottor Bruno Megale dirigente della Digos presso la Questura di Brescia – circa la preparazione di un attentato ai danni del Sost. Procuratore della Repubblica di Milano dr. Antonio Di Pietro e dell’allora procuratore Aggiunto di Palermo dr. Paolo Borsellino. La sera del 15 luglio si tenne una riunione nella stanza del Procuratore della Repubblica dr. Borrelli nel corso della quale il dr. Di Pietro mi informò di avere ricevuto direttamente una segnalazione dal Brigadiere CAVA della Stazione CC di Cernusco S/N il quale aveva saputo da una fonte confidenziale di un’attività preparatoria per un attentato ai danni dello stesso dr. Di Pietro e/o lo stesso dr. Borsellino. La notizia era arricchita da numerosi particolari riguardanti il clan mafioso facente capo a Gaetano Fidanzati (…) Il dottor Borrelli decise che per il momento era opportuno seguire le indagini da Milano senza, allo stato, trasmettere gli atti a Brescia. Nel corso della riunione si concordò che io il giorno dopo avrei presentato l’informativa alla procura di Milano e ricordo che feci cenno che avrei informato la Procura di Palermo. Non ricordo se la stessa sera del 15, ma comunque certamente la mattina del 16, io informai dapprima verbalmente e poi per iscritto il comando del Ros di Roma, il Comandante Provinciale di Milano e, non ricordo se lo stesso 16 o al più tardi il 17, inviai l’informativa per fax al Ros di Palermo (mentre, ndr) l’informativa diretta al procuratore della Repubblica di Palermo fu trasmessa per posta, non ricordo se il 17 o il 18 luglio, e di tale trasmissione se ne occupò il maresciallo Coscarella fino a qualche tempo fa in servizio alla DIA di Milano».

Nessuno scoop e nessun complotto, quindi, ma si continuano a preferire le suggestioni alle inconfutabili prove. E si continua a utilizzare l’agenda rossa del dottor Borsellino coma simulacro della verità negata perché si è deciso di “guardare il dito e non la luna” ma nessuno sembra chiedersi, come scritto da Damiano Aliprandi su “Il Dubbio” nei giorni scorsi, perché non si è mai aperta un’indagine su quanto era presente il 20 luglio 1992 nell’ufficio di Borsellino cui furono apposti i sigilli? Si è dato seguito alla richiesta di Lucia Borsellino che proprio in quell’occasione, come indicato da un lancio Ansa delle 13:59 del 20 luglio 1992, indicò di mettere i sigilli anche al personal computer del padre presente in ufficio?  Sull’agenda rossa, ormai sembra certo, Borsellino prendeva appunti ma i fascicoli e le “carte” su cui stava indagando non potevano essere contenuti in quell’agenda. Erano forse documenti che si cercavano nella sua borsa nell’immediatezza della strage? Ma soprattutto dov’è quanto sequestrato con l’apposizione dei sigilli nell’ufficio al secondo piano del palazzo di Giustizia di Palermo? Abbiamo la certezza che nessuno, tra il momento della strage e le operazioni della mattina del 20 luglio, sia entrato in quell’ufficio proprio per cercare e asportare quanto non fu trovato nella sua borsa?